Gennaio 30th, 2017 Riccardo Fucile
IL CURRICULUM NON E’ CERTO MIGLIORE DI CENTINAIA DI MIGLIAIA DI ALTRI GIOVANI…LA SELEZIONI DEI CANDIDATI DEL M5S
Non ho niente contro Luigi Di Maio. Parla bene, è disinvolto, ma non sappiamo esattamente chi sia davvero. Il problema è proprio questo: si può affidare un Paese di sessanta milioni di abitanti a una persona di cui si sa poco o niente?
Il curriculum dice che si è iscritto alle facoltà di Ingegneria e Giurisprudenza senza laurearsi, che è giornalista pubblicista.
Come centinaia di migliaia di giovani italiani che stentano a trovare lavoro oggi. Ancora: si ricorda che nel 2010 si era candidato come consigliere comunale nel suo paese ottenendo 59 preferenze e non risultando eletto. Poi nel 2013 ecco che si presenta alle parlamentarie grilline e ottiene 189 preferenze.
Così viene presentato alla Camera dove è eletto. Insomma, partendo da nemmeno duecento preferenze iniziali potrebbe diventare Primo Ministro.
Ripeto, niente contro il leader M5S, ma il dubbio resta: chi è Luigi Di Maio? Non è una critica, è una semplice domanda.
Ma intorno a questo interrogativo rischia di giocarsi la sorte di tutto il Movimento: rivoluzione o fallimento? Il momento decisivo è adesso.
La questione non riguarda soltanto Di Maio, ma anche i tanti candidati sindaci cui dovremmo affidare le nostre città , luoghi che ci stanno tanto a cuore. Che rappresentano la nostra identità e il nostro futuro.
Perchè dovremmo affidare Verona, Parma, la mia Genova a persona che non conosciamo?
Badate bene. Non intendo dire che si debba ricorrere a volti noti.
Ci sono migliaia di persone che hanno un’esperienza di lavoro e di vita che testimonia e garantisce per loro.
Mi è capitato giorni fa di partecipare in una grande scuola a un incontro di ex studenti: ho incontrato persone che lavorano in ong impegnate in processi di pace, medici che costruiscono ospedali in Africa, ragazzi che combattono davvero le mafie, ingegneri che inventano i computer del futuro, manager che guidano imprese con centinaia di dipendenti, avvocati impegnati nella difesa di minori abbandonati.
E mi è venuto istintivo chiedermi se i cinquestelle siano riusciti a intercettare queste forze che in Italia ci sono.
Ho confrontato l’esperienza e i curricula di questi ex studenti con quelli di alcuni candidati M5S che si candidano ad amministrare città da centinaia di migliaia di abitanti.
Vengono dei dubbi, soprattutto sui criteri di selezione: confronti online, graticole. Così si decide chi è un uomo degno di guidare una città o chi può diventare concorrente per un reality?
Era la grande scommessa del Movimento, creare una nuova classe dirigente. Ma questa sfida è stata vinta oppure sono state troppo spesso premiate persone senza un passato che, proprio per questo, sono più facilmente controllabili?
Le idee hanno bisogno di carne, sangue. Persone, insomma. E tanti candidati del Movimento non sappiamo chi sono. E nemmeno loro, mi verrebbe da dire, a volte si conoscono davvero.
Perchè quando ti trovi a contatto con il potere scopri aspetti di te stesso che non immaginavi. Di fronte a una prova tanto difficile emergono talvolta qualità inaspettate, ma spesso anche debolezze e miserie.
Questa è l’esperienza (che è cosa diversa dall’età ): essersi messi alla prova, conoscersi.
La selezione dei candidati sarà probabilmente la prova decisiva del Movimento che dovrà dimostrare se premia le capacità , se sa riconoscerle oppure se predilige fedeltà , obbedienze o ambizioni di bassa lega.
Non si può cominciare a fare politica dal potere. Per capire dove va una persona, bisogno sapere da dove viene. Non basta l’autocertificazione.
Altrimenti si rischia di premiare donne e uomini che non lo meritano. E soprattutto di lasciare in disparte — come purtroppo in Italia avviene da decenni — chi invece lo merita davvero.
Questo sarebbe il fallimento dei Cinque Stelle e il tradimento delle speranze che ha suscitato.
Ferruccio Sansa
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 30th, 2017 Riccardo Fucile
“L’ANIMA NERA” DEI POTERI FORTI E’ L’ISPIRATORE DEL MUSLIM BAN… ORA E’ ENTRATO NEL CONSIGLIO DI SICUREZZA …COORDINA L’INTERNAZIONALE RAZZISTA BREITBART CON UFFICI IN EUROPA E APPOGGIA I LEADER XENOFOBI EUROPEI
Ancor prima di una frettolosa nomina ad hoc per inserirlo nel tavolo delle decisioni, Steve Bannon aveva già preso parte alle riunioni del Consiglio per la Sicurezza nazionale.
Con un peso non da poco: sarebbe stato lui, secondo fonti raccolte da Washington Post e altri giornali degli States, ha indicare la via maestra a Donald Trump sull’immigrazione, e prendere le tanto criticate decisioni sul “ban” ai paesi musulmani, in particolare quella relativa alla green card, scelta su cui è poi stato fatto un passo indietro.
Così, l’imprenditore delle news dei conservatori, l'”anima nera” dell’amministrazione Trump, è riuscito a spingere per una radicalizzazione dei sistemi di sicurezza interna.
Dopo aver messo in bocca a Donald Trump le parole del discorso dell’insediamento, Steve Bannon ha infatti scavalcato il ministero della Sicurezza Interna, che aveva sconsigliato di includere i possessori di ‘green card’ dall’ordine esecutivo sull’immigrazione dal Medio Oriente e l’Africa varato venerdì scorso.
Mossa sulla quale l’amministrazione ha poi dovuto fare come detto un passo indietro. Chiamato tra mille polemiche alla Casa Bianca come consigliere strategico dopo l’elezione del tycoon, lo stratega da ieri siede ora in permanenza nel nuovo Consiglio per la Sicurezza Nazionale, da cui sono stati invece esclusi il capo degli Stati Maggiore e il direttore dell’Intelligence Nazionale. Una scelta senza precedenti.
63 anni, ex Ceo della campagna elettorale di Trump, Bannon è la vera eminenza grigia della nuova presidenza Usa.
Nato in Virginia in una famiglia democratica, il ‘Richelieu’ di Donald Trump si fa le ossa nel mondo dell’alta finanza. Negli anni Ottanta, dopo aver fatto il servizio militare nella Navy, lavora a Goldman Sachs, la banca d’affari che in campagna elettorale era stata messa sul banco degli imputati da Trump come simbolo dell’avidità ‘ di Wall Street, poi passa a Hollywood.
Lì, nel 1990, si mette in affari con un compagno di studi a Harvard, Scot Vorse, e tra i clienti dello studio di consulenza Bannon & Co ci sono Silvio Berlusconi e il principe saudita Talal al Waleed.
Ma è a Breitbart, il giornale online di estrema destra creato nel 2007 durante una visita in Israele dal defunto commentatore conservatore Andrew Breitbart, che Bannon trova la sua identità .
Ne prende le redini nel 2012 alla morte del proprietario e fondatore, trasformandolo in un punto di incontro per la ‘alt-right’ e per i movimenti nazionalisti bianchi che includono l’antisemitismo e la xenofobia nella loro agenda.
Nemico della stampa mainstream, qualche giorno fa Bannon ha definito i media tradizionali “il vero partito di opposizione” e ha intimato loro di “tenere la bocca chiusa”. “Ci chiamiamo il Fight Club”, aveva detto nel 2016 al Washington Post l’allora stratega definendosi “viralmente anti-establishment”. Intanto, con lui al timone, Breitbart dilagava in Europa con uffici a Berlino, Londra e Parigi (dove erano e saranno in corso elezioni cruciali) a sostegno di leader populisti e di destra come Marine Le Pen.
Bannon ha aperto qualche anno fa anche un ufficio a Roma guidato da Thomas Williams, un ex sacerdote.
La decisione di inserirlo nella riorganizzazione del consiglio nazionale per la sicurezza (Nsc), arrivata tramite un ordine esecutivo, ha scatenato non poche polemiche. Ora Bannon parteciperà a tutte le discussioni di alto livello, mentre gli altri due dirigenti “allontanati”, a differenza del passato, saranno ammessi solo quando si tratteranno questioni legate alle loro aree di competenza.
Va ricordato che il National security Council, guidato dal generale Mike Flynn, è l’organo principale che consiglia il presidente sulla sicurezza nazionale e sugli affari esteri.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 30th, 2017 Riccardo Fucile
I BIG USA SI RIBELLANO E APRONO AI RIFUGIATI…IL FONDO DI GOOGLE, ALLOGGI GRATIS DA AIRBNB
I provvedimenti di Donald Trump che bandiscono dagli Stati Uniti i migranti da sette Paesi islamici e l’ingresso ai rifugiati provocano la reazione delle imprese: chi prende direttamente posizione è Starbucks, la famosa catena di caffetterie, che assumerà 10.000 rifugiati in tutto il mondo nei prossimi cinque anni in risposta al decreto anti-immigrazione del presidente americano.
Lo ha annunciato lo stesso fondatore della catena statunitense, Howard Schultz.
E’ solo uno dei gesti clamorosi che le grandi Corporation stanno mettendo in atto.
I dirigenti di Google, ad esempio, hanno dato vita a un fondo già dotato di 2 milioni di dollari, che con le donazioni dei dipendenti potrà raddoppiare, per rispondere alla crisi dei migranti attraverso quattro organizzazioni che si occupano del problema, tra le quali Unhcr.
Mai il motore di ricerca aveva realizzato uno stanziamento simile per rispondere a una crisi.
Ma Airbnb non è da meno: la società degli affitti brevi – molto nota ai vacanzieri – ha detto che metterà a disposizione gratuitamente alloggi per aiutare coloro che sono rimasti intrappolati nel bando di Trump.
Tornando a Schultz, il manager di Starbucks ha preso carta e penna (digitali): “Vi scrivo oggi con grande preoccupazione, il cuore pesante e una ferma promessa”, si legge nella lettera scritta ai dipendenti perchè sappiano che “noi non rimarremo a guardare, non rimarremo in silenzio mentre l’incertenza sulle iniziative della nuova amministrazione cresce ogni giorno che passa”.
Ricordando la “lunga storia” della sua azienda nell’assumere giovani in cerca di opportunità , Schultz ha quindi annunciato: “Ci sono più di 65 milioni di cittadini del mondo riconosciuti come rifugiati dalle Nazioni unite e noi stiamo definendo piani per assumerne 10.000 nei prossimi cinque anni nei 75 paesi del mondo dove è presente Starbucks. E inizieremo qui negli Stati Uniti, concentrandoci inizialmente su questi individui che hanno servito le truppe Usa come interpreti e personale di supporto nei diversi paesi dove il nostro esercito ha chiesto sostegno”.
Sabato scorso, infatti, tra le persone fermate all’aeroporto di New York a seguito della direttiva di Trump, che vieta l’ingresso alle persone provenienti da sette Paesi musulmani (Iraq, Iran, Yemen, Libia, Sudan, Somalia e Siria) c’erano anche iracheni che avevano lavorato come interpreti per i militari americani.
Schultz è anche intervenuto sulla questione del muro che Trump vuole costruire al confine con il Messico, paese dove Starbucks conta 600 caffetterie con 7.000 dipendenti, affermando che bisogna “costruire ponti, non muri con il Messico”.
Per ironia della sorte, le sparate di Trump contro il Paese confinante hanno provocato la reazione dei cittadini messicani, che hanno avviato il boicottaggio dei prodotti-simbolo degli Stati Uniti.
Tornando alla presa di posizione di Schultz, la sua compagnia si è detta in contatto diretto con i dipendenti interessati dal bando sull’immigrazione di Trump e ha garantito che farà “il possibile per aiutarli e permettere loro di districarsi in questo momento complicato”.
Il numero uno ha colto l’occasione per promettere che sia lui che il direttore operativo Kevin Johnson, che dovrebbe sostituirlo come amministratore delegato nel corso dell’anno, inizieranno a dialogare con il personale con maggior frequenza.
“I diritti civili che abbiamo dato per scontati per così tanto tempo sono sotto attacco, e vogliamo utilizzare una forma di comunicazione più immediata per capire e dialogare con voi sulle cose che ci stanno a cuore”.
(da agenzie)
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Gennaio 30th, 2017 Riccardo Fucile
COSI’ IL GIOVANE LIBERALE E’ DIVENTATO L’IDOLO ANTI-TRUMP… NEL 2013 HA PORTATO IL PARTITO DA 36 A 184 SEGGI, UN RISULTATO MAI VISTO
“Io e mia moglie Sophie siamo addolorati”, scrive il premier Justin Trudeau nei minuti che seguono l’assalto al Centro culturale islamico del Quèbec.
Il premier condanna l’attentato e al contempo rinnova con forza il suo “inno alla tolleranza”. “I musulmani canadesi – sottolinea – rappresentano un elemento importante del nostro tessuto nazionale. La tolleranza religiosa è un valore a noi caro. La diversità è la nostra forza”.
“La diversità è la nostra forza”. Proprio con questo stesso slogan, il premier canadese si era opposto poche ore prima ai respingimenti statunitensi. “A tutti coloro che fuggono dalla persecuzione, dal terrore e dalla guerra – aveva twittato lui mentre all’aeroporto JFK di New York scoppiava il caos – voglio dire che il Canada offrirà sempre il suo benvenuto. Non importa quale sia la vostra religione, il vostro credo. La diversità è la nostra forza”. E con quel suo #WelcomeToCanada è diventato per molti “il presidente anti Trump”, il volto del multiculturalismo e dei diritti da opporre alla logica delle barriere
Dalle parole ai fatti. Poi l’annuncio: “Il Canada offrirà la residenza temporanea a tutti quelli bloccati negli Usa a seguito dell’ordine esecutivo di Trump sull’immigrazione”, come ha comunicato ieri il ministro dell’Immigrazione canadese Ahmed Hussen.
Sin dalla campagna elettorale tra le file del partito liberale, e poi come presidente dal 4 novembre 2015, Trudeau ha fatto dell’accoglienza ai rifugiati un elemento chiave della sua azione politica.
Sin da quando il liberale si è insediato, nel Paese sono già stati accolti quarantamila rifugiati – negli Usa, invece, quindicimila
Ma chi è Trudeau? Affascina ancora i suoi elettori? E perchè il mondo vede in lui un simbolo “anti Trump”?
La “dinastia” liberale. Justin è figlio di Pierre, volto storico dei liberali canadesi – ne fu il leader dal 1968, per più di sedici anni.
Fu anche lui primo ministro, governando il canada a più riprese per oltre quindici anni, per poi ritirarsi dal palco della politica nel 1984. Anche Pierre, come poi Justin, è stato un premier che ha raggiunto grande popolarità a livello internazionale, ma che non ha mancato di riscuotere critiche all’interno del Paese, soprattutto per la sua fervente opposizione all’indipendenza del francofono Quèbec.
Nel 2000, quando Justin ha 29 anni, suo padre muore ed è proprio il commosso discorso funebre del figlio a portarlo per la prima volta al centro delle attenzioni dei canadesi.
Un risultato mai visto. Il debutto vero e proprio nella vita politica risale al 2008; nel giro di un anno è il volto dei liberali per temi come il multiculturalismo e l’immigrazione, temi che sono rimasti tuttora al centro delle sue scelte politiche. Aprile 2013: Trudeau conquista la leadership del partito.
Nel giro di due anni riesce a riportarlo al governo e a fargli espugnare il parlamento con un risultato mai visto prima nel Paese: da 36 seggi a 184.
Un’ascesa da record, ottenuta al grido di “Cambiamento!”, in un Canada afflitto da recessione e disoccupazione.
Il progressista yogi. Giovane e bello, Trudeau viene presto acclamato come il volto simbolo del progressismo, anche fuori dai confini canadesi. E’ tra le 100 persone più influenti al mondo secondo “Time” e la sua “luna di miele” con l’elettorato dura più a lungo del solito, con due canadesi su tre che dopo un anno al governo ancora gli affidano il loro gradimento.
Le sue promesse, per molti, suonano allettanti: dalla riduzione del deficit alla legalizzazione della marijuana, dalla lotta al cambiamento climatico alla difesa dei diritti di gay e transgender.
Trudeau è anche un femminista dichiarato, il suo gabinetto è composto per metà di donne ed è il più multiculturale della storia del Canada. Rifugiati, immigrati, musulmani, aborigeni, disabili: “Eccovi un governo che è anche una fotografia del nostro Paese”, promette e mantiene Trudeau. E poi c’è la svolta annunciata in politica estera: pacifismo piuttosto che interventismo, politica della porta aperta.
Ma neppure il nuovo idolo liberale, fotogenico come pochi, si salva dagli inciampi. Nel corso dei mesi il bilancio del Paese non registra i progressi promessi, anche l’annunciato disimpegno in Iraq e Siria appare confuso. Pure tra i personaggi “pop” c’è chi si rivolta contro il premier “pop”: Jane Fonda, ad esempio, consiglia di “non fidarsi del premier di bell’aspetto”.
Il motivo della delusione sua e di altri vip di Hollywood come Leonardo Di Caprio è il via libera del canadese a un oleodotto lungo le Trans Mountains, a dispetto della vocazione ambientalista annunciata dal liberale in campagna elettorale.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 30th, 2017 Riccardo Fucile
“ATTACCO TERRORISTICO CONTRO I MUSULMANI”… DUE ARRESTATI…COME MAI LA FOGNA XENOFOBA ITALIANA NON CONDANNA?
Sei persone sono state uccise e altre otto sono rimaste ferite in una moschea di Quebec City quando alcuni uomini hanno aperto il fuoco su decine di fedeli riuniti per la preghiera della sera.
Un’azione che il primo ministro canadese Justin Trudeau ha definito “un attacco terroristico contro i musulmani”. La polizia, che indaga per terrorismo, ha reso noto che due persone sono state arrestate e che nulla porta a ritenere che ve ne siano altre in fuga.
L’attacco è avvenuto intorno alle 20 ora locale, nella sezione maschile della moschea, mentre una cinquantina di persone era raccolta nel luogo di culto.
Un testimone ha riferito a Radio Canada di aver visto due uomini coperti da maschera nera e che uno aveva un “marcato accento del Quebec”.
“Perchè sta accadendo qui? È una barbarie”, si è chiesto il presidente del centro culturale islamico, Mohamed Yangui, che al momento dell’attacco non era nella moschea.
Yagui ha quindi precisato che è stata attaccata la sezione maschile della moschea e che sono stati uccisi cinque uomini, ma ha anche detto di temere che tra le vittime vi siano dei bambini.
Dai racconti di chi era presente, ha aggiunto, all’interno del centro durante l’attacco c’erano tra le 60 e le 100 persone.
Nel giugno scorso, durante il ramadan, davanti all’ingresso del luogo di culto situato in via Sainte-Foy era stata lasciata una testa di maiale.
Negli ultimi anni in Quebec gli episodi di islamofobia si sono moltiplicati, intrecciandosi al dibattito politico sul bando al niqab.
Nel 2014 il Centro era stato oggetto di vandalismo e di messaggi di odio. Nel 2013 una moschea della regione di Sagueneay era stata imbrattata con sangue di maiale. Nella vicina provincia dell’Ontaria, il giorno dopo gli attentati di Parigi era stato dato alle fiamme un altro centro di preghiera islamico.
“Stasera i canadesi piangono le persone uccise in un vile attacco a una moschea di Quebec City. Il mio pensiero va alle vittime e ai loro familiari”, ha commentato su Twitter Trudeau
Il primo ministro canadese ha poi diffuso un comunicato in cui ha condannato “questo attentato terroristico contro musulmani che erano in un luogo di culto e rifugio”.
Nel manifestare il proprio cordoglio, il capo del governo del Quebec, Philippe Couillard, ha sottolineato che il suo esecutivo è “mobilitato per garantire la sicurezza della popolazione” e ha annunciato manifestazioni di solidarietà in tutta la provincia.
L’attacco di Quebec City ha avuto eco immediata a New York, dove è stata rafforzata la sorveglianza alle moschee e ad altri luoghi di culto. “La polizia garantisce ulteriore protezione alle moschee della città . Tutti i newyorkesi siano vigili. Se vedono qualcosa, lo dicano”, ha twittato il sindaco Bill de Blasio
(da agenzie)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
NEI FEUDI DI ALFANO E MARONI QUESTURE PIENE
In un momento di grande allerta per la sicurezza nazionale l’organico della polizia è sotto del 15%, manca poco meno di un poliziotto su cinque.
Ma non è sempre così.
Ad Agrigento, Bologna, Lecce, Modena e Varese, per esempio, le Questure hanno più agenti di quelli previsti.
Maggiori pericoli? Obiettivi sensibili? Macchè, solo una legge non scritta.
A illustrarla è il capo della polizia, Franco Gabrielli: “Il nostro Paese ha situazioni particolari. Per esempio, Varese è sopra organico. Come mai? Forse perchè c’è stato un ministro dell’Interno”.
Il riferimento è a Roberto Maroni, Lega Nord, oggi governatore lombardo, al Viminale con Berlusconi nel ’94-’95 e tra il 2008 e il 2011.
“A Lecce — prosegue Gabrielli in audizione — sono sopra forse perchè c’è stato un sottosegretario all’interno”. Alfredo Mantovano, ex An, tra il 2001 e il 2006 e tra il 2008 e il 2009.
“Modena — dice ancora il capo della polizia — è sopra organico perchè c’è il segretario generale del Siulp (Felice Romano, ndr). Sono cose che in questo Paese sono facilmente intellegibili”.
Di Agrigento il capo della polizia non parla ma nella città di Angelino Alfano, leader Udc e ministro dell’Interno dal 2013 al dicembre 2016, ci sono 290 agenti contro i 260 previsti: più 12 %, esattamente come a Varese (229 contro 205), un po’ più di Lecce (351 contro 319, più 10%) e di Modena (254 contro 251, più 5%).
Non sono frasi carpite al bar o confidate da Gabrielli a un cronista.
Il capo della polizia le ha pronunciate alla Camera dei Deputati, il 10 gennaio scorso, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla sicurezza e il degrado delle città .
Gabrielli è lì per fare il punto e spiega che nel 1989 la polizia aveva un organico di 117.200 unità , mentre oggi “siamo 99.630 con un decremento medio del 15%”. Aggiunge che la legge Madia ci ha messo del suo, abbassando l’organico a 106 mila. Tanto che “quando ci sono realtà con una scopertura del 5, del 4 o del 3 per cento è grasso che cola”.
Essenziale capire dove sia finito, tanto più che oltre alle carenze d’organico incombe il problema dell’età degli agenti in servizio che mediamente hanno 48-51 anni: con il blocco del turnover — secondo stime che circolano al Viminale — nel 2030 si avrà il 40% di forze in meno. E allora addio, cara sicurezza.
Ad ascoltarlo ci sono venti deputati, di ogni colore politico, che non si scompongono. Neppure nel sentire perchè alcune città fanno eccezione alla regola generale dei vuoti di organico e che, di fatto, politici e sindacalisti in Italia riescono a convogliare gli agenti nei propri feudi elettorali o sindacali.
A scapito del diritto alla sicurezza di tutti i cittadini, specie di chi vive in realtà dove la cronica insufficienza di uomini e mezzi fa dilagare reati e criminalità .
Come succede a Reggio Calabria (2.017 unità effettive a fronte delle 2.137 previste: meno 5,6%), Bari (1.117 unità effettive contro 1.298 previste: meno 13%), Catania (1.979 unità effettive contro 2.028 previste: meno 2%), Messina (921 unità a fronte delle 1.129 previste: meno 18%), Cagliari (904 unità effettive contro 1.245 previste: meno 27%).
Ma le situazioni ritenute più gravi sono Caserta e Foggia, dove gli stessi organici del 1989 affrontano una criminalità che da allora è fortemente cambiata.
L’unica reazione, alla Camera, è del deputato Andrea De Maria (Pd) che chiede perchè Bologna, la sua città , possa contare su un organico di 2.350 unità sulle 2.320 previste.
Quando capisce si risponde da solo: “Noi abbiamo il ministro dell’Ambiente!”. È il bolognese Gian Luca Galletti (Udc), che poi tutto questo potere sul Viminale non l’ha mai avuto. Ma a intanto a Bologna, con tutti gli agenti al loro posto (e anche di più), i reati sono calati del 10%.
Facile individuare altri potenti in grado di spostare gli agenti.
Maroni da ministro degli Interni nel 2008 elesse la sua Varese a laboratorio dei “patti per la sicurezza” del governo Berlusconi. I titoli della Prealpina e della Padania celebravano un calo del 9% dei reati.
Per Lecce il nome è quello dell’ex sottosegretario del Viminale, Mantovano. Non è più in servizio dal 2013 e il trend dei reati ha ripreso a salire quell’anno (+5,9%).
Infine Modena. Ricorda Gabrielli che lì presta servizio dall’82 il segretario generale del Siulp, il potente sindacato di polizia che conta 26mila iscritti, circa il 30%.
Cade dalla sedia Felice Romano: “Il capo della polizia ha detto davvero una cosa del genere? Non ci credo neanche se lo vedo”.
Lo può leggere a pagina 56 dello stenografico di seduta. “Ma non siamo in soprannumero, siamo sotto di 300 unità ”.
Al Viminale hanno altri numeri.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
NESSUNO DEI 19 ATTENTATORI DELL’11 SETTEMBRE PROVENIVA DA QUEI PAESI… PER LA STAMPA USA E’ EVIDENTE IL CONFLITTO DI INTERESSI DI TRUMP
Nessuno dei 19 attentatori che l’11 settembre 2001 buttarono giù le Torri Gemelle di New York provenivano dai 7 Paesi colpiti dal bando.
Nessuno di questi Stati è tra i maggiori esportatori di foreign fighter.
In 5 di essi i caccia degli Stati Uniti bombardano l’Isis, in uno Washington ha truppe e basi militari, al settimo ha imposto per anni durissime sanzioni.
In nessuno di questi Paesi la Trump Organization ha interessi economici.
Nel pieno della bufera scatenata dall’ordine esecutivo con cui Donald Trump ha bloccato l’ingresso negli Usa cittadini di Iraq, Siria, Yemen, Libia, Somalia, Sudan e Iran, la stampa d’oltreoceano solleva dubbi sulle motivazioni e sulla strategia alla base delle scelte operate dal nuovo inquilino della Casa Bianca.
Lo scopo dichiarato è Protecting The Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States, “proteggere la Nazione dall’ingresso del terrorismo straniero negli Stati Uniti”, come recita il titolo dell’executive order firmato il 27 gennaio.
Eppure il bando non riguarda i maggiori Paesi esportatori di foreign fighter, i miliziani — in questo caso islamisti — che lasciano le proprie case per unirsi allo Stato Islamico e combattere per la sua causa in Medio Oriente.
La Tunisia, ad esempio, è in assoluto il Paese dal quale proviene il maggior numero di combattenti: secondo il governo, dal 2011 sono circa 3mila i jihadisti partiti per andare a prestare servizio sotto le insegne del califfato soprattutto in Siria; secondo un report Onu del luglio 2015, il loro numero si attesterebbe invece a quota 5.500-6.000. Eppure Tunisi non è nella lista stilata dall’amminsitrazione Trump.
Che non comprende nemmeno i Paesi che diedero natali e finanziamenti ai 19 membri della cellula di Al Qaeda che l’11 settembre 2011 cambiò la storia del mondo, dirottando 4 voli di linea, tre dei quali colpirono il World Trade Center di New York e il Pentagono, uccidendo oltre 2.900 persone: 15 dirottatori provenivano dall’Arabia Saudita, due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall’Egitto e uno dal Libano.
“Nessun estremista musulmano proveniente da uno dei Paesi interessati dal bando ha effettuato attacchi negli Stati Uniti da oltre due decenni a questa parte”, ha sottolineato Greg Myre sulle colonne del sito della National Public Radio.
I recenti casi di cronaca, secondo i dati del National Consortium for the Study of Terrorism, dipartimento della Homeland Security Center of Excellence che fa capo all’università del Maryland, parlano chiaro: solo per citare i fatti più noti Omar Mateen, autore della strage di Orlando nel 2016 era nato a New York e originario dell’Afghanistan; i due coniugi autori della strage di San Bernardino nel 2015 erano originari del Pakistan; Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, fratelli autori dell’attentato di Boston nel 2013, erano nati nel sud della Russia.
“Non è un caso — si legge in un’analisi del think tank progressista Institute for Progress Studies, citato dalla National Public Radio — che dei sette paesi individuati, gli Stati Uniti stiano bombardando in cinque (Iraq, Siria, Yemen, Libia e Somalia), abbiano schierato truppe e basi militari in un altro (Sudan), e impongano sanzioni dure e frequenti minacce contro l’ultima (Iran)”.
Politiche militari che “alimentano il flusso dei rifugiati. In una macabra ironia, l’ordine vieta l’ingresso negli Usa ai rifugiati dalle guerre cui in molti casi gli stessi Stati Uniti hanno dato vita“, si legge nel report dell’Ips.
Che mette in evidenza anche un’altro fattore: “I paesi a maggioranza musulmana finiti nel mirino dei nuovi regolamenti sono quelli in cui l’impero Trump non ha partecipazioni“.
E’ stata l’agenzia Bloomberg ad affrontare il 27 gennaio, a poche ore dalla firma dell’executive order, la questione del presunto conflitto di interessi: “La lista non comprende i Paesi a maggioranza musulmana in cui la sua Trump Organization ha fatto affari o si è dedicata a potenziali accordi economici“.
“Attenzione, signor Presidente — ha scritto in un tweet Norman Eisen, ex consigliere di Barack Obama attuale membro della Brookings Institution — il tuo bando esclude Paesi in cui hai interessi economici. E’ una violazione della Costituzione“.
L’ordine firmato dalla Casa Bianca, fa notare il Washington Post — non fa menzione della Turchia, colpita da diversi attacchi terroristici negli ultimi mesi.
Soltanto mercoledì il Dipartimento di Stato ha emesso un “travel warning” per i turisti americani in visita nel Paese, sottolineando che “un aumento della retorica anti-americana potrebbe ispirare attori indipendenti a compiere atti di violenza nei confronti di cittadini Usa”.
Ma, fa notare il quotidiano, Trump ha concesso il proprio brand a due grattacieli di Istanbul (“Ho un piccolo conflitto di interessi — ammetteva lo stesso tycoon in una intervista dicembre 2015 con Breitbart News — perchè possiedo un importante edificio a Istanbul”), un’azienda turca produce una linea di arredamento per la casa firmata da uno dei marchi del presidente e nell’ultima dichiarazione dei redditi disponibile, presentata lo scorso maggio quando era ancora un candidato, si legge che nel 2015 gli affari in Turchia hanno fruttato al capo della Casa Bianca incassi per 6 milioni di dollari.
Nella lista non compaiono neanche l’Egitto, dove secondo il database della Federal Electoral Commission il presidente possiede due compagnie: la Trump Marks Egypt e la Trump Marks Egypt LLC; gli Emirati Arabi, quando a Dubai sorge un golf resort griffato Trump, un’agenzia che tratta immobili di lusso e una spa; l’Arabia Saudita, dove la Trump Organization ha avviato e poi interrotto le pratiche per la costruzione di un mega hotel.
Fuori dall’elenco è rimasta anche l’Indonesia, la più grande nazione a maggioranza musulmana, dove è in corso la costruzione di due resort firmati Trump e costruiti con il MNC Group, gruppo editoriale con base a Jakarta.
Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
I GRILLINI PROMISERO DI BLOCCARE IL PROGETTO DI PARCO MICHELOTTI, MA, UNA VOLTA ELETTA, LA SINDACA LI HA TRADITI
Una lettera a Beppe Grillo, garante del Movimento 5 Stelle, per denunciare il “tradimento delle promesse elettorali”.
È quella che hanno scritto al leader pentastellato alcune associazioni animaliste di Torino contrarie alla realizzazione sulle sponde del fiume Po di un nuovo zoo. “L’amministrazione cittadina a guida M5S ha ereditati questa scelta — si legge nella missiva — dall’amministrazione precedente, ma si è perfettamente allineata ad esso, in contrasto con il programma elettorale presentato a giugno”.
Enpa, Lac, Lav, Leal e Sos Gaia sono contrarie alla realizzazione a Parco Michelotti, non lontano dalla centrale piazza Vittorio, di uno zoo con ‘children farm’, con animali delle fattorie di tutto il mondo, e una biosfera per riprodurre l’ecosistema del Rio delle Amazzoni.
“Le promesse del M5S vengono sacrificate per il timore di sostenere ipotetiche richieste di danni in caso di sospensione”, dicono le associazioni, ricordando di avere contribuito alla vittoria del M5S.
E chiedono l’intervento di Beppe Grillo “per ottenere il rispetto degli impegni elettorali, la difesa degli spazi pubblici e la tutela degli animali”.
La vicenda di Parco Michelotti era finita anche nell’assemblea pubblica in cui la giunta di Torino era stata processata dalle tante associazioni della città a causa della scarsa aderenza della realtà alle promesse elettorali della sindaca.
«Il provvedimento è inoppugnabile e se lo bloccassimo — spiegò qualche tempo fa l’assessore all’Ambiente Stefania Giannuzzi — i costi sarebbero enormi».
In effetti, se il consiglio comunale fermasse la macchina burocratica — il bando ormai è concluso — innescherebbe l’intervento immediato della Corte dei Conti, con il rischio concreto di una pesante sanzione da diversi milioni di euro.
I no zoo hanno anche presentato un ricorso al TAR del Piemonte per fermare il bioparco.
Quando l’inceneritore di Parma venne messo in funzione, Beppe fece pressioni sul sindaco di Parma Pizzarotti all’epoca ancora nei 5 stelle.
Ma quello era Pizzarotti, non la Appendino.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
COMPLICAZIONI ED ERRORI DI VALUTAZIONE STANNO CAUSANDO I RITARDI NELLA REALIZZAZIONE DEI MODULI ABITATIVI
Una gara d’appalto preventiva viziata da un errore di valutazione dei vertici della Protezione civile. E una serie di sgangherati tentativi di recuperare a quell’errore, senza mai riuscire a trovare il bandolo della matassa.
Ecco cosa c’è alla base di molte delle difficoltà che stanno caratterizzando l’emergenza post-terremoto nell’Italia centrale.
Dove i moduli abitativi temporanei vengono consegnati a ritmi ridotti, e i sindaci si vedono costretti ad assegnare le casette ricorrendo al sorteggio.
Dov’è l’errore?
Nell’aver pianificato a priori, nel 2014, una strategia d’intervento che non prevedeva in alcun modo il ricorso ai container.
Solo dopo i terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre scorsi ci si accorge che quei container servono. Allora si indicono nuove gare d’appalto, ma lo si fa in fretta, e lo si fa male.
Col risultato che le spese aumentano, la macchina dell’emergenza s’ingolfa, tanto che — scriveva Libero — al 18 gennaio mancavano ancora 1300 posti nei container.
E gli sfollati devono rassegnarsi a sperare nella buona sorte per poter ricevere le chiavi della loro casetta.
La gara preventiva: solo casette, niente container. “Non si prevedeva di dovervi ricorrere”
Tutto inizia nell’aprile del 2014, quando la Protezione civile decide di aprire un bando (un “Accordo quadro”, tecnicamente) per “la fornitura, il trasporto ed il montaggio di soluzioni abitative in emergenza e i servizi a esse connessi”.
Non c’è stato alcun sisma grave, nelle settimane precedenti, ma l’allora capo dipartimento, Franco Gabrielli, sceglie di lanciare una gara preventiva.
Meglio indire simili bandi in tempo di quiete, così da farsi trovare pronti nel momento della tragedia: questo era il ragionamento alla base della procedura. Che viene gestita, come da prassi, dalla Consip (la centrale d’acquisti che fa capo al ministero dell’Economia).
La gara si chiude oltre un anno dopo, il 5 agosto 2015, e ad aggiudicarsela è il Consorzio nazionale dei servizi (Cns) di Bologna, iscritto alla Legacoop: spetterà al Cns costruire le casette per gli sfollati (le cosiddette Sae: Soluzioni abitative emergenziali) in caso di calamità nei successivi 6 anni.
La gara non prevede in alcun modo, però, la realizzazione di container o strutture utili a superare i primi mesi di crisi post-sisma.
Una leggerezza o un errore nella pianificazione dell’emergenza? Secondo i tecnici della Consip che hanno seguito quei dossier, “il punto è che all’epoca non si prevedeva che, nella gestione delle future crisi, si sarebbe deciso di puntare sui container”.
La Protezione civile era invece convinta che, dopo la fase iniziale delle tende, si passasse direttamente alle Sae.
“Del resto Gabrielli era stato Prefetto all’Aquila durante l’emergenza post-sisma del 2009. E lì il modello imposto da Berlusconi e Bertolaso era stato quello delle new town: dopo le tende, subito le case di legno, senza il periodo intermedio nei container”.
Così invece non è stato nel caso del terremoto che ha colpito il Centro Italia: “Evidentemente il governo ha ritenuto opportuno montare i container per superare l’inverno. Però nel 2014 non si poteva immaginare che la tragedia si sarebbe verificata in un territorio di montagna e a ridosso dei mesi più freddi dell’anno”.
Ma allora che senso ha fare un bando preventivo che non tenga conto di tutti i possibili scenari? In Consip si giustificano così: “Questo non dovete chiederlo a noi. Qui ci siamo limitati a gestire le procedure seguendo le direttive che ci dava la Protezione civile. Certo è che nel 2014 l’impiego dei container non veniva visto con favore da nessuno. Questa è stata una scelta adottata dal governo Renzi”.
Il pasticciaccio dell’appalto per i container. Necessarie 3 edizioni della stessa gara, una va deserta
Il governo e i container, dunque. E di nuovo gare d’appalto pensate male e gestite peggio.
È l’11 novembre del 2016 quando il Consiglio dei ministri, presieduto da Matteo Renzi, licenzia il decreto legge sulle procedure d’emergenza da adottare nel Centro Italia. Il giorno seguente, ecco la pubblicazione del bando (“Procedura negoziata d’urgenza”) da parte di Consip.
Obiettivo? La “fornitura di beni e servizi connessi, finalizzati all’allestimento delle aree di accoglienza”. Il bando prevede tre lotti (tre diverse forniture): uno dei quali riguarda proprio il “noleggio di container abitativi provvisori e servizi connessi”.
Base d’asta fissata a 80 milioni di euro. La gara si chiude il 17 novembre e la vincono 6 diverse ditte: dovranno consegnare 758 container entro un mese.
Ci si accorge subito, però, che questa fornitura è insufficiente a soddisfare le richieste crescenti dei Comuni del cratere, anche perchè le scosse continuano e le perizie che sanciscono l’inagibilità delle case si moltiplicano.
Si decide di fare un secondo bando, per cercare sul mercato nuovi container.
La gara (base d’asta di 20 milioni per i container) si apre il 20 novembre e si conclude 5 giorni dopo in modo clamoroso: deserta. Nessuna ditta ha risposto alla chiamata. Spiega un tecnico della Consip che ha seguito la procedura: “Dopo la prima gara abbiamo pensato di modificare i requisiti dei container, passando da un’altezza di 2 metri e 70 centimetri a 2 metri e mezzo”.
Perchè? “Ci sembrava, da alcuni sondaggi che avevamo svolto durante la prima gara, di poter avere maggiori riscontri sul mercato”. E menomale: visto che la procedura si conclude in un nulla di fatto.
Risultato? Si deve passare ad una terza gara. Una terza “procedura negoziata d’urgenza” in cui si mantengono gli stessi requisiti sulle misure standard (2 metri e mezzo d’altezza) ma si alza la base d’asta: da 20 a 36 milioni.
“Era inevitabile — spiegano in Consip — visto che molte imprese avevano disertato il secondo bando proprio temendo scarsi guadagni. Parecchie ditte del settore, inoltre, avevano quel tipo di container depositati all’estero, e dunque i costi di trasporto erano notevoli”.
Sarà , ma forse anche la modalità della procedura ha favorito il lievitare della base d’asta. Lo riconoscono anche i tecnici della Consip: “Ovvio, indire una gara subito dopo il terremoto invoglia gli imprenditori ad aumentare le loro pretese, consapevoli che in tempi di emergenza i costi di mercato si alzano”.
Dai ritardi nella consegna a quelli per la realizzazione delle casette
Ma a questo punto i ritardi si accumulano. Perchè il rallentamento nell’installazione dei container si ripercuote anche nella costruzione delle Sae, le casette d’emergenza a più lunga durata.
I sindaci dei Comuni colpiti dal terremoto si giustificano tutti allo stesso modo: dicendo, cioè, che nel giro di poche settimane hanno dovuto individuare sia le aree per le tendopoli sia quelle per i container.
A quel punto, i luoghi dove installare le Sae erano davvero pochi, anche in virtù della difficoltà con cui si può procedere all’esproprio di campi e terreni.
Ed è così che, di fronte alla difficoltà nel reperire le aree e renderle adatte ad ospitare le Sae, queste ultime vengono installate a ritmi più lenti.
E le consegne avvengono col contagocce: anzi, per sorteggio. È accaduto a Norcia l’11 gennaio, è accaduto ad Amatrice 9 giorni dopo.
Estrazione pubblica per decidere chi, tra i tanti sfollati che avevano avanzato richiesta, avesse diritto ad occupare una casetta.
Risultato? Rabbia dei cittadini e frustrazione dei sindaci.
Questi ultimi comprendono quanto la procedura sia paradossale, ma se gli si chiede un parere si giustificano spiegando che è inevitabile affidarsi ad un sistema a suo modo imparziale: “Oltre al sorteggio — dicono in coro — non vediamo soluzioni”.
E denunciano un’altra stortura che caratterizza la strategia adottata dalla Protezione civile. Il bando voluto da Gabrielli nel 2014, infatti, stabiliva che la ditta aggiudicatrice dovesse occuparsi solo della costruzione e della consegna delle Sae.
I lavori di urbanizzazione e quelli necessari per gli allacci dei servizi (dall’acqua al gas, energia elettrica) restano in capo alle amministrazioni locali: i Comuni o, a seconda della tipologia d’intervento, le Regioni.
Oppure, in casi specifici, il Genio militare. Una parcellizzazione delle responsabilità che comporta, inevitabilmente, ulteriori lungaggini.
L’altra gara d’appalto per i container: in stand-by per oltre 8 mesi, e aggiudicata solo dopo il terremoto
Spulciando tra le carte di Consip, si scopre che una gara d’appalto preventiva (“Accordo quadro”) per “il noleggio, il trasporto e l’installazione di moduli container in emergenza” c’è stata.
Non si tratta, però, di container a uso abitativo, ma di container destinati ad altri fini: mense, magazzini, box doccia. L’accordo, di validità di 6 anni, prevede consegne per un valore complessivo di 11,3 milioni.
Il bando viene pubblicato il 2 ottobre del 2015: la gara si chiude l’11 dicembre dello stesso anno. È quello il termine ultimo per la presentazione delle offerte. Perchè venga aggiudicata, però, bisogna attendere fino al 24 agosto 2016, guarda caso il giorno in cui Amatrice viene rasa al suolo.
Perchè questo ritardo? E perchè lo sblocco arriva solo a tragedia già avvenuta?
“Si tratta di tempi tecnici che rientrano nella media, per gare così complesse”, si giustificano in Consip.
E aggiungono: “È chiaro poi che il terremoto ha costretto ad accelerare le procedure”. Se si chiedono maggiori dettagli, però, nessuna risposta: “Bisognerebbe esaminare da capo tutti i verbali, compresi quelli delle analisi effettuate sulle varie offerte pervenute”.
Ad aggiudicarsi la gara, due ditte: la leccese R.I. Spa e la vicentina Frimat Spa, dove un responsabile conferma che “i tempi della burocrazia in Italia sono sempre lunghi”, ma ammette: “In questo caso, di fronte al prolungarsi dell’attesa, abbiamo comunque chiesto chiarimenti a Consip. Ci hanno detto che stavano valutando le offerte”.
Poi però è arrivato il terremoto, e tutto si è sbloccato.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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