Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
IL CANTON TICINO VUOLE BLOCCARE I LAVORATORI ITALIANI… MARONI ORA CAPISCE COSA VUOL DIRE TROVARE QUALCUNO PIU’ A NORD DI LUI
Il 25 settembre in Canton Ticino si vota (nuovamente) in tema di immigrazione e lavoro frontaliere. ![](https://s3.postimg.org/diuuts6s3/respingimenti.jpg)
Il titolo dell’iniziativa referendaria non lascia spazio all’immaginazione: “Prima i nostri” dove, ancora una volta, gli “altri” sono soprattutto gli italiani.
Il referendum è stato proposto dall’Udc, partito che insieme alla Lega dei Ticinesi risponde all’elettorato più conservatore e nazionalista.
Il nuovo quesito richiama quello già votato dalla maggioranza degli svizzeri il 9 febbraio del 2014, quando la proposta passò con una maggioranza risicatissima a livello federale (50,3%), ottenendo invece un consenso plebiscitario in Canton Ticino (con oltre il 70% dei consensi).
Nel cantone di lingua italiana la presenza di lavoratori stranieri si fa sentire in maniera sensibile: attualmente secondo l’ultima rilevazione dell’ufficio statistico svizzero sono 62.179 (dato dell’8 settembre 2016) in leggera flessione (-0,4%) rispetto al trimestre precedente.
Il voto del 2014 è rimasto sostanzialmente lettera morta e l’Udc del Ticino ha deciso di “agire sulla Costituzione Cantonale per assicurare che il voto venga rispettato e non rimanga solo un auspicio” e puntare i piedi affinchè i lavoratori locali abbiano la precedenza rispetto agli stranieri.
Nel testo dell’iniziativa del 25 settembre prossimo si chiede di porre rimedio “all’attuale mancanza di protezione per i salariati ticinesi”, parlando della battaglia referendaria come di una “lotta trasversale per sostenere la nostra identità e i nostri diritti, che vuole proteggere i salariati dal dumping salariale in atto grazie al continuo aumento del frontalierato in campi dove la manodopera indigena non trova più lavoro”.
Gli estensori del referendum spiegano di volere che i Paesi vicini “ci trattino con rispetto e ci tolgano dalle black list sulle quali ingiustamente ci hanno messi”.
Se dovesse vincere il Sì, alla carta costituzionale del Canton Ticino verrebbero fatte delle aggiunte significative, ad esempio quella sugli obiettivi sociali del cantone, che dovrebbe “provvedere affinchè sul mercato del lavoro venga privilegiato a pari qualifiche professionali chi vive sul suo territorio per rapporto a chi proviene dall’estero” e, ancora: “affinchè nessun cittadino del suo territorio venga licenziato a seguito di una decisione discriminatoria di sostituzione della manodopera indigena con quella straniera (effetto di sostituzione) oppure debba accettare sensibili riduzioni di salario a causa dell’afflusso indiscriminato della manodopera estera (dumping salariale)”.
Principio ribadito anche nell’articolo che riguarda il mandato alle autorità : “Nelle relazioni con i Paesi limitrofi le autorità modulano il mercato del lavoro in base alle necessità di chi vive sul territorio del Cantone, promuovendo la sana complementarietà professionale tra lavoratori svizzeri e stranieri, evitando la sostituzione della manodopera indigena con quella straniera (effetto di sostituzione) e la corsa al ribasso dei salari (dumping salariale)”. Insomma, in Svizzera, prima gli svizzeri.
L’iniziativa, così come formulata, è stata rifiutata dal Gran Consiglio (il parlamento cantonale), che non l’ha appoggiata e sullo stesso tema ha proposto un controprogetto. Una seconda opzione, che accoglie il principio della preferenza indigena nel mercato del lavoro, ma in maniera più blanda, un testo che suona più come un auspicio che come una misura vincolante: “Il Cantone provvede affinchè sia promossa l’occupazione nel rispetto del principio di preferenza ai residenti”.
I promotori del controprogetto (ovvero la maggioranza dei componenti del parlamento cantonale) hanno dichiarato di condividere il principio della proposta dell’Udc per via delle difficoltà che affliggono il mercato del lavoro, puntualizzando però che: “’Prima i nostri’ è un titolo che fa colpo ma l’impianto su cui l’iniziativa dell’Udc si regge, e le modifiche che intende introdurre nella Costituzione cantonale, sono in chiaro contrasto con il diritto federale e internazionale”, quindi sarebbero sostanzialmente inapplicabili.
“Se questa iniziativa cantonale verrà approvata — si legge nella nota diramata dai firmatari del controprogetto — rischia di provocare tensioni e confusione, complicando ulteriormente le già difficili trattative in corso tra Confederazione e Unione Europea per l’applicazione dei principi del 9 febbraio, e di vanificare il sostegno al modello di applicazione della clausola di salvaguardia proposto dal Consiglio di Stato ticinese”.
In ogni caso non basterà la vittoria del Sì alla proposta dell’ultradestra per risolvere i problemi del mercato del lavoro.
Il testo del referendum cantonale dovrà essere approvato anche dal Parlamento federale, che dovrà esprimersi sulla sua conformità con il diritto superiore.
I timori dalla nostra parte del confine non mancano.
Il coordinatore provinciale dei frontalieri del Verbano Cusio Ossola, Antonio Locatelli, oltre ad esprimere l’auspicio per una vittoria del No, sottolinea l’esigenza di una presa di posizione da parte delle istituzioni affinchè: “prendano seriamente di petto queste continue azioni discriminatorie che penalizzano non solo i frontalieri, ma tutta l’economia di frontiera” e passa al contrattacco: “Se il risultato del referendum dovesse penalizzarci ci sarebbero gli estremi per bloccare gli accordi bilaterali con la Confederazione Elvetica”.
La risposta istituzionale arriva dal governatore lombardo Roberto Maroni, che si trova nella scomoda posizione di dover tutelare interessi contrastanti rispetto a quelli dei ‘cugini’ elvetici della Lega dei ticinesi: “Rispettiamo il referendum, perchè è l’espressione del popolo sovrano, ma invito a maneggiare con cura questa situazione. I frontalieri sono una questione che riguarda la Regione Lombardia, la Svizzera, 60.000 persone, quindi 60.000 famiglie e su questo non si può scherzare”.
Poi aggiunge: “Con i governatori del Ticino e dei Grigioni siamo in contatto costante. Credo sia anche nel loro interesse non ‘fare danni’, perchè si tratta di persone che vanno in Svizzera a lavorare, non in vacanza, quindi questo è utile anche all’economia dei Cantoni svizzeri”.
Alessandro Madron
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
IL COMMOSSO RICORDO DI CIAMPI E LA BACCHETTATA ALLA PLATEA RUMOROSA: “NOI PARLIAMO DI IDEE, NON SI FANNO CHIACCHIERE”
«Siamo qui per costruire una piattaforma nuova. Vogliamo cambiare il clima, vogliamo che la gente non voti più “contro” qualcosa ma “per qualcosa”.
Basta clima d’odio, bisogna riportare la gente vicino alla politica perchè il clima di odio allontana le persone della urne».
Lo ha affermato Stefano Parisi aprendo venerdì la sua convention «Energie per l’Italia» in programma per due giorni nell’ex capannone industriale trasformato in spazio espositivo nella zona dei Navigli.
Parisi ha iniziato i lavori con un ricordo a Carlo Azeglio Ciampi, il presidente emerito della Repubblica scomparso venerdì mattina: «È stato un personaggio molto importante per la mia vita, con lui ho collaborato quando divenne presidente del Consiglio. Dedicò tutta la sua vita alle Istituzioni. Ci ha lasciato ma la sua memoria rimane nella storia del Paese».
Quindi il manager ed ex candidato sindaco di Milano è entrato nel vivo della convention. «Abbiamo voglia di ripensare a un programma nuovo per il Paese, un programma liberale, una riflessione nuova. È l’inizio di un lavoro che deve continuare nelle prossime settimane e mesi e presto sono convinto che avremo un nuovo programma di governo».
Il fuori-programma
Stefano Parisi ha poi aggiunto: «Oggi nasce una comunità politica nuova che non è contro i partiti, ma dà un contributo ai partiti e sta dentro il centrodestra e deve essere integrata in quest’area. Il centrodestra ha perso milioni di voti ed il fatto che lo abbia fatto è perchè serve ricostruire dei rapporti di fiducia, ma non serve solo un lavoro autoreferenziale, la politica se si apre ha possibilità di crescere, se si chiude rischia di perdere».
Concluso il suo intervento la convention è continuata con il contributo di altri ospiti. Con un inatteso fuori-programma: Parisi è infatti risalito sul palco a sorpresa per «bacchettare» la platea rumorosa: «Questa è una conferenza programmatica dove si parla di temi e di idee, se dovete chiacchierare andate fuori, questo si faceva nei vecchi congressi di partito».
La prima giornata di convention si concluderà con una tavola rotonda a cui prenderanno parte diversi direttori di giornali: Lucia Annunziata, Luciano Fontana, Maurizio Molinari e Maurizio Belpietro.
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
RENZI DISERTA LA CONFERENZA STAMPA: “NON RECITO A COPIONE”…
“MIGRANTI? SOLO PAROLE, DEFICIT? BERLINO NON RISPETTA LE REGOLE”
Lo strappo va in scena a Bratislava, dopo il vertice europeo. ![](https://s15.postimg.org/7ralofxpn/BRATISLAVA.jpg)
E soprattutto in seguito alla conferenza stampa congiunta con Angela Merkel e Francois Hollande. Matteo Renzi non c’era.
La motivazione dell’assenza è tutta politica e fa molto rumore: “Non sono soddisfatto delle conclusioni su crescita e immigrazione”.
Per questo, ha detto il premier italiano, “non posso fare una conferenza stampa con Merkel e Hollande non condividendo le conclusioni come loro. Non è un fatto polemico”.
E invece lo è eccome, perchè il presidente del Consiglio ha accompagnato le sue parole con un ragionamento ben preciso. E con altre dichiarazioni al veleno.
Sullo sfondo dello scontro europeo, però, si intravedono questioni tutte italiane.
Le previsioni del governo sulla crescita, infatti, sono andate a farsi benedire. E il futuro, per Renzi e il suo esecutivo, appare tutto tranne che roseo, anche in termini elettorali: se l’economia resta in stagnazione, l’esecutivo non ha margini di movimento (e di nuovo consenso) e alle urne il Pd rischia.
Da qui l’esigenza di un cambio di rotta, che porti benefici immediati nei rapporti con l’Unione Europea.
Tradotto: basta austerity, più soldi a disposizione dei Paesi in difficoltà (quindi l’Italia). E la questione immigrazione non sia più un fardello da sbrigare con mezzi e risorse esclusivamente made in Italy.
Renzi batte cassa in Europa, insomma, anche per migliorare la situazione sul fronte interno.
LO SCONTRO SULLA CRESCITA: “LA GERMANIA NON RISPETTA LE REGOLE”
Il tema dello scontro, come detto, è molto delicato: crescita e immigrazione.
Su entrambi i fronti Renzi non le ha mandate a dire: “Così come i Paesi devono rispettare le regole del deficit, allo stesso modo si devono rispettare altre regole, come quella sul surplus commerciale. E ci sono alcuni Paesi che non la rispettano, il principale è la Germania“.
In tal senso, il primo ministro italiano è entrato nel merito della questione: “Berlino ha dei numeri meravigliosi sulle esportazioni e noi siamo contenti — ha aggiunto — perchè ad esempio sulle auto tedesche ne beneficia l’indotto del Veneto. Non è gelosia ma il punto è che le regole prevedono un ritorno di investimenti in chiave interna. E sono 90 i miliardi di euro in investimenti che dovrebbe fare la Germania per rispettare le regole“.
Chiaro il riferimento alla continua richiesta di austerity da parte di Berlino, che però poi a detta del capo del governo italiano fa orecchie da mercante quando si tratta di politiche commerciali.
Da qui l’esigenza di un cambio di metodo: “Bisogna riflettere se il fiscal compact ha un futuro o no: io credo di no. Dobbiamo avere la consapevolezza del fatto che la filosofia dell’austerity non ha funzionato. Non lo dice il rappresentante del Governo italiano, lo dicono i dati. Serve ricominciare a crescere”. Non solo.
“Magari ci fosse il patto di stabilità : c’è il fiscal compact e sul fiscal compact siamo pronti a fare una bella riflessione, perchè quando fu approvato prevedeva un quinquennio”.
LO SCONTRO SUI MIGRANTI: “L’ITALIA HA FATTO LA SUA PARTE, L’EUROPA NO”
Non meno dura la presa di posizione dell’Italia sulla questione dei migranti. Anche su questo tema Renzi non ha usato mezzi termini per criticare le conclusioni del summit: “Il vertice non è stato tempo perso, ma definire il documento sui migranti di oggi un passo avanti richiede fantasia degna dei funamboli da vocabolario. Si sono ridette le solite cose“.
Renzi da parte sua ha proposto la solita ricetta che all’Europa evidentemente non piace: “L’unica cosa che fa la guardia costiera europea è portare migranti in Sicilia, questo non può continuare”.
E quindi o “l’Ue fa accordi con Paesi africani o li facciamo da soli”.
Ma “secondo noi sarebbe molto meglio se a farlo fosse l’Europa. Noi stiamo facendo la nostra parte e siam pronti a farla anche da soli. Ma quello che non funziona è la parte internazionale sull’immigrazione. L’Italia ha fatto tutto quel che doveva fare, l’Europa no”.
PROSSIMA TAPPA A MARZO: APPUNTAMENTO A ROMA
“Il lato positivo è che l’agenda è condivisa” ha detto poi Renzi, che ha fissato il prossimo round della contesa: “Noi abbiamo delle soluzioni un po’ diverse. Abbiamo girato la clessidra, adesso l’appuntamento è Roma“, dove a marzo i leader si riuniranno per il 60esimo anniversario della nascita della Cee.
Da queste divergenze con i capi dei governi di Francia e Germania, la decisione di Renzi di non partecipare alla conferenza stampa finale di Bratislava.
Una mossa spiegata con frasi al vetriolo: “L’Italia non è innamorata di un formato o di un altro. Se Francia e Germania son soddisfatti delle conclusioni, buon per loro — ha spiegato il premier- Io non posso fare una conferenza stampa con il cancelliere tedesco e il presidente francese. Non devo fare una recita a copione per far vedere se siamo tutti uniti“.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
NEI PRIMI SEI MESI DEL 2016 ARRESTATI OLTRE 600 STUPRATORI E PEDOFILI… CONDANNA MEDIA: PEDOFILI APPENA 6 ANNI, VIOLENZA SESSUALE SU DONNE SOLO 4 ANNI E 8 MESI
Ogni giorno, in Italia, più di tre autori di violenze sessuali o abusi su minori vengono portati in carcere.
Nel primo semestre del 2016, nel dettaglio, la media è stata di 3,8 stupratori arrestati e portati in cella. Ogni giorno.
È una delle informazioni che “l’Espresso” può mostrare grazie ai dati della sezione statistica del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap).
In questo momento, gli autori di violenze sessuali su donne e minori detenuti sono 3.444, su 54mila reclusi. La maggior parte di loro sconta una pena definitiva.
Mentre in 369 sono in attesa di giudizio.
Nel 2009 gli autori di abusi erano leggermente di più: 4.061, di cui oltre 700 in attesa di giudizio. Il doppio rispetto ad oggi.
Le mappe fotografano anche gli ingressi negli istituti penitenziari nel primo semestre dell’anno. Da gennaio a giugno del 2016 sono entrate in carcere con l’accusa di violenze sessuali e abusi su minori 693 persone. Di questi, 400 sono italiani e 293 stranieri. Nel corso del 2015 erano stati 1.385.
E l’alta percentuale dei nuovi ingressi rispetto al totale dei “sex-offender” in carcere conferma un dato: la carcerazione per questi reati, mediamente, è breve.
Anche per quelli più gravi. Come la pedofilia.
In una ricerca pubblicata recentemente su “Diritto penale contemporaneo”, Francesco Macrì ha analizzato 110 sentenze della Corte di Cassazione riguardanti gli autori di violenza sessuale su donne e minori. Concludendo che emergono «rilevanti criticità » nella «discrezionalità giudiziaria in materia di commisurazione della pena».
L’autore parla infatti di «ampie discrepanze rilevate, soprattutto in casi di pedofilia (abusi su minori), tra condotte di gravità del tutto simile».
Non è il solo tema evidenziato.
La pena media per chi abusa sessualmente di bambini con meno di 10 anni è risultata essere infatti di 6 anni e tre mesi.
Una condanna, sostiene Macrì, «sicuramente insufficiente: dallo studio di tali sentenze emerge difatti che gran parte di tali abusi sono di natura penetrativa, e perpetrati spesso per anni; in aggiunta la metà circa dei colpevoli sono familiari della vittima, e nel 30 per cento dei casi il colpevole è il padre stesso».
Alla luce di questi elementi ritiene «che un livello sanzionatorio medio congruo dovrebbe attestarti sugli 8/9 anni di reclusione, e su durate leggermente inferiori per gli abusi ai danni di quattordicenni», quando invece s’abbassa mediamente a tre anni e 11 mesi.
Per le violenze sessuali sulle donne le sentenze stanno sui 4 anni e 8 mesi di carcere in appello: mediamente un anno in meno rispetto a quanto stabilito in primo grado.
E tutto questo riguarda le sentenze. Ma come dimostrano altri studi, e casi recenti come quello di Melito con gli abusi coperti dal silenzio, spesso il passo più difficile è prima. E riguarda il coraggio di denunciare. Di superare la vergogna. E di restare saldi quando inizieranno le indagini
In una pagina dedicata ai consigli essenziali per le vittime di stupro, Lisa Canitano spiega : «Quello che fa nelle prime ore è determinante in sede giudiziaria; è necessario che si rechi in ospedale il prima possibile; non deve lavarsi o cambiarsi d’abito, ma recarsi nella struttura ospedaliera esattamente nelle condizioni in cui sta. Se la violenza è avvenuta per via vaginale, i segni dopo 24 ore scompaiono a meno che la vittima non sia una bambina o una donna in stato di avanzata menopausa».
L’ispezione, raccomanda quindi l’associazione Vita di Donna: «Deve essere effettuata su tutto il corpo. Lividi, graffi, escoriazioni devono essere descritti accuratamente, per quello che riguarda la grandezza e la posizione. Alcuni lividi possono evidenziarsi meglio nelle ore successive, in questo caso è necessario tornare e far redigere un nuovo referto». Sono elementi fondamentali. Perchè le prove reggano l’urto del lungo percorso del processo. E per avere giustizia.
(da “L’Espresso“)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
SOLO SETTE SAREBBERO CON LA SINDACA
Il post della Lombardi e la chiamata disperata della sindaca a Grillo con l’aut aut: “O mi difendi o
lascio”.
I mal di pancia non si placano all’interno del Movimento, tanto che Raggi avrebbe cominciato a fare i conti in Assemblea capitolina.
La prima cittadina ha avviato una verifica sui consiglieri per capire chi – in caso di strappo con i vertici – resterà con lei e chi no.
Una verifica necessaria per vedere fino a che punto si può spingere, anche (e soprattutto) sulle Olimpiadi.
Perchè Grillo nel suo post l’ha fatto intendere chiaro: la sindaca continuerà ad avere l’appoggio del Movimento solo se starà dentro i paletti fissati in campagna elettorale, a partire dal no alle Olimpiadi. Altrimenti, sarà guerra.
L’idea del sì alle Olimpiadi piace a molti della sua giunta – dall’assessore all’Urbanistica, Paolo Berdini, a quello al Commercio, Adriano Meloni – che vedono nei Giochi 2024 un bottino di fondi per risanare e far ripartire la città .
D’altronde le casse languono e senza un’iniezione di denari la dèbà¢cle è assicurata. Alle prese con le titubanze di Virginia, Angelo Diario, presidente della commissione Sport: “E’ chiaro che ci sono dei dissidi tra di noi, il post della Lombardi evidenzia che c’è qualcosa che non va, però non credo che non si arriverà alla frattura soprattutto sulle Olimpiadi”.
Nella conta della sindaca il pallottiere è fermo, al momento, a 7 eletti: Angelo Sturni, Fabio Tranchina, Marco Terranova, Monica Montella, Pietro Calabrese, Alisia Mariani e Gemma Guerrini che poi sono più o meno gli stessi che hanno subito condiviso su Facebook l’appello del fondatore del Movimento.
Una dozzina, invece, i consiglieri che sarebbero pronti a seguire le indicazioni nazionali. In testa ci sono i fedelissimi della Lombardi come Paolo Ferrara e Marcello De Vito, una decina invece tentennano ancora.
Calcoli che, in queste ore, stanno impegnando anche i big 5s: precauzione necessaria se la situazione dovesse precipitare.
Una eventualità ormai non più tanto remota.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
NONOSTANTE LA BUFERA PER L’ATTICO SUPERSCONTATO ALL’EUR, IL “PROTETTO” DELLA RAGGI CONTINUA A DETTARE LEGGE IN CAMPIDOGLIO… L’IRA DELL’ALA DURA DEL M5S
Impermeabile alla bufera che gli si è scatenata addosso, sordo a tutte le polemiche che a cadenza ormai quotidiana mettono in discussione il suo ruolo in Campidoglio, il neo-capo delle Risorse umane Raffaele Marra va dritto per la sua strada.
E così, dopo aver sbloccato il controverso concorsone dei vigili urbani, bandito nel 2010 dall’amministrazione Alemanno di cui lui era dirigente di punta, ieri ha firmato un altro provvedimento destinato a far discutere.
E ad alimentare più d’un sospetto.
Nel giorno in cui Roberta Lombardi, fra le più acerrime avversarie di Virginia Raggi, spara a palle incatenate contro di lui – “Qualcuno si è autodefinito “lo spermatozoo che ha fecondato il Movimento”. Io penso che la definizione esatta sia “il virus che ha infettato il Movimento”. Ora sta a noi dimostrare di avere gli anticorpi “, ha scritto a mezzogiorno la deputata grillina su Facebook – il direttore del Personale capitolino ha avviato la selezione per il “Conferimento dell’incarico di comandante del Corpo di Polizia locale di Roma Capitale”.
Un’iniziativa che ha spiazzato tutti, in particolare i sindacati, dal momento che la poltrona è occupata (almeno fino al 31 ottobre) da Diego Porta, promosso al vertice dei caschi bianchi dopo la cacciata di Raffaele Clemente.
Un bando interno, notificato per lettera a tutti i dirigenti dei vigili e, per conoscenza, alla sindaca, al segretario generale e alle organizzazioni sindacali, in cui “si comunica che si intende dar corso a una procedura di interpello ” per il posto in questione.
Alla quale potranno partecipare tutti i dirigenti della polizia locale “con anzianità di almeno tre anni di effettivo esercizio delle funzioni”: chi “intende candidarsi” dovrà farlo sapere al Dipartimento “entro e non oltre le ore 15 del 29 settembre, a pena di irricevibilità “.
La cosa strana, però, è che non sono fissati requisiti, non ci sono titoli preferenziali, nè parametri di sorta: basta inviare il proprio curriculum e i carichi pendenti, che provino cioè l’assenza di procedimenti penali o disciplinari in corso.
Criteri talmente vaghi da offrire una enorme discrezionalità a chi dovrà poi procedere all’individuazione del nuovo capo di Piazza della Consolazione.
Tanto più che la comunicazione si chiude con un’avvertenza, utile a lasciare comunque mano libera a Virginia Raggi: “L’interpello in argomento ha natura esplorativa e non comparativa, nè dà adito a procedura concorsuale”, scrive infatti Marra alla fine del documento, “e la nomina del comandante è rimessa”, in base al Regolamento sul funzionamento degli uffici capitolini, “alla sindaca, alla quale riferisce”.
Della serie: se troviamo uno che ci va bene, andiamo avanti. Altrimenti la prima cittadina farà come le pare, visto che questa nomina rientra nelle sue prerogative.
Un modus operandi che, per i sindacati, puzza di bruciato lontano un miglio.
Nessuno vuole esporsi, almeno per il momento, per non mettersi contro un pezzo da 90 come Marra, che – racconta Radio Campidoglio – non ha perso neppure un briciolo del suo potere dentro il palazzo. Continuando anzi a conservare un forte ascendente sull’avvocata dei Cinquestelle.
Ma i dubbi restano. E raccontano di un potenziale conflitto di interessi dell’ex vice capo di gabinetto.
Il quale, tramite il bando interno, potrebbe voler lanciare la volata al fratello Renato Marra, attuale dirigente del IV gruppo.
E incoronarlo nuovo comandante della polizia locale di Roma capitale.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
CADE L’ACCUSA DI ABUSO D’UFFICO PER TUTTI GLI INDAGATI… “ORA MI TOGLIERO’ QUALCHE SASSOLINO DALLA SCARPA”
ll gip del tribunale di Parma, Paola Artusi, ha disposto la archiviazione del procedimento a carico di tutti
gli indagati, tra cui il sindaco Federico Pizzarotti, coinvolti nella vicenda delle nomine dei vertici del Teatro Regio di Parma.
Per tutti l’accusa era abuso di ufficio.
Il gip ha accolto la richiesta d’archiviazione avanzata dalla Procura circa una decina di giorni fa.
Pizzarotti ha commentato l’archiviazione con un post su Facebook dove ha scritto: “Ora qualche sassolino dalla scarpa me lo toglierò.”
La vicenda mette certamente in imbarazzo i vertici Cinquestelle che avevano colto l’occasione per sbarazzarsi di una voce non conformista all’interno del movimento e spesso critica verso Grillo.
Che scusa troveranno per non reintegrarlo?
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
CON LUI RITORNO’ IL TRICOLORE… CORDOGLIO UNANIME, SALVO IL CIALTRONE SECESSIONISTA CHE GIRAVA CON LA MAGLIETTA “PADANIA IS NOT ITALY”, L’UNICO VERO TRADITORE DELL’ITALIA CHE NON HA NEANCHE RISPETTO DEI MORTI
E’ morto questa mattina in una clinica di Roma Carlo Azeglio Ciampi. Il presidente emerito della Repubblica aveva 95 anni. Recentemente era stato sottoposto a un intervento chirurgico
“L’essere chiamato a rappresentare l’Italia, a essere garante della sua Costituzione, l’ho vissuto non solo come un altissimo mandato, ma soprattutto come un dovere, una missione. Per questo ho voluto abitare, con mia moglie, sin dal primo giorno, nel Quirinale: da sette anni è la mia casa, la casa del presidente della Repubblica, la casa degli italiani”.
Era il 31 dicembre 2005. Dagli schermi tv, Carlo Azeglio Ciampi parlava così agli italiani nel tradizionale messaggio di fine anno: l’ultimo del suo settennato ai vertici dello Stato, iniziato con il giuramento davanti alle Camere il 18 maggio del 1999. Come Enrico De Nicola, primo inquilino al Colle, Ciampi viene scelto – dai partiti – fuori dal Parlamento.
Non a caso, quello di Ciampi è un discorso che per i cittadini riveste un significato preciso: l’uomo schivo, eletto plebiscitariamente capo dello Stato, rappresenta il garante delle istituzioni dentro al Quirinale, il padre della patria che ha difeso la Costituzione e tutelato l’unità del Paese in un momento in cui era necessario rassicurare sull’ingresso dell’Italia nella moneta unica, lui che dell’euro è stato uno dei padri nobili.
Nel 1999 la confusione politica è tanta: dopo gli esordi e la prima vittoria di Silvio Berlusconi, il premier è Massimo D’Alema, subentrato al primo governo Prodi durato appena 876 giorni e caduto per un solo voto.
La Bicamerale è appena naufragata: quel che occorre – scriverà Marzio Breda – è “un anestesista, un emolliente che consenta ai partiti di riprendere in mano il pallino della politica, troppo a lungo commissariata”.
Già nel 1993, dinanzi a un parlamento in parte delegittimato da Tangentopoli e dalle necessità di un risanamento finanziario utile a stabilizzare la lira, Ciampi diventa presidente del Consiglio: per la prima volta nella storia della Repubblica, viene formato un governo presieduto da un non parlamentare.
E non sarà un caso che a Palazzo Chigi venga chiamato un tecnico estraneo alla politica, governatore della Banca d’Italia – forse l’unica istituzione in quei momenti a mantenere intatta la credibilità – e noto per le sue doti di moralità .
Sette anni dopo quell’ultimo messaggio pronunciato dal Quirinale, l’ex presidente della Repubblica – marito della signora Franca Pilla, nonno e bisnonno felice – decideva di lanciare un appello ai giovani:
“Ragazzi – scriveva nel 2012 in una lunga ‘lettera aperta’ indirizzata ai ventenni scoraggiati, ma anche ai loro genitori – ora tocca a voi”.
Un dialogo con un interlocutore immaginario in cui il presidente emerito parla e si racconta, ripercorre il suo essere giovane durante anni drammatici, nel pieno della guerra, costretto come tanti – lui giovane sottotenente degli autieri che combatte in Albania e poi in Abruzzo – a scegliere da che parte stare l’8 settembre del 1943 (rifiuterà di aderire alla Repubblica sociale italiana e si iscriverà al Partito d’azione).
Banchiere centrale e uomo politico, Ciampi nasce a Livorno il 9 dicembre 1920.
Nel 1941 consegue la laurea in Lettere e il diploma della Scuola Normale di Pisa, poi nel 1946 si laurea anche in Giurisprudenza.
A seguire, viene assunto alla Banca d’Italia, dove – inizialmente – presta servizio in alcune filiali, svolgendo attività amministrativa e di ispezione ad aziende di credito.
Nel 1960 viene chiamato all’amministrazione centrale della Banca d’Italia, al Servizio Studi, di cui assume la direzione nel luglio 1970. Segretario generale della Banca d’Italia nel 1973, vice direttore generale nel 1976, direttore generale nel 1978, nell’ottobre 1979 viene nominato Governatore della Banca d’Italia e presidente dell’Ufficio Italiano Cambi, funzioni che assolve fino al 28 aprile 1993.
Quattordici anni in cui l’Italia è caratterizzata da un’inflazione galoppante a due cifre. Ciampi la definiva “un male sottile”.
Ed è proprio all’inizio degli anni Ottanta – con l’asta dei Bot del luglio 1981 – che si dava il via a un nuovo regime di politica monetaria. Si inaugurava, infatti, il cosiddetto ‘divorzio’ tra Tesoro a Bankitalia: una divisione tra i poteri esecutivo, legislativo e monetario.
Per sconfiggere la malattia, vale a dire l’inflazione, era necessario combatterne le cause: e lo Stato era una di queste. Già nel 1980, infatti, Ciampi scriveva: “Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della Banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito. Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa.
Nel decennio successivo comincia la sua esperienza politica. Dall’aprile 1993 al maggio 1994 diventa presidente del Consiglio, presiedendo un governo chiamato a svolgere un compito di transizione: tecnico di ‘pronto intervento’, ha il compito di salvare la reputazione della politica screditata dagli scandali di ‘Mani Pulite’.
A seguire, durante la XIII legislatura viene nominato ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, nel governo Prodi (dall’aprile 1996 all’ottobre 1998) e nel governo D’Alema (dall’ottobre 1998 al maggio 1999). Dal 1993 è governatore onorario della Banca d’Italia e dal 1996 membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana.
Ricopre numerosi incarichi di rilevanza internazionale, tra cui quelli di presidente del Comitato dei governatori della Comunità europea e del Fondo europeo di cooperazione monetaria (nel 1982 e nel 1987); vice presidente della Banca dei regolamenti internazionali (dal 1994 al 1996); presidente del Gruppo consultivo per la competitività in seno alla Commissione europea (dal 1995 al 1996); presidente del comitato interinale del Fondo monetario internazionale (dall’ottobre 1998 al maggio 1999).
Dall’aprile 1993 al maggio 1994, Ciampi governa durante una fase di difficile transizione istituzionale ed economica. Il referendum elettorale e la congiuntura sfavorevole caratterizzata da un rallentamento della crescita economica richiedevano, infatti, risposte immediate.
Sul piano economico gli interventi più significativi sono rivolti a costituire il quadro istituzionale per la lotta all’inflazione, attraverso l’accordo governo-parti sociali del luglio del 1993, che pone fine ad ogni meccanismo di indicizzazione e che individua nel tasso di inflazione programmata il parametro di riferimento per i rinnovi contrattuali.
Inoltre il governo Ciampi dà avvio alla privatizzazione di numerose imprese pubbliche, ampliando e puntualizzando il quadro di riferimento normativo e realizzando le prime operazioni di dismissione (tra cui quelle, nel settore bancario, del Credito italiano, della Banca commerciale italiana, dell’Imi).
Come ministro del Tesoro e del Bilancio del governo Prodi e del governo D’Alema. Ciampi fornisce un contributo determinante al raggiungimento dei parametri previsti dal Trattato di Maastricht, permettendo così la partecipazione dell’Italia alla moneta unica europea, sin dalla sua creazione.
Tra i provvedimenti più significativi di questo periodo si ricorda la manovra correttiva della politica di bilancio varata nel settembre del 1996 dal governo Prodi, che ha consentito un abbattimento di oltre 4 punti percentuali del rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni rispetto al prodotto interno lordo, il parametro di Maastricht di più arduo conseguimento per il nostro Paese.
Il 13 maggio del 1999 viene eletto, in prima votazione, decimo presidente della Repubblica Italiana: in questa veste, Ciampi cerca di trasmettere agli italiani “quel patriottico sentimento nazionale che deriva dalle imprese del Risorgimento e della Resistenza e che si manifesta nell’Inno di Mameli e nella bandiera tricolore”.
“A voi giovani ancora un pensiero – dirà a dicembre del 2004, durante il suo penultimo messaggio di fine anno -, so quanto amate l’ambiente, quanto vi adoperate per salvaguardarlo. Cercate di vivere in armonia con i ritmi della natura. Fa bene. Ci si sente più forti, si può dare il meglio di noi stessi. Provate qualche volta ad alzarvi all’alba, a vivere il miracolo quotidiano del risveglio della natura”.
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2016 Riccardo Fucile
APERTO 10 MESI FA, IL DIBATTIMENTO DI FATTO NON E’ ANCORA INIZIATO… UNA CONDANNA PORTEREBBE ALLA SUA DECADENZA DA GOVERNATORE IN BASE ALLA LEGGE SEVERINO… RIGUARDA LA VICENDA DEI CONTRATTI A DUE “FAVORITE”
Il processo non rischia la prescrizione. Ma la strategia difensiva di Roberto Maroni, imputato per le
ipotizzate pressioni per far ottenere contratti a due fedelissime, sembra voler allontanare il più possibile nel tempo il giorno della sentenza: il giudizio si è aperto il 30 novembre 2015 e a poco meno di 10 mesi non è stato ancora dichiarata l’apertura del dibattimento.
Ma perchè? La posta in gioco è altissima: una condanna — su cui scommette così tanto il Pd lombardo che, stando ad Affaritaliani.it, pare si stiano preparando già i comitati elettorali — innescherebbe la legge Severino.
Uno dei due reati contestati al governatore leghista, ovvero l’induzione indebita (l’altro è turbata libertà nel procedimento), prevede in caso di verdetto di responsabilità la sospensione e la decadenza dalle cariche pubbliche.
Tra un legittimo impedimento e un’astensione, tra un rinvio per elezioni e un po’ di melina sul calendario, il processo iniziato il 30 novembre 2015 è ancora alle battute iniziali e il dibattimento non è stato ancora dichiarato aperto.
Grazie a una tattica dilatoria — del tutto legittima — che ricorda quella berlusconiana, guadagnare tempo e ancora tempo.
A mettere in fila i fatti il nastro di questa storia registra un’altra possibilità .
L’affaire delle fedelissime sistemate con due contratti (prorogati a processo iniziato) diventa cronaca giudiziaria il 14 luglio 2014.
La notizia delle indagini si arricchisce subito di un rumor. Nel corridoio al quarto piano del Palazzo di Giustizia dopo l’estate comincia a circolare la notizia di un possibile interrogatorio di Maroni, pronto a chiarire tutto e subito. Ma passa un anno. L’incontro, fissato a fatica con il pm Eugenio Fusco, salta all’ultimo momento perchè a detta del difensore la notizia si era diffusa tra i cronisti e l’interrogatorio doveva “avvenire a riparo delle telecamere”.
Ma perchè un anno di trattative e poi nulla di fatto? Il legale sostiene che il tira e molla sia durato solo due settimane “da 14 luglio al 1 agosto”. A questo punto è la stessa difesa a chiedere il giudizio immediato.
Ma tra questa richiesta e la prima udienza il 30 novembre per Maroni — rinviata perchè il difensore aderiva all’astensione proclamata dall’Unione delle Camere penali — arriva la condanna a 4 mesi per Christian Malagone, ex dg di Expo.
Il processo slitta poi ancora di quattro mesi e arriva alla data del 3 marzo 2016 per riunire le posizioni degli imputati divise dalla scelta del rito da parte delle difese.
In primavera sembra che il dibattimento possa iniziare, ma l’udienza viene aperta e richiusa con slittamento al 5 maggio per un legittimo impedimento del difensore (impegnato in altri procedimenti) e dello stesso imputato.
In questa occasione c’era stato un botta e risposta tra accusa e difesa sul calendario del dibattimento, perchè i legali degli imputati avevano fatto presente ai giudici di avere impegni concomitanti per una serie di date che erano state individuate.
Ad un certo punto il pm di Milano Eugenio Fusco, che in passato si è occupato si processi come Parmalat e Antoveneta — era intervenuto dicendo: “Sono solo quattro imputati per due capi di imputazione, è un ‘processetto’ e se si vuole si possono esaurire i miei testi fissando udienze in una sola settimana”.
“Lo ha detto lei che è un ‘processetto’” aveva risposto Aiello. “I processi si devono fare, piccoli o grandi che siano” aveva poi chiosato il presidente del collegio Oscar Magi.
Ma anche il 5 maggio non si era celebrato il processo perchè il governatore, capolista a Varese per ordine del Consiglio Federale del Carroccio come avvenuto per Salvini a Milano e Calderoli a Bergamo, aveva chiesto e ottenuto un rinvio al 23 giugno.
In prossimità del periodo feriale quindi era state fissate solo due udienze con la prospettiva che da settembre sarebbe stato celebrato il processo ogni giovedì.
E invece no. Si farà così solo da gennaio perchè anche ieri l’udienza, stando alla cronaca fatta dalla agenzie di stampa, è stata vivace.
Tra eccezioni e calendario difficil
Doveva parlare il solo pubblico ministero in replica alle eccezioni sollevate dalla difesa, ma i legali hanno più o meno chiesto parola e sollevato altre questioni come quella sulla inutilizzabilità delle intercettazioni.
In primis l’avvocato Di Capua, che insieme allo stesso Aiello difende Giacomo Ciriello, capo della segreteria di Maroni, sulla questione della “ministerialità ” del reato (Maroni era responsabile del Viminale quando fu intercettato nell’ambito dell’inchiesta Finmeccanica che ha poi generato questa inchiesta, ndr) e poi lo stesso Aiello che si era riservato di presentare documentazione ma poi ha parlato della inattendibilità di Lorenzo Borgogni (ex manager di Finmeccanica che aveva parlato di una presunta tangente alla Lega Nord che ha portato a un’inchiesta poi archiviata).
Per il difensore le conversazioni sono “inutilizzabili” perchè disposte nell’ambito di un altro procedimento (Finmeccanica, appunto) e il pm avrebbe dovuto “trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri”.
A questo punto Aiello ha chiesto un “gentleman agreement” affinchè il pm rinunciasse alle intercettazioni. Richiesta rispedita al mittente. Il Tribunale si è ritirato in camera di consiglio e ha quindi respinto tutte le eccezioni della difesa.
A questo punto qualche tensione in aula — riporta l’Ansa — si è verificata anche quando si è trattato di decidere il calendario.
Tensione che ha portato il giudice Guadagnino ad annunciare che da gennaio il processo si terrà (di nuovo) ogni giovedì, e far slittare, per impegni professionali di Aiello (che rappresenta la Regione parte civile nel processo sulle tangenti nella sanità a Monza) e di un altro difensore, l’udienza del 22 settembre nella quale si sarebbe dovuto conferire l’incarico a un perito per la trascrizione delle intercettazioni.
Incarico che quindi verrà conferito in una nuova udienza programmata per il prossimo 6 ottobre, mentre il 20 ottobre si comincerà con i testi dei pm.
Insomma il dibattimento di fatto non è stato ancora dichiarato aperto. E il giudizio entrerà nel vivo, impedimenti permettendo, solo in autunno inoltrato quasi a un anno della prima udienza.
Giovanna Trinchella
(da “il Fatto Quotidiano“)
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