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SULL’OLIO TUNISINO SI ACCETTANO SCUSE DA GRILLINI, LEGHISTI E COMPAGNIA DI GIRO

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

UN ANNO DOPO LE POLEMICHE: PRODUZIONE NAZIONALE CALATA DEL 38% A CAUSA DELLA MOSCA E DEL CAMBIAMENTO DEL CLIMA: SE NON COMPRASSIMO L’OLIO TUNISINO NON AVREMMO NEANCHE DI CHE CONDIRE L’INSALATA

Un anno dopo, qualcuno dovrebbe chiedere scusa. E non soltanto esponenti grillini o leghisti che cavalcarono in maniera sguaiata la protesta contro l’acquisto da parte dell’Unione europea di olio tunisino esente da dazi.
Anche categorie, politici pavidi, presidenti di Regione e alcune associazioni con i loro grilli parlanti dovrebbero avere il coraggio di ammettere di essersi sbagliati e per conformismo aver cavalcato l’onda populista fornendo dati fasulli.
Fake news all’olio d’oliva, insomma, dietro una sapiente regia di comunicazione a cui tanti media, pubblici e privati, hanno dato seguito.
Un anno dopo, con il calo della produzione nazionale olearia del 38%, provocata dalla mosca e da cambiamenti climatici, quell’olio fa gola a molti e di quell’iniziativa tanto criticata non si parla più.
Ma vediamo i fatti. A seguito di una missione a Tunisi, avvenuta dopo i due tragici attentati terroristici, venne chiesto all’Europa un contributo di solidarietà .
Gli attacchi avevano messo il paese in ginocchio. Turismo, artigianato, agricoltura, settore immobiliare avevano ricevuto colpi durissimi e la disoccupazione giovanile stava alimentando attività  di proselitismo da parte dell’integralismo che hanno portato la Tunisia a esportare il maggior numero di foreign figthers nella guerra siriana.
In un colloquio con il presidente dell’Assemblea parlamentare tunisina ci venne chiesto un aiuto per il settore oleario. Tutti i componenti della delegazione del Parlamento europeo concordarono. Anche i grillini.
Aiutare la Tunisia, d’altronde è ragionevole: investire sulla sicurezza di quel paese è investire su noi stessi; aiutare l’economia tunisina è evitare che le persone si mettano in mare.
Tornati a Bruxelles riferimmo dei colloqui avuti e della proposta di acquistare 35mila tonnellate di olio non trattato e senza dazi da dividere tra i membri dell’Unione.
Non era un grande sforzo per i nostri paesi. Nella discussione vi furono obiezioni da parte di un deputato leghista: perchè olio e non aiuti alla pesca, propose?
L’idea fece sobbalzare noi italiani: se compri olio lo puoi dividere fra gli Stati membri, se aiuti la pesca colpisci soltanto l’Italia, e in particolare la Sicilia.
L’iniziativa, della durata di due anni, venne messa a punto e consegnata alla Commissione europea per ripartire la quantità  di olio fra i diversi paesi dell’Unione.
Oggi si conoscono le cifre dello scorso anno: 2,7mila tonnellate circa sono andate all’Italia. Una quantità  ridicola.
Ma per populisti, sovranisti e ciarlatani si trattava di una quantità  in grado di uccidere il nostro mercato. Ma non è finita qui.
La quota di solidarietà , per regolamento, sarebbe entrata in vigore in aggiunta agli accordi commerciali esistenti tra Ue e Tunisia.
Come dire: prima si importa l’olio che abbiamo concordato e poi facciamo arrivare la quota di solidarietà .
E cosa stabilisce l’accordo Ue-Tunisia? È entrato in vigore nel 1998 e consente di far arrivare nello spazio europeo 56mila tonnellate di olio all’anno senza dazi.
L’Italia ne prende 35,9mila tonnellate; la Spagna 13,3mila tonnellate. Olio utile? Per capirlo basta dare un’occhiata ad alcune cifre.
La produzione italiana di olio d’oliva nel 2016 è stata di 298mila tonnellate, con un calo rispetto all’anno precedente del 38%.
Quest’anno il calo è ancora più forte, le previsioni indicano che non supereremo le 200mila tonnellate (-58% rispetto al 2015). Tutto questo a fronte di un fabbisogno di circa 600mila tonnellate all’anno.
Dunque, se l’Italia non compra olio, gli italiani non ne hanno per condire l’insalata.
Fra produzione nazionale, quota bilaterale e quota di solidarietà  non si arriva neppure a 350mila tonnellate di olio.
E ancora: se i marchi italiani non acquistassero olio nei mercati extraeuropei andrebbero incontro al tracollo. E questo in tempi normali.
Nell’anno felix 2015 la produzione italiana è stata sufficiente per coprire il 35% del fabbisogno. Se poi ci si mette la mosca olearia o i cambiamenti climatici, i tempi si fanno davvero duri.
L’olio tunisino, insomma, è indispensabile e non fa concorrenza alla straordinaria produzione dell’extravergine italiano proveniente da singoli cultivar.
Si tratta di una piccola fetta di mercato. La grande distribuzione, invece, lavora facendo blend, cioè selezionando e miscelando oli diversi prodotti nella regione del Mediterraneo.
In un’epoca di forte calo della produzione, abbiamo bisogno dell’olio tunisino.
E con una buona collaborazione potremmo investire su una vasta area agricola di qualità , indispensabile per competere nei mercati globali.
Non dobbiamo dimenticare, come scriveva il grande storico Fernand Braudel che “là  dove finisce l’olivo finisce anche il Mediterraneo”.
Con buona pace di grillini e leghisti pronti a danneggiare aziende nazionali pur di issare bandiere antieuropee.

(da “Huffingtonpost“)

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MOLTI SUSSIDI, POCHI SERVIZI: ECCO PERCHE’ I POVERI NON DIMINUISCONO

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

SPESA ASSISTENZIALE IN AUMENTO MA MENO EFFICACE CHE ALL’ESTERO… PER OGNI MILIONE DI EURO INVESTITO ESCONO DALL’INDIGENZA SOLO 39 PERSONE

«I poveri pagano per tutti. Non sappiamo proprio dove abbiano preso tutto questo denaro». Suona come una beffa, e in effetti lo è: in Italia i poveri sono pieni di soldi, ma non lo sanno.
Su di loro ogni anno si riversano oltre 50 miliardi. Eppure restano poveri. Sempre di più.
Non è vero che l’Italia si è dimenticata di chi è indietro.
E non è vero che spende poco in sussidi, bonus, aiuti.
Semmai, è il contrario: spende tanto, forse troppo, sicuramente male.
Tra il 2004 e il 2014, per arginare la crisi, lo Stato ha aumentato la spesa assistenziale da 42,6 a 58,6 miliardi l’anno, pensioni escluse.
Tutti i canali sono stati irrorati: assegni sociali, da 3,3 a 4,6 miliardi; sussidi, da 2,3 a 10,3 miliardi; servizi sociali, da 6,6 a 9,1 miliardi; assegni famigliari, da 5,4 a 6,3 miliardi.
La spesa dei Comuni è passata da 182 a 249 milioni: più contributi economici per l’alloggio (da 64 a 76 milioni) e per l’integrazione del reddito (da 75 a 98 milioni). È servito a nulla.
Un esempio?
La social card: 1,3 miliardi stanziati, ma solo un quarto è andato a persone in condizione di povertà  assoluta. Il resto a redditi medi o medio-bassi.
Mentre si continuava a spendere 4,6 milioni di italiani sprofondavano nell’indigenza.
Le povertà  hanno continuato a crescere: affliggono il 9% di chi ha tra 18 e 34 anni (nel 2005 era il 3,1%) e il 7,8% di chi ha tra 33 e 64 anni (nel 2005 era il 2,7%); in generale la quota di popolazione considerata «assolutamente povera» è quasi triplicata, dal 2,9 al 7,6%.
Un gruppo di ricercatori della Fondazione Zancan spiega le ragioni di questo cortocircuito in un volume, «Poveri e così non sia», pubblicato da «il Mulino». «Ogni milione in trasferimenti sociali fa uscire dal rischio povertà  39 persone contro le 62 della media europea», spiega Tiziano Vecchiato, il direttore del gruppo di ricerca.
«Uno dei principali problemi è che il 90% degli stanziamenti sono trasferimenti monetari, anzichè servizi». Un altro sono i criteri di erogazione, evidentemente sbagliati se solo il 9% di tutti trasferimenti va al 20% più povero della popolazione contro il 21,7% dei paesi Ocse.
La dimostrazione di quanto poco efficace sia la spesa si ricava dal confronto con il resto d’Europa. In Italia circa il 25% della popolazione è a rischio di sprofondare nella povertà ; dopo l’intervento dello Stato la quota scende del 5%.
La media europea è l’8,6%, solo quattro nazioni fanno peggio dell’Italia: Polonia, Lettonia, Grecia e Romania. Le altre oscillano tra l’8% della Spagna e il 12,5% della Gran Bretagna. Le condizioni di partenza sono simili: circa un europeo su quattro è sul crinale; la differenza è che dopo l’intervento dello Stato altrove la situazione cambia sensibilmente; da noi molto meno.
La nostra è una spesa improduttiva, assistenziale, spiegano i ricercatori. E ridondante: un cittadino può contare, in teoria, su 65 diverse forme di assistenza tra Comune, Regione, Stato e altri enti.
C’è chi riesce a intercettarne più di una, e talvolta alla fine riceve più di quel che gli serve, e chi nessuna. Molte nascono e dopo poco vengono soppresse. L’efficacia non viene mai analizzata.
Un esempio sono i 19 miliardi investiti in misure straordinarie negli ultimi anni: il reddito minimo di inserimento è durato due anni, il bonus straordinario per le famiglie uno solo.
I fondi della nuova social card sono stati spesi solo in parte, e così i bonus bebè e famiglie numerose. I contributi per le bollette di luce e gas hanno raggiunto un terzo di chi ne aveva diritto. Provvedimenti con un tratto comune: «Il carattere prevalentemente non strutturale, perchè di natura temporale se non addirittura sperimentale», annotano Maria Bezze e Devis Geron che li hanno analizzati.
Nell’ultimo decennio si è pensato di affrontare l’esplodere della crisi aprendo i rubinetti delle finanze pubbliche e inventando nuove soluzioni.
«Ma l’aggiunta di una misura non è un piano di lotta contro la povertà », ragiona Vecchiato. «Non abbiamo una ma tante forme di aiuto per affrontare lo stesso problema. Non servono risorse aggiuntive ma una bonifica dei trasferimenti». Spendere meglio per non condannare milioni di italiani a essere poveri a vita.

(da agenzie)

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COS’E’ IL ROSATELLUM, LA NUOVA PROPOSTA DI LEGGE ELETTORALE DEL PD

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

303 COLLEGI, PROPORZIONALE E NIENTE SCORPORO

303 deputati eletti in altrettanti collegi uninominali, altrettanti eletti con metodo proporzionale senza meccanismo di scorporo in circa 80 circoscrizioni sub regionali, in listini bloccati di quattro nomi.
Questa l’architettura della proposta del Pd sulla legge elettorale, denominato Rosatellum, dal nome del capogruppo Ettore Rosato.
Nell’ottica di una possibile approvazione di questo testo, il Pd ottiene come relatore della legge elettorale Emanuele Fiano.
Fiano prende il posto del centrista Andrea Mazziotti. “Ringrazio tutti i gruppi – ha detto Mazziotti – che mi hanno chiesto di rimanere come relatore, ritengo però che il Partito Democratico si sia assunto la responsabilità  di portare avanti la propria proposta con altri gruppi. E quindi nomino come relatore Emanuele Fiano, capogruppo del Pd in commissione”.
Il testo che l’Ansa ha visionato, sarà  presentato in Commissione Affari costituzionali della Camera dal relatore.
La proposta Pd è molto diversa dal sistema tedesco, ma appartiene a quelli che in gergo tecnico sono chiamati “grabensystem” (sistema a fossato), con una netta separazione tra parte maggioritaria e parte proporzionale.
La proposta non modifica il metodo proporzionale per eleggere i 12 deputati esteri, e conferma i collegi uninominali per il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta.
I 606 deputati restanti vengono appunto eletti per la metà  in collegi uninominali a turno unico, e per metà  con metodo proporzionale in listini bloccati di massimo quattro candidati, come era per il Mattarellum.
La sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che ha bocciato il Porcellum ha detto che le liste bloccate sono ammissibili purchè corte perchè permettono la conoscibilità  dei candidati. Di qui la scelta di limitare a quattro i nomi.
Questo comporta che le circoscrizioni siano più piccole delle 23 del Mattarellum: saranno tra le 80 e le 100 (come i collegi dell’Italicum) e su questo c’è una delega al governo a disegnarle.
L’altro aspetto che accentua il sistema a fossato, cioè la separazione tra maggioritario e proporzionale, e l’assenza dello scorporo, che invece era presente nel Mattarellum: questo meccanismo sottraeva (scorporava) i voti presi dai partiti nei collegi da quelli della parte proporzionale, così da favorire i piccoli partiti. Nel Rosatellum il proporzionale è puro.
Quanto alla soglia essa è indicata nel 5% su base nazionale, mentre nel Mattarellum era al 4% e nell’Italicum al 3%.
La scheda che avrà  l’elettore sarà  unica, in questo uguale allo “stimmzettel” tedesco: sulla sinistra dovrà  barrare il nome dei candidato del collegio uninominale e sulla sinistra apporre una croce sul simbolo del partito.

(da “Huffingtonpost”)

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“COME MI LIBERO DI TRUMP?”: NEGLI USA SI TORNA A PARLARE DI IMPEACHMENT

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

MA NON SI ESCLUDONO ALTRE VIE

Ogni giorno lo scontro politico che si sta consumando nel cuore delle istituzioni americane raggiunge un nuovo picco.
Di drammaticità  o di schizofrenia, a seconda di punti di vista mai così polarizzati come nell’era di internet, delle fake news e del rovesciamento dell’algoritmo che ha smesso di fare della grande stampa americana un potere pressochè incontrovertibile.
Così oggi ci si interroga sul futuro del presidente americano Donald Trump, con nuove voci che chiedono l’impeachment, prospettiva come vedremo molto improbabile.
Il tutto mentre gli oppositori del presidente cercano altre vie per “liberarsi di Trump”, e l’attivista e regista Michael Moore annuncia un documentario esplosivo che – promette – segnerà  la fine di The Donald.
“Can he survive?”. Se lo chiede, drammatizzando un po’ i toni, l’HuffPost Usa dopo l’ultima rivelazione del New York Times secondo cui Trump avrebbe chiesto all’ormai ex capo dell’Fbi James Comey di fermare l’indagine sul suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn.
Il titolo riassume un clima di incertezza alimentato dagli ultimi colpi di scena su Russiagate e guerra degli 007, un clima in cui si torna a parlare di dimissioni o impeachment del presidente. Per ora si tratta solo di voci isolate, che però sono lo specchio di uno scontro politico sempre più avvelenato ai massimi vertici delle istituzioni americane.
A tracciare un’altra via con cui “liberarsi di Trump” è il NyTimes, che in un editoriale a firma di Ross Douthat evoca la “soluzione del 25° emendamento”, in cui si affronta il tema della successione alla presidenza stabilendo le procedure.
Scrive il quotidiano:
“La presidenza non è un incarico come un altro. È diventata, per buone e cattive ragioni, un posto politico semi-monarchico, dove si è sottoposti a inimmaginabili pressioni, e al quale spettano decisioni che possono avere impatto sul mondo”, afferma Douthat, sottolineando che “non c’è bisogno di essere un supereroe per arrivare ad avere questa responsabilità . Ma servono degli attributi base: un ragionevole livello di curiosità  intellettuale, un livello manageriale di base, auto-controllo e competenza”. A Trump questi attributi “mancano tutti, alcuni forse non li ha mai avuti, altri probabilmente si sono atrofizzati con l’età . Ha certamente talento politico, carisma e una certa creatività  che manca ai normali politici. Non sarebbe stato eletto senza queste qualità . Ma non sono abbastanza, non possono riempire il vuoto lasciato dalle altre”.
La parola impeachment rimbalza da un sito all’altro nelle ultime ore, anche se resta un’ipotesi molto lontana e improbabile, come spiega ad Abc News Jonathan Turley, professore di Legge alla George Washington University.
Ma qualcosa sta cambiando in seno al partito repubblicano: secondo Politico, i repubblicani a Capitol Hill sarebbero vicini a “un punto di rottura con Trump” dopo le ultime rivelazioni sul suo pressing per bloccare l’indagine sul Russiagate.
Questa volta i repubblicani starebbero privatamente iniziando a preoccuparsi di dover, un giorno, sedersi per giudicare Trump, o che Comey sia in possesso di informazioni ancora più compromettenti al punto da costringere il presidente a dimettersi.
Politico parla di un “distinto spostamento” tra i repubblicani al Congresso, un cambio di atteggiamento da parte di chi, finora, si è trattenuto dal criticare Trump.
Non mancano i segnali ‘in chiaro’ di questa insofferenza.
A cominciare dalla richiesta all’Fbi di consegnare tutti i documenti relativi alle comunicazioni tra il presidente e l’ex direttore dell’agenzia, avanzata da Jason Chaffetz, presidente repubblicano della Commissione di vigilanza della Camera, ovvero la principale commissione investigativa dell’Aula.
Chaffetz ha inviato una lettera all’Fbi poche ore dopo l’articolo del New York Times che ha rivelato che Trump avrebbe chiesto a Comey di bloccare le indagini sui rapporti tra l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, e i russi.
Una richiesta supportata dallo speaker della Camera, Paul Ryan, secondo cui “è necessario fare chiarezza su tutti i fatti”.
Il deputato repubblicano Adam Kinzinger ha detto di credere che sia arrivato il momento di istituire una commissione indipendente o di incaricare un procuratore speciale per indagare sui legami tra la campagna elettorale dell’attuale presidente e la Russia.
“Credo che sia il momento di fare il necessario per fare in modo che, quando sarà  tutto finito, gli americani abbiano la sicurezza che sia stata fatta giustizia […] È il momento di una commissione indipendente o di un procuratore speciale”, ha detto alla Cnn.
Più dura la posizione del repubblicano John McCain. “Abbiamo già  visto questo film, sono state raggiunte le dimensioni e la scala del Watergate, ogni due giorni c’è una nuova rivelazione”, ha commentato l’anziano senatore della vecchia guardia che in questi mesi ha più volte preso posizioni critiche nei confronti di Trump.
Parlando con Bob Schieffer, il famoso ex conduttore di Face The Nation, show politico della Cbs, l’ex candidato alla Casa Bianca ha dato a Trump lo stesso consiglio “che lei diede a Richard Nixon e che lui non seguì: fai chiarezza su tutto, non finirà  fino a quando ogni aspetto sarà  esaminato a fondo e gli americani potranno dare il loro giudizio. E più si rimanda, più la cosa si fa lunga”.
A chiedere apertamente l’impeachment è il senatore indipendente Angus King, secondo cui le rivelazioni contenute nel memorandum di Comey al centro dello scoop del NyTimes rasentano “la definizione legale di intralcio alla giustizia” e potrebbero giustificare una procedura di impeachment.
“Se è vero e confermato penso che si avvicini molto alla definizione legale di intralcio alla giustizia”, ha detto King in un’intervista alla Cnn. Il senatore ha aggiunto, rispondendo a una domanda, che questo potrebbe condurre all’impeachment di Trump. “Con riluttanza devo dire di sì semplicemente perchè l’intralcio alla giustizia è un reato grave, e lo dico con tristezza e riluttanza”. King ha aggiunto che la “Costituzione è molto chiara” prevedendo l’impeachment di un presidente in caso di “reati o misfatti gravi”.
Deputati e senatori dell’opposizione democratica sventolano l’ipotesi dell’impeachment ormai da mesi, fin dall’inizio dell’era Trump.
Una circostanza che indica come le voci di impeachment, in realtà , rientrino più nel campo delle strategie politiche che delle prospettive concrete.
Nella storia americana solo due presidenti sono stati oggetto di impeachment: Bill Clinton (1998) e Andrew Johnson (1868).
L’impeachment di Nixon per il caso Watergate fu approvato in Commissione, ma il presidente si dimise prima che l’Aula della Camera potesse votare.
Secondo la Costituzione statunitense, una maggioranza semplice alla Camera potrebbe votare l’impeachment per “tradimento, corruzione o altri gravi crimini o misfatti”.
Serve però poi la conferma con un voto dei due terzi del Senato. Nè Clinton nè Jonhson furono rimossi, perchè se la Camera votò a maggioranza semplice per l’impeachment, la mozione non ottenne il voto favorevole dei due terzi del Senato.
Sia nel caso di Nixon sia nel caso di Clinton uno dei reati contestati ai presidenti era quello di “intralcio alla giustizia”, lo stesso che si comincia a ipotizzare per Trump.
Almeno per ora, Trump di fatto non rischia nulla in un Congresso dominato dal partito repubblicano.
Servirebbe una rivolta di massa del partito contro il presidente, come avvenne nel caso di Nixon, che lasciò proprio per l’impraticabilità  politica della sua permanenza alla Casa Bianca.
Per il tycoon, non si tratta in ogni caso di una minaccia imminente: anche con un Congresso desideroso di far fuori il presidente, servirebbero comunque diversi mesi per realizzare una qualsiasi procedura di impeachment.

(da “HuffingtonPost”)

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MACRON SPARIGLIA LA POLITICA FRANCESE: NEL NUOVO GOVERNO GOLLISTI, SOCIALISTI, ECOLOGISTI E SOCIETA’ CIVILE

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

LE DRIAN AGLI ESTERI, LE MAIRE ALL’ECONOMIA, SYLVIE GOULARD ALLA DIFESA, COLLOMB AGLI INTERNI, ALLA SANITA’ LA NOTA EMATOLOGA AGNES BUZIN, ALL’AMBIENTE L’ATTIVISTA NICOLAS HULOT

Un governo con18 nomi, con alcuni ministri di sinistra e di destra.
Dopo due giorni di consultazioni, Emmanuel Macron ha messo a punto la compagine del nuovo esecutivo guidato dal premier Edouard Philippe.
Poche ore dopo l’annuncio i membri Repubblicani del governo di Philippe sono stati espulsi dal partito. “Il Paese – si legge –   ha bisogno più che mai di coerenza e di lealtà “. I repubblicani invitano alla “mobilitazione massiccia” in vista delle elezioni legislative dell’11 e 18 giugno.
Questa la compagine annunciata.
Ai socialisti vanno due dicasteri di peso: Gèrard Collomb e Jean-Yves Le Drian prendono Interno e gli Esteri. Collomb, 70 anni, è sindaco di Lione e uno dei primissimi sostenitori di Macron. Le Drian, 69 anni, attuale responsabile alla Difesa, ha sostenuto Macron durante la campagna elettorale ed è anche l’unico che rimane al governo con il cambio all’Eliseo.
La destra – oltre al premier quarantaseienne Philippe – si aggiudica due ministeri chiave: quello dell’Economia a Bruno Le Maire, 48 anni, ex ministro ai tempi del Presidente Sarkozy, e quello delle Finanze (chiamato ai Conti pubblici) al giovane dirigente della destra Gèrald Darmanin, 34 anni.
I centristi prendono due ministeri: Franà§ois Bayrou ottiene come previsto il dicastero della Giustizia e Marielle de Sarnez gli Affari europei.
Macron ha scelto alcune delle persone più vicine al movimento En Marche! come l’eurodeputata Sylvie Goulard, 52 anni, che ottiene il ministero della Difesa, o Richard Ferrand, ex socialista e segretario del movimento di Macron, che va al nuovo ministero per la Coesione dei territori.
Alla fine il segnale rinnovamento più forte viene con i ministri scelti nella società  civile con la nomina del popolare attivista Nicolas Hulot, 62 anni, all’Ambiente, oppure l’editrice Franà§oise Nyssen, fondatrice di Actes Sud, o ancora Jean-Michel Blanquer, attuale direttore della Business School Essec, all’Istruzione.
Alla Sanità  arriva Agnès Buzyn, famosa ematologa.
Al Lavoro, dicastero decisivo per le riforme promesse dal nuovo presidente, un altro nome nuovo: Muriel Pènicaud, 62 anni, ex manager di Danone.
Domani primo Consiglio dei ministri. Il primo Consiglio dei ministri guidato dal premier Edouard Philippe, alla presenza del capo di stato francese Emmanuel Macron, si svolgerà  giovedì alle 11.
Per il ruolo di primo ministro, il nuovo presidente francese Emmanuel Macron ha scelto Edouard Philippe, che è stato nominato lunedì.

(da “Huffingtonpost“)

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NOI RAGAZZI DEL REFUGE LGBT CONTRO L’OMOFOBIA

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

LA LETTERA DEI RAGAZZI OSPITI DELLA CASA REFUGE DI ROMA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE CONTRO L’OMOFOBIA

I ragazzi ospiti della Casa Refuge LGBT di Roma hanno deciso di lanciare una lettera manifesto in occasione della Giornata Mondiale contro l’omofobia del 17 maggio. Credo sia uno dei messaggi più efficaci da raccogliere per combattere ogni forma di discriminazione e violenza soprattutto verso i più giovani.
La Casa Refuge Lgbt che Croce Rossa di Roma con il Gay Center e il sostegno della Regione Lazio ha aperto nella Capitale ospita fino a 8 ragazzi dai 18 ai 26 anni ed è attiva da alcuni mesi. È stata la prima in Italia e a oggi è l’unica effettivamente operativa, sul modello dei Refuge francesi, da cui prende il nome.
A questi ragazzi e ai tanti giovani che si trovano in difficoltà  voglio dedicare questa giornata, facendo appello a tutti a sostenerci per continuare un progetto che toglie dalla solitudine e dalla marginalità  chi spesso si trova a non avere più un luogo neanche in famiglia.
Non aggiungo altro, perchè in questa lettera e nelle loro immagini ci sono molti di quei messaggi che arrivano diretti e squarciano il velo dell’indifferenza.

Noi ragazzi di Refuge Lgbt di Roma siamo le vittime? Siamo noi quelli sbagliati? Siamo noi che dobbiamo lottare per reinserirci nella società ?
Queste domande sono solo alcune che potremmo fare a cui probabilmente in molti sarebbero in imbarazzo nel dover dare una risposta.
Si avvicina la giornata mondiale contro l’omofobia, ma noi l’omofobia l’abbiamo vissuta tutti i giorni, siamo stati picchiati, derisi, offesi, violentati, maltrattati, odiati.
Siamo stati allontananti dalle nostre famiglie o siamo stati costretti ad allontanarcene. Alcuni di noi sono fuggiti, rimanendo senza un luogo per molto tempo, proprio come fanno le persone che vivono in regimi che violano i loro diritti umani.
Siamo come profughi, siamo come migranti in cerca di un luogo che sappia riconoscerci, siamo quelli che nessuno vuole guardare, siamo homeless, siamo forti.
Sì, siamo forti delle nostre identità , del nostro essere, della nostra vita. Ora siamo una comunità  fatta di storie personali, di storie di vita, siamo pronti a ricominciare.
Lo siamo grazie a chi ci sta aiutando, ai volontari, agli operatori, a chi mette impegno per sottrarci alla solitudine. A chi ci ha ridato una casa, ci cerca un’occupazione, ci dà  speranza.
L’omofobia è violenza, l’omofobia è sbagliata, l’omofobia è socialmente minoritaria, l’omofobia deve essere curata.
Queste sono le risposte alle domande iniziali. Queste sono alcune delle cose che vorremmo dire ai padri e alle madri che hanno figli e figlie omosessuali e che non li accettano.
È come respingere chi ha un colore della pelle diverso, è come ai tempi della segregazione razziale, è il moderno apartheid, superato e strasuperato da leggi, matrimoni gay, unioni civili, adozioni di figli, libertà .
Siamo e resteremo donne e uomini liberi, siamo e resteremo felicemente gay, lesbiche, bisessuali e trans!

Debora Diodati
Presidente Croce Rossa di Roma
(da “Huffingtonpost”)

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CI MANCAVA ANCHE L’INTERVISTA ALLA NONNA DI RENZI

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

IL CORRIERE NON TROVA DI MEGLIO CHE UN AMARCORD CON LA NONNA DI MATTEO E MADRE DI TIZIANO

Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio pubblica una telefonata tra Renzi e il padre sull’affare CONSIP.
Repubblica di Mario Calabresi risponde con un articolo di Gianluca Di Feo che riepiloga una vicenda del 2012 in cui compaiono Marroni e Vannoni.
Il Corriere di Luciano Fontana risponde come può, ed ecco in pagina Anna Maria Pandolfi, madre di Tiziano Renzi, intervistata e fotografata con il nipote, corredato a destra di quella materna, Maria Violanti, madre di Laura Bovoli.
Ecco, a firma di Virginia Piccolillo, i dettagli dello scottante colloquio:
Signora Anna Maria, per Tiziano e Matteo è il momento dello scontro?
«Nooo. Perchè?».
C’è chi pensa che suo nipote stia scaricando il padre.
«Lui va d’accordo con il padre. Non hanno mai litigato. Nemmeno quando il ragazzo era piccolo. Certo il carattere è quello lì».
Ovvero
«Il Matteo vuole fa’ sempre quello che vuole lui».
E il babbo?
«Ha un carattere forte anche lui. Ma poi non c’era mai perchè lavorava sempre fuori. E il ragazzo alla fine riusciva sempre ad averla vinta».
Che faceva
«Ne ha fatte di tutte. E prima lo scout. E poi il calcio. E voleva fare l’arbitro. E poi il sindaco. E poi il governo».
Nonna Anna Maria ci descrive un Renzi autarchico (“vuole fa’ sempre quello che vuole lui”) che ne ha fatte di tutte (“prima lo scout, poi l’arbitro, poi il sindaco, poi il governo…”), ma pronto a tutto. E commenta anche la faccenda dei massoni:
Da piccolo Matteo era più accomodante?
«Noo. Come ora. Uguale».
E Tiziano era severo con lui?
«Come con le sorelle. Ma lui non si faceva sgridare. Era educato. Anche adesso. Ha fatto tutto da solo. Non è che gli devi dire “fai così”. Anche a scuola era bravissimo. Lo diceva la sorella: “Nonna, lui studia dieci minuti, io due ore, poi lui sa tutto, io no”».
Ora c’è questa telefonata, Matteo che invita il padre a dire la verità . Suo figlio mentiva?
«Eh ci mancherebbe… Non l’ha mai dette le bugie. Nemmeno da bambino. Anzi. Lui vorrebbe che si facesse subito il processo così può far vedere che non ha fatto niente».
Allora perchè Matteo sembra non fidarsi?
«Ma chi glielo ha detto a lei che non si fida? È che c’è tutto questo rumore. I giornali. Lo dice anche Tiziano sa? Da quando il ragazzo è su…».
Su, dove?
«Il governo, la politica. Da allora il mi’ figliolo non ha più pace. Si ritrova anche quelli che gli fanno le fotografie sotto casa. S’inquieta, s’inquieta. S’è anche sentito poco bene. Ma noi siamo una famiglia per bene. A me e l’altro mio figlio non c’hanno potuto trovare niente. Lui è vigile urbano. Cercavano, cercavano…».
Ma cosa cercavano?
«Ah, boh. I massoni? Di queste cose non ne capisco, io facevo la sarta, poi ho fatto la mamma. Ma qui c’è solo gente a posto, via. Lo fanno solo perchè Matteo vuole tornare su»

(da NextQuotidiano”)

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LA VERA STORIA DELLA QUERELA DI MATTEO RENZI A MARCO LILLO

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

LA VICENDA DI UN RISARCIMENTO DANNI OTTENUTO DA L’ESPRESSO   DOVE LILLO LAVORAVA PER UNA NOTIZIA FALSA SU RENZI… ECCO COM’E’ ANDATA REALMENTE

Ieri Matteo Renzi su Facebook, parlando della telefonata tra lui e il padre pubblicata dal Fatto, ha accusato Marco Lillo di aver pagato un risarcimento danni in una causa civile che avrebbe coinvolto il giornalista proprio contro l’ex premier, e di aver preteso una clausola di riservatezza per seppellire la vicenda. Marco Travaglio a DiMartedì ha smentito la storia senza rivelarne però i dettagli.
Renzi su Facebook aveva scritto: «Gli avvocati hanno materiali per un risarcimento danni copioso (del resto lo stesso Marco Lillo mi conosce visto che già  in un caso ha preteso di mettere una clausola di riservatezza così da non dire fuori se e quanto ha dovuto pagare: fanno sempre così i teorici della trasparenza, altrui). Spero che bastino per pagare i mutui della mia famiglia: perchè noi come tutti gli italiani abbiamo i mutui, non le tangenti».
Oggi Marco Lillo precisa meglio i contorni della vicenda e spiega com’è andata veramente:
L’Espresso, il 23 dicembre 2008, aveva pubblicato un’inchiesta — sui casi giudiziari del Pd in Italia —a doppia firma: la mia e quella del mio caporedattore. Fu proprio quest’ultimo a chiedermi di occuparmi del partito nelle Regioni del Sud: ne scrissi senza errori e senza problemi legali. Il caporedattore, invece, si occupò del Centro-Nord: trovò una notizia su Renzi, la scrisse e la editò in pagina. Renzi sporse querela. Il collega, molto bravo e solitamente scrupoloso, ammise il proprio errore e mi disse: “Tu non c’entri Marco, riguarda me e me ne occupo io”. Pochi mesi dopo, me ne andai e partecipai alla fondazione de Il Fatto. Non seppi più nulla di quella vicenda e non me ne preoccupai più perchè, per compiere il reato, ci vuole il “dolo” e io non ero stato responsabile neppure di una “colpa ”, visto che avevo zero possibilità  di verifica e di incidenza su un articolo del caporedattore centrale del giornale in cui ero redattore ordinario.
Nel 2012, mi chiamarono i carabinieri per farmi accettare la remissione di querela di Renzi. Renzi, cioè, mi fa sapere che vuole mollare la lite e mi chiede: accetti? Io dico sì e firmo solo quel foglio. Nessuna transazione tra me e Renzi, nessun patto di riservatezza con lui. Solo oggi ho scoperto che L’Espresso gli ha pagato 22 mila e 500 euro per salvare non me, ma il caporedattore (oggi vicedirettore di Repubblica ). E che Renzi, per mettersi in tasca i soldi, ha accettato un patto di riservatezza che ora sta di fatto violando, anche se il suo amico Carlo De Benedetti non se ne lamenterà 
Il giornalista autore dell’articolo su Renzi nel 2008 e oggi vicedirettore di Repubblica è Gianluca Di Feo.
L’articolo era intitolato “Tangenti Rosse” e arrivava durante la campagna elettorale per il sindaco di Firenze. L’allora presidente della Provincia di Firenze, secondo il settimanale, era “indagato” e “non si sarebbe presentato spontaneamente in Procura, ma sarebbe stato invitato dai Carabinieri”.
Tutto falso. Matteo Renzi rispose con una richiesta danni da un milione di euro e all’epoca disse:
“Io non mi incateno da nessuna parte: non è nel mio stile — afferma il Presidente della Provincia, Matteo Renzi — Ma i signori Gianluca Di Feo e Marco Lillo, giornalisti de L’Espresso, risponderanno in tutte le sedi giudiziarie per aver scritto che sono “indagato” nell’articolo, intitolato “Tangenti Rosse, apparso oggi sul settimanale. Chiederemo almeno un milione di euro per i danni”.
“Se è vero che esiste una questione morale per i politici — continua il Presidente Renzi — esiste anche una questione etica per i giornalisti che dovrebbe impedire loro di scrivere falsità . Sono impegnato nella sfida più difficile della mia breve esperienza politica: ho proposto un cambiamento radicale nella politica urbanistica di Firenze già  prima dell’inizio dell’indagine giudiziaria. Ho chiesto con grande determinazione di cambiare aria nel Pd. Non posso accettare che qualcuno metta in dubbio la mia moralità  e la mia correttezza ”.
Questa è quindi la vicenda a cui si riferiva Renzi e coinvolgeva appunto Di Feo e non Lillo, anche se era coautore dell’intera inchiesta ma non dell’articolo “incriminato”. Quattro anni dopo Renzi e l’editore hanno firmato un accordo per un risarcimento danni con clausola di riservatezza che ieri Renzi ha violato.
Lillo, in ogni caso, sostiene che Renzi sapesse che il giornalista del Fatto non era coinvolto nella vicenda perchè ne parlarono nel 2012, durante il primo colloquio che ebbero i due.
Quindi avrebbe mentito e non si sarebbe sbagliato. E Lillo sostiene di aver conservato la telefonata del loro primo colloquio.

(da “NextQuotidiano”)

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LA FIGURACCIA DELL’ASSESSORE DELLA RAGGI: SI VANTA DI UNA DELIBERA CHE IL M5S PERO’ NEL FRATTEMPO GLI HA RITIRATO

Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile

ADRIANO MELONI, ASSESSORE AL COMMERCIO DELLA GIUNTA CAPITOLINA , VOLEVA BLOCCARE LE AFFISSIONI ABUSIVE… VITTIMA DEL FUOCO AMICO IN AULA

Adriano Meloni, assessore al commercio della Giunta Raggi, e la maggioranza grillina in Assemblea Capitolina ieri sono stati protagonisti di una fantastica scenetta sulla delibera sui nuovi “Piani di localizzazione degli impianti pubblicitari”.
Il piano, ambizioso, dell’assessore prevedeva che i piani fossero un punto fondamentale per il rispetto del decoro: miravano a fermare l’invasione di cartelloni abusivi e a contribuire alla redazione dei bandi per l’assegnazione di quelli regolari, andando ad incidere su una materia strettamente collegata al decoro della città .
Ma qualcosa è andato storto.
Proprio mentre Meloni si vantava dell’approvazione del piano e sull’home page del sito istituzionale del Campidoglio campeggiava in apertura l’annuncio dell’avvenuta approvazione, questo veniva ritirato: nel corso della seduta i consiglieri grillini hanno deciso di fare marcia indietro per esaminare meglio il provvedimento.
Nessuno conosce i veri motivi delle perplessità , in omaggio alla trasparenzaquannocepare che guida la Giunta Raggi e la maggioranza in Assemblea Capitolina.
In compenso sono partiti gli sfottò dell’opposizione.«Qualcuno avvisi il Campidoglio che la delibera sugli impianti pubblicitari è stata ritirata dalla maggioranza. No ok Aula. Complimenti per l’informazione», ha twittato ironica la piddina Valeria Baglio. «Uno sgambetto clamoroso ai danni dell’assessore al Commercio», attacca il collega Corsetti, «evidentemente all’interno del M5S non c’è unanimità  sulla proposta».

(da “NextQuotidiano”)

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