Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
IL RINGRAZIAMENTO: “SIETE I MIEI ANGELI”… ORGOGLIO ITALIANO
Davanti a mamma e figlia di 3 anni in cerca di un riparo non ci hanno pensato due volte: le hanno accompagnate in un albergo e hanno pagato loro il soggiorno al caldo, offrendo anche vestiti ed un pasto.
E’ quanto accaduto lo scorso 29 dicembre a Roma, quando due carabinieri della stazione San Pietro, gli appuntati Andrea Castiello e Salvatore Fontana, hanno risposto alla chiamata della madre superiora delle “Suore della Redenzione Villa Mater Admirabilis” di via Pineta Sacchetti, nel quartiere Trionfale, che chiedeva aiuto per sistemare mamma e figlia congolesi.
I due militari hanno così deciso di ospitare a loro spese in un albergo vicino le due bisognose, fornendo loro anche vestiti puliti, un pasto e latte e biscotti per la colazione del giorno dopo.
“Siete i miei angeli”, ha detto Mireille, 33 anni del Congo in attesa di asilo politico, che poi ha abbracciato i due carabinieri per una foto ricordo che probabilmente porterà per sempre nel cuore.
(da agenzie)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
ASSIEME AI POLIZIOTTI DI ROMA DOPO L’ALLERTA TERRORISMO: “MA ORA I CITTADINI CI AIUTANO”
Lampeggianti nella notte, accelerazioni e frenate, adrenalina. La notte delle Volanti è tutta qui.
Attaccati ad una radio che recita una litania continua di furti in casa, liti, schiamazzi, gente che sente rumori nelle scale, quello che è stato minacciato con un coltello dopo un tamponamento al semaforo…
E allora su e giù dall’auto, una mano sul calcio della pistola, un torcione nell’altra, a guardare in faccia gente sospetta, verificare documenti, controllare targhe.
E’ la notte di Roma. Il IV Nucleo Volanti fa base in via Guido Reni, al Flaminio.
Da qui attorno alle 23 escono una trentina di volanti demandate al controllo del territorio, che si affiancano alla quarantina di auto dei commissariati e a tutte quelle dei carabinieri.
Saranno più di un centinaio le pattuglie notturne di Roma. Sotto le Festività , poi, i controlli s’intensificano. Mancava il terrorismo a complicare i sonni di chi deve garantire la sicurezza nella Capitale.
Eppure, a sentirli, a vederli, a stare con loro, dagli equipaggi delle Volanti viene un segnale di speranza: mai come in questi ultimi tempi i cittadini chiamano, avvertono, confidano in loro.
L’episodio di Sesto San Giovanni, con quella pattuglia così ordinaria che fa il colpaccio, un controllo banale di documenti che diventa conflitto a fuoco, e il terrorista Anis Amri freddato a terra, sembra il frutto di un calcolo probabilistico esatto: se controlli sul serio il territorio, qualcosa ti resterà .
Sono le 2.30 di notte, vigilia di Capodanno.
La radio di Zara 58 gracchia una segnalazione importante: «Un tassista ha fermato un’auto di passaggio dei carabinieri. Un tizio in un bar di piazza Venezia, grassoccio e capelli brizzolati, s’è aperto troppo il giaccone giallo e sotto aveva una pistola».
Dice molte cose, questo messaggio. Che la gente, come il tassista del turno di notte, di questi tempi ha paura e si guarda attorno. Che non gira più la testa da un’altra parte. Quel cittadino sa che può essere importante anche la sua piccola segnalazione. E s’affretta a condividerla.
Scatta così la catena di comando. I carabinieri avvertono i loro equipaggi, la polizia i propri. Zara 58 accende il lampeggiante e corre nella notte.
Nel giro di 2-3 minuti piazza Venezia pullula di autopattuglie. Tra loro non hanno bisogno di parlarsi. Basta un cenno del capo. Così Zara 58 se ne va lenta per via del Plebiscito, e poi per via del Corso, su fino a piazza Barberini, e poi verso la Stazione Termini. Altri girano in via dei Fori, o verso l’Anagrafe, o su per Monti. E’ un pattugliamento attento e nervoso. Lungo la strada s’avvertono anche i militari nelle piazze del centro storico. Gente in strada ce n’è davvero poca, fa un freddo cane, sono ormai le 3.
Di «giaccone giallo» non c’è traccia. Forse è salito su un autobus, forse è andato a casa sulla sua auto. Chissà chi era. Questa volta la segnalazione del tassista è arrivata tardi. Ma una settimana fa, con un brandello di descrizione, hanno beccato due rapinatori che avevano appena aggredito un passeggero alla stazione e cercavano di nascondersi quattro strade più in là .
Il meccanismo delle Volanti è questo, immutabile negli anni: uno più giovane al volante, uno più esperto di capopattuglia. Girano e girano e girano dalle 23 alle 5 del mattino. Centocinquanta, duecento chilometri a notte.
Uno zigzag forsennato dal centro alla periferia più estrema e ritorno. Continuamente.
«Uno stress non da poco», dice Claudio, poliziotto di lungo corso, otto anni di servizio notturno e prima vent’anni alla Stradale.
«Non ti capisce nessuno, ma vuoi mettere la soddisfazione di arrivare nel mezzo di una lite di famiglia e impedire che si alzino le mani? Oppure beccare dei rapinatori che hanno appena terrorizzato una persona perbene?».
Certo, c’è il ginocchio scassato dallo speronamento di un ladro d’auto che non voleva proprio fermarsi, ma che importa. Lo ascolta avido Francesco, il giovane, solo 3 anni in polizia, ma già sulla buona strada del suo capopattuglia. E’ il momento di qualche «amarcord», ma appena un’ora prima s’era lanciato a tutta birra sul Raccordo anulare per correre verso un grande centro commerciale dove un vigilante era alle prese con una banda di 5 ladri e chiedeva aiuto.
Volanti. Da sempre alle prese con il mondo noir della Capitale. Per fortuna è arrivata in aiuto la tecnologia.
Il computer di bordo riceve una mail: la foto di un ricercato, un evaso, che forse stanotte s’aggira per la città . La telecamera frontale intanto inquadra la targa di un’auto: immediata arriva la risposta della banca dati, se il veicolo è rubato, se l’assicurazione è in regola. E si va avanti.
Ma cambia qualcosa, ora che c’è la paura di una ritorsione degli jihadisti contro chi veste una divisa?
Claudio ci pensa un attimo: «Romani, musulmani, romeni… Chi sta sulla Volante non si deve fidare mai di nessuno».
Francesco Grignetti
(da “La Stampa“)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
L’ASSESSORE ALLE PARTECIPATE INVIATO DA CASALEGGIO E’ CRITICO
È arrivato dal nord Italia inviato dalla Casaleggio Associati per dare una mano a Virginia Raggi – i maligni dicono “commissariare” – per gestire le enormi difficoltà di gestione di Roma Capitale.
Il bilancio dei primi mesi che fa Massimo Colomban, imprenditore trevigiano oggi assessore alle Partecipate, sulle pagine di Repubblica non è positivo.
“È innegabile che i primi mesi della Raggi sono stati poco efficienti e non molto produttivi. È la testimonianza che non basta essere onesti per governare, servono esperienze e soprattutto capacità manageriali che il M5S dovrà creare al proprio interno o reperire velocemente all’esterno. Detto questo, la gestione di Roma è di una complessità enorme. E a me non va di entrare in polemiche strumentali verso un Movimento fatto di giovani, sicuramente onesti, che devono però affrontare il passaggio da protesta e contestazione, al più complesso e gravoso compito della gestione. Purtroppo non sarà facile nè per loro, nè per i professionisti che li stanno affiancando, come il sottoscritto, stante il ginepraio burocratico e dissesto finanziario trovato”.
L’eredità ricevuta è pesantissima, spiega l’assessore, Atac e Ama sono “tecnicamente fallite”, per cui il Governo “deve farsi carico di salvarle”.
“Non pensavo la situazione fosse così deteriorata. Le partecipate dal Campidoglio sono società che, se agissero nel privato, sarebbero già fallite da tempo; ma siccome svolgono servizi pubblici essenziali come i trasporti e la nettezza urbana, non possono fermarsi o fallire. Società che hanno privilegiato la spesa corrente in personale, salari e stipendi, anzichè investire in strutture e macchine, che ora sono per il 30-50% da rottamare. Per farlo, servono ingenti risorse che, sommate ai debiti e agli indebitamenti bancari, portano il buco, le necessità economiche di cassa, fra i 2 ed i 3 miliardi”.
Serve più collaborazione fra Campidoglio e Palazzo Chigi.
“Un’idea potrebbe essere tirare una linea, azzerare il pregresso come si fa in tutte le società che si vogliono rilanciare, aggiungendo ai 12 miliardi del debito storico di Roma questi 3 miliardi accumulati dal 2008 al 2016, che potrebbero essere restituiti nei prossimi decenni con un tasso di interesse pari al tasso dei titoli di stato. Altrimenti il nostro sforzo sarà inutile”.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
IL VIMINALE: BASTA CON GLI ORDINI DI ESPULSIONE CHE RESTANO SULLA CARTA… MA SI FA FINTA CHE SI POSSANO RIMPATRIARE FACILMENTE: IN REALTA’ SOLO CON 4 PAESI ABBIAMO ACCORDI DI RIAMMISSIONE… NEL 2016 SOLO 5.000 SU 38.000 (11.000 SI SONO ALLONTANATI DA SOLI) SONO STATI RIMPATRIATI
«Severità e integrazione», la nuova linea dettata in materia di immigrazione dal ministro dell’Interno, Marco Minniti.
Che sta affrontando la gestione della sicurezza senza timore di prendere decisioni controverse per il «suo» mondo di centrosinistra.
Così è stato per le festività blindate, così sarà per i clandestini, che dovranno essere rimpatriati sul serio, come vuole la legge.
Minniti l’ha annunciato nel chiuso di un comitato per la sicurezza a Milano due giorni fa, presente il Governatore lombardo Bobo Maroni, che non a caso quand’è uscito sprizzava soddisfazione.
Ora, a dare corpo alle direttive politiche del ministro, arriva anche una circolare del Capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, che invita tutti i prefetti e i questori a predisporre un grande piano di «rintraccio» degli immigrati illegali, affinchè siano portati nei Cie e rimpatriati in massa.
Non ordini di espulsione che restano sulla carta (vedi quello intimato proprio a Amri nell’estate del 2015), ma accompagnamento fisico fino al Paese di appartenenza.
S’annuncia dunque una nuova gestione muscolare della questione immigrazione, peraltro condivisa a livello di governi europei.
Anche la Germania, dopo lo choc di Berlino, ha annunciato di voler procedere sul serio ai rimpatri degli immigrati che non hanno diritto a restare. L’Austria propone di ricontrattare gli aiuti internazionali per quei Paesi che non accettano i rimpatri. Il tema, insomma, è maturo. E anche l’Italia archivia l’approccio più lasco.
Scrive perciò Gabrielli, che «il controllo e l’allontanamento degli stranieri irregolari» consentirà di «intercettare fenomeni di sfruttamento e di inquinamento dell’economia collegati a forme di criminalità organizzata». Non solo.
Sullo sfondo c’è anche l’incubo del terrorismo. Il rischio è che i jihadisti approfittino dell’area grigia dell’immigrazione clandestina per nascondersi.
Perciò – scrive Gabrielli – una seria attività di «rintraccio» e di espulsione degli illegali varrà anche come «prevenzione e contrasto nell’attuale contesto di crisi». Obiettivo finale: «Mantenere il territorio sotto controllo».
Ebbene, «per le ragioni sopra esposte», il Capo della polizia dà indicazione ai prefetti e ai questori di predisporre, ciascuno nella propria provincia, a piani straordinari «attraverso una specifica attività di controllo delle diverse forze di polizia».
Tutte le forze di polizia – dalla Ps ai carabinieri, alla Finanza, perfino ai vigili urbani – saranno coinvolti nel corso del 2017 in questo massiccio piano di controlli, identificazione, trattenimento ed espulsione coatta.
Sarà una grande attività di «contrasto dell’immigrazione irregolare», ma anche al caporalato, «allo sfruttamento della manodopera» e alle varie forme di criminalità che «attingono al circuito della clandestinità ».
Naturalmente, perchè il piano possa funzionare, occorrerà che tutto il sistema vada a regime. Serviranno nuovi Centri di identificazione ed espulsione (erano ridotti al lumicino, ma si sta lavorando a riattarli e sono già disponibili 1600 posti) e nuovi accordi di riammissione con i Paesi d’origine dell’immigrazione.
Quelli che funzionano sono appena quattro, con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco. Ne occorrono molti altri. Meglio se concordati a livello di Unione europea.
Il nuovo ministro degli Esteri, Angelino Alfano, sa bene di che cosa si parla. Si era molto lamentato negli anni scorsi che non si spingeva abbastanza per i rimpatri; ora il tema è in cima anche alla sua agenda.
Francesco Grignetti
(da “la Stampa”)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
L’AUMENTO DELLA REDDITIVITA’ COME GIUSTIFICATO MOTIVO AL LICENZIAMENTO NON E’ UNA NOVITA’
Sulle cause che legittimano il licenziamento la Cassazione continua a spaccarsi. L’ultima sentenza, in ordine di tempo, la 25201 del 7 dicembre scorso, allarga il campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Secondo questa pronuncia della sezione Lavoro non occorre che vi siano difficoltà economiche o uno stato di crisi, ma è sufficiente la volontà da parte del datore di lavoro di aumentare i profitti.
Il verdetto si riferisce a una sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 29 maggio 2015 che, ribaltando il giudizio di primo grado, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente di un resort di lusso per giustificato motivo oggettivo. La Cassazione ha invece confermato la prima sentenza di legittimità del licenziamento.
Un segnale tutt’altro che positivo per i lavoratori.
Ma i giuslavoristi interpellati da ilfattoquotidiano.it ricordano che già da qualche anno la Suprema Corte alterna sentenze che sposano due diversi filoni: il primo, maggioritario, che configura il licenziamento come estrema ratio, l’altro più liberalizzante stando al quale non è necessaria una congiuntura sfavorevole perchè il datore di lavoro possa licenziare.
“La sentenza del 7 dicembre scorso — spiega a ilfattoquotidiano.it Vincenzo Martino, vicepresidente degli Avvocati giuslavoristi italiani (Agi) — sposa proprio questo filone: non è la prima che segue questo indirizzo, ma è anche vero che sul fronte licenziamenti possiamo aspettarci futuri pronunciamenti in totale contrasto con quest’ultimo verdetto, che rispecchia un clima generale sfavorevole per i lavoratori”. Secondo Umberto Romagnoli, professore emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Bologna, è bene sottolineare che “resta maggioritaria l’interpretazione secondo cui il licenziamento è l’estrema ratio”, ma che “a un certo punto la Cassazione dovrà risolvere la questione dell’orientamento difforme che si è venuto a creare al suo interno”.
L’ultima sentenza: no a giudizi di merito sulle decisioni dell’impresa — La sentenza 25201 non è dunque una novità assoluta. “Ma non trattandosi di un verdetto emesso a sezioni unite — spiega Martino — ed essendoci segnali discordanti nei vari pronunciamenti che si sono susseguiti negli ultimi tempi, direi che la partita è ancora aperta, anche se non è stato compiuto un passo verso i lavoratori”.
Nella sentenza si fa riferimento ad alcune norme.
Con il riferimento all’articolo 41 della Costituzione, gli ermellini ribadiscono il principio “che la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità ” con i limiti dettati dallo stesso articolo e “sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato”.
Per Martino la novità sta, invece, nelle argomentazioni e nel ricorso a una norma finora trascurata e oggi valorizzata, ossia l’articolo 30, comma 1, della legge 183 del 2010 (Collegato lavoro), secondo cui “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di (…) recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Che tradotto significa: la mia impresa la organizzo come voglio. “Musica per le orecchie degli imprenditori” spiega Martino.
D’altro canto un conto è mettere sul tavolo i numeri di un’azienda in crisi o in difficoltà economiche, un’altra è dimostrare che un licenziamento può giovare ai conti.
Ma c’è il rischio che, seguendo questo indirizzo, chiunque possa licenziare senza limiti?
Una riflessione legittima dopo la sostanziale liberalizzazione dei licenziamenti ingiustificati portata dal Jobs Act, con l’eliminazione del diritto alla reintegra nel posto di lavoro.
Per Romagnoli, “non è vero che chiunque può licenziare chiunque, perchè la stessa Cassazione sottolinea la necessità che si accertino determinate condizioni”.
“Se prende piede questo filone i datori di lavoro disonesti saranno favoriti”
Se i giuslavoristi sottolineano così come la stessa sentenza offra gli strumenti per tutelare i lavoratori — prevedendo che il datore di lavoro provi che la soppressione del posto di lavoro sia necessaria e non strumentale o costruita ad arte — è anche vero che entrambi ammettono come sia più facile, per un datore di lavoro poco onesto che voglia licenziare, dimostrare che questo aumenterà il profitto della sua azienda. “Potrebbe riuscirci restando nella legalità — spiega Martino — nel momento in cui si accetta l’assunto che il licenziamento non è più l’estrema ratio, ma una libera scelta imprenditoriale non sindacabile in sede giudiziaria”.
Non si possono affidare le stesse mansioni che prima venivano svolte dal lavoratore licenziato a un nuovo assunto, “nè si può assumere un dipendente che svolge le stesse funzioni ma ‘costa meno’, ma l’organizzazione e la suddivisione del lavoro ad altri colleghi rimasti in organico può offrire diversi escamotage per aggirare l’ostacolo”. Per Romagnoli sebbene si tratti ancora oggi di un orientamento minoritario rispetto a quello che limita il potere aziendale, possibile grazie a una legge generica, “l’ascesa di questo filone che mette l’impresa al centro rispetto ai lavoratori, così come ha fatto il Jobs Act, rischia di facilitare l’aumento di casi al limite e di fornire strumenti ai datori di lavoro disonesti”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
STUDIO ISTAT: IMMIGRATI PAGATI IL 18,6% IN MENO.. LA BEFFA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO
Gli italiani lavoratori dipendenti hanno guadagnato in media 14,1 euro all’ora nel 2014. Ma c’è un solco aperto tra le buste paga più grasse e quelle più magre da almeno 12,7 euro.
E’ quanto emerge dalla prima analisi presentata dall’Istat sulla variabilità delle retribuzioni, che pur fotografando la situazione di due anni fa permette di tratteggiare un quadro composito.
Così come variegato è lo scenario delle buste paga, a cominciare dalla spaccatura messa in evidenza dagli statistici.
Per rendersene conto, gli esperti mettono a confronto gli stipendi delle fette di popolazione meglio e peggio retribuite per concludere appunto che il 10 per cento dei dipendenti con retribuzione oraria più elevata percepisce almeno 12,7 euro in più per ogni ora retribuita rispetto al 10 per cento dei dipendenti con stipendi inferiori. I dirigenti, per intendersi, hanno una retribuzione oraria che vale cinque volte quella delle professioni non qualificate, tre volte e mezza quella degli impiegati d’ufficio e oltre tre volte superiore alla media; se sono maschi, poi, hanno una volta e mezza la paga delle colleghe.
Un’altra distorsione accompagna la tipologia di rapporto che c’è tra il lavoratore e l’impresa, che svela una grave piaga del mercato retributivo italiano.
I contratti a tempo determinato (11,7 euro) hanno uno svantaggio del 21,5% rispetto a quelli a tempo indeterminato (14,9 euro): alla precarietà si aggiunge uno stipendio meno gratificante.
“Tale differenziale si riduce notevolmente all’interno delle posizioni lavorative a tempo determinato e indeterminato part-time mentre è massimo tra quelle full-time. In media, la retribuzione oraria delle posizioni a tempo parziale (11,8 euro) è inferiore del -21,3 % rispetto a quella delle posizioni a tempo pieno (15 euro)”, dice l’Istat.
Gli stipendi migliori si trovano nelle attività finanziarie, che garantiscono ai loro dipendenti una retribuzione (25,4 euro) più alta dell’80% rispetto alla media di tutte le professioni. Di contro, vengono catalogate tra le peggio retrubuite le “altre attività dei servizi” che raggruppano le buste paga delle organizzazioni datoriali, dei sindacati, del settore delle riparazioni informatiche e dei servizi per la persona: a loro vanno 9,8 euro l’ora, che sono quasi un terzo in meno della paga complessiva.
Le differenze territoriali non sorprendono e sono in linea con la rilevazione effettuata nei mesi scorsi dall’Osservatorio JobPricing sulle remunerazioni del settore privato, a livello provinciale.
Anche secondo l’Istat, la regione che presenta la retribuzione oraria media più elevata è la Lombardia con 15,7 euro, seguono Lazio con 14,8 euro, Piemonte e Provincia autonoma di Bolzano con 14,7 euro.
Le retribuzioni orarie più basse si registrano nel Mezzogiorno, soprattutto in Puglia (11,9 euro), Molise (12,2 euro), Basilicata e Calabria (12,1 euro).
Resta urgente il tema della differenza di paga tra uomini e donne: le retribuzioni orarie di queste ultime sono di 13 euro, contro i 14,8 degli uomini (-12,2% il differenziale). La forbice si allarga laddove gli stipendi sono più alti e allora la frattura nell’ambito delle attività finanziarie raggiunge il suo picco: tra donne e uomini ci sono 28 euro di differenza ogni 100 di paga.
A guardare il bicchiere mezzo pieno, si può notare con l’Istat che l’Italia ha un gender pay gap tra i più bassi in Europa, secondo gli standard internazionali, ma come sintesi di un risultato molto basso per il settore pubblico e di un valore per il settore privato in linea con gli altri paesi europei.
Un elemento di supporto agli stipendi arriva dalle tredicesime, che incidono per il 9,6% sulla retribuzione annua. A ciò si aggiungono “i premi e altre componenti non erogabili in ogni periodo di paga”, che valgono il 4% della paga, mentre dagli straordinari si raccimola il 2,3% e dai benefit in natura (tra i quali i buoni pasto) l’1,1%.
Se esser stranieri significa mediamente subire uno svantaggio del 18,6% delle retribuzioni, studiare fa bene: “All’aumentare del livello di istruzione cresce la retribuzione oraria per uomini e donne, ma cresce anche lo svantaggio retributivo per le donne.
Per le posizioni con la laurea e oltre la retribuzione oraria delle donne è di 16,1 euro contro 23,2 euro degli uomini; il differenziale è quindi pari a -30,6%”.
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 31st, 2016 Riccardo Fucile
LE PROVE CHE HANNO GENERATO LA RITORSIONE AMERICANA SUGLI ATTACCHI DI HACKER RUSSI
Su cosa si basano i provvedimenti presi da Obama contro Mosca per i presunti tentativi russi di influenzare le elezioni Usa attraverso cyberattacchi e fughe di informazioni?
Proviamo a passare in rassegna gli ultimi elementi e i documenti più importanti di una vicenda ormai più complessa e ingarbugliata di una telenovela.
Dove bisogna distinguere gli aspetti tecnici da quelli politici. E dove non mancano gli elementi di confusione a partire dalla proliferazione di sigle e la moltiplicazione di “orsetti” (vedi le definizioni di Fancy Bear, Cozy Bear, GrizzlySteppe, ecc. Ma ci torniamo).
IL REPORT USA SU GRIZZLY STEPPE
Giovedì l’Fbi e il Dipartimento per la sicurezza nazionale Usa hanno pubblicato un rapporto, un’analisi congiunta sulle attività cyber malevole russe, battezzate Grizzly Steppe.
Il documento dovrebbe fornire i dettagli tecnici sugli strumenti e le infrastrutture usate – secondo il governo Usa – dai servizi di intelligence civili e militari russi (Ris) per compromettere e violare reti e computer associati alle ultime elezioni americane, oltre che a varie entità governative.
L’attribuzione di queste attività ai servizi russi – dice il documento – è sostenuta da indicatori tecnici individuati dall’intelligence statunitense, dall’Fbi, dal Dipartimento di sicurezza nazionale, dal settore privato e da altre realtà .
Secondo gli americani, sono due i soggetti principali di queste attività malevole, due i gruppi di hacker, definiti in gergo Apt, Advanced Persistent Threat – vedi anche questo nostro reportage sul tema.
Dunque si tratterebbe del gruppo noto come APT29, detto anche Cozy Bear, che avrebbe violato i sistemi del Partito Democratico (un partito, dice il documento, senza però nominarlo) nell’estate 2015; e del gruppo Apt28 – noto anche come Fancy Bear, e altri nomi – che li avrebbe penetrati nell’aprile 2016.
E sarebbe proprio APT28 il responsabile della fuoriuscita di email e documenti che hanno costellato la campagna presidenziale di Hillary Clinton.
Questa ricostruzione ricalca e conferma a grandi linee quella fatta mesi fa da Crowdstrike, la società privata chiamata a investigare l’attacco al Comitato nazionale democratico e a suoi esponenti – qui alcuni degli ultimi sviluppi di quell’indagine secondo la stessa società .
COME È AVVENUTA LA VIOLAZIONE
Di quali attività malevole stiamo parlando? Si tratterebbe soprattutto di campagne di spear phishing, ovvero di invio mirato di email malevole che possono infettare i destinatari, inviate a organizzazioni statali e politiche, università , think tank ecc.
Un invio mirato ma nello stesso tempo ad ampio raggio se – come dice il documento – avrebbe preso di mira, nella sola estate 2015, oltre mille destinatari (di questa modalità di attacco diretta in massa verso politici americani avevamo scritto qua).
Un tipo di operazione che lo scorso novembre, cioè a scandalo e tensioni fra Mosca e Washington ormai conclamate, sarebbe stata ancora in corso.
Il documento mostra uno schema di come sarebbe avvenuta la violazione delle mail di molte delle vittime o come da queste gli attaccanti sarebbero arrivati ai server democratici. In verità si tratta di una modalità nota di attacco e non particolarmente sofisticata, ampiamente usata dalla cybercriminalità .
Si invia al target una mail con mittente camuffato e con un link malevolo, cliccando sul quale si è diretti a un sito sotto controllo dell’attaccante (sito che ne imita un altro legittimo).
Qui vengono chieste le credenziali di accesso, che vanno però in mano agli hacker, i quali a quel punto possono usarle per entrare nell’account della vittima, che si tratti della sua e-mail o dell’accesso a un sistema.
Dove viene poi installato un malware che sottrae (esfiltra, in gergo) documenti e file.
ORSI E DUCHI: DIETRO LE SIGLE
Il rapporto elenca quindi una serie di sigle relative a gruppi o attività cyber dietro cui si celerebbero i servizi russi. L’elenco è lungo e fantasmagorico ma non bisogna farsi trarre in inganno.
Molte di quelle sigle sono modi diversi per chiamare lo stesso soggetto ed erano usate da anni da diverse società e ricercatori. APT28, ad esempio, viene anche chiamato Sofacy, Sednit, Pawnstorm, Fancy Bear, Tsar Team, BlackEnergy ecc.
Alcuni di questi nomi si riferiscono più al gruppo, altri più al malware usato dallo stesso. Mentre tutti i vari nomi composti con Duke si riferiscono a una serie di malware attribuiti a APT29 – analizzati tempo fa da società come F-Secure.
IL COMUNICATO DELLA CASA BIANCA
Oltre ai documenti tecnici, c’è un comunicato della Casa Bianca che rappresenta invece la posizione del governo, elencando anche i destinatari specifici delle sanzioni per tali attività , sanzioni che si aggiungono all’espulsione politica di 35 diplomatici russi e alla chiusura di due strutture russe negli Stati Uniti.
Qui si dice che le attività cyber russe volevano influenzare le elezioni, erodere la fiducia nelle istituzioni democratiche americane, e instillare dubbi sull’integrità del processo elettorale.
Inoltre si sanzionano nove entità o individui: due servizi di intelligence russi (i servizi segreti interni FSB e quelli militari GRU, cioè gli stessi già accusati da Crowdstrike di corrispondere rispettivamente a APT29 e APT28); quattro membri dei servizi segreti militari GRU; e tre aziende che avrebbero fornito aiuto materiale alle operazioni condotte da GRU.
Le aziende sono: Special Technology Center (o STLC, Ltd. di San Pietroburgo); Zorsecurity (o Esage Lab); e la Professional Association of Designers of Data Processing Systems (o ANO PO KSI).
Non solo: il comunicato aggiunge alla lista anche due noti cybercriminali russi che in verità stavano già nella lista dei più ricercati dall’Fbi.
Si tratta di Evgeniy Bogachev e Aleksey Belan, noti per le loro attività nel campo delle frodi online. E che non sembrano quindi direttamente coinvolti negli attacchi di natura politica, o almeno il loro ruolo non è stato esplicitato, anche se è interessante che siano stati inseriti nella stessa azione di ritorsione.
Tra l’altro la natura dei legami fra la potente e variegata cybercriminalità russa e gli apparati di Mosca è questione piuttosto complessa nonchè tema di discussioni e analisi.
C’è chi ritiene che il Cremlino non solo chiuda un occhio sulle attività della propria cybercriminalità , ma non esiti nemmeno a reclutare fra le file della stessa.
Ad ogni modo, Bogachev sarebbe responsabile di un furto di oltre 100 milioni di dollari a istituzioni e aziende americane, attraverso le sue attività e il suo ruolo nella diffusione del malware Zeus prima e di Cryptolocker poi, ovvero di uno dei più noti ransomware, sofware malevoli che cifrano i file di un computer chiedendo il pagamento di un riscatto. Belan avrebbe invece messo a segno molti furti d’identità e compromesso almeno tre aziende Usa di e-commerce.
MA CI SONO LE PROVE?
Esistono dunque le prove effettive che dietro gli attacchi ai computer dei Democratici ci sia il governo russo? I documenti tecnici citati – raccolti e visionabili qua – elencano anche una serie di indicatori di compromissione, cioè di artefatti tecnici (indirizzi IP, nomi di dominio, firme di file malevoli) associati alle attività di attacco dei gruppi di hacker in questione.
Tuttavia il parere di gran parte degli esperti di sicurezza informatica è che quanto mostrato nei documenti sia del tutto insufficiente ad attribuire gli attacchi a Mosca. Insomma, se esiste la pistola fumante il governo Usa ancora non può o non vuole mostrarla, sebbene Obama abbia annunciato un ulteriore rapporto al riguardo che dovrebbe uscire a breve.
Anche su questo aspetto esistono comunque posizioni diverse: chi ritiene che gli Usa dovrebbero mostrare le prove, se ce le hanno, vista anche l’entità delle accuse verso la Russia e dei provvedimenti presi; e chi sostiene che mostrarle significherebbe svelare troppo della propria attività di controspionaggio.
Di certo, a livello politico, gli Stati Uniti sembrano essere sicuri e anche piuttosto compatti nella loro attribuzione. Con l’eccezione non di poco conto del presidente eletto, Donald Trump.
Carola Frediani
(da “La Stampa”)
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Dicembre 30th, 2016 Riccardo Fucile
IN FONDO E’ NORMALE CHE QUALCUNO DIFENDA IL FATTURATO
Una rete di agenzie pubbliche dei Paesi Ue contro le `bufale’ online che fissino regole per evitare che la rete continui a essere una sorta di Far West.
Lo propone il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, in un’intervista al Financial Times, provocando la reazione furiosa di Beppe Grillo, che sul suo blog associa Pitruzzella a Gentiloni e Renzi, definendoli «i nuovi inquisitori del web», desiderosi di «un tribunale per controllarlo e condannare chi li sputtana».
L’obiettivo del ragionamento di Pitruzzella è lottare contro la diffusione in rete delle notizie false.
A suo giudizio, questa opera di smascheramento delle bufale è più efficace se viene affidata agli Stati.
«Ritengo che dobbiamo fissare queste regole e che spetti farlo al settore pubblico», aggiunge il presidente dell’Autorità , evidenziando che gli utenti continuerebbero «a usare un Internet libero», ma beneficerebbero di un’entità «terza», indipendente dal governo, «pronta a intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato». «La post-verità – è la tesi centrale di Pitruzzella – è uno dei motori del populismo ed è una minaccia per le nostre democrazie».
Ma è proprio sul tema del controllo della rete che Grillo sferra il suo attacco: «Vogliono fare un bel tribunale dell’inquisizione, controllato dai partiti di governo, che decida cosa è vero e cosa è falso».
In serata, Pitruzzella torna sull’argomento su Skytg24: «La mia non è una proposta volta a creare forme di censura, ma a rafforzare la tutela dei diritti nella rete».
Contro Grillo, il Presidente del Pd, Matteo Orfini: «Caro Beppe Grillo. Nessuno attacca la rete. Attacchiamo i cialtroni che la inondano di bufale e bugie. A proposito, ne conosci qualcuno?».
(da “La Stampa“)
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Dicembre 30th, 2016 Riccardo Fucile
STUDIO CGIA DI MESTRE: MOLTE REGIONI DEL SUD TRA LE PEGGIORI D’EUROPA, L’ITALIA FUORI DALLE TOP 30
Cosa accadrebbe ai conti pubblici se tutta la Pubblica amministrazione dello Stivale operasse con la stessa efficienza che si vede nella Provincia autonoma di Trento? Avremmo un reddito nazionale più alto di 30 miliardi all’anno, la cifra che rappresenta una manovra finanziaria o basta a salvare cinque Monte dei Paschi.
E’ il dato al quale è arrivata la Cgia di Mestre ragionando sull’inefficienza della Pa in base a uno studio realizzato dal Fondo Monetario Internazionale datato luglio 2015.
Il risultato: “Se la nostra amministrazione pubblica avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità , nella giustizia, etc. che ha nei migliori territori del Paese, il Pil nazionale aumenterebbe di 2 punti (ovvero di oltre 30 miliardi di euro) all’anno”, dicono gli artigiani di Mestre.
I dati fanno il paio con quelli contenuti in un’indagine della ue sulla qualità dell’amministrazione pubblica a livello territoriale, che “conferma il forte divario esistente tra il Nord e Sud del Paese sulla qualità /quantità dei servizi erogati”, spiega l’Ufficio studi della Cgia.
“Rispetto ai 206 territori rilevati da questo studio, ben 7 regioni del Mezzogiorno si collocano nelle ultime 30 posizioni: la Sardegna al 178° posto, la Basilicata al 182°, la Sicilia al 185°, la Puglia al 188°, il Molise al 191°, la Calabria al 193° e la Campania al 202° posto.
Solo Ege (Turchia), Yugozapaden (Bulgaria), Istanbul (Turchia) e Bati Anadolu (Turchia), presentano uno score peggiore della Pa campana.
Tra le realtà meno virtuose troviamo anche una regione del Centro, vale a dire il Lazio, che si piazza al 184° posto della graduatoria generale”.
Se si va invece tra le migliori 30 regioni europee, l’Italia è assente: per trovare la prima realtà , ovvero la Provincia autonoma di Trento, bisogna scorrere fino al 36° posto della classifica generale.
La Provincia autonoma di Bolzano si trova al 39°, la Valle d’Aosta al 72° e il Friuli Venezia Giulia al 98°.
Appena al di sotto della media Ue troviamo al 129° posto il Veneto, al 132° l’Emilia Romagna e di seguito tutte le altre.
Nella classifica generale, la Pa italiana si colloca al 17° posto su 23 paesi analizzati. Solo Grecia, Croazia, Turchia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico presentano un indice di qualità della Pa inferiore al nostro.
A guidare la classifica, invece, sono le Pa dei paesi del nord Europa (Danimarca, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi).
Conclude il Segretario della Cgia, Renato Mason: “La sanità al Nord, le forze dell’ordine, molti centri di ricerca e istituti universitari italiani presentano delle performance che non temono confronti. Tuttavia è necessario migliorare l’efficienza media dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, affinchè siano sempre più centrali per il sostegno della crescita, perchè migliorare i servizi vuol dire migliorare il prodotto delle prestazioni pubbliche e quindi l’impatto dell’attività amministrativa sullo sviluppo del Paese”
(da “La Repubblica“)
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