Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile LE LISTE DEL CENTROSINISTRA RISULTANO LE PIU’ VOTATE ANCHE A TORINO E SARANNO DECISIVE A ROMA E NAPOLI
Virginia Raggi e Chiara Appendino a Roma e Torino, ma anche Luigi De Magistris a Napoli non avranno
la maggioranza in Consiglio metropolitano.
Soltanto Beppe Sala a Milano e Virginio Merola a Bologna potranno contare sulle proprie forze per governare i nuovi enti locali voluti dalla Legge Delrio.
La tornata di elezioni delle città metropolitane che lo scorso giugno hanno cambiato amministrazione consegna un risultato positivo soprattutto per il Partito Democratico: le liste del centrosinistra confermano la maggioranza a Milano e Bologna, ma risultano le più votate anche a Torino, e saranno decisive a Roma e Napoli.
Qui, invece, i numeri in Consiglio metropolitano saranno diversi da quelli in Comune.
ROMA: “ANATRA ZOPPA” PER LA RAGGI
In base a quanto previsto dalla Legge Delrio, ieri Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna erano chiamate ad eleggere gli organi delle rispettive Città metropolitane, la cui presidenza spetta di diritto al sindaco del capoluogo.
Un’elezione indiretta, visto che a votare non erano i cittadini ma gli stessi consiglieri e sindaci nominati alle ultime amministrative.
E sicuramente i criteri di voto non hanno premiato il Movimento 5 stelle nella Capitale, dove lo scorso giugno aveva vinto al ballottaggio con un consenso molto ampio, ma non potrà contare sulla maggioranza in Consiglio metropolitano.
A Roma il M5s ha guadagnato 9 seggi, un dato di poco inferiore anche alle previsioni che le assegnavano 10 consiglieri.
Infatti Lorenza Bonaccorsi, deputata e presidente del Pd Lazio, parla di “sonora sconfitta del M5s”, e Stefano Pedica di “effetto Raggi sulle elezioni”.
Ma Marcello De Vito, già presidente d’assemblea in Campidoglio ed eletto anche in Consiglio, ribatte che “il Movimento entra con 9 consiglieri dai 2 precedenti”.
Sul risultato ha influito la scarsa affluenza alle urne, mentre il centrosinistra (unito sotto la lista “Le città della metropoli”) è riuscito a mobilitare il 94% dei propri consiglieri e conquistare 8 seggi, solo uno in meno del Movimento 5 stelle.
Sette posti vanno anche a “Territorio protagonista”, la coalizione di centrodestra con Forza Italia, Fratelli d’Italia e Noi con Salvini.
Una difficoltà in più, quindi, per Virginia Raggi, che almeno in Consiglio metropolitano dovrà scendere a compromessi con l’opposizione. “Governeremo, governeremo sui temi”, ha dichiarato la sindaca.
TORINO: APPENDINO SOTTO AL PD
Stessa situazione, con numeri anche inferiori, per Chiara Appendino a Torino, dove il Movimento 5 Stelle non è neanche la prima lista in Consiglio, visto che “Città di città ”, la coalizione di centrosinistra guidata dal Pd, conquista 8 posti, uno in più del M5s.
I consiglieri eletti del Movimento possono comunque esultare per “essere passati dai 2 seggi della precedente amministrazione ai 7 attuali: ci assumeremo la responsabilità di governare, individuando come priorità il funzionamento di un ente penalizzato da una legge che non garantisce la rappresentanza diretta e da un quadro finanziario che non consente una certezza di risorse per erogare i servizi essenziali”, spiegano in una nota congiunta.
Gli altri tre posti vanno alla lista di centrodestra “Civica per il territorio”.
Situazione simile anche a Napoli per Luigi De Magistris, che con la sua lista indipendente ha conquistato 9 seggi: seguono il Pd con 7, Forza Italia con 5, e un posto a testa per M5s, Napoli Popolare e Noi Sud.
Anche qui il primo cittadino guadagna quattro posti rispetto alla precedente tornata (a scapito di centrosinistra e centrodestra), ma non potrà contare sulla maggioranza come accade in Comune.
MILANO E BOLOGNA: VINCE IL CENTROSINISTRA
Soltanto Beppe Sala a Milano e Virginio Merola a Bologna saranno “autosufficienti” in Consiglio metropolitano: qui infatti il Pd, associato in una lista di centrosinistra come in Lombardia o da solo come in Emilia, porta a casa rispettivamente 14 e 13 seggi, che valgono in entrambi i casi la maggioranza (ancora più larga a Bologna, dove i consiglieri sono solo 18 e non 24).
Un risultato che secondo Sinistra e Libertà “conferma la buona salute del centrosinistra milanese e la volontà di proseguire in questa esperienza”.
Le prossime città chiamate al voto saranno Cagliari il 23 ottobre, e Catania, Palermo e Messina a novembre.
Lorenzo Vendemiale
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile CUPERLO: “ACCORDO PRIMA, SE VOTO NO PER COERENZA MI DIMETTO DA DEPUTATO”
In cauda, venenum. Ovvero la finta apertura sulla legge elettorale: “Il Pd è pronto a fare una discussione seria. Ovviamente non possiamo farla durante la campagna referendaria, ma non c’è dubbio che possiamo iscrivere all’ordine del giorno della commissione la discussione nel merito fin dalle settimane successive al referendum. La delegazione è composta dal vicesegretario, i due capigruppo, il presidente e un’esponente della minoranza”.
Alle sei di pomeriggio la separazione tra Renzi e la minoranza, consumata sui giornali, viene, diciamo così, formalizzata in direzione.
Perchè promettere una commissione che discuta di legge elettorale dopo il voto sul referendum significa non “aprire” una trattativa vera.
In parecchi, in una pausa della direzione, ricordano che quando il premier la volle aprire davvero incontrò in fretta personalmente tutti i partiti, poi ci mise la fiducia. Così se parla dopo il referendum, quando cambierà il mondo.
E se vince il no è materia del prossimo governo. Insomma, il discorso di Renzi serve a lasciare politicamente le cose come stanno e — questo il vero obiettivo – a scaricare “mediaticamente” sulla sinistra l’immagine di chi “vuole far saltare tutto”.
Non a cercare l’unità , la mediazione, il punto d’incontro: “Per tenere unito il Pd — dice in uno dei passaggi più significativi — non possiamo bloccare il paese”.
Tutto il discorso è un attacco, duro e provocatorio, verso la minoranza, sin dalla prima frase: “Questa è la direzione numero 31 dal gennaio 2014, abbiamo scelto democrazia interna e non caminetti tra i big o presunti tali. Gli impegni con gli iscritti valgono più dei mal di pancia dei leader, noi parliamo qui”.
Poche battute, in giacca e cravatta — non scamiciato come al solito in direzione – il body language del premier è rigido, proprio di chi sente un ruolo messo in discussione.
Ogni argomento è buono per criticare quel pezzo del suo partito, nei cui confronti l’insofferenza è ormai antropologica.
Ecco quando parla di immigrazione “Avessimo dedicato ai risultati sull’immigrazione un decimo dei tweet che dedichiamo alla nostra discussione interna, questo partito sarebbe più orgoglioso e più ricco”.
Poi il passaggio sull’economia: “Ridicole le polemiche su stime Pil e governo”. E ancora: “Si è aperto un dibattito sui bonus, di cui qualcuno si vergogna e non ricorda i malus degli anni scorsi su legge finanziaria”.
L’elenco è lunghissimo: “Sulle banche sono pronto con un dibattito all’americana sulla storia degli ultimi venti anni e sugli interventi del governo per cambiare le cose sbagliate”, “le polemiche che si sentono se voli a bassa quota”.
In ultimo, la legge elettorale, “l’alibi” — così lo chiama — che vuole togliere: “Noi vogliamo smontare tutti gli alibi. Ci è stato detto “aprite sulla legge”, noi apriamo e loro “chiedete scusa per la fiducia”. Siamo alle allucinazioni”.
Dunque l’idea di una commissione, dopo il referendum. E, sempre per stanare la minoranza, aprire il confronto sulla proposta Fornaro per l’elezione dei senatori.
Insomma, una finta apertura che rivela disvela la profonda separazione tra i due Pd.
Il premier, ormai, pensa che legge elettorale e riforme non c’entrano nulla nel merito, ma che l’obiettivo di Bersani e D’Alema sia: o far vincere il no e riprendersi il partito; oppure se vince il sì preparare una scissione.
In un clima da resa dei conti dalle parti della minoranza si dà una lettura uguale e contraria: “Non ha mai voluto aprire una trattativa serie sulla legge elettorale sennò invece di fare chiacchiere l’avrebbe presentata in Parlamento. E lì aperto il confronto”. In direzione parlano in pochi.
Tra i due Pd l’incomunicabilità è totale
“Vedi Matteo, hai sbagliato a paralizzare l’Italia sul referendum. Se lo perdi ma anche se vinci, perchè camminerai sulle macerie del centrosinistra e andrai alla testa di un paese diviso”. Gianni Cuperlo scarica le conseguenze drammatiche anche su di sè. Alla fine della riunione la Direzione Pd ha approvato la relazione del segretario Matteo Renzi all’unanimità ma senza il voto degli esponenti della minoranza.
“Senza accordo sulla legge elettorale prima del voto, mi spingerai a votare no al referendum e il giorno dopo io presenterò le dimissioni da deputato”.
Parole pesanti, quelle di Cuperlo, che replicano alla “apertura” fatta dal segretario sulla legge elettorale.
Cuperlo apprezza la disponibilità ad adottare il testo per l’elezione diretta dei senatori ma il passo fatto sull’Italicum è ancora troppo piccolo. I tempi sono dirimenti. Insomma se “le parole non diventano azione” tutto precipita.
Da Cuperlo tono pacato come sempre ma senza infingimenti specie su due rimproveri. Di metodo contro Matteo Orfini, reo di arroganza non per il carattere ma per il suo ruolo: “Il presidente del partito nel giorno dell’assoluzione di Ignazio Marino avrebbe dovuto mostrare solidarietà e vicinanza, non scrivere su Twitter che era stato cacciato per incapacità ”. Questione di stile.
La seconda critica è per l’accusa imbracciata dal segretario verso la minoranza dell’alibi della legge elettorale. “Vedi Matteo, nessuno pretende l’abiura dell’Italicum ma il Pd deve avere una sua proposta e il cambio non è un alibi da spazzare ma una convinzione”
Quell’incrocio tra iper maggioritario e sistema monocamerale non può funzionare – avverte il leader della sinistra – serve maggiore cautela anche per le convinzioni, l’alibi è di chi cerca di farla franca”.
L’aria è pesante, gli interventi di Zampa e Boccia a cercare in tutti modi di evitare la frattura non allontanano la parola che tutti vorrebbero evitare e proteggere quel filo che non può esser spezzato che porta alla strada della scissione.
Perciò spetta al segretario “farsi carico di evitarlo e fare tutto il possibile per tenere unito il partito su una riforma che deve essere di tutti”.
Appelli di Gentiloni e Orlando leader dei giovani turchi che insiste nella correzione dell’Italicum ma anche sul Sì, perchè se vince il No “la vittoria se la intesteranno certamente i populisti”.
Il contentino del “comitato di studio” con la presenza della minoranza, non piace a Roberto Speranza per cui è una “proposta insufficiente” ma che al contrario di Cuperlo chiede che “il giorno dopo il voto, il partito resti unito”.
Avvertenza a margine: “Fuori da qui, tra il nostro popolo sono in tanti già convinti per il No e non possono diventare i nostri nemici”.
La fiducia è pochissima e il leader della corrente bersaniana ricorda a Renzi lo strappo dell’Italicum con la fiducia, una ferita mai rimarginata. Serve un gesto altrettanto forte per una marcia indietro ma questo pezzo della minoranza stavolta non va in trincea e prova a ad aspettare l’ultimo momento utile per sancire la rottura del No.
“Cuperlo alla guerra con l’ultimatum, Speranza è più tattico”, la lettura di un renziano che scommette sull’apertura del segretario che può portare a correzioni importanti della legge elettorale anche se non prima del 4 dicembre.
L’ombra della rottura resta per tutta la riunione e tra tattica e sostanza la nebbia non si dirada. “Recuperare il patrimonio della fiducia”, chiede il ministro Martina.
Facile a dirsi.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile INTERVISTA ALL’EX CONSIGLIERE REGIONALE LIGURE CHE HA RESTITUITO 70.000 EURO DEI RIMBORSI CHE AVREBBE POTUTO SPENDERE… MENTRE I PROTAGONISTI DELLO SCANDALO SONO STATI RICONFERMATI DAGLI ELETTORI
“Ricordatevi questo nome. Andrea Stimamiglio, l’uomo che rinunciò ai rimborsi”. Così, in piena bufera
da “rimborsopoli”, titolavano gli articoli sulla scelta in controtendenza di un medico ligure entrato in consiglio regionale proprio per sostituirne il vicepresidente, arrestato per le “spese pazze”.
In quei giorni convulsi veniva dipinto come un eroe perchè aveva annunciato che non avrebbe usato un euro ma li avrebbe restituiti tutti, al centesimo, e con anche gli interessi.
Lo chiamiamo per sapere come è andata a finire, visto che è anche lui è un singolare figlio di quello scandalo che — assoluzione dopo assoluzione — sta virando verso l’oblio.
Scoprendo che poi i soldi li ha restituiti davvero, ma questo non gli è valso la rielezione: alle regionali 2015 si candiderà ma prenderà solo 2.200 voti, segno a quell’altezza lo scandalo che oggi regala tante assoluzioni aveva forse perso presa perfino nei cittadini che tanto s’erano indignati.
La sua “grande rinuncia” non sembra aver lasciato segni. Lei non è stato rieletto e pare non aver contagiato altri consiglieri…
No in effetti no. L’anno dopo mi sono ripresentato con la lista di Pastorino ma non ho avuto molti voti, circa 2.200. Preferenze, voti personali.
Alla fine sembra che i cittadini si indignano tanto ma quando sono chiamati a scegliere rimuovono
A onor del vero penso che il fatto che uno restituisca non sia la condizione sufficiente. Lo dico anche contro il mio interesse ma restituire non vuol dire essere dei buoni amministratori o politici. Certo lo avevo fatto in un momento in cui effettivamente il bravo o non bravo veniva stabilito in base a quello che avevi comprato con i soldi dei rimborsi.
Quanto tempo ha passato poi in Consiglio?
Con un po’ di rammarico sono stato solo un anno. Perchè faccio il medico di base e avrei tanto voluto portare avanti qualcosa soprattutto in sanità e qualche piccola cosa ero anche riuscito a farla per un miglioramento delle condizioni della guardia medica, soprattutto delle donne in gravidanza. Ma alla fine l’esperienza si è conclusa portando a casa molto meno di quel che avrei voluto.
Mettiamo nero su bianco le cifre restituite
In 12 mesi ho riaccreditato circa 70mila euro, con gli interessi.
Insisto, non è curioso che le scelte dei cittadini abbiano premiato chi andava in Tribunale a giustificare gli scontrini e non spendeva neppure un euro
Certo, anche io sono rimasto stupito nel veder rieletti alcuni protagonisti dello scandalo. Ma io ho pensato solo di dare un segnale. Anche perchè a mio modo di vedere lo stipendio del consigliere regionale è più che dignitoso e se c’è da fare qualche spesa per la propria attività politica si può anche sostenere da soli, senza pesare ancora sul contribuente.
Resta un fatto: lei, medico di base, è la prova vivente che si può fare il consigliere senza rimborsi
Sì, è innegabile che sia possibile. Poi faccio il medico di base però in quell’anno mi sono fatto sostituire per mezza giornata da una collega e la sera arrivavo in studio giusto per vedere i casi più urgenti. Quindi è stato abbastanza faticoso.
L’assunto di base resta: quei 70mila euro che le hanno dato da spendere per un anno si potevano evitare. E siccome in 5 anni sono 350mila euro moltiplicati per tutti i consiglieri d’Italia
Si, ma io ero anche favorito perchè ero di Genova e se fossi stato di Imperia avrei dovuto sostenere le spese di trasferimento…
Ma per 70mila euro di spese di trasferimento devi abitare a New York. Possiamo dire che quei soldi sono destinati a spese superflue?
Sì. Diciamo di sì. Questo si può dire, anzi l’ho dimostrato nei fatti.
Si candiderà più?
No, l’esperienza politica è finita. Sono tornato a fare il medico di base.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile LA CULTURA SESSISTA DEL “MODELLO AMERICANO” SPIEGA LE SIMPATIE DI TANTI UOMINI PER TRUMP
«Finchè non succede a te… Mi dici che col tempo va meglio, che mi tirerò su, ma dimmi che diavolo ne sai?»: i versi della ballata di Lady Gaga
«Til it happens to you» lamentano l’epidemia di molestie sessuali e stupri che dilaga nei campus americani.
Una rilevazione dell’Association of American Universities stima che una studentessa su cinque abbia subito nei quattro anni del college abusi, dalla violenza sessuale a contatti non voluti, pressioni moleste on e off line, una durezza che le ragazze non immaginavano lasciando le famiglie per l’università .
Quando il web ha rilanciato il dato, semplificando in «uno stupro ogni cinque donne» molte comunità si sono rese conto della tragedia.
Se Lady Gaga intona quei versi rabbiosi è perchè ben conosce quel dolore, abusi e pacche sulle spalle, «dai poi passa», magari a fin di bene, ma che ignorano la pena: Lady Gaga adolescente fu violentata, solo da adulta e star ha saputo parlarne in pubblico
I dati di cui disponiamo, infatti, non comprendono i silenzi, le tante giovani che preferiscono piangere in solitudine, piuttosto che affrontare la vergogna di un interrogatorio dalla polizia, le visite mediche, i confronti al processo, i contro interrogatori umilianti della difesa, pronta a mettere in piazza la vita sessuale e i particolari della vicenda.
L’alcol, il «binge», ubriachezza che rende fradici, incapaci di intendere e volere tanti studenti, e gli stupefacenti soprattutto nei primi due anni, agiscono da volano, cancellando i freni morali dei maschi e indebolendo le difese delle ragazze.
Spesso, in certi campus del Sud soprattutto, la cultura aggressiva dello sport, le squadre di football e atletica con il culto del «jockey», lo sportivo scarso agli esami ma vittorioso in campo, chiude il cerchio, scaricando ormoni, testosterone e desiderio in stupro, anzichè amore.
Le amministrazioni hanno le loro responsabilità , il caso di certi campus Ivy League, le università d’èlite, conferma che la polizia a pattugliare la sede nei giorni del week end, ha un immediato effetto deterrente sui maschi e offre alle ragazze un modo per chiedere aiuto subito, non appena si sentano in difficoltà .
Alla Columbia University nel 2012, la studentessa Emma Sulkowicz ha accusato un compagno di averla stuprata, e, quando un giurì dell’ateneo ha deciso per l’assoluzione, ha lanciato una protesta insolita.
Definita dai critici d’arte «Performance da materasso, il peso da portare», la saga ha visto Emma trascinare un materasso lungo i corridoi e i viali dell’università ad oltranza, chiedendo la radiazione o la condanna dell’imputato.
Pian piano maturata in tesi di laurea curata dal docente Jon Kessler, la performance ha scatenato voci pro e contro, finchè, a sua volta il ragazzo, caduta ogni accusa contro di lui e con la Sulkowicz a insistere nella denuncia, ha querelato il presidente Lee Bolliger, chiedendo che anche i suoi diritti venissero rispettati, in nome del garantismo.
Le famiglie degli imputati spesso ne citano il caso, impugnando la stessa difesa, le ragazze ubriache si lasciano andare, salvo poi, il giorno dopo, accusare i maschi.
Anche sotto le armi, tra i militari, la coesistenza forzata uomini-donne e la nuova coscienza diffusa portano ad accuse e contro accuse.
Ma, come Lady Gaga ha rappresentato con delicata sensibilità al di là delle statistiche, una su cinque o una su quattro che sia, milioni di giovani donne, e le loro famiglie, tengono il fiato sospeso in anni che dovrebbero essere invece di studio e libertà . Mentre il candidato repubblicano Donald Trump si vanta di «afferrare le donne per i genitali», il tema – se davvero Hillary Clinton, prima donna arrivasse alla Casa Bianca – va affrontato con urgenza assoluta, perchè non si dica più «finchè non succede a te…».
Gianni Riotta
(da “la Stampa”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile IL REPUBBLICANO RYAN: “NON DIFENDERO’ PIU’ TRUMP, CERCHIAMO DI SALVARE I CANDIDATI REPUBBLICANI AL CONGRESSO”
Secondo un nuovo sondaggio Nbc/Wsj, realizzato dopo la diffusione del video con le frasi sessiste di
Donald Trump ma prima del secondo faccia a faccia televisivo tra i candidati alla successione di Obama alla Casa Bianca, Hillary Clinton accresce considerevolmente il vantaggio sul rivale.
La rilevazione, condotta tra sabato e domenica, evidenzia come la candidata democratica goda del 46% delle preferenze, mentre Trump sarebbe al 35%.
Il sondaggio è stato condotto su base nazionale tra i probabili elettori e rispetto alla corsa ancora a quattro, ovvero con il candidato libertario Gary Johnson che registra il 9% dei consensi e la candidata dei Verdi Jill Stein cui va il 2%.
Il distacco di Clinton da Trump risulta poi ancora più ampio quando nel sondaggio si prospetta soltanto la sfida a due, in cui la ex first lady risulta in testa con il 52% mentre Donald Trump è al 38%, con 14 punti percentuali di distanza.
In attesa di capire attraverso la demoscopia quanto, al di là dei commenti degli analisti, il nuovo dibattito abbia inciso sulle percentuali del consenso, una nuova tegola cade sul capo di Trump.
Lo speaker repubblicano della Camera, Paul Ryan, non ritira ufficialmente il suo endorsement al candidato del suo partito. Semplicemente, smetterà di difenderlo.
E’ quanto emerge – secondo alcuni media come Politico e The Hill – dalla riunione a porte chiuse che Ryan ha avuto in mattinata con i deputati del Grand Old Party. Più tardi, l’ufficio di Ryan precisa che le parole dello speaker non costituiscono “nè un ritiro dell’endorsement a Trump nè l’ammissione che Clinton vincerà “.
Nonostante la precisazione, Trump reagisce con un tweet al vetriolo: “Paul Ryan dovrebbe dedicare più tempo a equilibrare il bilancio, all’occupazione e all’immigrazione illegale, non sprecarlo combattendo il candidato repubblicano”
Ryan, che nei giorni scorsi si era detto “disgustato” dalle frasi volgari e sessiste pronunciate da Trump in un video riemerso dal passato, avrebbe sottolineato comunque la necessità di fare tutto il necessario per la vittoria del candidato e la conquista della Casa Bianca da parte dei repubblicani.
Ma ha aggiunto che da questo momento lui avrebbe concentrato i suoi sforzi sull’obiettivo di mantenere la maggioranza dei repubblicani al Congresso.
Perchè, ed è comune preoccupazione nel Ogp, le ripetute cadute di Trump rischiano di far perdere al partito anche le elezioni e il controllo della Camera.
Uno dei presenti alla riunione ha spiegato che Ryan non ha manifestato l’intenzione di ritirare il suo sostegno a Trump, ma di non volerlo più difendere “per i prossimi 30 giorni”, preferendo fare campagna per i candidati del Ogp al Congresso e “dedicare ogni sua energia ad assicurarsi che a Hillary Clinton non sia consegnato un assegno in bianco attraverso un Congresso controllato dai democratici”. Un altro testimone riporta che lo speaker avrebbe consigliato ai presenti di “operare nei vostri distretti nel modo migliore per il vostro interesse”.
L’8 novembre, infatti, oltre all’elezione del nuovo presidente degli Usa, si cambiano tutti i 435 deputati della Camera dei Rappresentanti (al momento sono 247 repubblicani e 188 democratici) e 34 senatori (24 sono repubblicani e 10 democratici) su 100 (54 sono repubblicani, 44 democratici e due indipendenti che hanno sempre votato con l’Ogp), oltre a 12 governatori ( 7 repubblicani e 5 democratici) su 50.
(da “la Repubblica“)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile L’ETIOPIA RITROVA IL MARE, PECHINO GUADAGNA UNA BASE… 760 KM DI BINARI COSTRUITI E FINANZIATI DAI CINESI
Da questa settimana l’Africa orientale ha la sua prima linea ferroviaria completamente elettrificata. Collega Addis Abeba a Gibuti, è lunga 760 chilometri (656 in territorio etiopico) ed è stata costruita in tre anni e mezzo da un consorzio cinese a un costo di 4 miliardi di dollari circa, per il 70% finanziati da una banca di Pechino
Per l’Etiopia, che non ha sbocchi sul mare, la grande opera è un balzo nel futuro, riduce i tempi di percorrenza tra la sua capitale e il porto di Gibuti sul Mar Rosso dai due o tre giorni che fino a ora si impiegavano su una vecchia strada a sole 12 ore.
I treni percorreranno i 760 chilometri di tratta a una velocità massima di 120 km orari.
C’era un senso di avvenimento storico alla nuova stazione di Addis Abeba per la partenza del primo convoglio.
La ferrovia in Africa è arrivata con gli imperi coloniali, che l’hanno usata per i loro scopi commerciali e di controllo militare del territorio.
La nuova linea elettrificata corre accanto al vecchio collegamento costruito dai francesi nel 1917 quando Gibuti era loro e poi spentasi per mancanza di ammodernamento. «Aspettavamo da cent’anni», ha detto il presidente della Repubblica di Gibuti
Nonostante stia registrando una buona crescita, il 10,2% nel 2015 anche se quest’anno sconterà l’impatto di una gravissima siccità , l’Etiopia non ce l’avrebbe mai fatta da sola a costruire l’infrastruttura.
Per questo è stato ben accolto l’intervento della Cina, il nuovo Impero che sta investendo centinaia di miliardi in Africa per aprirsi nuovi mercati e accrescere il suo peso geopolitico
La ferrovia Addis Abeba Gibuti è un miracolo cinese. Le locomotive arrivano da Pechino, i 300 vagoni sono stati assemblati in Etiopia con componenti portati dalla Cina. Ingegneri, capistazione, capitreno e responsabili dei servizi di bordo sono cinesi in divisa rossa e guanti bianchi
Al momento le Ethiopian Railways somigliano a una succursale delle ferrovie cinesi, fino alle uniformi del personale, dello stesso taglio di quelle che si vedono alle stazioni di Pechino e Shanghai.
Per i prossimi cinque anni la gestione è stata affidata a un operatore cinese: il personale etiopico è affiancato per fare sperienza
La Cina continua a penetrare nell’economia e nel cuore dei governi africani, senza preoccuparsi troppo dei conflitti in corso e dei diritti umani: in Etiopia in queste settimane i gruppi etnici oromo e amhara hanno lanciato proteste contro il potere centrale in mano ai tigrini, la polizia ha reagito sparando e facendo una cinquantina di morti
La nuova ferrovia fa parte del grande piano geopolitico di Pechino in Africa: il governo di Gibuti ha concesso ai cinesi lo spazio per una base navale proprio di fronte a quella americana
La corsa non finisce qui: Pechino ha firmato i contratti per completare una linea ad alta velocità tra Mombasa in Kenya e Malaba, al confine con l’Uganda.
E anche questo era un vecchio percorso risalente all’Impero, quello britannico, quando le locomotive andavano a carbone.
Guido Santevecchi
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile IL CONSIGLIERE REGIONALE AVEVA SCRITTO SU FB: “PAGHERETE PER TUTTO QUESTO”… IL PRESIDENTE DELL’ORDINE: “BASTA MINACCE, ALIMENTARE ODIO PROVOCHERA’ QUALCOSA DI GRAVE”
Un esposto in Procura da parte dell’Ordine dei giornalisti per valutare se esista la possibilità di
procedere contro un esponente del M5S – il consigliere regionale del Lazio Davide Barillari – per istigazione all’odio e alla violenza.
Barillari su Facebook aveva scritto «i pennivendoli che nascondono la verità pagheranno per tutto questo».
«Pagare in termini di copie non vendute», ha poi cercato di rimediare Barillari.
Ma esistono giornalisti e inviati minacciati, in particolare Federica Angeli di Repubblica, che vive proprio a Ostia (lo stesso territorio di Barillari), così il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino ha ritenuto di intervenire e fatto un esposto in Procura: «Basta minacce, alimentare clima d’odio provocherà qualcosa di grave».
Barillari nel post aveva scritto che “tv e giornali di regime sono impegnati a spalare fango sulla Muraro. I pennivendoli che nascondono la verità pagheranno per tutto questo».
Poi in un altro post ha provato a spiegare: «io non ho minacciato nessuno ma ho solamente voluto evidenziare come la stampa che da mesi attacca la Muraro spende ben poche parole per spiegare l’emergenza rifiuti nel Lazio, un comportamento che certe testate pagheranno sicuramente con un’ulteriore diminuzione delle copie vendute, così come emerge dall’ultimo rapporto sulla vendita della stampa quotidiana”
Lasciamo a voi il giudizio su questa penosa giustificazione.
Il problema è che ormai sui social scorre e viene propagandato odio a piene mani, nell’indifferenza delle istituzioni. E’ ora che anche certi politici (e non solo) che lucrano per fini elettorati sull’ignoranza di troppi vengano chiamati a risponderne.
Non devono più esistere isole di impunità .
Possibilmente prima che ci scappi il morto.
(da agenzie)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile L’ASSOLUZIONE IN TRIBUNALE NON E’ DIMOSTRAZIONE DI INNOCENZA IN TERMINI DI RESPONSABILITA’ POLITICA ED ETICA… I CASI IN GRAN BRETAGNA E SVEZIA HANNO GENERATO REAZIONI BEN DIVERSE
Innanzitutto corre l’obbligo di smentire una volta per tutte la leggenda metropolitana: non erano mutande, bensì pantaloncini verde-padania quelli acquistati e finiti per errore nella rendicontazione di spese dell’ex-Presidente piemontese Cota, a sua insaputa: “Ero a Boston a un corso intensivo di inglese, ho offerto un pranzo al professore che mi aveva portato a visitare il Mit e siccome il ristorante era in un centro commerciale, nelle spese ci sono finiti dentro anche i pantaloncini. Io consegnavo gli scontrini al gruppo consiliare ai miei collaboratori chiedendo loro di fare una cernita, quei 40 dollari non sono stati spuntati per sbaglio, senza che io ne sapessi nulla”.
Sbagli reiterati e frequenti, quelli dei consiglieri.
All’esplodere dello scandalo, per evitare guai peggiori, lo stesso Cota oltre allo scontrino dei pantaloncini ha rimborsato alla Regione altri 32mila euro di acquisti aventi — si può ipotizzare — equivoca natura.
Adesso che fioccano assoluzioni per molti — ma non tutti — tra le centinaia di consiglieri regionali protagonisti di “rimborsopoli”, incluso lo stesso Cota, è forse il momento delle pubbliche scuse? No, affatto.
Anzi, il contraccolpo giudiziario delle assoluzioni e le voci bipartisan che si vanno levando a reclamare un lavacro garantista per l’onore infangato dei consiglieri regionali dimostrano, ancor più della vicenda del discutibile impiego privato di fondi pubblici, la bancarotta morale di una cospicua componente della classe politica italiana.
Che oggi, per iniziativa di un deputato leghista, propone una legge “per imporre pubbliche scuse da parte dei pubblici ministeri”, così da “restituire piena dignità , anche a livello mediatico, a chi per anni è stato ingiustamente messo alla gogna mediatica”; e per bocca di un ex presidente della Camera plaude alla sconfitta della “’società giudiziaria’, una società di mezzo tra quella civile e politica, che comprende cittadini comuni, politici, mezzi di comunicazione e settori della magistratura. E che si basa sull’idea di fondo che la magistratura sia il grande tutore della vita pubblica”.
Ma la vicenda di rimborsopoli, al pari di troppe altre storie di malagestione di risorse pubbliche, non esaurisce le proprie implicazioni nella sfera — oggettivamente slargata — della tentata repressione penale.
Paradossalmente, proprio la politica corrotta finisce per risultare alla lunga la prima beneficiaria di questa delega abnorme di una funzione di “controllo della virtù” dei rappresentanti eletti, che per forza d’inerzia in Italia è stata attribuita a una magistratura non sempre consapevole dei propri limiti, nel vuoto pneumatico di partiti latitanti e nel silenzio di una società civile che — per citare il don Raffaè di De Andrè — di solito “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità ”.
Un potere solitario di controllo e (ipotetica) sanzione che ha generato l’illusione ottica di cui oggi scontiamo le ricadute: l’assoluzione in tribunale (o la prescrizione) come dimostrazione di “innocenza” anche in termini di responsabilità politica ed etica.
Nonostante le statistiche giudiziarie mostrino al di là di ogni ragionevole dubbio come la combinazione perversa di norme inadeguate o ambigue e di abili strategie difensive di imputati eccellenti abbia generato un’impunità di massa dei colletti bianchi. Immunità che nel caso di rimborsopoli è stata favorita proprio dalla natura di prassi diffusa e consolidata nel tempo dell’impiego opinabile — per usare un eufemismo — di fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari.
Le pessime abitudini dei politici, quando sono generalizzate, cancellano l’elemento soggettivo del reato di peculato, il dolo, ossia l’intenzione consapevole di appropriarsi di risorse pubbliche.
La strategia autoassolutoria del “così fan tutti” di craxiana memoria, che si rivelò fallimentare quando in ballo c’erano mazzette, nel caso degli scontrini sta risultando giudiziariamente vincente.
Oltre alla biancheria di Cota, le cronache documentano un impiego fantasioso dei fondi consiliari per banchetti di nozze, regali di Natale, fiori, pneumatici, passeggini per bambini, profumi, gioielli, acquisti di pesce, lavatrici, viaggi.
Condotte che in molti casi non sono associabili ad alcuna fattispecie penale.
Ma superano per questo il vaglio degli standard accettabili di condotta per un amministratore pubblico?
Sono condotte coerenti con i principi elementari di etica pubblica richiesti a chi si visto affidare la cura dei beni collettivi?
Per quella classe politica che con poche eccezioni ha fatto quadrato attorno agli inquisiti e oggi stappa champagne per le assoluzioni, evidentemente sì. Per una quota non irrilevante della società civile, che all’epoca insorse e oggi assiste perplessa alla glorificazione dei prosciolti, evidentemente no.
Le regole che dettano l’insieme di condotte politicamente ammissibili non coincidono, nè possono essere artificiosamente sovrapposte a quelle del codice penale.
Non è così in Europa. Almeno, in quei paesi europei che svettano nelle classifiche sulla trasparenza.
Si prendano due casi-fotocopia di rimborsopoli.
Nel 2009 in Gran Bretagna l’accesso agli atti garantito dal Freedom of information act e una fonte confidenziale interna alla House of Commons permisero al Daily Telegraph di lanciare una campagna sulle spese impropriamente risarcite ai deputati. Emersero irregolarità tali da indurre una veemente reazione popolare, l’istituzione di un’autorità parlamentare indipendente per sanzionare gli abusi, il rafforzamento dei meccanismi di rendicontazione pubblica — tutte le spese parlamentari, persino quelle di pochi spiccioli, sono oggi consultabili online.
Pochissimi i casi di rilevanza penale, ma nella successiva tornata elettorale lo spauracchio dei collegi uninominali indusse partiti ed elettori a un drastico ricambio dei politici implicati nella vicenda.
In Svezia nel 1995 lo “scandalo del Toblerone” affossò le aspirazioni alla leadership del partito socialdemocratico di Mona Sahlin, che aveva indebitamente caricato sulla carta di credito di servizio una serie di piccole spese voluttuarie effettate a titolo personale, tra cui quella della nota barretta di cioccolato.
Le dimissioni obbligate dall’incarico ministeriale e una quasi decennale eclissi politica furono il prezzo che il suo partito le fece pagare per condotte penalmente insignificanti, ma che nel giudizio dei colleghi avevano infangato la loro reputazione collettiva.
In nessun caso si parlò di “gogna mediatica”, perchè tale non sono il pubblico scrutinio e la riprovazione per le modalità disdicevoli — in base a criteri sui quali l’opinione pubblica è sovrana — con cui viene esercitato il potere delegato agli amministratori politici.
Di fronte all’autocelebrazione di assoluzioni spesso motivate dalla natura sistemica degli abusi la domanda da porsi è: ma qual è la concezione che questa classe politica italiana ha della propria reputazione?
Persino peggiore di quella, già drammaticamente bassa, dell’opinione pubblica, verrebbe da pensare.
Alberto Vannucci
docente di Scienza politica
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile LA MOSTRA “NOME IN CODICE CAESAR” AL MAXXI DI ROMA DOCUMENTA I CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ DEL DUO ASSAD-PUTIN
Sono stati bravi i responsabili del museo Maxxi di Roma a presentare in questi giorni una mostra,
«Nome in codice: Caesar», che documenta i crimini contro l’umanità compiuti nelle carceri siriane del nostro alleato Assad, sostenuto dal nostro alleato Putin.
Però, una volta viste quelle immagini orrende, scordatevele: lo impongono gli imperativi del realismo politico che consigliano l’omertà sulle nefandezze dei nostri alleati contro il nemico principale, l’Isis.
Non pensate troppo alla guerra di sterminio che l’alleato Assad ha scatenato contro il suo popolo, uccidendo circa 200 mila siriani, civili, donne, bambini, non affiliati allo Stato islamico.
Fate come i Caschi blu dell’Onu quando c’era la mattanza a Srebrenica o quando un mare di sangue macchiava il Ruanda: giratevi dall’altra parte per non guardare, altrimenti si attenta alla saldezza della lotta comune contro il nemico principale.
Non sottolineate troppo, per dire, che il piccolo Aylan era in fuga con la sua famiglia curda sia dai tagliagole Isis che dagli aguzzini del nostro alleato Assad.
Non fate caso ai soliti portatori di cattive notizie che vogliono ricordare le terrificanti prigioni sotterranee di Assad sotto i monumenti di Palmira.
Ora finalmente liberata: Palmira, per fortuna. Ma non i siriani torturati, per sfortuna.
Il realismo politico, unito alla paura (il nemico principale arriva sin qui, la tirannia di Assad si ferma lì e riguarda i siriani, non noi), comporta infatti uno sgradevole ma inevitabile effetto collaterale: la cancellazione di ogni interesse per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali ovunque nel mondo.
Fino a poco tempo fa si parlava dell’universalità di quei diritti, oggi invece è meglio lasciar perdere, e possiamo eccepire sulla democraticità dell’Egitto solo se a essere colpito è un nostro connazionale torturato a morte, sulla cui sorte non sapremo mai la verità .
Del resto, non è che quando sei in guerra puoi metterti a sottilizzare sui tuoi alleati, non è che nella lotta contro Hitler si potesse fare attenzione ai Gulag di Stalin.
Solo che a noi piace mettere in pace la coscienza e declamare col nodo in gola «mai più Auschwitz», «mai più Srebrenica», «mai più Ruanda».
Ha scritto Lorenzo Cremonesi sul Corriere che ad Aleppo «vengono metodicamente attaccati» dal nostro alleato «ospedali, cliniche di fortuna, scuole, strutture comunitarie, abitazioni civili, condotte idriche, depositi di cibo».
«Mai più Aleppo»? Non sia mai.
Pierluigi Battista
(da “il Corriere della Sera”)
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