Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
INTRALLAZZATE DI MENO, INVECE CHE ACCUSARE CHI VI COGLIE CON LE MANI NELLA MARMELLATA
Franà§ois Fillon incassa il colpo e parte al contrattacco. In risposta alla convocazione a comparire
davanti ai giudici fissata per il prossimo 15 marzo, questa mattina il candidato dei Rèpublicains ha organizzato all’ultimo minuto una conferenza stampa per annunciare che non si ritirerà dalla corsa all’Eliseo, visto che ormai “la democrazia è stata sfidata”.
Nel corso del suo intervento, durato meno di dieci minuti, il leader della destra ha fatto appello a tutto “il popolo francese”, dicendosi vittima di un “assassinio politico” che colpisce l’intera “elezione presidenziale”.
Il candidato dei Rèpublicains ha denunciato una violazione “dello stato di diritto” da parte della magistratura, colpevole di voler compromettere la sua candidatura convocandolo a poco più di un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali.
Fillon adotta così la strategia del vittimismo politico.
Puntando il dito contro le istituzioni, il leader repubblicano ha indossato i panni dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare del garantismo politico. Per rispondere alle accuse, il candidato ha scelto la via più diretta, inasprendo i toni del suo discorso fino al limite, con il risultato di esasperare il dialogo politico della sua campagna elettorale.
Seppur con argomenti diversi, lo stesso schema è stato adottato anche da Marine Le Pen. Oltre a essere coinvolta in un’inchiesta simile a quella del suo avversario per via di alcuni impieghi fittizi all’Europarlamento, la leader del Front National deve rispondere anche di finanziamenti illeciti delle precedenti campagne elettorali e di questioni riguardanti la mancata dichiarazione di alcuni beni immobiliari.
Dopo l’arresto di una sua collaboratrice e il rifiuto di comparire davanti alla polizia utilizzando l’immunità da europarlamentare, nei giorni scorsi la candidata dell’estrema destra ha fatto appello a una fantomatica “tregua giudiziaria” in questo periodo pre-elettorale
Durante un discorso pronunciato a Nantes la scorsa domenica, Marine Le Pen è arrivata a denunciare “il governo dei giudici” aggiungendo che, una volta vinte le elezioni, “questo potere politico sarà spazzato via” e che molti funzionari dovranno “assumersi le proprie responsabilità ”.
Parole pesanti, suonate come minacce indirizzate alle toghe di Parigi. Per tutta risposta, il sindacato dei magistrati ha replicato attraverso il suo portavoce, Benjamin Blanchet, che si è detto “costernato” da simili affermazioni “antirepubblicane”.
Tra scandali giudiziari, inchieste e dichiarazioni al vetriolo, queste elezioni presidenziali sembrano ormai segnate da un clima di tensione che potrebbe avere delle forti ripercussioni sui risultati.
Costretti a difendersi dalle accuse, i due rappresentanti della destra hanno ormai aperto un conflitto con la magistratura francese, facendo leva su posizioni anti-sistema e populiste.
Per il momento, l’unico a sfruttare questa situazione a suo vantaggio è Emmanuel Macron.
Secondo gli ultimi sondaggi, l’ex ministro dell’Economia risulterebbe vincitore al ballottaggio contro Marine Le Pen, ottenendo il 58% delle preferenze.
Dato inizialmente come favorito, dopo lo scoppio del Penelopegate Fillon ha perso parecchi punti, precipitando rovinosamente nei sondaggi. Il candidato della destra non passerebbe neanche il primo turno, restando fermo al 20%.
In visita al salone dell’agricoltura, Macron ha commentato il discorso del suo rivale definendolo come “il segno di una perdita di nervi”.
In altre parole, Fillon non sarebbe più una minaccia per il leader di En Marche!, che dopo questi ultimi eventi ha dinnanzi a sè una strada spianata verso l’Eliseo.
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
A DUE SETTIMANE DAL VOTO, CROLLA IL CONSENSO PER UN ALTRO LEADER POPULISTA RAZZISTA, SCESO AL 15%
Il partito olandese di estrema destra PVV, guidato dal leader islamofobo e anti-europeo Geert Wilders, è sceso al secondo posto nei sondaggi per la prima volta da novembre.
Lo scrive Politico.eu, che cita il sito aggregatore di sondaggi Peilingwijzer.
Mentre mancano due settimane al voto, il Partito della Libertà (PVV) è sceso al 15,7%, mezzo punto percentuale sotto il Partito del Popolo per la Libertà e la Democrazia del primo ministro liberale Mark Rutte, dato al 16,2%.
In base alle ultime rilevazioni, il partito liberale VVD di Rutte sarebbe in prima posizione con 23-27 seggi; il PVV di Wilders otterrebbe tra i 22 e i 26 seggi sui 150 alla Camera con un chiaro trend negativo nelle ultime settimane.
I cristiano democratici della CDA avrebbero recuperato terreno, attestandosi tra i 17 e i 19 seggi, seguiti dai liberali di sinistra dei D66 e dai Verdi entrambi con 16-18 seggi. Infine, l’estrema sinistra maoista del Partito socialista e i laburisti del PvdA (che partecipano al governo di grande coalizione con Rutte) otterrebbero tra i 12 e i 14 seggi ciascuno.
In realtà il partito xenofobo PVV, nonostante i media “sovranisti” ne abbiano esaltato le possibilità di vittoria, non era mai andato oltre il 17% e, anche se finisse primo partito, tutti le altre formazioni politiche hanno già affermato che non si alleerebbero mai con Wilders quindi non potrà mai governare.
Se poi dovesse subire il soprasso del partito liberale di Rutte, sarebbe un colpo fatale per la sua immagine con evidenti riflessi negativi per gli altri “sovranisti” europei.
(da agenzie)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
LUI REPLICA: “NESSUNO MI HA MAI PROMESSO SOLDI, NE’ IO HO MAI CHIESTO NULLA”
L’indagine che ha portato all’arresto di Alfredo Romeo, imprenditore campano, che avrebbe
distribuito mazzette per aggiudicarsi gli appalti della Consip, fa un salto di qualità e arriva a toccare un livello politico.
Nel decreto di perquisizione a carico di Carlo Russo, uno dei tramiti attraverso i quali Romeo avrebbe cercato entrature presso i vertici dell’azienda di Stato, è spuntato fuori il nome di Tiziano Renzi.
Il padre dell’ex premier, insieme a Russo, si sarebbe fatto promettere indebitamente soldi per sfruttare la sua influenza e porsi come tramite dell’a.d. di Consip, Luigi Marroni.
Il gip scrive: l’imprenditore Carlo Russo e Tiziano Renzi “sfruttando le relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e Luigi Marroni si facevano promettere indebitamente” “da Alfredo Romeo che agiva previo concerto con Italo Bocchino, suo consulente, utilità a contenuto economico, consistenti nell’erogazione di somme di denaro mensili, come compenso per la loro mediazione verso Marroni”, in relazione allo svolgimento di gare.
La smentita di Tiziano Renzi
Tiziano Renzi, in serata, affida ad una nota la sua smentita: “Nessuno mi ha mai promesso soldi, nè io ho chiesto alcunchè. Gli unici soldi che spero di ottenere sono quelli del risarcimento danni per gli attacchi vergognosi che ho dovuto subire in questi mesi”.
L’arresto di Romeo
Romeo è stato arrestato questa mattina dai carabinieri e dalla guardia di Finanza in relazione ad un episodio di corruzione nell’ambito dell’inchiesta Consip. Nei confronti di Romeo il gip del tribunale di Roma ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Si tratta di un filone di indagine nato a Napoli e per il quale l’imprenditore napoletano è indagato dai pm partenopei per associazione a delinquere di stampo mafioso, emigrato poi a Roma per competenza. In questa tranche romana, risultano indagati l’allora sottosegretario Luca Lotti, il generale dell’Arma Tullio Del Sette e il padre dell’ex premier, Matteo Renzi, Tiziano.
Secondo le ricostruzioni, dal 2012 ad oggi Marco Gasparri, già direttore Sourcing Servizi e Utility di Consip e ora destinato ad altro incarico, era retribuito più o meno con regolarità mensile da Romeo, coadiuvato come consulente dall’ex parlamentare di Fli Italo Bocchino, per una cifra complessiva pari a 100mila euro, oggetto di sequestro preventivo a carico dello stesso dirigente.
Il gip: “Lotta imprenditoriale a suon di tangenti”
Una lotta imprenditoriale per aggiudicarsi gli appalti che, a detta degli stessi indagati, “sembra essere gestita a suon di tangenti” o attraverso la “ricerca di appoggi all’interno dell’ ‘alta politica’”.
Lo scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Romeo. Dalle indagini, dice il Gip, è emerso un “gravissimo quadro di possibile infiltrazione criminale in Consip, almeno quanto ad alcune gare” tra cui la Fm4, il facility management del valore di 2,7 miliardi.
“Romeo e Gasparri comunicavano tramite pizzini”
Romeo e Gasparri, anche nei vari ‘faccia a faccia’ riservati, erano soliti comunicare tramite ‘pizzini’ per timore di essere intercettati. È quanto è emerso dall’inchiesta. Nell’ordinanza del gip Sturzo si dà conto dell’attività dei carabinieri del Noe che rovistando nella spazzatura dell’ufficio romano di Romeo sono riusciti a rimettere assieme i vari pezzi di carta e a ricostruire i dialoghi tra i due protagonisti indagati per corruzione, scoprendo cosi’ il meccanismo di pagamento di tangenti e promesse di utilità “.
Corruzione per asservimento della funzione è il reato che il gip Gaspare Sturzo, accogliendo l’impostazione del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e dal pm Mario Palazzi, ha contestato nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere a Romeo in concorso con Gasparri, che, nella veste di pubblico ufficiale, girava all’imprenditore napoletano informazioni riservate, suggerimenti e risposte da dare ai fini dell’aggiudicazione delle gare, a cominciare da quella FM4 del valori di 2,7 miliardi di euro, suddivisa in 18 lotti (la cui aggiudicazione e’ ancora in corso).
Gasparri, però, è stato solo denunciato a piede libero: per i magistrati romani mancano le esigenze cautelari tenuto conto che il dirigente Consip sull’episodio corruttivo ha reso a suo tempo ampia confessione.
Tra le fonti di prova, ci sono anche alcune intercettazioni telefoniche e ambientali tra Romeo e Gasparri e una serie di documenti, a cominciare dalle agende in cui venivano appuntati gli incontri tra i due e indicate le promesse di denaro verso il dirigente Consip.
(da agenzie)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
INUTILE SCANDALIZZARSI SE CHI HA SFORATO LA SOGLIA DI 24.000 EURO NON HA DIRITTO AL BONUS E DEVE RESTITUIRLO, GIA’ SI SAPEVA… IL PROBLEMA E’ CHI SFORA VERSO IL BASSO LA SOGLIA DEL BONUS ( E NON AVER DESTINATO 9 MILIARDI A CHI NON CE LA FA PIU’ A TIRARE AVANTI)
Ha suscitato molto clamore l’annuncio dato dai giornali del “flop” del bonus da 80 euro varato dal Governo Renzi.
Oggi infatti il MEF ha comunicato che i dati relativi alle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2015: tra gli 11,9 milioni di soggetti che avevano ottenuto il bonus di 80 euro dal datore di lavoro, circa 966.000 hanno dovuto restituire integralmente il bonus in sede di dichiarazione, mentre 765.000 soggetti hanno dovuto restituire solo una parte del bonus ricevuto.
A restituirlo, come abbiamo già spiegato, sono quei lavoratori dipendenti che nel corso dell’anno hanno percepito redditi che hanno superato la soglia massima oltre la quale il bonus viene concesso, ovvero i 24 mila euro lordi annui.
Matteo Renzi chiede di dire la verità sugli ottanta euro, eccola.
In poche parole coloro che hanno dovuto restituire del tutto, o in parte il bonus IRPEF, lo devono fare perchè hanno guadagnato di più e quindi sono usciti dalle soglie.
Non è quindi che lo Stato sta mettendo le mani nelle tasche degli italiani ma sta restituendo qualcosa cui non aveva (o non ha più) diritto.
Questo fatto era già diventato oggetto di propaganda da parte del MoVimento 5 Stelle l’anno scorso e non significa che il bonus da ottanta euro sia per questo un flop o che si tratta di una beffa semmai dimostra che il meccanismo del bonus è stato concepito in maniera sbagliata.
Forse si sarebbe potuto evitare tutto il clamore sulla restituzione e sul flop evitando di erogare il bonus mensilmente ma preferendo farlo come forma di conguaglio a fine anno, in questo modo il lavoratore avrebbe avuto la certezza di essere rientrato nelle soglie di reddito previste con la sicurezza di avere diritto al bonus.
Può capitare a molti di essere licenziati o di perdere il lavoro (abbassando così il reddito annuo) o di ricevere un aumento che lo innalza in modo sensibile oltre la soglia.
Le cifre però parlano chiaro ed è davvero impossibile dire che il bonus sia stato un flop perchè circa un milione di lavoratori hanno dovuto restituirlo tutto o in parte: per coloro che hanno un reddito complessivo fino a 24.000 euro l’importo del Bonus Irpef spetta per un totale annuo di 960 euro, mediamente l’importo annuo del bonus è di 800 euro per un costo complessivo (per lo Stato) pari a 9 miliardi di euro.
Dall’analisi delle dichiarazioni fiscali — spiega il MEF — i soggetti che hanno fruito del bonus in sede di dichiarazione per l’intero ammontare risultano 514.000, mentre 1.009.000 soggetti ne hanno recuperato in dichiarazione una quota, a integrazione dell’importo già in parte erogato dal sostituto d’imposta.
Insomma, se è vero che quasi un milione e settecentomila lavoratori hanno dovuto restituire il bonus è anche vero che un milione e mezzo che prima non ne avevano diritto hanno potuto percepirlo del tutto o in parte.
Conti alla mano l’importo recuperato dai lavoratori (697 milioni di euro) è superiore a quello che ha recuperato lo Stato (508 milioni di euro).
Non sono tutte rose e fiori però, per chi si trova ad avere un reddito tra i 24 mila e i 26 mila euro il prelievo fiscale è così elevato da mangiarsi quei duemila euro in più.
Quello che Matteo Renzi non dice
Fin qui le ragioni di Renzi e i torti di chi dice che la misura è un fallimento o un flop. Abbiamo però fino ad ora parlato solo del problema visto dalla parte di chi ha guadagnato di più, uscendo dalla soglia dei 1.500 euro al mese.
Questione di giustizia sociale — si dirà — in quel caso dover restituire quanto percepito in modo da poterlo dare a “chi ne ha veramente bisogno”.
Il bonus però si applica ad una fascia ben precisa di redditi e non a tutti i redditi fino ai 24 mila euro.
Per coloro che hanno un reddito inferiore ai 7.500 euro annui il bonus non si applica.
Questi lavoratori vengono considerati incapienti e quindi non sono tenuti a pagare le tasse e godono dell’esenzione fiscale totale dal pagamento dell’IRPEF.
Tutto “bene” (si fa per dire) per chi mantiene quel reddito durante il corso dell’anno ma ci sono dei problemi per chi “precipita” al di sotto della soglia minima sotto la quale non si ha diritto al bonus.
Basta perdere il lavoro e scendere sotto i seicento euro all’anno per essere costretti a dover restituire la parte di bonus che fino a quel momento si è incassato, il MEF non dice quanti sono ma si stima che nel 2015 340 mila italiani si siano trovati in questa situazione.
Ed è qui che la grande manovra di redistribuzione e giustizia sociale mostra tutti i suoi limiti perchè chi già ha poco (ricordiamo che il reddito minimo sulla soglia della povertà relativa oscilla trai seicento e i settecento euro al mese) è costretto a restituire in un’unica soluzione soldi che probabilmente ha già speso (o potrebbe spendere) per beni di prima necessità , non per lussi sfrenati.
Di nuovo, sarebbe stato meglio evitare di utilizzare il bonus come una mancetta elettorale e erogarlo al momento della dichiarazione dei redditi come conguaglio per evitare una situazione così dolorosamente assurda per le tasche di chi già prende poco. Fa ridere quindi che su Facebook la pagina a sostegno di Renzi “In Cammino” concluda il suo fact checking festeggiando il fatto che “i soggetti che complessivamente di fatto nel 2015 non hanno versato l’Irpef, cioè quelli che fanno parte dell’area dei contribuenti aventi una imposta pari a zero, salgono da circa 10 milioni a 12,2 milioni, cioè di 2,2 milioni!” con tanto di punto esclamativo.
Se vi fosse sfuggito significa festeggiare che nel 2015 ci sono stati 2,2 milioni di lavoratori incapienti in più, ovvero vicini alla soglia di povertà relativa.
Se a qualcuno pare poco…
(da “NextQuotidiano“)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
LA MEDIAZIONE DI POLETTI PER DEPOTENZIARE IL REFERENDUM
Sette giorni per disinnescare il referendum della Cgil sui voucher. Ci prova il ministro del Lavoro,
Giuliano Poletti, che propone di limitare l’utilizzo dei buoni lavoro solo alle famiglie, escludendo le imprese.
E il Parlamento, secondo quanto apprende l’Huffington Post, è intenzionato a sposare la linea del ministro.
Nel corso della riunione del comitato ristretto della commissione Lavoro della Camera, infatti, Pd, Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega Nord hanno condiviso l’orientamento espresso dalla relatrice dem Patrizia Maestri che confluirà in un testo base all’esame della stessa commissione mercoledì prossimo.
Un testo base che potrebbe piacere al sindacato guidato da Susanna Camusso visto che i voucher saranno fortemente limitati.
La relatrice ha proposto di limitare fortemente l’utilizzo dei voucher nelle imprese, ammettendoli solo per quelle che hanno fino a un massimo di un dipendente.
I rappresentanti di tutti gli altri gruppi, con eccezione di Ap, non solo hanno detto sì, ma si sono spinti ancora più in là : l’orientamento è quello di escludere totalmente le imprese dalla possibilità di ricorrere ai voucher.
Un orientamento che – assicura la stessa relatrice – confluirà nel testo base della proposta che, una volta approvata dalla commissione Lavoro, passerà all’esame dell’emiciclo di Montecitorio.
“Se si vanno a vedere i dati – spiega Maestri – l’aumento e l’abuso dei voucher non hanno caratterizzato fortemente le famiglie”, mentre è avvenuto il contrario per le aziende.
Nel testo base saranno contenute anche le nuove norme sull’utilizzo dei voucher nella pubblica amministrazione. La linea emersa in commissione è quella di limitarne l’uso solo a eventi straordinari legati a solidarietà , calamità naturali e manifestazioni di grande portata. Solo eccezioni, quindi, perchè la regola generale sarà quella del divieto assoluto.
Ci sarà poi una deroga, riservata solo a studenti e pensionati, per chi è impiegato nelle vendemmie e nella raccolta stagionale di frutta. I voucher non potranno essere utilizzati invece dai disoccupati .
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
APPROVATO EMENDAMENTO CHE PROTEGGE I RESIDENTI IN UK
Non riusciranno a salvare l’Europa, ma almeno i Lord britannici provano a salvare gli europei. Non tutti: i 3 milioni che vivono nel Regno Unito.
La camera alta del parlamento di Westminster vota 358 a 256 per concedere a tutti loro (compresi circa mezzo milione di italiani) il diritto incondizionato di rimanere a tempo indeterminato in questo paese anche dopo la Brexit.
Anche il governo di Theresa May fa la stessa promessa, ma è appunto solo una promessa, condizionata alla concessione di un diritto analogo a oltre 1 milione di cittadini britannici residenti negli altri paesi dell’Unione Europea.
In pratica, per Downing Street è un diritto da reciproco da regolare nel corso del negoziato di ‘divorzio’ fra Londra e Bruxelles che dovrebbe cominciare questo mese e durare due anni. Si sa tuttavia come vanno i divorzi: è facile bisticciare e quello tra Gran Bretagna e Ue si annuncia litigiosissimo.
“Sarebbe disumano trattare gli europei che vivono tra noi, che lavorano nei nostri ospedali e nelle nostre scuole, come merce di scambio sul tavolo delle trattative”, dice la baronessa Hayter, una dei lord che hanno votato a favore del provvedimento.
È uno sgambetto alla Brexit, il primo tirato dal Parlamento.
Potrebbe essere soltanto uno sgambetto simbolico, perchè ora la decisione torna alla camera dei Comuni, che nei giorni scorsi aveva approvato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, il ‘grilletto’ della secessione britannica dalla Ue, senza alcun emendamento. Se i Comuni ci ripensano e voteranno come i Lord sulla questione dei residenti europei, per la premier May sarebbe una seria sconfitta.
Altrimenti comincerà un ‘ping pong’, qui lo chiamano proprio così, fra le due Camere, in cui i Comuni in teoria dovrebbero avere l’ultima parola, perchè la Camera bassa è eletta dal popolo, quella alta è composta di membri nominati dalla regina su indicazione del primo ministro di turno.
Come che sia, è la prima volta, dal voto nel referendum popolare del giugno scorso, che la Brexit subisce una battuta d’arresto.
Ed è paradossale che infliggergliela siano i Lord, visti nell’immaginario popolare come una creatura della democrazia ‘made in Britain’ antiquata fin dal nome, obsoleta e neanche democratica.
In realtà , le cose non sono esattamente così.
Un tempo, per secoli, i seggi alla Camera dei Lord andavano soltanto ai ‘pari del regno’, ovvero all’aristocrazia, ed erano ereditari, passati di padre in figlio (primogenito).
Poi però il governo laburista di Tony Blair, tanto odiato oggi, ma che qualcosa di buono ha fatto, l’ha riformata: i seggi ereditari sono adesso meno del 10 per cento, gli altri sono tutti ‘di nomina governativa’.
E questo ha fatto sì che la Camera dei Lord sia diventata nel giro di vent’anni una sorta di ‘camera dei saggi’, i cui membri sono l’equivalente di senatori a vita, quasi tutti con grandi benemerenze: scienziati, docenti universitari, ex-leader politici di primo piano, grandi avvocati, grandi esperti in tutti i campi del sapere umano.
Non prendono nemmeno uno stipendio per questo onore, bensì 300 sterline per ogni seduta a cui partecipano.
E l’ermellino rosso lo mettono in realtà sulle spalle soltanto una volta all’anno, quando la regina viene a fare il suo discorso appunto annuale in Parlamento.
Se gli europei di Londra, alquanto depressi dalla Brexit, preoccupati di venire deportati (a qualcuno è successo), irritati dal rifiuto della carta di residenza permanente (è successo anche questo, di recente a un francese sposato con una scozzese e residente qui da 25 anni), amareggiati dal non potersi più sentire a casa propria in quella che era fino a meno di un anno fa la più grande capitale multietnica d’Europa, se questi 3 milioni di persone devono ora ringraziare qualcuno, sono gli anziani lord, i baroni e le baronesse (di nomina, non di lignaggio, va ricordato: non hanno terre e castelli).
Vedremo come andrà a finire, ma intanto, almeno per una sera, il fronte anti-Brexit celebra una vittoria.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
I REPUBBLICANI NON VOGLIONO LA BREXIT E PREMONO PER UN REFERENDUM CHE RIPORTEREBBE L’ULSTER CON L’EIRE… MA E’ FORTE L’OPPOSIZIONE DEGLI UNIONISTI
Le elezioni del 2 marzo segneranno uno spartiacque decisivo nella storia del processo di pace in
Irlanda del Nord.
Le dimissioni del vicepremier Martin McGuinness, storico esponente dei repubblicani di Sinn Fèin, hanno fatto cadere il governo formato meno di un anno fa aprendo la strada al voto anticipato, ma hanno anche creato i presupposti per una lunga stagione di instabilità nella regione.
Questa crisi è infatti la diretta conseguenza della profonda divisione che tuttora caratterizza la società nordirlandese, il sintomo inequivocabile della chiusura di una fase storica e politica avviata con la firma dell’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Uno dei capisaldi della pace raggiunta a Belfast ormai quasi un ventennio fa era la politica del ‘power sharing’, ovvero la condivisione dei poteri tra i maggiori partiti del Paese.
Sinn Fèin e Dup, espressione della comunità cattolico-repubblicana e di quella unionista-protestante, erano stati chiamati a governare insieme su una serie di questioni ‘devolute’ dal Parlamento britannico.
Un meccanismo istituzionale che almeno negli ultimi dieci anni ha funzionato, contribuendo a chiudere i conti con il passato e con una stagione di violenza che pareva interminabile.
Al tempo stesso non è però riuscito a proiettare il Paese nel futuro poichè non è stato capace di ricostruire il tessuto sociale ed economico dopo decenni di conflitto.
La convivenza tra le due comunità continua a essere assai problematica a causa di una struttura sociale profondamente settaria e basata sulla segregazione religiosa.
Ancora oggi, appena il 7% degli studenti dell’Irlanda del Nord frequenta scuole integrate, mentre tutti gli altri seguono un percorso educativo che viaggia su binari rigidamente separati in base all’appartenenza confessionale.
Le famiglie vivono in comunità divise, e sia a Belfast sia in altre città sono ancora presenti numerose ‘peace line’, le barriere di cemento e lamiera che dividono per motivi di sicurezza i quartieri cattolici da quelli protestanti.
Come se non bastasse, le statistiche più recenti parlano di una disoccupazione giovanile al 20% e della crescita costante del tasso di criminalità e della diffusione di droghe.
Ufficialmente, l’ex vicepremier McGuinness ha fatto cadere il governo per prendere le distanze dal primo ministro Arlene Foster (Dup), coinvolta in uno scandalo relativo al cattivo utilizzo degli incentivi per la riconversione delle industrie più inquinanti, ma in realtà le sue dimissioni sono arrivate dopo un lungo percorso di scontro tra i due partiti di maggioranza relativa dell’esecutivo nordirlandese.
Da tempo Sinn Fèin lamenta una sostanziale subalternità nei confronti della controparte unionista e, forte anche della crescita registrata al sud negli ultimi anni, vorrebbe ridiscutere alcuni dei punti stabiliti dall’Accordo del 1998 alla luce degli esiti del referendum sulla Brexit.
I due partiti di governo hanno affrontato la campagna referendaria su sponde opposte (Dup pro-Brexit, Sinn Fèin contrario), e l’esito del voto nordirlandese ha espresso una chiara maggioranza a favore della permanenza nella Ue (56%).
Ciò ha fatto tornare con forza all’ordine del giorno il tema della riunificazione dell’isola (l’Ulster con l’Eire), obiettivo storico dei repubblicani ma da sempre ferocemente osteggiato dagli unionisti (che vorrebbero tornare con Londra).
Adesso il problema non è più solo di natura politica ma anche costituzionale, poichè l’accordo di pace ha stabilito che la popolazione del Nord ha diritto alla cittadinanza irlandese e quindi dell’Unione europea.
Sulla falsariga di quanto sta accadendo anche in Scozia, Sinn Fèin sostiene che il governo inglese non rappresenta più gli interessi economici e politici di una popolazione che ha votato in maggioranza per il ‘Remain’ e insiste sulla necessità di un referendum per la riunificazione con Dublino.
Alcuni giorni fa il presidente di Sinn Fèin Gerry Adams — unico leader rimasto tuttora in carica tra i protagonisti dell’Accordo del 1998 — ha detto che se Londra farà uscire l’Irlanda del Nord dalla Ue compierà «un atto ostile» che distruggerà il processo di pace. «Il premier britannico — ha aggiunto — ha confermato l’intenzione di porre un termine alla giurisdizione della Corte europea e ritirare la Gran Bretagna dalla convenzione europea sui diritti umani, una posizione che minaccia gli elementi fondamentali riguardanti i diritti umani dell’Accordo del Venerdì Santo».
Parole pesanti, che secondo i più pessimisti potrebbero persino scoprire il fianco agli estremisti che da sempre contestano il compromesso che è alla base di quell’accordo.
I timori più consistenti riguardano il possibile ripristino della frontiera tra le due parti dell’Irlanda, un tempo presidiata militarmente e teatro di scontri e attentati, la cui stessa presenza simbolica potrebbe alimentare le attività dei gruppi dissidenti con effetti assai controproducenti sul processo di pace.
Ma nonostante qualche isolato rigurgito di violenza, i repubblicani irlandesi hanno ormai definitivamente messo da parte il passato rivoluzionario e Sinn Fèin, un tempo braccio politico dell’Ira, ha consolidato il proprio profilo politico-istituzionale affidando la leadership alla 40enne Michelle O’Neill, che non ha trascorsi nella lotta armata e incarna alla perfezione il volto nuovo di un partito sempre più proiettato nel futuro.
Il loro obiettivo, da raggiungere attraverso una strategia di medio periodo sfruttando anche la leva della Brexit, è la riunificazione dell’isola sul modello della Germania post-1989.
La divisione dell’Irlanda fu imposta dagli inglesi nel 1922 contro il volere degli irlandesi, con l’unico scopo di creare una maggioranza artificiale, ‘un Parlamento protestante per uno Stato protestante’ basato su una sistematica discriminazione nei confronti dei cattolici.
Un’entità geopolitica creata a tavolino che col trascorrere del tempo è implosa fino a portare la guerra nelle strade, e che ormai appare del tutto anacronistica sul piano storico, economico e demografico.
All’ultimo censimento effettuato nel 2011, il 48% della popolazione dell’Irlanda del Nord si è dichiarato protestante e il 45% cattolico, confermando una tendenza in corso da anni e che è destinata a ribaltare in tempi brevi la dinamica demografica della regione.
Per la prima volta, nella storia ormai quasi centenaria della Northern Ireland, i protestanti si ritroveranno a essere una minoranza.
Ma è sul piano strettamente economico che l’esistenza stessa dell’Irlanda del Nord dimostra ormai di non avere più alcun senso: troppo piccola e marginale rispetto all’economia britannica, è al tempo stesso troppo legata ai sussidi del governo di Londra per poter sopravvivere autonomamente.
Secondo un recente studio di un gruppo di ricerca indipendente, la riunificazione porterebbe enormi benefici a entrambe le parti dell’isola trainando le economie del Nord e della Repubblica verso una crescita stimata in oltre trenta miliardi di euro in meno di un decennio.
Un effetto virtuoso che sarebbe raggiungibile unendo sistemi economici già in larga parte interdipendenti ma non allineati tra loro.
Se il Nord adotterà l’euro e il regime fiscale della Repubblica — sostiene lo studio —, vedrà crescere esponenzialmente le esportazioni e il Pil pro-capite, mentre Dublino trarrà beneficio dall’abbattimento delle barriere d’accesso al mercato del Nord.
Anche una città come Belfast, che ha saputo solo in minima parte riconvertire il suo passato industriale e presenta oggi tassi di povertà e disoccupazione preoccupanti, potrebbe approfittare dello sviluppo e degli investimenti esteri che negli ultimi anni hanno arricchito città come Dublino, Cork e Galway.
Non è un caso che l’ex premier nordirlandese Peter Robinson — un tempo strenuo oppositore di un’Irlanda unita, al pari di tutta la comunità unionista — abbia mostrato apprezzamento del dinamismo economico della Repubblica e abbia cercato di armonizzare le politiche fiscali tra Belfast e Dublino.
Dopo l’esito del referendum sulla Brexit, i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno cominciato a fare la fila per prendere il passaporto della Repubblica, terrorizzati dall’idea di perdere lo status comunitario e consapevoli che l’economia della regione non potrebbe fare a meno del miliardo di euro di fondi che arrivano ogni anno da Bruxelles.
Persino il pragmatico primo ministro irlandese Enda Kenny, alcuni mesi fa, ha aperto alla possibilità di una United Ireland, sollecitando paragoni con quanto fece la Germania Est nel 1990.
D’altra parte è lo stesso Accordo del Venerdì Santo a prevedere l’eventualità di un referendum per riunire il Nord al Sud, se e quando sarà la popolazione a volerlo.
Gli sviluppi politici, economici e demografici fanno dunque pensare che il ‘muro’ di Belfast possa davvero cadere e che la riunificazione dell’isola rappresenti ormai la soluzione plausibile per chiudere un capitolo lungo e doloroso della storia europea.
(da “Avvenire“)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
LA LITE CON GRAMELLINI E LE SENTENZE DEI GIUDICI… PRESENZE IN COMMISSIONE AL PARLAMENTO EUROPEO 18%… PRESENZE A VOTAZIONI AL COMUNE DI MILANO 15,1%… NON FA NEANCHE IL LAVORO PER CUI E’ STATO ELETTO
Dopo la notte degli Oscar Matteo Salvini si è scagliato contro Alessandro Bertolazzi, l’italiano vincitore del Premio Oscar per il miglior make up.
Nel momento di ricevere il premio Bertolazzi, come la grande maggioranza degli artisti che si sono avvicendati sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, ha criticato le politiche di Trump contro gli immigrati ricordando di essere lui stesso un immigrato.
Salvini ovviamente non ha gradito e da grande amico di Trump qual è si è subito premurato di bastonare il “buonista con il portafoglio pieno” che predica l’accoglienza ma non soffre dei problemi che ne derivano.
Per il Segretario della Lega Nord è facile difendere gli immigrati quando si è ricchi e famosi, quando si è dei privilegiati. Meno invece se si è poveri o se si sta subendo “l’invasione degli immigrati” sulla propria pelle come è il caso degli italiani.
A questa banale affermazione populista che è servita a Salvini per continuare ad alimentare quei sentimenti di odio e di insofferenza nei confronti dei “professoroni” che dall’alto della loro torre d’avorio (o dalla loro casa ad Hollywood) pretendono di spiegare la realtà quotidiana ai comuni mortali ha risposto ieri nel suo Caffè sul Corriere della Sera Massimo Gramellini che ha fatto notare che Salvini è un privilegiato, che non ha mai lavorato e che non svolge il compito per cui è pagato dai contribuenti (italiani ed europei).
Nessuno può mettere in dubbio che Salvini sia un privilegiato. Uno che non ha mai lavorato un minuto in vita sua e viene pagato dai contribuenti per non combinare nulla, dato che al Parlamento europeo non si fa vedere quasi mai, forse per timidezza, e trascorre le giornate a scagliarsi contro quella stessa Europa che gli passa un generosissimo stipendio. Il classico esempio di ipocrisia al potere, direbbe Salvini di Salvini. Facile fare i razzisti col portafoglio pieno.
Oggi sul Corriere è pubblicata una lettera di Salvini che si premura di smentire le affermazioni fatte da Gramellini ricordando che non è vero che non ha mai lavorato in vita sua ma che “in realtà ho iniziato a 16 anni e da 20 faccio il giornalista, che mi sembra sia il suo stesso privilegiato mestiere.”
Roba da sbellicarsi dalle risate, paragonare uni stipendio da funzionario di partito a quello di un giornalista (con che contratto e qualifica poi non è dato sapere)
Non è la prima volta che qualcuno accusa Salvini di non aver mai lavorato un giorno in vita sua, lo aveva già fatto il giornalista Davide Vecchi sul Fatto Quotidiano in questo articolo dove si accusava Salvini di non aver lavorato mai un giorno in vita sua. Salvini aveva deciso di querelare sia Vecchi che il Fatto ma il Gip di Bergamo ha archiviato la querela scrivendo, tra l’altro, che “neppure Salvini ha potuto dimostrare di aver fatto ‘qualcosa’ al di fuori della Lega”.
E già che c’era, ha precisato anche altro:
Il gip non si scaglia contro la politica. Prende solo atto di un sentire diffuso: “Quanto alla storia del non aver mai lavorato, basta osservare che — nel linguaggio comune — costituisce una frase che si predica del (deprecatissimo!) ‘professionista della politica’ che —magari ‘politicamente’ occupato per 15 ore al giorno — tuttavia non svolge o non ha mai svolto nessuna ‘attività civile’”.
Salvini, quindi, politico di professione, che nemmeno brillerebbe per le sue presenze in aula: “Si tratta — aggiunge il gip — innanzitutto di valutare quali siano gli aspetti platealmente menzogneri dell’articolo di Vecchi: e francamente non se ne ritrovano, nella misura in cui l’accusa di“assenteismo” viene collegata alle specifiche affermazioni di un eurodeputato socialista francese (e comunque non trovano una particolare smentita nei report del parlamento europeo)”.
Povero Salvini, bocciato su tutta la linea, anche quando si indigna per le accuse sulla gestione della Padania: “L’accusa di aver mandato (economicamente) a catafascio il giornale di partito, tenuto in vita soltanto dai contributi pubblici, riporta a circostanze sotto gli occhi di tutti (e poco importa che si tratti di un destino rivelatosi comune a tutte le altre testate di partito)”. Lo dice il giudice.
In un’altra circostanza, durante una puntata di Quinta Colonna Salvini si era dovuto difendere dalla stessa accusa, mossagli questa volta da un cittadino di Terni che gli rinfacciava di non aver mai lavorato.
Salvini aveva utilizzato la solita difesa d’ufficio spiegando che «Il signore dice che non ho mai lavorato nella vita, riguarda anche te — risponde Salvini rivolgendosi a Del Debbio — Io ho fatto per dieci anni il giornalista. Fare il giornalista significa non lavorare nella vita?».
Era il 16 febbraio del 2016, un anno dopo Salvini — che il giornalista l’ha fatto da privilegiato lavorando per gli organi di partito (La Padania e Radio Padania) che stavano in piedi grazie ai contributi pubblici per l’editoria ovvero ai soldi degli italiani — scrive a Gramellini che invece fa il giornalista da vent’anni.
Non scrive invece e che nel frattempo ha fatto chiudere il giornale, aprendo un blog, e mettendo in cassa integrazione i giornalisti della Padania e nemmeno parla di quando va a fare i corsi d’aggiornamento obbligatori per giornalisti firmando e uscendo dall’aula.
Riguardo al fatto di essere un assenteista Salvini ricorda a Gramellini che le sue presenze nelle votazioni a Strasburgo e Bruxelles “sono dell’89% e per produttività ho dietro di me oltre 500 parlamentari“.
Anche qui però Salvini non racconta tutta la verità , ad esempio non spiega come mai quando c’era da votare per destinare i fondi europei alle zone del Centro Italia colpite dal terremoto lui non era in Aula, oppure non racconta di aver già perso una causa per diffamazione intentata contro il segretario generale della FIM (il sindacato dei metalmeccanici), ovvero Marco Bentivogli, che aveva detto a Salvini “Lei è il più grande assenteista di Bruxelles” durante uno scambio di battute tra i due nel corso di un programma su La7 nel luglio 2015. Bentivogli aveva commentato con soddisfazione l’archiviazione del procedimento: “Dire che Salvini è un assenteista non è diffamazione, perchè è semplicemente la verità , non avevo dubbi che la querela sarebbe stata rigettata, anche perchè i dati delle presenze dei parlamentari europei sono pubblici e scaricabili dal sito e, quindi, visibili a qualunque cittadino”, ricordando di come Salvini “partecipi solo per il 18%” ai lavori della Commissione sul commercio internazionale di cui fa parte.
Ed è proprio questo il punto, la presenza alle votazioni alle sedute plenarie non è di per sè una discriminante per poter dire che un eurparlamentare è “produttivo”, perchè il grosso del lavoro si svolge nelle commissioni.
E che Salvini in Commissione ci vada poco ne abbiamo avuto una prova in occasione degli attacchi terroristici all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles.
Il 21 e il 22 marzo c’era la riunione di una Commissione (ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentare) della quale Salvini è membro (anche se supplente). Commissione dove il giorno degli attentati Salvini non s’è visto.
Anzi la mattina degli attentati Salvini se ne stava andando in aeroporto per tornare in Italia. Salvini era giunto a Bruxelles la sera prima dopo aver registrato una puntata di Porta a Porta a Roma (mentre a Bruxelles si riuniva la Commissione). Ma c’è di più, perchè Salvini nella risposta a Gramellini non cita nemmeno il fatto di essere stato eletto consigliere comunale a Milano alle scorse amministrative.
Ci si aspetterebbe che dato che Salvini a Bruxelles e Strasburgo non si fa molto vedere il motivo sia che — da bravo sovranista — ha più a cuore la sua città .
Eppure se guardiamo l’elenco delle presenze in Aula scopriamo che Salvini ha preso parte ad appena 14 sedute su 31, pari al 45,16%.
Meglio di lui tutti gli altri consiglieri comunali a partire da altri due assenteisti di grido: Mariastella Gelmini (16 presenze) e Stefano Parisi (18).
Non va meglio se guardiamo un altro dato, ovvero l‘elenco delle presenze dei consiglieri comunali alle votazioni. Su un totale di 199 votazioni Salvini ha partecipato a solo 30 votazioni (pari al 15,08%), il che lascia intendere che anche quando Salvini si è recato in Consiglio è probabile che non ci sia rimasto fino alla fine della seduta.
L’unico vantaggio per le tasche dei milanesi è che Salvini — dal momento che percepisce già lo stipendio da europarlamentare — non ha diritto al gettone di presenza. Patrizia Bedori del M5S denunciava però che Salvini ha ritirato 10 biglietti sui 44 a disposizione dei consiglieri per gli eventi a San Siro.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 1st, 2017 Riccardo Fucile
IL PARTITO MANDA UN OSSERVATORE, COME ALL’ONU
Già oggi una persona indicata dal presidente della commissione Congresso Pd, Lorenzo Guerini, e dal
reggente del partito, Matteo Orfini, sarà inviata a Napoli.
Dopo le anomalie denunciate in città sul tesseramento, a quanto si apprende da fonti Dem, il compito di questo “osservatore” sarà di verificare gli episodi denunciati e più in generale la situazione complessiva del tesseramento.
Eventuali provvedimenti, che potrebbero anche portare all’annullamento del tesseramento nelle circoscrizioni dove siano appurate irregolarità , saranno comunque di competenza della commissione nazionale per il Congresso.
Il segretario provinciale del Pd di Napoli, Venanzio Carpentieri – apprende l’ANSA – ha dato mandato all’ufficio adesioni del partito di non convalidare le richieste di adesione presentate al circolo di Miano, dove si sarebbero verificate irregolarità nel tesseramento (ne parla la Repubblica; Il Mattino, il Corriere del Mezzogiorno e altri organi di stampa riferiscono altri fatti anomali verificatisi nelle ultime ore). Inviata anche la richiesta alla segreteria del Pd di commissariare il circolo di Miano.
“Ieri si è chiuso il tesseramento del Pd. Purtroppo ci vengono segnalati anche casi – per fortuna isolati – di gestione poco trasparente. Il nostro congresso deve essere una grande festa democratica e non possiamo consentire che venga rovinato da comportamenti discutibili. Ovunque verranno segnalate anomalie provvederò a inviare commissari per il tesseramento e chiederò alla commissione di accompagnare il percorso congressuale per scongiurare ogni rischio. Per questo già nelle prossime ore assumerò i primi provvedimenti sui casi segnalati”, ha dichiarato il reggente Pd Matteo Orfini su Facebook.
“Abbiamo deciso di inviare Emanuele Fiano a Napoli per un esame attento in merito a quanto denunciato oggi dai media circa irregolarità nel tesseramento riscontrate in un circolo del PD”, ha poi annunciato Orfini insieme a Lorenzo Guerini.
“Riteniamo che sia fondamentale assicurare che venga fatta la massima chiarezza nel rispetto dovuto nei confronti dei nostri militanti. Se verranno riscontrate eventuali anomalie prenderemo, con fermezza, le dovute misure come previsto dal nostro statuto”.
Segretario Pd Campania: “Episodi gravissimi”. “Gli episodi relativi al tesseramento riportati dalla stampa sono di una gravità estrema in quanto inficiano il regolare svolgimento del tesseramento, uno dei momenti di massima espressione della democrazia nel Partito democratico, e allo stesso tempo ledono pesantemente l’immagine del partito stesso”. Così il segretario regionale del Pd Campania, Assunta Tartaglione.
Migliore: “Basta questo schifo, ora lanciafiamme”.
10 euro per la tessera del Pd: nel napoletano scoppia il caso tesseramento
10 euro e la tessera del Pd è comprata. Succede a Miano, quartiere popolare dell’area nord di Napoli, dove nell’ultimo giorno utile per il tesseramento al Partito Democratico si vedono scene come quella raccontata in un video.
Scrive Repubblica:
“Solo la carta d’identità , i dieci euro ve li danno loro”. Una signora bruna, robusta, dà le indicazioni per l’iscrizione e il rinnovo della tessera del Partito democratico a Miano, periferia nord della città .
Quartiere popolare ad alta densità di camorra. Piazza Regina Elena, ultime ore per strappare l’adesione al Pd in vista del congresso nazionale e dalle 17 più di un centinaio di persone fanno la spola all’esterno della sede di un’associazione.
E i 10 euro a cosa servono?
I 10 euro sono la quota che il partito chiede per rinnovare l’iscrizione.
“I dieci euro – spiega la signora – ve li darà Michel all’interno. Se la vede lui”. Dietro alla scrivania, in una stanza gremita, ecco Michel Di Prisco, ex vicepresidente della Municipalità .
Un “capobastone” noto tra nel Pd, al centro delle primarie dello scandalo del 2011 per il Comune, poi annullate. All’esterno la signora incalza: “Entrate, stanno dando 10 euro a persona. Non li cacciamo noi, non ci vanno in tasca. Vanno al partito”.
Un “sistema” messo in piedi da alcune persone tra cui spunta “don Gennaro”, che coordina le operazione di tesseramento per “il partito di Michel, il nostro consigliere di quartiere”. Ma chi è Michel?
Michel Di Prisco, ex vicepresidente della Municipalità . Un “capobastone” noto tra nel Pd, al centro delle primarie dello scandalo del 2011 per il Comune, poi annullate
Scrive Repubblica:
Tesseramento bloccato a Castellammare, ma lo stop anticipato scatta anche a Bagnoli, ex area siderurgica della città , dove c’è un boom sospetto da 200 a 500 tessere in un anno. E forti segnali di “rigonfiamenti artificiali” arrivano dai quartieri napoletani di Pianura (da 100 a 500 in un anno) e Pendino ma anche da Torre del Greco (800 tessere) e Pompei (400). Esplode il caso delle tessere on line. Sarebbero oltre mille in Campania e un fascicolo è già nella sede romana del Pd dove saranno annullate tutte quelle pagate da terzi.
(da “La Repubblica”)
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