Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
IL SINDACO ANNUNCERA’ L’ABBANDONO E PREPARERA’ UNA LISTA CIVICA
Parma, cibo. Per anni, la medio piccola città provinciale di Parma, è comparsa nelle pagine dei giornali di tutto il mondo per un solo motivo: il suo formaggio, i prosciutti e i salumi, il latte, la pasta e una lunga serie di prelibatezze alimentari tale da renderla unica.
Così buone, quelle eccellenze gastronomiche, da far passare in secondo piano la musica di Verdi o i fasti storici di Maria Luigia, moglie di Napoleone I, il Duomo, il Battistero medioevale dell’Antelami o i dipinti del Parmigianino.
Il cibo era ed è, a Parma, 220mila abitanti nel cuore dell’Emilia, una garanzia, un vanto e al tempo stesso una costante.
Ma proprio dal cibo, per la precisione dal re de latte, quel Calisto Tanzi proprietario della multinazionale Parmalat, negli ultimi 13 anni la città è entrata in una spirale di cambiamento e decadenza talmente profondo che nel 2012, per la prima volta in tutt’Italia, un comune capoluogo ha deciso di “svoltare” per sempre eleggendo come sindaco un perito informatico di banca, l’allora 39enne Federico Pizzarotti, il primo Cinque Stelle ad amministrare un importante città italiana.
A lui è stata data fiducia finchè i vertici del MoVimento che lo ha lanciato non hanno deciso di voltargli le spalle. Talmente abbandonato, Federico lo “sconosciuto”, che probabilmente sarà costretto dopo 4 anni e mezzo a lasciare per sempre il MoVimento.
PRIMA DELL’ONDATA DI M5S
Prima di raccontare l’esperienza del MoVimento Cinque Stelle a Parma e di come la guida a marchio Beppe Grillo ha amministrato e cambiato la vita dei cittadini bisogna capire il perchè migliaia di elettori, da sempre abituati ad giunte di centrosinistra o centrodestra, con ampli interessi degli imprenditori locali, ha deciso di cambiare rotta all’improvviso.
In fondo, l’esperienza di Parma anticipa di qualche anno il profondo cambiamento dell’Italia che oggi, dopo Roma, accredita il MoVimento 5 stelle come primo partito (secondo i principali sondaggi).
Negli anni 2000, sotto la guida di un esponente civico legato al centrodestra, Elvio Ubaldi, Parma ha toccato un apice di splendore.
Furono investiti migliaia di soldi nelle infrastrutture cittadine con tagli del nastro continui e si arrivò perfino a pensare di costruire una metropolitana (in una città che si attraversa in 20 minuti in bicicletta).
Soldi garantiti in parte dai fondi di società partecipate nate senza controllo. L’espansione edilizia (allora al governo c’era il ministro parmigiano Lunardi) andava pari passo con l’eccellenze imprenditoriali del territorio, tra cui appunto quelle culinarie: la Parmalat per i latticini e dolci, la Barilla per la pasta, la Parmacotto per i prosciutti e tante altre.
La squadra del Parma calcio, sponsorizzata Parmalat, vantava diverse coppe in bacheca e la città respirava un’aria internazionale. Ma la favola era destinata a fallire.
LA CADUTA DELLA CITTA’
Nel 2003, con lo scandalo Parmalat di 14 miliardi di buco di bilancio, è iniziato il declino della “piccola Parigi”.
Le pentole sono state scoperchiate una ad una fino arrivare a contare un mostruoso debito nel bilancio comunale tra i 600 e i 700 milioni di euro.
Un buco creato in parte dalla vecchia amministrazione e poi dalla nuova giunta di centrodestra, quella del sindaco Pietro Vignali, decimata dagli arresti.
Lo stesso sindaco è finito in carcere per peculato e corruzione. Un assessore rubava perfino sulle mense scolastiche.
E poi il capo dei vigili in manette per favoritismi, un aeroporto che rischia ogni mese di chiudere, il Parma calcio fallito e retrocesso nelle serie minori, la Parmacotto re del prosciutto verso il fallimento e una marea di altri casi giudiziari pendenti.
Il Comune fu commissariato. In meno di dieci anni la “petite capitale” si è trasformata in grande disastro economico-amministrativo.
I parmigiani, anche quelli della parte “sana” della città , come l’industria Barilla o la meccanica Dallara o la farmaceutica Chiesi, sono rimasti a guardare a lungo mentre la città si decomponeva. Ma poi non hanno retto e, come non si vedeva da tempo, si sono assiepati sotto ai portici del Comune per chiedere dimissioni e cambiamento. Ed ecco, nel 2012, l’opportunità di cambiare.
LA RIPARTENZA
In quel maggio l’economia italiana era più che mai al ristagno e Mario Monti, tecnico al governo, combatteva ogni giorno con i problemi dello spread.
Le elezioni di Parma sembravano scontate: dopo una giunta corrotta e fallimentare di centrodestra, chi poteva guidare la città se non la sinistra?
Fu candidato Vincenzo Bernazzoli, presidente della Provincia, uomo del Partito Democratico. Il suo pregio era di essere l’antitesi della destra, il suo diffetto era di non essere un volto nuovo.
Cominciano a girare i programmi elettorali e la vittoria del Pd sembrava scontata. Poi, in una piazza che divenne gremita col passare delle ore, il comico ormai politico Beppe Grillo venne a Parma per tenere un discorso.
Incoronò Federico Pizzarotti, un giovane sposato con Cinzia Piastri che amava judo e teatro, di cui si sapeva pochissimo, se non che fosse parte dei Meetup, i gruppi embrionali dell’M5s. I media facevano perfino fatica a trovare una sua foto.
L’INIZIO DELL’ERA M5S IN ITALIA
Pizzarotti, a sorpresa, dopo essere andato al ballottaggio il 21 maggio con il 60,22% dei consensi fu eletto sindaco.
Per la prima volta M5s in Italia era riuscito a conquistare un comune capoluogo. Pizzarotti aveva convinto, a senitre i parmigiani, per tre ragioni: non era un politico e appariva come un cittadino onesto e trasparente; aveva promesso (allora era il “mantra” di Beppe Grillo) di bloccare l’inceneritore dei rifiuti in costruzione ed era riuscito, con un programma snello e una campagna elettorale da 6mila euro, ad accaparrarsi perfino i voti del centrodestra.
LE PROMESSE DEL PROGRAMMA
Lo chiamai personalmente poche ore dopo l’elezione e, dicendo che era pronto a governare la città , raccontò scherzando che forse ora era il caso di “prendermi l’aspettativa dal lavoro”.
Sembrava una persona qualunque catapultata sulla poltrona di primo cittadino.
Il suo programma, quello di M5s, era basato fondamentalmente sulle cinque stelle: l’impegno di spegnere l’inceneritore e risolvere il problema rifiuti (ambiente), gli investimenti su scuole e turismo (sviluppo), il taglio del debito e la riduzione dei costi della macchina comunale.
COSA HA FATTO (SECONDO IL SINDACO) E COSA NON HA FATTO (SECONDO L’OPPOSIZIONE)
Quattro anni dopo, sospeso e abbandonato dal suo garante e dai vertici del M5s (di cui parleremo poi, ndr) Pizzarotti ha mantenuto le promesse?
Gli abbiamo chiesto cosa ha realizzato fin ora, a meno di otto mesi dalle nuove elezioni amministrative.
E abbiamo chiesto a Nicola Dall’Olio del Partito Democratico, capo dell’opposizione in consiglio comunale, cosa invece secondo i suoi oppositori politici non è riuscito a realizzare.
Riduzione del debito.
M5S: Pizzarotti sostiene di avere ridotto il debito comunale (che si aggirava circa sui 600 milioni) del 45% ed aver portato Parma ad essere una città con la stabilità economica tra le più alte d’Italia
PD: Dall’Olio smentisce i dati e sostiene che in realtà , citando alcune informazioni raccolte dall’Università fino al 2014 e spiegando che il debito sarebbe stato ridotto solo del 20%. Per ridurlo “ha applicato la cura di cavallo del commissario precedente, aumentato le tasse ai massimi livelli ed effettuato pesanti tagli del personale”
Rifiuti e inceneritore
M5S: Ammettendo di non essere riuscito a bloccare l’inceneritore per vincoli contrattuali precedenti Pizzarotti sostiene di avere trasformato Parma in prima città capoluogo in Emilia Romagna ad aver raggiunto il 74% della raccolta differenziata (prima era ferma al 49%).
PD: L’opposizione conferma il passo avanti “unica nota positiva” nella differenziata che però sarebbe stata fatta con metodi che hanno provocato “forte scontento fra i cittadini. Il porta a porta spinto ha determinato anche decine e decine di microdiscariche in giro per la città . E inoltre, per raggiungere questi dati, è stato venduto il patrimonio delle azioni di Iren”
Scuole, turismo e innovazione
M5S: In quattro anni Parma è diventata “la quinta smart city d’Italia”. Il turismo è cresciuto del 22% sugli arrivi e 29% sulle presenze. Parma è inoltre tra le prime città italiane ad aver tolto tutto l’amianto dalle scuole e la prima città italiana nella storia riconosciuta come Città Creativa Unesco della Gastronomia.
PD: Secondo il capo dell’opposizione Dall’Olio i risultati “sbandierati” dovrebbero essere “ordinaria amministrazione. Pizzarotti, che ha scritto un libro dal titolo “Rivoluzione normale”, ha in realtà fatto qualcosa di molto ordinario e per nulla rivoluzionario. La sua amministrazione ha semplicemente attuato regole che chiunque avrebbe rispettato. In generale è stata una delusione: non ha presentato discontinuità rispetto al passato. Il turismo? E’ un trend regionale, non solo nostro”.
Riduzione dei costi
M5S: fra le conquiste dei 4 anni di amministrazione viene annunciata la “riduzione dei costi della macchina comunale di 10 milioni
PD: La controparte ribatte ricordando “l’aumento delle tariffe dei servizi, a cominciare dalle rette degli asili. Abbiamo fra le tariffe più alte. Sì, non hanno rubato, ma di sicuro non hanno migliorato le cose”
Più in generale, fra le conquiste enunciate da Pizzarotti e la sua giunta c’è quella della comunicazione e la trasparenza con i cittadini (vedi le dirette streaming dei consigli o gli aggiornamenti sul debito sul sito comunale), e anche la partecipazione.
Al contrario, l’opposizione critica la mancata trasparenza del sindaco (“come nel caso dell’avviso di garanzia al Teatro Regio”) e parla di una partecipazione fallimentare. “I suoi Consigli cittadini volontari non hanno funzionato, sono stati una debacle”.
IL GIUDIZIO FINALE
Il vero giudizio sulla prima amministrazione grillina in un importante città italiana lo daranno i cittadini il maggio prossimo alle urne.
L’interrogativo è se Federico Pizzarotti, il sindaco “sconosciuto”, si ripresenterà . A Parma infatti, se il progetto amministrativo di M5s continua, il progetto politico è fallito.
Il primo laboratorio o la Stalingrado grillina è stata una debacle fin dall’inzio: già due anni dopo l’elezione del sindaco il garante del movimento, Beppe Grillo e il cofondatore oggi scomparso, Gianroberto Casaleggio, sono entrati in dissenso con il sindaco negandogli ogni appoggio politico.
Il dissenso è nato per alcune posizioni lontane di Pizzarotti, che ha sempre sostenuto di voler agire con la sua testa, rispetto alle scelte di partito (vedi caso Bugani o altri in Emilia Romagna).
Ciò ha portato Parma, a differenze dell’attuale Roma o di altre città , a non contenere diverse correnti grilline ma, piuttosto, a prendere generali distanze dai vertici.
Il che, come noto, il 13 maggio 2016 ha portato alla sospensione del sindaco da parte dei vertici M5s.
Sospensione motivata dalla mancata trasparenza sulla comunicazione, da parte di Pizzarotti, di essere indagato per abuso di ufficio (caso Regio). Indagine poi archiviata il 16 settembre.
Nonostante l’archiviazione il MoVimento da oltre 100 giorni ha abbandonato Pizzarotti e M5s Parma (non invitato al raduno nazionale di Palermo) al suo destino. A Parma sono nati piccoli gruppi come “Amici di Beppe Grillo” e alcuni consiglieri comunali hanno abbandonato la casacca ma in generale l’M5s è rimasto unito.
Ora nuove regole del partito sono all’orizzonte e se confermate una sospensione potrebbe durare mesi.
Quanto basta perchè Pizzarotti arrivi alle prossime elezioni da “scomunicato”.
Ma il primo cittadino probabilmente non accetterà di subire anche quest’onta e lunedì 3 ottobre (anche se non è certo perchè starebbe pensando pure a un ricorso), probabilmente dirà il suo addio definitivo al Movimento. Per di più, a raccontare un processo fallito, ovvero quello del grillismo a Parma, anche i consiglieri M5s di Parma potrebbero fare un passo indietro.
Ai fatti, il primo grande esperimento “politico” sotto la bandiera M5s in Italia è stato una sconfitta, mentre quello amministrativo sarà giudicato a maggio dai cittadini liberi chiamati a riconfermare o meno la “persona” Pizzarotti.
Ma di sicuro non più il grillino.
(da “La Stampa“)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
IL MARCIO SU ROMA: CHI COMANDA REALMENTE? CON QUALI DELEGHE? PER FARE CHE COSA?
Dal cervellotico e pirotecnico “Assessority day” grillino – come l’ha ribattezzato quel genio di Maurizio Crozza – sono infine spuntati i due nomi tanto attesi.
Proprio come aveva previsto il comico genovese (quello che fa ridere in televisione, non quello che fa piangere nei comizi).
La sdrucita giunta Raggi non la ricuciono i magistrati di grido o gli economisti di rango, che comprensibilmente si sfilano uno dopo l’altro.
La rattoppano i commercialisti, che inopinatamente si ritrovano ad osare l’inosabile: salvare Roma dalla bancarotta economica, etica e politica, e dimostrare che il Movimento Cinque Stelle, superata la prova Capitale, può persino governare il Paese
Il nuovo assessore al Bilancio – poltrona vacante ormai da un mese dopo la micidiale sequenza dei caduti sul campo Minenna-De Dominicis-Tutino – è infatti un commercialista.
Ma la sindaca non l’ha selezionato fermandolo al volo per la strada, come vagheggiava Crozza nella sua irresistibile gag.
L’ha piazzato sulla sedia più elettrica del Campidoglio prelevandolo direttamente dal Raggio Magico. E tutto sommato, questo è l’unico motivo per cui Andrea Mazzillo, oggi, va a ricoprire quell’incarico così delicato.
Per il resto, e per un’insondabile nemesi della Storia, il nuovo assessore non può fregiarsi di altri meriti riconosciuti e riconoscibili, se non quello di avere come padre il professor Luigi, stimatissimo consigliere della Corte dei conti, cui la stessa Raggi si era rivolta come “cacciatore di teste”, e che alla fine non ha potuto consigliare altri che suo figlio.
Non solo: Mazzillo incarna su di sè tutto quello che i pentastellati hanno sempre odiato di più.
È dipendente in aspettativa di Equitalia (che Grillo considera un cancro da estirpare) ed è pretendente trombato a una primaria del Pd (che Grillo considera un’associazione a delinquere).
Peccati veniali, per un “establishment” infarcito di parecchi ex qualche cosa (studi legali Previti-Sammarco, giri destrorsi Alemanno-Marra)
Lo stesso, su un piano diverso, si può dire del nuovo assessore alle Partecipate. Massimo Colomban è un imprenditore trevigiano, fondatore di un marchio noto come Permasteelisa.
Anche lui ha sbandato parecchio: prima semi-leghista a fianco di Zaia, poi semi-piddino ammaliato addirittura da Renzi («è un innovatore»).
Ma oggi dalla sua non ha altro che un “atout”: l’amicizia con Gianroberto Casaleggio. Ma tanto basta, e ovviamente avanza, per farsi largo in un Movimento dilaniato dalle guerricciole di potere tra centro e periferia e affamato di “quadri” politicamente spendibili per il governo.
Il dramma che si sta consumando a Roma non è solo e non è tanto la qualità delle classe dirigente che i grillini riescono a mettere in campo.
Le giunte precedenti, rossoverdi o nerazzurre che fossero, alla fine non si sono dimostrate molto migliori, se ci hanno regalato Mafia Capitale e hanno lasciato la città sommersa dai rifiuti, ammorbata da Parentopoli e Affittopoli e con un debito monstre da 13 miliardi.
Quella che non si può più reggere è la totale assenza di strategie in politica e di regole nella governance.
Un tema che interroga nel profondo il Movimento, e che non si esaurisce solo nel fallimento del test romano.
Chi comanda? Con quali deleghe? Per fare che cosa?
A queste domande non c’è risposta. Nè a Roma nè altrove.
Tutto si risolve nella “ridiscesa in campo” del Beppe nazionale, che a Palermo si riprende a colpi di altri Vaffa le cinque stelle impazzite e spente (prima che le inghiottano i buchi neri del caos).
Tutto si confonde nella nebulosa roussouiana della Casaleggio & Associati, dove il figlio Davide sovrintende, “in nome del padre”, non si sa bene a chi e non si sa bene a cosa («lei è una figura che ci interessa per il compito di assessore – si sono sentiti dire diversi candidati in queste settimane – ma dobbiamo sottoporre il suo profilo anche a Milano…»).
Tutto si consuma negli alti e bassi del “borsino” quotidiano interno ed esterno al direttorio (i giorni pari sale Di Battista e scende Di Maio, i giorni dispari volano le quotazioni di Lombardi e crollano quelle di Ruocco).
L’autodafè che brucia a Roma, questo gigantesco falò delle velleità , è un caso troppo grave. Lo è in chiave locale.
Perchè la città è allo stremo, mentre Raggi balla sotto il vulcano alla faccia degli odiati giornalisti e ripete che è tutto bello, bellissimo.
Perchè dopo 100 giorni la giunta ha varato 39 delibere di cui 23 hanno riguardato solo nomine.
Perchè un’altra “stella” dovrà prima o poi cadere, quella di Paola Muraro, indagata ormai anche per gli scandali dell’Ama legati agli affari di Buzzi e Carminati (ma ancora non c’è una “regola” generale, che valga erga omnes su tutti gli amministratori indagati, cioè allo stesso modo per lei e per l’esecrato Pizzarotti).
Perchè i romani continuano a versare 200 milioni l’anno di addizionale Irpef nel pozzo senza fondo del deficit capitolino, mentre Ama e Atac vanno in malora, con 1,6 miliardi di costo a bilancio a fronte di un debito cumulato di 2,8 miliardi
Ma l’incendio è grave soprattutto su scala nazionale.
Riverbera i suoi effetti sul futuro politico del Paese. Sugli esiti del referendum. Sul destino dell’Italicum e su quello dell’Italia.
Conferma, purtroppo plasticamente, il deficit politico, strutturale e culturale, di un “non partito” che proprio per custodire il mito della sua ineguagliabile purezza e della sua irriducibile diversità , non sa “farsi Stato”.
E continua, nonostante tutto, a concepirsi come “setta”.
Una setta dove salta il principio della delega e della rappresentanza, perchè a decidere è un capo (uno non vale più uno, se c’è uno che vale tutti) o è una società di consulenza aziendale e comunicazione (che vaglia i curricula, e boccia e promuove secondo criteri insondabili).
Così, in nome della democrazia, si nega la democrazia.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
“QUANDO DOVRA’ CACCIARLA PER FORZA, SPERIAMO CHE LA RAGGI SAPPIA ALMENO CON CHI SOSTITUIRLA”
Alla lettura dei giornali, l’assessore all’Ambiente si sfoga con le persone a lei vicine, ma il quadro giudiziario si complica e nei 5Stelle si inizia a valutare una exit strategy “per quando il passo indietro sarà inevitabile”.
L’assessore non sembra affatto intenzionata a tirarsi fuori, nonostante le nuove vicende che la riguardano e che raccontano della sua relazione sentimentale con Giovanni Fiscon, direttore generale dell’Ama a processo per Mafia Capitale, grazie al quale Muraro avrebbe ottenuto delle consulenze e 25 mila euro per un accesso agli atti della Regione Lazio. B
Le notizie che trapelano dalla procura sono diventate un problemone per i 5 stelle che in queste ore ribollono: alcuni parlamentari tra Camera e Senato sembrano non avere più la pazienza di sopportare.
C’è chi spera che la Muraro si dimetta il prima possibile: “Così azzeriamo questi cento giorni una volta per tutte e ricominciamo”, confida una deputata romana a taccuini chiusi poichè rispetta il silenzio stampa imposto da Beppe Grillo.
E c’è chi come Luigi Di Maio, che è andato a Mirandola per inaugurare una palestra costruita con i soldi donati dal Movimento, sostiene: “Non c’è ancora un avviso di garanzia. Aspettiamo almeno i capi di imputazione”.
La linea del componente del Direttorio è la stessa che il sindaco Virginia Raggi ha ribadito in un’intervista al Fatto Quotidiano prima però delle nuove rivelazioni: “Aspettiamo di leggere le carte e poi non faremo sconti a nessuno”, le solite chiacchiere.
La svolta garantista sembra essere ancora in auge, ma con grande sofferenza dei più ortodossi. Roberto Fico, a sua volta a Mirandola insieme a Grillo con il quale si è intrattenuto a pranzo, pubblica un post su Facebook che ricalca le sue posizioni da duro e puro di sempre: “Ecco la palestra costruita con i nostri soldi, questo è il movimento 5 stelle”. Il messaggio è sottinteso.
In questo insieme di divisioni e di sensibilità opposte, in cui cresce l’imbarazzo, parla Grillo che difende il nuovo assessore al Bilancio dagli attacchi interni e del web: “Andrea Mazzillo? Anche io ho preso la tessera del Pd ad Arzachena”.
Ma in pubblico non dice neppure una parola su Muraro.
Di certo, a cominciare dal leader tutti stanno sul chi va là , e sono in fase di elaborazione di una exit strategy: “Se arriva l’avviso di garanzia e l’accusa ipotizza reati gravi, la Raggi dovrà cacciare Muraro e noi se vogliamo sopravvivere all’ennesima bufera dobbiamo avere il sostituto già pronto”, così ragiona uno dei big riassumendo l’umore di molti.
Di fatto, nel mondo pentastellato come sempre le voci si intrecciano e si confondono, mentre una parte dei grillini insiste sull’isolamento della Muraro e dubita che la situazione sia recuperabile.
Il sindaco per ora è con l’assessore ma si cammina sulle sabbie mobile. Forse anche per questo, Raggi oggi ha evitato di esporsi pubblicamente nella difesa della Muraro.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
L’ALTRA FACCIA DELL’UNGHERIA NON PARTECIPERA’ AL VOTO SUL REFERENDUM FARSA… PRENDONO MILIARDI DALL’EUROPA E POI RIFIUTANO 1.200 PROFUGHI
La piazza di fronte al parlamento è piena.
In Kossuth tèr a Budapest ci sono migliaia di persone. Sono arrivati in silenzio, alla spicciolata. Srotolando timidamente bandiere ungheresi ed europee hanno tirato fuori dalle borse — ma solo una volta superato il presidio della polizia – modesti striscioni fatti di cartone e fazzoletti.
Le frasi sono scritte con pezzi di scotch rosso: «Siamo tutti persone», «Restiamo umani».
«Restiamo umani», è anche lo slogan che sovrasta il piccolo palco montato in mezzo alla piazza, proprio sotto l’ufficio del primo ministro.
È il messaggio della manifestazione organizzata dalle dieci principali ong ungheresi a poche ore dal referendum sulla redistribuzione dei profughi in Ungheria voluta dall’Europa, che assegnerebbe al Paese la miseria di 1.200 rifugiati in tutto
È la prima volta che, in mesi di martellante campagna governativa per il «no», l’«altra» Ungheria scende in piazza.
Il loro è un «no» che cerca di opporsi ai muri, alle centinaia di comizi governativi, ai 4 milioni di opuscoli e agli investimenti milionari per «l’immagine del Paese» che da quando il referendum è stato indetto hanno cercato di persuadere gli ungheresi che l’immigrazione mette in pericolo la cultura cristiana, porta terrorismo e malattie, rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza e al benessere.
Quello di ieri è stato il primo, ma non è l’ultimo, tentativo di evitare che domani si celebri la vittoria di Fidesz, il partito di governo nazional-populista.
La Coalizione democratica (all’opposizione) organizzerà una grande catena umana perchè «vogliamo rimanere in Europa» e domenica un gruppo di intellettuali, docenti universitari e artisti ha in programma una manifestazione contro la violenza e la paura
In prima fila sotto il palco, schiacciata contro le transenne, c’è Rotzsa, 87 anni, che ondeggia con grazia al ritmo di Exodus, Bob Marley. Ride, tira fuori tutto il fiato che ha per urlare «Magyarorszà¡g nem Orbà n!», l’Ungheria non è Orban.
Accanto a lei Edit Vlahovis, 56 anni, attrice, e Agnes Komanomi, 47 anni, manager per le risorse umane.
«Siamo qui oggi per dire agli ungheresi e all’Europa che non ci arrendiamo, che non tutti in questo Paese sono rimasti accecati dalla campagna di un governo che vuole distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi di cui soffriamo: un’economia stagnante, sanità ed educazione allo sfascio».
Edit ha incontrato alcuni profughi alla stazione, qualche mese fa: «Gli ungheresi viaggiano poco, e conoscono meno ancora. Così la dittatura soft di Orban ha buon gioco. Nessuno, soprattutto nelle zone più rurali, lo ha mai visto un arabo. Basterebbe parlare con qualcuno di loro per capire che, alla fine, siamo tutti esseri umani».
I sondaggi prevedono che l’80% dirà «no» alle quote decise dall’Unione europea per i ricollocamenti, ma al tempo stesso mettono in forte dubbio che il quorum dei voti validi superi il 50%, rendendo illegittima la consultazione, come avvenne per passati referendum sull’Ue e la Nato.
In più c’è l’appello di alcuni partiti di opposizione al voto nullo, barrando ad esempio entrambe le caselle e alzando così il quorum dei voti validi.
Degli intervistati solo il 42% ha dichiarato che si recherà alle urne e di questi l’83% ha detto di essere dalla parte di Viktor Orban e di voler votare contro le quote.
Solo il 13% intende votare «sì» alla domanda sulla scheda, con posizioni più filo-Ue, e il 3% pensa di annullare la scheda.
Sul fronte del no la maggior parte degli elettori di Fidesz (86%), partito di Orban, e dell’estrema destra di Jobbik (88%).
«La nostra unica speranza — dice Noemi Fers, 23 anni, studentessa di architettura – è che non si raggiunga il quorum e che si abbandonino le posizioni emozionali che hanno guidato i miei concittadini nell’ultimo anno a favore di un dialogo più razionale e costruttivo».
(da “La Stampa“)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
“SOLO IL COLLASSO DEL SISTEMA POTRA’ PERMETTERE AI GIOVANI DI RICOMINCIARE”
L’esercizio del dubbio è la ginnastica che ha praticato con più assiduità e costanza (lui che di regolare non ha molto).
Sulla scrivania c’è un poderoso tomo, La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle, una sorta di Summa teologica (si parva licet) che raccoglie i saggi di Massimo Fini.
Dove non dell’esistenza di Dio si trovano le prove, quanto di una catastrofe cui andiamo incontro con “l’ottuso ottimismo di Candide”.
Tecnologia, progresso, democrazia, supremazia indiscriminata dell’economia, la pretesa dell’Occidente di ergersi a modello: tutte le parole-totem della nostra cultura sono messe in discussione.
Con l’autore partiamo dall’inizio, ovvero dal titolo: “La rivoluzione scientifica e la rivoluzione industriale, razionalizzate dall’Illuminismo sia in chiave liberista, sia in chiave marxista non hanno migliorato la qualità della vita dell’uomo. Anzi l’hanno grandemente peggiorata”.
Il tema è immenso e si può declinare in mille modi. Proviamo a circoscriverlo con un esempio?
Il mito della velocità : non può che portarci al collasso. E nel frattempo ci fa vivere male, con un aumento di ansie, stress, inquietudini. Ce lo dicono i numeri: nell prima metà del Seicento i suicidi in Europa erano 2,6 ogni centomila abitanti, oggi sono decuplicati.
Va bene: ogni progresso non è di per sè un miglioramento. Però radicalizzare questa tesi può portare a conclusioni sbagliate
Certo: ci sono anche vantaggi nel progresso. Però Ratzinger, quando era cardinale, disse che il progresso non ha migliorato l’uomo e si prospetta anzi come un pericolo. Proviamo ad allargare l’orizzonte pensando alle comunità e non solo agli individui, quindi alle società e alla politica. Destra e sinistra sono categorie nate due secoli e mezzo fa — due secoli che hanno corso a velocità sempre maggiore — e non sono più in grado di comprendere le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo. Entrambe le “visioni del mondo” sono economiciste, hanno il mito del lavoro, mentre in realtà il vero valore della vita è il tempo. Oggi il discorso politico è sempre scandito da numeri: Pil, decimali, statistiche. Cifre che non sono la cifra della felicità .
Oltretutto le persone sono impaurite dall’impoverimento.
Non è solo questo. Banalizziamo: una volta che hai di che sfamarti e vestirti, una volta che hai un tetto sulla testa, il resto è superfluo. In realtà tutto il sistema è incentrato sul consumo, sulla rincorsa di obiettivi. Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche più coerenti teorici del capital-industrialismo, afferma — e lo fa dando alla sua tesi un’accezione positiva — che tutto il sistema è basato sull’invidia. Un sentimento che non mi risulta abbia mai fatto bene a nessuno. Nel Dopoguerra eravamo tutti poveri, ma più sereni. Nella povertà c’era una solidarietà che non esiste nell’individualismo della ricchezza.
Nella prefazione Salvatore Veca sottolinea la sua anima di ribelle anticonformista. Si è mai chiesto se questo sguardo non sia diventato un riflesso pavloviano?
Non credo, sta nel mio Dna. Dell’illuminismo dovremmo recuperare il dubbio sistematico. E il dubbio si attua in prima battuta su se stessi. Io vado sempre nella direzione contraria e qualche volta mi sono domandato se non ero io ad aver preso la strada sbagliata. Ma riflettendoci di solito penso alla metafora dei lemming, i roditori che si suicidano in massa seguendo il loro capo.
Non abbiamo più anticorpi rispetto al “pensiero dominante”?
Questo è legato a un altro totem della modernità , la tecnologia. Di cui teoricamente l’individuo potrebbe fare un uso euristico e intelligente, ma che si rivela a livello di massa impoverente. È diminuita, anzi quasi scomparsa, la capacità di concentrazione e riflessione.
In questa raccolta è contenuto anche Sudditi, uscito dieci anni fa. Allora sosteneva che la democrazia — il sedicente migliore tra i sistemi possibili — si era rivelata il contrario di ciò che pretendeva essere. Oggi è cambiato qualcosa?
Se uno osserva antropologicamente le folle festanti davanti alla Clinton o a Trump — non importa il giudizio sui due — si domanda come siamo finiti male se quello è il Paese più avanzato del mondo. La democrazia continua a essere un modo sofisticato, accettabile, elegante di metterlo in culo alla povera gente con il suo consenso.
L’alternativa?
Non lo so. Questo è limite del mio pensiero che è stato più sottolineato, e non a torto. Però se mi trovo davanti a una truffa, non posso non denunciarla.
Ci salveremo?
Spero di no. Spero in un collasso del sistema che permetta ai più giovani di ricominciare. Magari facendo gli stessi errori.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
ASSENZA DI UNA QUALUNQUE CULTURA CONSERVATRICE E DI UN PUNTO DI VISTA ALTERNATIVO
Cambiando l’identità della Sinistra italiana Matteo Renzi ha obbligato anche la Destra a cambiare la propria. Ma la Destra non se n’è accorta, e proprio perciò continua ad annaspare.
Renzi ha mostrato l’inutilità della Destra riguardo quello che da sempre ne è stato il principale cavallo di battaglia: l’economia.
Lo ha fatto accantonando pressochè totalmente le tradizionali politiche che la Sinistra seguiva in questo campo.
Oggi in Italia nessuno può dubitare, infatti, che se per qualche miracolo o per qualche improvvisa resipiscenza dell’Unione Europea si presentasse una ragionevole possibilità di tagliare la spesa pubblica, di diminuire il carico fiscale, di ridurre l’ammontare del debito, d’incrementare in qualunque modo gli investimenti pubblici e privati, di privatizzare qualcosa, di ridurre il potere sindacale laddove ancora esiste, nessuno può dubitare, ripeto, che se qualcuna di queste cose fosse mai possibile, Renzi non ci penserebbe lui per primo a farla immediatamente.
Dal punto di vista dell’economia, insomma, il nostro presidente del Consiglio ha ben poco che possa dirsi tipicamente di sinistra (ammesso e non concesso, tra l’altro, che vi sia qualcuno che in Occidente oggi ce l’abbia).
Ma se le cose stanno così a che serve, allora, la Destra in Italia? Questa Destra ben poco, mi pare.
Fino ad oggi, infatti, la Destra ha affidato le sue fortune sostanzialmente a due temi che la contrapponevano alla Sinistra: da un lato l’anticomunismo (peraltro da qualche lustro sempre più implausibile), e dall’altro l’economia, dove la Destra è andata avanti propugnando tradizionalmente ricette grosso modo di tipo liberista-rigoristico (a parole, perchè quanto a metterle in pratica i risultati sono sempre mancati: Berlusconi docet).
Grazie a Renzi, però, nessuno di questi due temi ha sostanzialmente ormai più corso. Nella Destra, è vero, sono presenti anche tassi significativi di rabbia xenofoba e di clericalismo antiliberale: ma a parte ogni altra considerazione, è difficile pensare che si possa essere davvero competitivi elettoralmente con piattaforme politiche di questo tipo.
La Destra italiana si ritrova dunque virtualmente senza identità , e anche il tentativo fatto dalla convention di Stefano Parisi di ridargliene una, battendo però sempre la strada dell’economia, dell’efficienza, della «riforma» fiscale e delle mille altre riforme mille volte promesse e quindi destinate ormai a cadere nel disinteresse generale, non mi sembra destinato ad andare lontano.
In realtà , se oggi la Destra italiana si ritrova priva di una sua specifica immagine, priva di riconoscibilità , è anche perchè essa sconta un vuoto storico della propria identità : vale a dire l’assenza di una vera, effettiva, cultura conservatrice.
Cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il paesaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti, la diffidenza verso tutto ciò che distrugge la tradizione; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole. Una tale cultura – oggi in Europa riferibile politicamente a partiti di orientamento cristiano-liberali – da noi è stata assai debole da sempre, e fu messa nell’angolo dalla compromissione/inquinamento con il fascismo.
Nè potè certo assistere alla sua ripresa la Repubblica della modernizzazione e dell’urbanesimo travolgenti, della fine della miseria e della scomparsa del mondo contadino, della massificazione individualistico-democratica e della rivoluzione giovanile e sessuale.
Per lungo tempo nell’Italia di quella Repubblica nessuno pensò che ci fosse qualcosa da conservare.
Per mezzo secolo, così, a parte il neofascismo, di fatto la Destra ha voluto dire chiusura ermetica a sinistra, appiattimento sulla Confindustria, e poco più.
Infine, sopraggiunta la seconda Repubblica, essa ha mandato il suono vuoto delle promesse e delle favole di Berlusconi.
L’assenza di una qualunque cultura conservatrice, di un punto di vista sulla realtà alternativo a quello progressista, ha avuto come conseguenza una disparità decisiva all’interno degli schieramenti politici.
Ha significato infatti che in Italia, laddove la Sinistra era (ed ancora è) una cultura complessa e ramificata, capace di penetrare di sè ogni ambito, insomma rappresenta un vero retroterra sociale in cui è stabilmente insediata, la Destra, invece, è stata condannata ad essere quasi soltanto una posizione politica polemica, animata essenzialmente da uno spirito di contrasto e abituata ad agire di rimessa.
E quindi anche in una condizione potenzialmente aleatoria dal punto di vista dell’orientamento elettorale, come ha capito benissimo Renzi che infatti conta sul suo aiuto per il prossimo referendum.
Finora la Destra italiana si è accomodata senza troppi problemi a questo stato di cose. Ma è sorprendente che continui a farlo proprio quando per segni indubitabili un’epoca si sta chiudendo e tutto diviene oggetto di un ripensamento, tutte le fedi e tutte le certezze passate.
Quando nell’intero Occidente scricchiolano tutti gli assetti, quando il futuro annuncia scenari sorprendentemente inediti e inquietanti nei quali non sembra per nulla azzardato pensare che torneranno a rinvigorire categorie e valori cari alla cultura conservatrice.
Quando insomma tutto lascia credere che si avvicini un appuntamento al quale paradossalmente, però, sembra più facile che in Italia arrivi puntuale la Sinistra, con la sua capacità di sentire l’aria dei tempi e di cambiare, piuttosto che una Destra incerta di sè, senza idee nè visione.
Ernesto Galli della Loggia
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
CROCETTA: “ADESSO BASTA, CHI SI OPPONE AL TRASFERIMENTO SARA’ LICENZIATO”… NUMERI IMPRESSIONANTI: SU 15.000 DIPENDENTI IN 6.000 HANNO PERMESSI SINDACALI E TUTELE DA LEGGE 104
La Regione dei dipendenti inamovibili per legge.
Su 15 mila addetti, 6 mila non possono essere trasferiti da un ufficio a un altro. Proprio così: quasi la metà dei regionali è “intoccabile”, perchè dentro la pancia del mostro pubblico ci sono quasi 3 mila dipendenti che usufruiscono dei permessi della “legge 104” per disabilità o per assistere un familiare, e altri 3 mila sono dirigenti sindacali.
Così, al di là degli annunci, delle norme approvate al grido di «basta privilegi», delle circolari e degli atti d’imperio di qualche dirigente, alla fine il personale non si riesce a trasferire dove serve perchè il lavoro nell’Isola del tesoro lo si vuole non solo nella stessa città dove si vive, ma anche sotto casa.
«Adesso questa storia deve finire », dice il governatore Rosario Crocetta dopo i flop dei trasferimenti al dipartimento Formazione o alle Attività produttive, strutture nelle quali c’è un forte bisogno di funzionari.
I numeri sono impressionanti e dimostrano che davvero qualcosa non va. La Sicilia, tra i suoi 15 mila dipendenti, ha 2.838 addetti che «risultano al 31 dicembre 2015 titolari di permessi per legge 104», si legge nella relazione che ogni anno Palazzo d’Orleans, come le altre Regioni, deve inviare allo Stato e rendere pubblica.
Conti alla mano, il 18 per cento dei dipendenti regionali ha una disabilità oppure deve assistere un familiare.
Tradotto: ha diritto a usufruire di tre giorni di permesso retribuito al mese e non può essere trasferito senza il suo consenso.
Ma sul fronte dell’inamovibilità , ai titolari della legge 104 vanno aggiunti anche i dirigenti sindacali in servizio.
E anche qui la Regione siciliana ha numeri di tutto rispetto: i sindacalisti censiti al 2015 sono 2.487, ma a questi se ne aggiungono 836 che hanno usufruito di permessi sindacali.
Adesso la Funzione pubblica sta incrociando i dati per capire se questi ultimi permessi siano stati dati a chi soltanto recentemente è diventato dirigente sindacale, magari proprio dopo una notifica di trasferimento.
Crocetta non ha dubbi: «Qualcuno vuole fare il furbo, ma adesso basta – dice – chi usufruisce della legge 104 è vero che non può essere trasferito da una città a un’altra, ma può essere spostato da un assessorato a un altro. Inoltre va trasferito anche il dipendente che è diventato dirigente sindacale soltanto negli ultimi mesi per evitare di cambiare ufficio. Voglio essere chiaro: chi si oppone al trasferimento sarà licenziato».
La Cisl ribatte a Crocetta. “Il presidente Crocetta ha lanciato accuse che non ci toccano. Non crediamo che voglia o possa confutare lo Statuto dei Lavoratori e la legge 104 e se teme che ci siano meccanismi poco chiari saremo ben lieti, come sempre, di fornire nomi e date per fugare qualsiasi dubbio. Le procedure per la mobilità , volute da questo governo e per le quali abbiamo a lungo trattato evidenziandone gli aspetti che avrebbero causato difficoltà applicative, sono invece il vero ostacolo ai trasferimenti. Non obbediscono a nessun criterio oggettivo e funzionale per un miglioramento dell’amministrazione. I trasferimenti che devono essere deliberati dalla giunta di governo significa allungare i tempi e soprattutto affidare ai giochi politici e ai veti incrociati l’efficienza della macchina regionale. Questo è effettivamente accaduto in questi mesi, non si dia ora la colpa ai sindacati”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
ALLORA CAMBI LO STATUTO FARLOCCO CHE VIETA INCARICHI NEL M5S A CHI E’ STATO CANDIDATO IN ALTRI PARTITI… MAZZILLO NEL PD E COLOMBAN CON PIONATI SAREBBERO OUT
Beppe Grillo si schiera a fianco di Andrea Mazzillo, nuovo assessore al Bilancio della giunta Raggi con un passato nelle fila del Pd: “Non sarà mica un reato, anch’io ho avuto la tessera del Pd, non ve lo ricordate? La presi ad Arzachena” ha risposto ai cronisti che gli chiedevano commenti sulla nomina
Andrea Mazzillo ha 42 anni, ed è coordinatore dello staff di Raggi. E’ stato il “mandatario” di Virginia, ruolo in cui ha sovrinteso alla raccola di fondi per campagna elettorale della sindaca tramite bonifico, carta di credito o pay-pal.
Prima di militare nel movimento 5 stelle, era stato candidato anche alle primarie per la segreteria regionale del Pd, a sostegno di Nicola Zingaretti nel collegio 16, per la lista “Con Veltroni, ambiente, innovazione, lavoro per Zingaretti”.
In passato è stato inserito nel centrosinistra di Ostia, e fino al 2007 è stato vicino ad Alessandro Onorato, poi diventato coordinatore del movimento di Alfio Marchini.
Si era candidato anche con Lista civica per Veltroni a Ostia, nell’allora XIII Municipio (oggi è il X), ed era risultato primo dei non eletti per poi essere nominato coordinatore municipale della lista.
Lo stesso dicasi per Colomban, vicino prima al Pd, poi a Zaia e candidato nel centrodestra con Pionati.
Quindi, con buona pace di Grillo, il problema non è la tessera di un altro partito, ma la candidatura sotto le insegne di un altro partito, altra cosa.
Eventualità espressamente vietata dal “non Statuto” voluto da Grillo stesso, tanto è vero che a Mazzillo fu impedito di candidarsi ad Ostia nel M5S dai dirigenti romani dei Cinquestelle proprio per i suoi precedenti.
Salvo poi ritrovarselo a capo dello staff della Raggi a 88.000 euro l’anno e ora pure assessore all’Economia del Campidoglio.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2016 Riccardo Fucile
“VIRGINIA NON HA PIU’ SCUSE”… SOLO DI MAIO E DI BATTISTA PLAUDONO PER CONVENIENZA
A nomine annunciate, l’effetto è stato prima di sorpresa, poi di disappunto.
La fronda ortodossa del M5S, la più critica verso l’operato di Virginia Raggi, rappresentata all’interno del direttorio da Roberto Fico, Carlo Sibilica e Carla Ruocco, è costretta a inghiottire in silenzio le scelte della sindaca di Roma.
Il rispetto che devono a Beppe Grillo, che ha chiesto di non commentare i fatti di Roma, li costringe a non rilasciare dichiarazioni.
Non vogliono e non possono, perchè ora è tempo di ricucire, o almeno provare a farlo. Le uniche parole sono quelle, abbastanza freddine, concordate giorni fa e che riflettono la linea dettata dal capo politico e dallo staff della Casaleggio: «Sono scelte di Virginia, la responsabilità è sua».
Parole che, però, lette in controluce rivelano l’isolamento di Raggi nel Movimento.
I vertici non vogliono più immischiarsi, perchè non vogliono essere travolti da eventuali fallimenti a Roma.
Anche Ruocco, nelle ultime settimane esplicita nei j’accuse a Raggi, si limita a confidare a chi le ha parlato che «è un bene che la sindaca abbia finalmente trovato gli assessori, adesso non ha più scuse».
Gli unici due a lasciare apertamente un margine di credito a Raggi sono non a caso Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, i membri del direttorio blindati dall’asse saldato con Grillo e Davide Casaleggio e rilanciati dal palco di Italia a 5 Stelle. Andrea Mazzillo e Massimo Colomban «sono persone che ha scelto Virginia, spero siano quelle giuste e facciano il bene della città ».
Nel gioco delle parti è Di Battista a dare forza a Raggi, confermandole «la massima fiducia», seguito da Di Maio che sembra apprezzare soprattutto il nome di Colomban: «Ho avuto modo di conoscerlo. È un grande segnale offrire a un imprenditore del Veneto che ci ha fatto conoscere in tutto il mondo la sfida del risanamento delle Partecipate di Roma».
Peccato però che non la pensino allo stesso modo gli altri esponenti dell’organo di governo del M5S e gran parte degli attivisti romani che hanno invaso di commenti chat e social network nelle ultime ore.
Dopo un mese di attesa e il triplice pasticcio di un assessore – Marcello Minenna, che se ne va sbattendo la porta, un altro, Raffaele De Dominicis, costretto a lasciare dopo 24 ore, e l’ultimo che si sfila per non farsi impallinare dalle faide interne al M5S – le aspettative erano altre.
«La sensazione – ragiona un membro del direttorio che chiede l’anonimato – è di scelte fatte per emergenza, quasi per disperazione»
Non piacciono i profili, le competenze «non del tutto adeguate» alla gigantesca prova di Roma.
Non piace che Raggi abbia rivendicato di aver puntato «su due militanti qualificati», andando contro tutta la storia recente del Movimento.
Sono nomine che hanno il sapore dello spoils system tanto caro ai vecchi partiti e tanto criticato dal M5S che aveva annunciato solo nomi di prestigio, esperti, tecnici, scelti in base al curriculum. Così non è stato.
Colomban conferma la partecipazione diretta della Casaleggio nel casting della giunta. Amico di Gianroberto, è a capo della Confapri, un’associazione di imprenditori che raduna nel suo Think Thank alcuni grillini come Vito Crimi e il veneto Davide Borrelli, a sua volta braccio destro di Casaleggio Jr nell’associazione Rousseau. Inoltre, nel 2010 è stato candidato con una lista a sostegno dell’attuale governatore leghista Luca Zaia.
«E poi cosa ne sa un imprenditore veneto di società partecipate romane?» si chiede un altro membro del direttorio.
Non va meglio per Mazzillo. Anzi: «Tutto questo tempo e alla fine fai una scelta che sa di ripiego? Uno che si è candidato prima con Marchini, poi con il Pd, infine con noi, nascondendoci che era stato con Veltroni?».
Anche sui suoi titoli c’è grande scetticismo ai vertici del M5S e tra i parlamentari: «Stiamo parlando della città con un debito di 13 miliardi. E pensare che avevamo Minenna…».
Oggi Di Maio, Ruocco, Fico e Sibilia si incontreranno, senza Di Battista, a Mirandola, in occasione dell’inaugurazione di una palestra distrutta dal sisma e ricostruita grazie a 420mila euro avanzati dalla campagna elettorale del 2013.
Sono le prove generali di una fragile pacificazione.
A sorpresa, potrebbe spuntare anche Grillo. Per la foto di famiglia: il patriarca e i suoi figli che sorridono ai flash con le fauci pronte ad azzannarsi a vicenda.
Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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