DESTRA DI POPOLO VA IN VACANZA PER QUALCHE GIORNO
Luglio 31st, 2017 Riccardo FucileRIPRENDIAMO LE PUBBLICAZIONI MARTEDI’ 8 AGOSTO
RIPRENDIAMO LE PUBBLICAZIONI MARTEDI’ 8 AGOSTO
RESPINTO DA QUASI TUTTE LE ONG IL VERGOGNOSO CODICE DI CONDOTTA PER FAR AFFOGARE PIU’ PROFUGHI… MEDICI SENZA FRONTIERE E JUGEND RETTET GUIDANO IL DISSENSO
Medici senza frontiere non ci sta. L’organizzazione, convocata al Viminale per la firma del codice di condotta per le ong che fanno salvataggi in mare. si è rifiutata di firmare il documento messo a punto dal governo.
Il nodo resta quello che la settimana scorsa,: la presenza di agenti armati a bordo delle imbarcazioni. “In nessun Paese in cui lavoriamo accettiamo la presenza di armi, ad esempio nei nostri ospedali”, ha spiegato Gabriele Eminente, direttore generale Msf, dopo il vertice.
Stessa scelta per la tedesca Jugend Rettet mentre Save the children e Moas hanno firmato.
Altre dieci organizzazioni non hanno nemmeno partecipato all’incontro, perchè è inutile trattare con chi è in malafade.
La spagnola Proactiva Open Arms aveva già annunciato la propria opposizione.
Le ong, nei giorni scorsi, avevano contestato sia la previsione che sulle navi debbano esserci agenti di polizia giudiziaria sia il divieto di trasbordo di migranti dalle navi ong a quelle dei soccorsi ufficiali.
Venerdì scorso, al termine della seconda riunione, i tecnici del Viminale avevano accolto alcune richieste delle organizzazioni. In particolare nell’impegno a non trasferire i migranti soccorsi su altre navi è stata inserita la frase: “Eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo e sotto il suo coordinamento, basato anche sull’informazione fornita dal capitano della nave”.
L’altro punto contrastato, quello della polizia a bordo, è stato riformulato sottolineando che la presenza degli uomini in divisa avverrà “possibilmente e per il periodo strettamente necessario”. Ma non è stata accolta la richiesta che i poliziotti a bordo siano disarmati. E su questo punto Msf non intende cedere. “Abbiamo comunicato che non firmeremo questo codice di condotta, saranno comunque rispettati quei punti già condivisi dalla nostra organizzazione. Anche se il codice era stato migliorato rimaneva il punto dei trasbordi: abbiamo chiesto di levarlo, perchè rischia di pregiudicare l’intera operazione”.
Il fondatore di Moas Christopher Catrambone ha spiegato dal canto suo di aver firmato solo “in solidarietà con il governo ed il popolo Italiano, gli unici in Europa che si impegnano ogni giorno per permettere ad organizzazioni come la nostra di far fede alla propria missione umanitaria”.
Nel frattempo però, alla vigilia della discussione e del possibile voto parlamentare di martedì, Amnesty International ha dichiarato che il progetto del governo italiano di inviare navi da guerra per pattugliare le acque territoriali libiche è “un vergognoso tentativo di aggirare gli obblighi di salvataggio di migranti e rifugiati e di offrire protezione a chi ne ha bisogno”.
“Invece d’inviare navi per salvare vite umane e offrire protezione a migranti e rifugiati disperati, l’Italia si sta preparando a mandare navi da guerra per respingerli in Libia”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa. “Questa vergognosa strategia non persegue l’obiettivo di porre fine al crescente numero di morti nel Mediterraneo centrale, bensì quello di tenere migranti e rifugiati alla larga dalle coste italiane. Le affermazioni secondo cui i diritti delle persone riportate in Libia verrebbero rispettati suonano vuote alle orecchie di chi è fuggito dalle terribili violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione della Libia”, ha concluso Dalhuisen.
(da “il Fatto Quotidiano”)
ARIA DI FESTA FINO A QUANDO QUALCUNO NON HA LETTO MEGLIO LE TABELLE ISTAT
C’è aria di festa nel Partito Democratico. Nel mese di giugno il tasso di disoccupazione è sceso “a sorpresa” all’11,1% rispetto al mese precedente. È bastato questo al Pd per dare il via ai grandi festeggiamenti. Il tweet più ottimista arriva dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi: “La disoccupazione scende ancora. Qualcuno può ancora negare il successo del Jobs Act? Avanti”, scrive l’ex ministra con tanto di hashtag che riprende il titolo del libro di Matteo Renzi.
È l’Istat a mettere in chiaro, nel suo bollettino, che il tasso di disoccupazione è sceso di 0,2 punti percentuali rispetto a maggio, quando invece era stato registrato un incremento delle persone in cerca di lavoro.
Non è finita: scrive l’Istituto di Statistica che, così, il tasso “torna su un livello prossimo a quello di aprile”. In altre parole, sul fronte occupazionale in due mesi è calma piatta.
Eppure nel Pd c’è aria di festa. “Al di là delle oscillazioni mensili, il dato incoraggiante è la conferma della costante crescita di medio lungo periodo dell’occupazione e della contestuale diminuzione dei disoccupati e degli inattivi”, commenta il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
Per la responsabile Scuola dei dem Simona Malpezzi “i dati Istat sono un altro risultato importante delle misure messe in campo prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni”.
Il renziano Andrea Marcucci twitta con aria di sfida: “A giugno +23mila occupati su base mensile, cala disoccupazione, cresce occupazione femminile. Ancora qualcuno contesta il Jobs Act?”. Il senatore Mauro Del Barba è sinceramente soddisfatto: “È bello quando il tasso di disoccupazione scende così e ti accorgi di quanto una legge possa incidere”.
Come riassume puntualmente su twitter il direttore di Adapt Francesco Seghezzi quello di giugno è un “mese piatto, con crescita concentrata su lavoro a termine”. Spulciando le tabelle Istat, infatti, si nota come il tasso di disoccupazione sia sì calato, restando però su livelli ormai noti: l’Italia figura tra gli ultimi Paesi nella classifica Eurostat, solo Portogallo e Grecia fanno peggio di noi.
Un dato consolidato nel tempo ma puntualmente rimosso dal dibattito pubblico. I disoccupati, che erano balzati a maggio, sono scesi di 57mila unità .
Tuttavia l’Istat registra un lieve incremento degli inattivi, ovvero coloro che non hanno un lavoro e non lo cercano (+12mila). Non ci sono particolari variazioni da annotare, quindi, e l’inattività resta così un record italiano per nulla positivo.
Quanto agli occupati, nel mese di giugno l’Istat conta 23mila unità in più ma si tratta di contratti a termine.
Il calo degli indipendenti (-13mila) viene infatti ampiamente compensato dalla crescita degli occupati a termine (+37mila, +1,4%).
Quanto ai lavoratori con contratto stabile la situazione resta grossomodo simile al mese precedente (mille unità in meno, per una variazione percentuale minima). Tradotto: la crescita degli occupati a giugno è dovuta alla spinta dei dipendenti a termine, che raggiungono così la quota 2,69 milioni: è il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche per questo dato, ovvero dal 1992, rileva l’Istat.
Per i giovani il tasso di disoccupazione giovanile è tornato a scendere (-1,1 punti), attestandosi al 35,4%. Tuttavia la coorte anagrafica 15-34 anni è l’unica, su base annua, a non veder crescere l’occupazione.
Su base tendenziale la situazione non cambia.
Rispetto a giugno 2016 gli occupati stabili sono aumentati dello 0,7%, quelli a termine del 10,9%. Una crescita trainata peraltro dagli effetti della riforma Fornero che ha allungato l’età pensionabile, ampliando così l’incidenza sulle rilevazioni statistiche delle coorti anagrafiche più avanzate.
Al netto della componente demografica, in un anno la fascia d’età che va dai 15 ai 34 anni ha visto un calo degli occupati dello 0,4%, quella dai 35 ai 49 un incremento dell’1% (con un tasso di disoccupazione in calo del 7,5%) e quella 50-64 anni dell’1,6 per cento (con un calo degli inattivi di quasi il 2%), il valore più alto.
Su base trimestrale (aprile-giugno) l’Istat registra “una crescita degli occupati rispetto al trimestre precedente (+0,3%, +64 mila), determinata dall’aumento dei dipendenti, sia permanenti sia, in misura maggiore, a termine. L’aumento riguarda entrambe le componenti di genere e si concentra quasi esclusivamente tra gli over 50”.
Il dato positivo riguarda invece l’occupazione femminile. Il tasso di occupazione delle donne a giugno è salito al 48,8% (+0,2 punti percentuali), toccando il livello più alto registrato dall’inizio delle serie storiche, ovvero dal 1977. Non solo: la crescita del numero di occupati interessa solo la componente femminile (+0,4%) mentre quella maschile cala dello 0,1%. Il tasso di occupazione scende al 66,8% tra gli uomini (-0,1 punti percentuali).
I dati Istat confermano quindi il trend occupazionale delle precedenti rilevazioni. Senza registrare, escluso il dato sull’occupazione femminile, alcun segnale positivo particolare.
Eppure nel Pd c’è aria di festa.
(da “Huffingtonpost”)
DA UN AMMINISTRATORE UNICO SI PASSA A TRE, CHE GENIALATA… SIMIONI E UN UOMO DI COLOMBAN
Il Campidoglio ha appena comunicato che l’ATAC cambierà governance: “È stata adottata una modifica nella composizione del consiglio di amministrazione dell’Atac. I componenti del Cda saranno tre optando così per la formula collegiale in luogo di quella attuale monocratica”.
Questo significa che in luogo dell’amministratore unico, ruolo finora ricoperto da Manuel Fantasia, ci sarà un consiglio di amministrazione.
Le poltrone sono moltiplicate.
La sindaca di Roma Virginia Raggi ha indicato, secondo quanto si apprende, Paolo Simioni come nuovo presidente e nuovo amministratore delegato di ATAC.
Simioni collaborava già per il Campidoglio con l’assessore Massimo Colomban nel ruolo di coordinatore del gruppo di lavoro sulle società partecipate Ama, Atac e Acea. Simioni era indicato oggi dai giornali come il preferito di Colomban:
L’ala ortodossa che fa capo a De Vito, presidente dell’assemblea capitolina legato alla deputata Roberta Lombardi, è tornata alla carica su Carlo Tosti, ad all’epoca di Alemanno: lui quattro mesi fa partecipò alla selezione pubblica bandita dall’azienda, ma alla fine gli venne preferito l’ex manager di Atm.
Adesso ci riprova: insieme al consulente di Ratp Filippo Allegra e agli ex vertici dell’Atm Carlo Pino e Alberto Ramaglia.
Il fatto è però che in corsia di sorpasso sembra ora essersi piazzato Paolo Simioni, coordinatore del gruppo di lavoro messo su dall’assessore alle Partecipate Massimo Colomban, imprenditore veneto vicino a Davide Casaleggio, ormai in solidi rapporti pure con Beppe Grillo.
È proprio all’ex ad della Save (gestore degli aeroporti di Mestre, Verona e Treviso) nonchè suo vecchio amico, che Colomban vorrebbe affidare la guida di Atac.
Dopo aver fallito il bersaglio grosso: la presidenza di Acea, invece andata all’avvocato Luca Lanzalone, altro professionista vicino ai cinquestelle e vero artefice dell’accordo sullo stadio della Roma.
Non che però Simioni sia rimasto a bocca asciutta: per bypassare gli stringenti limiti salariali vigenti nella pubblica amministrazione, l’ingegnere è stato assunto a 240mila euro l’anno dalla multiutility dell’acqua e dell’elettricità , ottenendo che il suo stipendio fosse diviso in parti eguali – 80mila euro – fra Acea, Atac e Ama. Lo stesso compenso (140mila di parte fissa, 100mila di premio di risultato) previsto per Rota. Non sufficiente tuttavia per convincerlo a restare. (La Repubblica, Giovanna Vitale)
A seguito dell’indicazione da parte della sindaca di Roma Virginia Raggi, di Paolo Simioni come nuovo presidente e ad di Atac, decadono le deleghe di Manuel Fantasia.Pochi istanti prima della nota del Campidoglio che annunciava la nomina di Simioni, Fantasia ha lasciato Palazzo Senatorio visibilmente contrariato, mentre era in corso una riunione su ATAC, senza lasciare dichiarazioni ai giornalisti presenti.
Ad oggi Fantasia potrebbe comunque esser chiamato a far parte del Cda a tre: un ruolo comunque ridimensionato rispetto a quello ricoperto fino a oggi.
(da “NextQuotidiano“)
LA NAVE RAZZISTA SCAPPA DA CATANIA E DUE COMICI LA FANNO PASSARE PER VITTORIA… IN ALTRI TEMPI SI CHIAMAVA VIGLIACCHERIA….. LA NAVE DEI CLANDESTINI TAMIL CONTINUA IL GIRO TURISTICO
«Voi apprendisti galoppini che presidiate il molo vuoto della C-Star, sappiate che la C-Star se n’è già andata. Quando caricheremo questo video avremo già imbarcato, o forse trasbordato, magari a 15 miglia di distanza, fuori dalla zona Schengen. Passandovi sotto il naso. E quindi voi restate pure lì sul molo, ad aspettare questo video. E poi questa faccenda potrete chiamarla la nostra piccola beffa: la beffa di Catania».
In un video umoristico a telecamera fissa parla Gian Marco Concas, uno dei responsabili dell’imbarcazione del gruppo Generazione identitaria. «Vi siamo passati sotto il naso», dice, annunciando che l’equipaggio è riuscito a salire a bordo.
E confermando così che non attraccheranno a Catania, nonostante i recenti annunci.
Una retromarcia nonostante gli annunci formulati in più di una circostanza e la presenza, a Catania, dei militanti della missione Defend Europe.
Peccato che in un altro video pubblicato ieri su YouTube dall’attivista Brittany Pettibone, la versione fosse diversa. A fornirla è Lorenzo Fiato, uno degli italiani della delegazione che parla di pressioni non soltanto degli «attivisti blac block e di sinistra che hanno fatto dei sit-in» ma anche delle forze dell’ordine che li avrebbero continuamente seguiti.
Fiato cita inoltre Angelino Alfano come «ministro dell’Interno» (sebbene lui sia ormai da mesi ministro degli Esteri) che avrebbe annunciato di volere fermare la missione Defend Europe.
«Abbiamo deciso per questo che Catania non è più un porto sicuro per noi», afferma Lorenzo Fiato nelle riprese di un’altra attivista. Una versione molto diversa rispetto a quella fornita nelle immagini diffuse dal canale ufficiale qualche ora dopo.
Quindi se ne deduce:
1) La nave che avrebbe dovuto scalare Catania (per scelta degli organizzatori) non attracca più per paura delle autorità italiane e dei contestatori e questo non è atto un atto di vigliaccheria, ma un atto eroico, prendiamo atto.
2) La nave è a 900 chilometri dall’Italia ma per il duo comico “se n’è già andata passandovi sotto il naso”
3) Gli attivisti in attesa (devono averne di quattrini visto che sono 12 giorni che aspettano) da un lato sono “controllati dalla polizia”, dall’altro sono già a bordo di una nave che naviga a 900 km dall’Italia e non è arrivata neanche a Creta.
Al prossimo video magari potrebbero dirci se i 10.000 dollari a testa pagati dai clandestini tamil beccati a bordo con documenti falsi a Famagosta sono stati messi a bilancio.
(da agenzie)
CONSIGLIO REGIONALE LOMBARDIA, LA CONSIGLIERA CARCANO (M5S) PROTESTA PER UNA VIOLAZIONE DEL REGOLAMENTO E VIENE FATTA PORTARE FUORI DALLA DIGOS… SIAMO NELLA PADAGNA DEL MAGNA MAGNA O IN SUDAMERICA?
Il presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Raffaele Cattaneo, ha chiesto l’intervento della Digos dopo l’espulsione, da lui decisa, della consigliera del M5S, Silvana Carcano, che aveva rifiutato di uscire dall’Aula del Pirellone.
Un atteggiamento da regime sudamericano.
I consiglieri 5 Stelle avevano protestato per la decisione della giunta di ripresentare un emendamento per finanziare con 500.000 euro gli Open di golf a Monza.
Due agenti in borghese sono entrati in Aula durante la sospensione dei lavori per parlare con la Carcano.
Subito dopo è la stessa Carcano su Facebook a raccontare cosa è accaduto: «La Digos mi ha portato fuori dall’aula. Ma hanno ritirato l’emendamento. Chi ha vinto? Bisogna arrivare a tanto…».
La materia del contendere l’aveva spiegata sempre Silvana Carcano nello status precedente: «La Lega vuole dare 500.000 euro all’open di Golf. Votiamo. Per pochi voti la maggioranza va sotto. Bene, cosa fa Maroni? Ripresenta un emendamento identico e lo rimette ai voti! Ma il regolamento vieta di ripresentare emendamenti uguali!!! Protestiamo! Ma niente, Cattaneo se ne frega».
L’Aula ha bocciato un emendamento proposto dall’assessore all’Economia, Massimo Garavaglia (Lega), che stanziava fra l’altro 500.000 euro per il 74mo Open d’Italia di golf in programma a Monza dal 12 al 15 ottobre. Determinanti i voti contrari di Forza Italia. Proprio stamani il governatore Roberto Maroni aveva fatto un sopralluogo al golf club ‘Milano’ di Monza per assicurare agli organizzatori di voler “investire” sul progetto.
(da “NextQuotidiano”)
COME SONO STATI SPESI? …LE DOMANDE DELLA CORTE DEI CONTI LOMBARDA
“Scusate, vorreste essere così gentili da dirci che ne è stato degli 871.459.434 euro che Finlombarda risulta aver avuto nella sua totale disponibilità nel 2016 e dei quali non si sa se e come sono stati utilizzati?”.
A porre l’incredibile domanda — non in questi termini, naturalmente, ma il senso è quello — è stata la Corte dei Conti della Lombardia, chiamata il 10 luglio scorso a dare il suo Giudizio di Parificazione del Rendiconto generale dell’ente guidato da Roberto Maroni. Cioè, il suo parere sul bilancio della regione più ricca d’Italia.
I (pochi) media che hanno seguito l’udienza del 10 luglio hanno riferito di un bilancio 2016 che registra una riduzione del disavanzo; di un “saldo contabile, che pur rimanendo negativo, recupera 89,1 milioni di euro rispetto al 2015” e di un “saldo sostanziale che registra un miglioramento di 556,47 milioni rispetto al precedente esercizio”. Insomma, a una prima lettura sembra che Maroni abbia ricevuto una promozione a pieni voti.
Da qui le dichiarazioni del Governatore che esultante dichiarava: «La Corte anche quest’anno ha promosso Regione Lombardia, approvando il bilancio 2016 e confermando così la qualità nella gestione dei nostri conti pubblici».
Tuttavia, a prendersi la briga di spulciare le circa 300 pagine della relazione del Presidente Simonetta Rosa e nella Requisitoria del procuratore regionale, Salvatore Pilato, le ombre escono fuori e sono pure nere.
Il documento, infatti, solleva pesanti rilievi che svariano dai fondi stanziati e inutilizzati dagli enti regionali, alla preoccupazione per la redditività delle grandi società in house, passano per gli allarmi lanciati sulle partecipate Aler (case popolari) e Asam (autostrade) e si concludono con le bacchettate per le assunzioni dei dirigenti delle partecipate e l’abuso dei contratti atipici.
Per Bobo Maroni i dolori arrivano nella parte dalla relazione a firma Giovanni Guida, il magistrato che si è occupato di analizzare i rapporti tra il Pirellone e “gli enti del sistema Regionale (Sireg)”.
Fanno parte dei Sireg tutti quegli enti dalla natura giuridica differente (agenzia, spa, fondazione) ai quali l’architettura regionale lombarda ha conferito un ruolo fondamentale nell’attuazione delle proprie politiche.
Per capirci, sono Sireg: Finlombarda, Infrastrutture Lombarde, Lombardia Informatica, le Aziende Ospedaliere, le Aziende socio sanitarie territoriali (Asst), Aler, Fnm ecc…
Insomma, è l’oceano di tutte le partecipate che di fatto realizzano le politiche decise dalla giunta regionale. E che quindi ricevono una “non marginale quota di trasferimenti”.
E qui iniziano le note dolenti, scrivono i giudici: “Si tratta di risorse che vengono gestite per il tramite di organismi partecipati dalla Regione e delle quali il rendiconto daÌ€ evidenza contabile esclusivamente con riferimento ai dati dell’impegno e della spesa relativi all’assegnazione iniziale delle risorse e che in misura non insignificante rimane non utilizzata nelle contabilitaÌ€ di questi Enti”.
Tradotto: il Pirellone vota le leggi e stanzia i fondi per realizzarle, li gira all’ente che dovrebbe attuare le politiche, ma lì i soldi si impantanano.
Perchè gli enti quei soldi li incamerano, ma non li spendono. E non parliamo di spiccioli, visto che nel 2016 “gli impegni verso enti dipendenti e società totalmente partecipate sono stati pari a 631,57 milioni di euro, di cui 155 per spese di funzionamento”. Anzi, sono talmente tanti, che spesso eccedono le capacità di spesa.
“Un’indagine sulla gestione della liquiditaÌ€ regionale nel Sireg”, aggiungono i magistrati, “ha rilevato come sono trasferite agli Enti risorse eccessive rispetto alla capacitaÌ€ d’impiego da parte degli stessi nell’espletamento delle funzioni loro delegate. Tale fenomeno, che appare riconducibile o a un difetto di programmazione da parte della Regione ovvero ad una scarsa efficienza della gestione operata dai predetti Enti, che non riescono ad impiegare in modo efficace le risorse trasferitegli dalla Regione, potrebbe produrre effetti potenzialmente distonici sulla valutazione del raggiungimento dei nuovi saldi di finanza pubblica in ipotesi di utilizzo di tale liquiditaÌ€ e di un suo eventuale tiraggio da parte della Regione stessa”.
Per comprendere l’entità dell’eventuale “distonia”, basti dire che al 31 dicembre 2016, presso i principali enti Sireg risultavano allocate risorse regionali pari quasi a due miliardi di euro”! Un immobilizzo monstre, che, oltre a togliere liquidità alla Regione e puntualità nell’intervento sociale, ha anche cospicui costi impliciti.
Ma siamo all’inizio: non solo quei soldi restano inutilizzati, ma spesso, dicono i giudici, spariscono dai radar e non si riesce a sapere come vengono utilizzati: “Il Rendiconto della Regione, proprio per essere in gran parte caratterizzato da trasferimenti, non consente di conoscere esaustivamente e di valutare i fatti gestionali attraverso i quali sono attuate le politiche pubbliche, rimesse in gran parte alle attivitaÌ€ degli Enti regionali, neÌ di ricostruire i relativi costi e le procedure amministrative adottate”.
E da qui si capisce l’apparente inconciliabilità di una Corte che da un lato certifica un bilancio in ordine — quello della Regione, dove appaiono solo i soldi girati ai Sireg — e dall’altro lancia l’allarme per l’inconoscibilità dell’utilizzo dei fondi, i quali una volta incamerati dalle partecipate, rientrano nella contabilità delle stesse e non più del Pirellone.
Ad aggravare la situazione, “la facoltaÌ€ riconosciuta alla Giunta di intervenire, modificando le finalitaÌ€ cui le risorse sono state assegnate con precedenti leggi di spesa o determinando una riprogrammazione dell’utilizzo delle stesse, senza alcuna partecipazione da parte del Consiglio”. Cioè: i soldi stanziati a un ente con la legge per le case sismiche, per esempio, la giunta può decidere di “girarli” per la costruzione di campi da golf (è un’ipotesi di scuola), senza che il Consiglio Regionale lo sappia.
Campione di questa “possibile gestione fuori bilancio” e, soprattutto, “del significativo accumulo di risorse che rimangono inutilizzate presso gli organi” è, per i magistrati, Finlombarda, la cassaforte del Pirellone, che di fatto svolge un’“attività di tesoreria alternativa” in favore sia della Regione che degli altri enti.
Finlombarda, recentemente assurta all’onore delle cronache per una supposta truffa milionaria organizzata da alcuni dei suoi manager di punta, nel 2016 ha gestito fondi — finalizzati ad attività di finanziamento, concessione garanzie, contributi in conto capitale o in conto interessi — per un totale di 1.426.221 euro, di cui 871.459.434 risultano essere rimasti giacenti e, dunque, non destinati al diretto soddisfacimento delle politiche regionali.
Tutte “risorse” che scrivono i magistrati “risultano sottratte al sistema della Tesoreria unica dello Stato e, di contro, impiegate anche in strumenti finanziari”.
Insomma, un fiume di soldi — tutti stanziati con uno scopo chiaro — finiti nelle disponibilità di Finlombarda che potrebbero non essere andati per i loro fini originari, o che non sono proprio andati da nessuna parte. Tanto che “la significatività , dal punto di vista quantitativo, di tali risorse regionali liquide (…) sta generando ulteriori fenomeni potenzialmente distonici rispetto ai principi di finanza pubblica”.
E i giudici fanno anche un elenco dei finanziamenti non previsti, effettuati nel 2016 da Finlombarda a favore di alcuni enti regionali: il prestito da 38 milioni concesso come “versamento soci infruttifero” ad Arexpo spa e poi non più richiesto indietro; i 29 milioni dati ad Asam per pagare gli interessi per due prestiti in scadenza; le due anticipazioni straordinarie decise per far quadrare i disastrati bilanci Aler; i 25 milioni concessi a Lombardia Informatica a copertura delle spese generali di funzionamento; la Fondazione Biomedica che ha goduto di un’anticipazione da 25 milioni di euro. Fondi che Finlombarda ha usato, ma che le erano stati dati per fini specifici.
E infatti è qui che per i giudici, sorge un problema di “compatibilità con il divieto di gestioni fuori bilancio, nonchè con la competenza del Consiglio Regionale ad approvare la destinazione delle predette risorse a livello di programmi”.
La scure dei giudici si è anche abbattuta direttamente su alcuni enti regionali, indicati come organismi dalla gestione semi-fallimentare. In questa (ingloriosa) classifica, la parte del leone spetta alle già citate Aler, ad Asam e a Infrastrutture Lombarde spa. Tutte società completamente in house, cioè a totale controllo del Pirellone. Complessivamente, le sole in house hanno ricevuto nel 2016 — al netto dei trasferimenti sanitari — circa il 70% delle risorse complessivamente stanziate per gli enti Sireg, cioè 627.959.648 euro.
Prima di analizzare le “magagne” delle singole società , è d’obbligo una breve ricognizione sui costi di gestione di queste strutture: solo per il loro mantenimento, gli ignari cittadini lombardi hanno sborsato solo nel 2016 la bellezza di 54 milioni. “Per avere un termine di paragone”, sottolineano i giudici con neanche tanto celata ironia, “può rilevarsi che, nel medesimo anno, Regione Lombardia ha speso complessivamente per il proprio personale (2926 persone, ndr) circa 160 milioni di euro”!
A far lievitare il costo del personale delle in house sono anche una miriade di dirigenti, sulle cui modalità di assunzione la Procura generale ha mosso fortissimi dubbi. Pur riconoscendo a queste società il diritto di scegliere i manager apicali con “provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità ”, il procuratore Pilato ha rilevato come “al 31.12.2016 risultino in servizio svariati dirigenti, la cui modalità di assunzione non appare chiaramente riconducibile al predetto dato normativo, poichè l’Amministrazione regionale ha indicato le seguenti modalità di reclutamento: a) “privatistica”; b) “provvedimento del presidente”; c) provvedimento del direttore Generale; d) “provvedimento di natura privatistica”; e) delibera organo di gestione”; f) “selezione tramite società esterna””.
Cioè, tutte assunzioni avvenute al di fuori dei dettami della norma e per il procuratore, “le eventuali assunzioni in violazione delle norme sarebbero nulle di diritto”. Da qui la richiesta formale al Pirellone di un “controllo analogo (a quello da lei svolto su se stessa, ndr) sulle società in house” e che “promuova una verifica sistematica della conformità della legge nella fase di costituzione dei rapporti di lavoro dirigenziali”.
Sottolineando come insieme Regione Lombardia e gli altri enti Sireg nel 2016 alle società in house abbiano conferito oltre 400 incarichi, i giudici hanno poi ricordato l’esistenza del Dl 50/2016, il quale prevede “che prima di procedere ai suddetti affidamenti, venga effettuata una valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, dando anche conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”.
Per misurare la buona salute delle società — una curiosità più che lecita: essendo le in house società alternative agli uffici regionali per la gestione dei servizi, esse devono essere pienamente operative, altrimenti non avrebbero senso di esistere, no? —, i giudici hanno scelto di utilizzare il ROE (l’indice di redditività del capitale proprio). Trattandosi di società pubbliche, per avere la promozione, è sufficiente che il Roe sia non negativo, in quanto l’investimento pubblico dovrebbe essere finalizzato esclusivamente alla realizzazione della politica pubblica. Pur con questa avvertenza, per i giudici nel triennio 2014/2016 sono parecchi gli enti Sigef che presentano un Roe in caduta e quindi profili di preoccupazione: Finlombarda (1,02 nel 2014, 1,19 nel 2015; 0,64 nel 2016), Infrastrutture Lombarde (3,25; -13,8; 4,13); Lombardia Informatica (1,72; 7,85; 0,04); Explora (-399; 7,68; 1,17); Arexpo (0,53; 0,23; -33,7) e Asam (-6,09; -1,76; -3,96).
Una mezza debacle. A destare più preoccupazione è la declinante redditività di Infrastrutture Lombarde, la super società che gestisce i più grandi appalti della Regione, i cui vertici sono stati decapitati nel 2015 per un giro di maxi tangenti.
I giudici hanno puntato il dito sui risultati di esercizio: pur se nel 2016 la società è tornata in utile (per poco più di 300 mila euro) a fronte di una perdita del 2015 di oltre un milione di euro, “non può non evidenziarsi sia una notevole diminuzione del valore della produzione, calato di circa due terzi dal 2014 al 2016, sia il forte incremento del contributo in conto esercizio da parte di Regione Lombardia che passa, nello stesso periodo, da 763 mila euro a 7,1 milioni”.
Altra nota dolente è Aler: per i magistrati “non può non ricordarsi la situazione di marcata criticità in cui versano Aler Milano e Aler Pavia-Lodi, entrambe oggetto di piani specifici di risanamento, il raggiungimento dei cui obiettivi (…) appare riscontrare significativi ritardi. A tal riguardo, appare emblematico ricordare come nel 2016 Aler Milano abbia fatto ricorso ad anticipazioni di cassa per la gestione corrente per più di 56 milioni di euro, nonchè come la stessa Aler sia in ritardo nell’implementazione del sistema informatico SIREAL (Sistema informativo integrato Regione Lombardia-Aler) che dovrebbe consentire un miglior monitoraggio da parte di Regione di tali enti”.
Se Aler piange, certamente Asam non ride: ereditata dalla ex Provincia di Milano, la holding delle partecipate societarie facenti capo a Finlombarda che controlla le principali autostrade lombarde (presieduta dall’ex capo di Aler, l’ex profetto Gian Valerio Lombardi) è interessata da “una situazione di particolare criticità ”. L’indebitamento complessivo, pari a 172.333.327 euro, è un fattore che “può compromettere la stessa continuità aziendale”.
Sireg a parte, anche Regione Lombardia ha i suoi scheletrini nell’armadio, dalle spese per il personale al carente sistema dei controlli interni.
Circa il personale, la Corte ha registrato l’ennesimo pesante sforamento della spesa per i contratti di lavoro flessibile: a fronte di un tetto di 4.294.921, ha infatti speso ben 6.256.756, con uno sforamento — ritenuto “non accettabile” — di 1,9 milioni e rotti. “Il protrarsi di tale violazione genera obiettivi profili di criticità ” dal punto di vista sia “della legitimità contabile dell’eccedenza di spesa”, sia “della conformità dell’attività amministrativa alla disciplina finanziaria in sede di programmazione, gestionale e di consuntivo”, dicono i magistrati.
Neanche dal punto di vista dei controlli messi in atto per combattere la corruzione, la famosa e contestata agenzia Arac, per i giudici, va tutto benissimo: “L’architettura complessiva ed il funzionamento dei controlli interni merita particolare attenzione sotto i profili dell’effettivitaÌ€ delle misure di garanzia, poste a presidio dell’integritaÌ€ della finanza pubblica e dell’efficienza amministrativa, anche nella logica dell’adeguato contrasto delle forme piuÌ€ insidiose di devianza economica”.
Infine, l’ultima bacchettata a Maroni arriva dai “costi della politica”: per i giudici, infatti, “un ulteriore profilo da monitorare con attenzione concerne i costi degli apparati delle segreterie politiche dei componenti della Giunta regionale”. Emerge infatti “che tali costi esprimono importi significativi, ammontando ad Euro 5.969.711,34, importo di gran lunga maggiore, ad esempio, rispetto al dato del 2013 pari ad Euro 4.735.136,01, seppur in lieve calo rispetto al 2015 (Euro 6.088.800,30)”
Alla luce di quanto detto e scritto, quella data dai giudici a Maroni il 10 luglio scorso può sembrare molte cose, tranne una promozione a pieni voti. Sarà per l’anno prossimo, Bobo.
(da “Business Insider”)
DALLA LIBIA E DALLA SIRIA IL GREGGIO DI CONTRABBANDO PORTATO NELLE RAFFINERIE ITALIANE E RIVENDUTO TRIPLICANDO IL PREZZO
Il greggio dei pozzi petroliferi dello Stato Islamico può essere finito in Italia. E, dunque, nelle nostre automobili, nei nostri motori, nelle nostre case.
Quel che finora è stato poco più che un sospetto, un’ipotesi investigativa plausibile ma assai difficile da dimostrare, si sta pian piano consolidando, tanto da finire in un report riservato del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza, datato febbraio 2017, sul terrorismo islamico.
“È possibile ritenere che le importazioni di petrolio da zone sottoposte al controllo delle organizzazioni terroristiche abbiano come terminali anche le principali raffinerie italiane”. E, di conseguenza, “disarticolare ogni possibile frode nel settore degli olii minerali può avere una valenza strategica nel contrasto al finanziamento al terrorismo”.
Ma quali sono gli indizi? Quali rotte seguono i contrabbandieri?
IL CAROSELLO A LARGO DI MALTA
Una prima risposta si trova a sessanta miglia a sud di Malta. In quel tratto di acque internazionali può capitare che le petroliere provenienti dalla Turchia e dalla Russia, e le bettoline cisterna salpate di nascosto dalla Libia, spariscano per qualche ora.
Come risucchiate in un triangolo delle Bermuda al centro del Mediterraneo. In realtà si mettono d’accordo per spegnere i transponder di bordo che le rendono tracciabili, poi le bettoline si accostano e travasano il greggio clandestino sulle grosse cisterne. Finita l’operazione al buio, si allontanano e a distanza di sicurezza riaccendono il satellitare.
Riappaiono sul monitor quando stanno già tornando in Libia, e la nave madre prosegue sulla rotta verso i porti della Sicilia, del centro-nord Italia, di Marsiglia.
Questo sistema è oggetto di una grossa indagine della Finanza coordinata da una procura siciliana: sono state individuate società di brokeraggio italiane e maltesi che, pur essendo nate da poco, già fatturano milioni di euro organizzando la logistica del trasporto e vendendo il greggio libico e arabo alle grandi compagnie mondiali.
Sono gli intermediari e, secondo gli investigatori, si occupano di ripulire tutta la filiera del contrabbando, attraverso documenti di viaggio falsificati. I finanzieri hanno prelevato campioni dai depositi di alcune raffinerie italiane, scoprendo che contenavano petrolio estratto in Libia e in Siria in quantità superiore rispetto a quanto attestavano i documenti di carico.
Sull’origine di quel prodotto clandestino, però, nessuno si sbilancia veramente. “Non sappiamo se dietro c’è l’Isis o ci sono altri trafficanti non fondamentalisti, perchè le tracce si perdono a causa agli intermediari fasulli” dice una fonte vicina all’inchiesta. “Di certo quel petrolio non doveva essere lì”.
IL NORDAFRICA E LA VIA TURCA
Secondo alcuni analisti internazionali, in Libia la causa principale dell’instabilità politica ruota attorno alla guerra del petrolio. La questione sta a cuore sia al governo di Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite, sia a quello del generale Haftar, essendo l’esportazione di greggio l’unica vera risorsa nazionale, e solo grazie a essa ancora riescono a pagare regolarmente gli stipendi dei dipendenti pubblici. Il furto di carburante, però, è diventato una prassi che ha causato un danno enorme, stimato dal procuratore nazionale libico in “tre miliardi e mezzo di euro sottratti alle casse dello Stato”.
Non è un caso, dunque, che le motovedette che l’Italia ha fornito alla Guardia Costiera libica, addestrata dai nostri marinai per il contrasto ai trafficanti di migranti, siano state utilizzate anche per dare la caccia alle bettoline a colpi di mitragliate, come dimostrerebbe il video pubblicato dal sito di Repubblica.it all’inizio di luglio. E non è casuale neanche la decisione dell’Unione Europea, la scorsa settimana, di estendere il mandato della missione Sophia alla lotta al contrabbando di petrolio.
Nel report della Finanza si parla anche della rotta turca. “I gruppi jihadisti trasportano il greggio su camion al confine con la Turchia, dove broker e trader lo comprano pagando in contanti”. Da qui il carico parte via mare o terra, seguendo in quest’ultimo caso una rotta che negli ultimi mesi sembra essere stata abbandonata. Certo è che la Turchia – sostiene l’intelligence italiana – ha sempre avuto un atteggiamento morbido nei confronti dei trafficani siriani. Un anno fa i servizi russi accusarono il figlio del presidente turco Erdogan, Bilal, di essere “il ministro del petrolio di Daesh”, indicando alcune società di sua proprietà attraverso le quali lo avrebbe commercializzato in Europa.
Accuse che in Italia, dove Bilal ha vissuto e dove è stato indagato dalla procura di Bologna per riciclaggio, non hanno trovato alcun fondamento tant’è che il fascicolo, nel gennaio scorso, è stato archiviato
IL RUOLO DELLA MAFIA
Qualsiasi sia la rotta, è un fatto che il greggio libico sia finito illegalmente via mare in Italia, in Turchia e a Malta, e via terra in Tunisia. Lo hanno dichiarato gli ispettori dell’Onu a giugno, in occasione dell’ultima risoluzione. Anche loro fermandosi al primo passaggio, cioè le raffinerie, senza però investigare se gli intermediari siano, o siano stati, collegati ai gruppi fondamentalisti.
Come ha più volte spiegato il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, esistono “due potenziali punti di contatto ” tra “terrorismo islamico e criminalità organizzata”: la droga e il petrolio.
Alcune indagini a Venezia e in Puglia hanno dimostrato l’interesse delle mafie per l’oro nero, secondo uno schema tipo: creano società fasulle all’estero, con oggetto sociale la commercializzazione di benzina; si accreditano, falsamente, come esportatori abituali; vendono direttamente ai gestori di pompe di benzina a prezzi ribassati; chiudono subito dopo la società . “Così raggiungono due obiettivi perchè evadono l’Iva e riciclano denaro: due miliardi lo scorso anno in Italia”, spiega Andrea Rossetti, presidente di Assopetroli.
LA FONTE DI FINANZIAMENTO
Rossetti sostiene che tuttora, nonostante le sconfitte militari in Siria e in Iraq, le risorse naturali siano l’unica fonte finanziaria reale dell’Isis. “Le capacità economiche dello Stato Islamico – si legge ancora nel documento della Finanza – sono subordinate alla sua capacità di raffinare e trasportare il petrolio”. Nei territori siriani e iracheni di loro controllo. Non per niente i raid aerei delle forze della Coalizione hanno avuto negli ultimi due anni come target principale raffinerie e oleodotti sotterranei (ne hanno distrutti più di 200) mentre sul terreno infiltrati si muovevano per intercettare la rete commerciale interna.
“Il ricavo dell’Isis della vendita del petrolio, venduto vicino al luogo di produzione – scrivono le Fiamme gialle – si aggira sui 20-35 dollari al barile, da ciò gli intermediari possono poi giungere a prezzi di vendita pare a 60-100 dollari. E la stima per eccesso della produzione attuale si attesta sui 50mila barili quotidiani”. Sono un milione di euro al giorno.
L’ultimo tesoro dello Stato Islamico.
(da “La Repubblica”)
L’ULTIMATUM DI Q8: O SI PAGA IL DEBITO O NIENTE PIU’ CARBURANTE.. IL CASO DEL BUS IN VIAGGIO SENZA ASSICURAZIONE , IL RISCHIO DEGLI STIPENDI, L’IPOTESI CONCORDATO PREVENTIVO
Q8 ha fatto sapere ad ATAC ufficialmente di non essere più disposto a concedere dilazioni, pretendendo entro 30 giorni il pagamento delle fatture emesse, pena lo stop all’erogazione del gasolio.
Il termine scade oggi: se entro stasera non verranno versati 3,8 milioni di euro, niente più carburante.
E la storia, raccontata oggi da Giovanna Vitale su Repubblica, è sintomatica delle condizioni della municipalizzata dei trasporti romana, senza direttore generale dopo le dimissioni di Rota e ora davvero a rischio crac entro agosto.
I fornitori, che da mesi inondano di decreti ingiuntivi l’azienda, vogliono chiudere i cordoni della borsa.
Lo spettro del fallimento o anche di un concordato preventivo fa temere di non poter rientrare dei crediti accordati.
La paralisi è molto più vicina di quello che sembra e l’ipotesi di blocco del pagamento degli stipendi, smentita dal Campidoglio, si fa sempre più vicina.
Spiega Alessandro Trocino sul Corriere:
Roma deve approvare il suo bilancio consolidato (che comprende le partecipate) entro il 30 settembre. Il suo debito finanziario arriva a 2,5 miliardi di euro. Il problema fondamentale è che tra i creditori di Atac c’è anche il Comune. E se fallisse l’azienda dei trasporti, il Comune rischierebbe il dissesto.
Per questo la strada del concordato preventivo, caldamente suggerita dall’ex dg Rota, sembra essere obbligata. Anche se le difficoltà non mancano. E anche se il Comune non vuole assumersi la responsabilità di fare annunci, per evitare conseguenze negative per i debitori.
Non solo: sabato un autobus dell’ATAC è finito in un incidente in via Tarquinio Collatino, incrocio con via Calpurnio Pisone.
I vigili hanno constatato che il mezzo viaggiava senza assicurazione, scaduta il 30 giugno. A luglio non ha versato l’anticipo dei tfr, per i prossimi mesi l’azienda non sa come pagare gli stipendi.
“Il debito di Atac da 1,38 miliardi per il Comune è un credito che vale oltre 500 milioni. Se oggi la società fallisce anche il Comune ha serie difficoltà e rischia il dissesto”, aveva spiegato proprio ieri Mazzillo al Sole 24 Ore. Entro il 30 settembre va approvato il bilancio consolidato della holding capitolina, bisogna trovare qualcuno disposto a subentrare in corsa a Rota. Ecco perchè l’idea del concordato preventivo sembrava la strada più facile da percorrere per evitare intoppi finanziari che andrebbero a colpire anche il Campidoglio. Proprio come aveva suggerito Rota:
Una via che, in realtà , aveva esplorato anche il suo predecessore Marco Rettighieri. Rota per un mese avrebbe partecipato a riunioni allargate con la sindaca e i suoi uomini di fiducia. Ma sulla proposta di concordato non sono mai stati fatti passi avanti. È il motivo principale per cui Rota ha lasciato. Si può immaginare che non sia facile per un’amministrazione percorrere questa strada.
Con il concordato preventivo entra in campo un giudice che nomina un amministratore che, di fatto, sovrintende a tutta l’attività . E soprattutto si deve occupare di separare il debito, e Atac ne ha tanto,quasi 1,4 miliardi di euro, dalle attività ordinarie per poi cedere il patrimonio per soddisfare i creditori. Atac possiede ancora immobili e terrenidivalore. L’idea di far gestire le vendite ad un commissario giudiziario potrebbe essere considerata da qualcuno un ostacolo.
Senza concordato la sindaca può fare ricorso alla legge Marzano (arriverebbe un commissario nominato dal governo, ipotesi già scartata in partenza) oppure presentare un piano di risanamento che, visti i problemi di bilancio denunciati dall’assessore Mazzillo, sembra complicato portare a termine. Tenendo presente che chi amministra la società si deve muovere in caso di azienda in crisi, altrimenti rischia di fronteggiare il codice penale.
(da “NextQuotidiano”)