Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
BASTA AUMENTARE E NOMINARE I MEMBRI DEL NUOVO CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DELLE PARTECIPATE: QUESTI HANNO RISOLTO IL PROBLEMA DI CAMPARE… UN BANDO CHE SEMBRA FATTO AD HOC PER QUALCUNO
Virginia Raggi ha trovato il modo di creare nuovi posti di lavoro.
Lo si scopre sul sito della Città Metropolitana di Roma Capitale dove nella sezione bandi è avvisi è presente l’invito alla presentazione di candidature in qualità di componente dell’organo amministrativo della società partecipata Capitale Lavoro SpA.
Non si tratta di molti posti di lavoro per carità , ma sempre meglio che niente no? Come tutti sanno la Raggi, in qualità di Sindaca di Roma è anche Sindaca Metropolitana, ovvero dell’ente che in alcune grandi città italiane ha sostituito la vecchia Provincia.
In qualità di Sindaca della città Metropolitana di Roma Capitale il 14 luglio la Raggi ha firmato un avviso per la selezione delle candidature per la Governance di Capitale Lavoro, la società in house dell’Ente.
Capitale Lavoro è una società che fino ad oggi è retta da un Amministratore Unico (che è Claudio Panella). La società , che conta più di 300 dipendenti, è una partecipata al 100% dalla Città Metropolitana di Roma.
Dall’avviso si evince che l’Amministrazione pentastellata sta cercando i componenti per un eventuale consiglio di amministrazione, aumentando così i costi di gestione dell’ente e soprattutto il numero delle poltrone.
Il bando però bisogna cercarlo bene, un po’ perchè il sito non funziona come dovrebbe un po’ perchè non gli è stata fatta molta pubblicità . Anzi, praticamente nessuna.
Ad accorgersene è stato il consigliere metropolitano Massimiliano Borelli del gruppo consiliare Le Città della Metropoli.
C’è ancora poco tempo per presentare la candidatura perchè il bando scade lunedì 24 luglio. Una volta raccolte le candidature la Raggi valuterà chi ha i requisiti necessari per essere nominato a far parte dell’Organo Amministrativo e a chi verrà conferito l’incarico di Amministratore.
Che si tratti di due posizioni differenti lo si evince dal fatto che l’Amministratore deve essere in possesso di un maggior numero di requisiti rispetto al componente del CdA
Quai sono i requisiti stabiliti dalla Raggi?
Fin qui non ci si deve stupire troppo.
La Raggi, così come prima di lei i vecchi partiti, è da un anno a questa parte impegnata in un’intensa attività di nomina di collaboratori e consulenti.
A destare curiosità però sono i criteri di ammissibilità . Nell’avviso si legge che il candidato deve “avere i requisiti per la nomina a Consigliere del Consiglio Metropolitano”. Ovvero deve essere un consigliere eletto in uno dei comuni che fanno parte della città Metropolitana. In quanto ente di secondo livello infatti i consiglieri delle città metropolitane — così come le province — vengono eletti tra i consiglieri comunali.
Il candidato però non può ricoprire cariche elettive presso la Città Metropolitana di Roma Capitale, non deve essere consigliere comunale di Roma Capitale o essere eletto in uno dei consigli municipali capitolini.
Allo stesso modo non può essere un consigliere regionale, un parlamentare o un eurodeputato. In tal caso deve dimettersi dalla carica entro 10 giorni dalla nomina. Cosa significa tutto questo?
Che per poter essere candidabile alla posizione di cui sopra bisogna essere consiglieri comunali eleggibili nel Consiglio Metropolitano. Ma non eletti a Roma.
Quindi possono presentare le loro candidature solo i consiglieri eletti nei comuni esterni alla Capitale. Per la verità il bando non è così specifico perchè si parla di “requisiti per la nomina a Consigliere del Consiglio Metropolitano” e non del consiglio metropolitano di Roma.
In teoria quindi un consigliere eletto in un comune che fa parte dell’area di altre città metropolitane (ad esempio Napoli, Firenze, Milano o Genova solo per citarne alcune) potrebbe partecipare.
Ma in realtà saranno i consiglieri comunali dei comuni dell’ex Provincia di Roma a voler partecipare al bando. Visti i tempi stretti il gruppo consiliare di Città della Metropoli ritiene che questo possa essere un bando ad hoc “costruito per pochi intimi come era usanza della vecchia politica”.
Insomma secondo i consiglieri d’opposizione sembra quasi che questo avviso di gara sia destinato a qualche consigliere comunale a 5 Stelle di qualche comune dell’area metropolitana che non ha un lavoro.
In fondo le nomine le farà direttamente la Raggi.
(da “NextQuotidiano”)
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Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
INDAGINI INTERNE SUI 11.771 DIPENDENTI PER CAPIRE CHI HA ATTIVITA’ ESTERNE
Lorenzo De Cicco sul Messaggero di oggi firma uno spassoso articolo che racconta del doppio
lavoro degli autisti ATAC.
La più grande partecipata dei trasporti pubblici d’Italia avrebbe avviato una serie di indagini interne per capire quanti dei suoi 11.771 dipendenti (di cui 5.560 autisti, 517 macchinisti e 1.651 operai delle officine) gonfino i guadagni con attività esterne mai dichiarate all’ufficio del personale.
Di più: il sospetto è che in tanti svolgano il secondo (in alcuni casi il terzo) impiego anche durante l’orario di servizio pagato dalla partecipata del Campidoglio, e quindi dai romani.
Un autista di Acilia, parcheggiato il bus in deposito, passa il pomeriggio a lavorare in una ditta di traslochi. Un altro conducente è famoso nei garage di Grottarossa come il cassamortaro, perchè arrotonda lo stipendio aiutando, “a chiamata”, un’impresa di pompe funebri vicino casa. Poi c’è il piastrellista che ha rifatto il bagno a diversi colleghi macchinisti — a prezzi di favore, s’intende — e l’elettricista, anche lui generoso negli sconti con gli altri addetti della metro. Tutti dipendenti dell’Atac, tutti col doppio lavoro.
Il quotidiano racconta che l’ATAC ha cominciato a indagare quando i vertici si sono resi conto che il tasso di assenteismo percentuale è il doppio di quello di ATM a Milano:
Basta mettere a confronto i numeri dell’ultimo rapporto sulle presenze in servizio. All’Atac, nel primo trimestre del 2017, si è assentato il 12,1% dei lavoratori, senza considerare ferie e riposi settimanali.
All’Atm, l’azienda dei trasporti meneghini, il tasso di assenza nello stesso periodo è del 6,8%. Significa che ogni giorno, nella partecipata del Campidoglio, circa 1.400 dipendenti danno forfait.
Di questi, 750 sono autisti o macchinisti, oltre la metà dei quali non timbra il cartellino per presunti «problemi di salute». Una delle percentuali più alte è quella dei macchinisti (12,5 per cento di assenze), con le malattie che pesano per il 5,5 per cento e i permessi legati alla legge 104 per il 2,5 per cento.
Le indagini avviate nelle ultime settimane dai vertici dell’Atac hanno fatto venire fuori un’altra anomalia. Riguarda le ore di guida effettiva dei macchinisti. Da contratto sarebbero 5 per la metro A e4 e mezzo per la metro B. Ma nei fatti, in base ad alcuni controlli interni, sarebbero molto più basse, mediamente di poco superiori alle tre ore.
(da “NextQuotidiano”)
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Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
“LE INDAGINI A CALTANISSETTA? ERA UNA PROCURA MASSONICA”… “LASCIATI SOLI DAI COLLEGHI DI MIO PADRE”
Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre
con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma.
Perchè Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo.
Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?
«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.
Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?
«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
Sottovalutazione generale?
«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità . Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».
Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.
«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».
Che cosa rimprovera?
«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».
E poi?
«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».
Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?
«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».
Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?
«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Nè un magistrato. Nè un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».
Compresi i magistrati?
«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».
Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.
«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto».
(da “Il Corriere dela Sera”)
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Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DEL SENATO RACCONTA “L’UOMO PIU’ SEMPLICE E COMPLICATO CHE ABBIA MAI CONOSCIUTO”….”IL POOL ANTIMAFIA DEVE MORIRE DAVANTI A TUTTI, NON DEVE MORIRE IN SILENZIO”
“Caro Paolo, quando penso a te, mi chiedo spesso: quanto sono lunghi cinquantasette giorni? Quanta vita riesce a starci dentro?”.
Inizia così la lettera di Pietro Grasso a Paolo Borsellino, in chiusura del suo libro “Storie di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli e uscito a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Un’altra lettera, rivolta a Giovani Falcone, è invece in apertura del libro, dopo la prefazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fratello di Piersanti, anche lui ucciso per mano della mafia.
In questa lettera al giudice Borsellino, Grasso ricorda i momenti successivi alla sua morte, tanto improvvisa quanto attesa. E racconta l’uomo, prima del giudice, già consapevole del destino a cui andava incontro subito dopo il tritolo di Capaci.
Pubblichiamo qui la lettera.
Caro Paolo,
quando penso a te, mi chiedo spesso: quanto sono lunghi cinquantasette giorni? Quanta vita riesce a starci dentro? Quante cose sei riuscito a capire, a fare, a preparare e a disporre in quelle poche settimane che separano il 23 maggio dal 19 luglio 1992?
Abbiamo approfondito il nostro rapporto a partire dal Maxiprocesso, ma il nostro primo contatto risale a molto tempo prima: nel 1958 frequentavamo entrambi il liceo Meli, tu all’ultimo anno e io al ginnasio, e molte volte, dopo averlo scoperto, ti ho preso in giro sulla tua precoce carriera da direttore ed editorialista del giornale della scuola, “Agorà “, da dove lanciavi critiche al sistema scolastico.
Gli anni del Maxi sono stati, per usare le tue parole, una “meravigliosa avventura”, il periodo in cui siamo riusciti a ottenere i primi grandi successi nel contrasto a Cosa nostra, quando sembrava che, davvero, le cose stessero per cambiare.
Allora i cittadini facevano il tifo per il pool antimafia, erano pronti a rialzare la testa e riconquistare quei pezzi di libertà che il giogo mafioso toglieva allora, e in parte toglie ancora.
Sono stati gli anni migliori, quelli in cui ho conosciuto il Paolo che più mi piace ricordare, dedito al lavoro e allo stesso tempo pieno di allegria, consapevole dei rischi ma pronto a godere dei piccoli piaceri di una vita normale, solitamente preclusi a chi vive scortato.
Ricordo quando ti incontrai mentre guidavi da solo la tua auto blindata: eri fuggito dalla scorta per comprare le sigarette. Provai a rimproverarti, ma con il solito sorriso che usavi per sdrammatizzare mi rispondesti: “Devo pur lasciare uno spiraglio nel sistema di protezione. Se mi devono ammazzare, voglio che abbiano la possibilità di colpire solo me”.
Mi chiedesti di accompagnarti ai grandi magazzini lì vicino, e osservai il piacere che provavi in quei minuti di libertà indugiando tra i banconi, comprando cose futili e rifiutando la cortesia di chi, avendoti riconosciuto, voleva cederti il posto in coda alle casse.
Sei stata la persona più semplice e più complicata che abbia mai conosciuto.
Semplice per mille piccoli gesti di vita quotidiana, non sempre aderenti all’etichetta, che rivelavano il tuo spirito scherzoso e goliardico: le adorate polo al posto delle camicie, il fumo dell’eterna sigaretta e i mozziconi sparsi ovunque in ufficio, gli scherzi continui, il tirare la mollica del pane contro i più seriosi durante le cene.
Eri sempre disponibile per i colleghi, soprattutto per i più giovani, ai quali non mancava mai il tuo consiglio.
Anche dopo anni, mi colpiva il tuo modo di parlare pacato ma deciso, accompagnato da una mimica altamente espressiva che coinvolgeva gli occhi, di colore indefinibile, dal castano al verde, i baffi, la bocca, il modo tutto tuo di arricciare il naso e il sorriso che sempre illuminava il tuo volto prima di una battuta sarcastica.
Immagini di te che non sono registrate in interviste o eventi pubblici ma che restano indelebili per chi le ha potute vivere: mi piacerebbe far sapere ai molti che conoscono solo le tue espressioni serie, determinate e livide di quei cinquantasette giorni di rabbia e dolore, che non eri solo il magistrato inflessibile e il giudice coraggioso, ma anche un uomo caldo, generoso, estroverso, circondato dall’amore di tua moglie Agnese e dei tuoi figli Manfredi, Lucia e Fiammetta.
Eri anche complicato, perchè in te si combatteva un’eterna lotta tra i duri doveri del magistrato, ai quali non ti saresti mai sottratto, e la profonda empatia con le dolorose vicende umane che questa professione porta a conoscere e affrontare.
Il tuo rapporto con il lavoro era frenetico ma non ossessivo, ai miei occhi apparivi come un cingolato che avanza con andatura costante nel macinare processi, indagini, rapporti di polizia, documenti.
Nulla ti avrebbe potuto fermare: la passione ti faceva sopportare ogni fatica.
Dopo quel periodo di sostegno generale ci fu una sorta di riflusso, anni di delusioni, delegittimazioni, critiche ingiuste e polemiche feroci.
Avemmo il sospetto che si volesse chiudere in fretta una stagione che avrebbe potuto dare ancora grandi frutti. Per questo, più volte, hai denunciato pubblicamente quanto stava avvenendo: l’isolamento di Giovanni; lo smantellamento del metodo che aveva portato a risultati prima impensabili perchè, come dicevi, “il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”; l’uso distorto fatto allora delle parole di Sciascia sul “Corriere della Sera” e che continua ancora oggi; gli attacchi che venivano sia da alcuni colleghi sia da alcuni politici e giornalisti.
Hai sopportato prove che avrebbero fiaccato chiunque, persino le polemiche per quel maledetto incidente in cui restò coinvolta l’auto della scorta che viaggiava dietro la tua, che ferì studentesse e studenti davanti al nostro vecchio liceo e costò la vita a Biagio Siciliano, appena quattordicenne, e a Giuditta Milella, figlia di un questore in pensione.
Ti ricordo aggirarti sconvolto per gli ospedali, affrontando coraggiosamente i familiari e parlando con i ragazzi feriti come fossero figli tuoi.
Ci confessasti pieno di amarezza: “Provo un senso di colpa enorme. Quello che è successo è conseguenza delle condizioni in cui si vive in questa maledetta città , quelle condizioni create dall’organizzazione mafiosa. Bisognerebbe spiegare ai ragazzi, e ai loro genitori, che tutto questo è cominciato dall’assassinio di magistrati come Chinnici, Costa e altri. Se non è possibile assicurare condizioni di sicurezza adeguate senza rischiare tragedie, io per primo sono pronto a rinunciare alla scorta”.
Rischiavi la vita per i cittadini di Palermo, eppure ricevesti attacchi anche in quel frangente. Non sapevano quale intenso e profondo rapporto ti legava “ai tuoi ragazzi”, quelli che ti seguivano giorno e notte per proteggerti; non sapevano che temevi più per la loro vita che per la tua e quanti stratagemmi usavi per liberarli ogni tanto dai rischi. Uno degli agenti della tua scorta è poi stato per quindici anni nella mia: parlava moltissimo di te e dalle sue parole trasparivano insieme l’affetto e l’orgoglio di esserti stato accanto.
Non credo sia un caso che i nostri figli, cresciuti circondati da uomini così coraggiosi e che in qualche modo erano ormai parte della nostra famiglia allargata, abbiano scelto di indossare la divisa della polizia di Stato.
Eppure, caro Paolo, andavi avanti. Sempre. Poi ci fu il 23 maggio e tutto cambiò in un attimo. Fu il tuo viso affranto a darmi la consapevolezza che non c’era più niente da fare per Giovanni e che, per usare le tue parole, con la sua “era finita una parte della mia e della nostra vita”.
Iniziarono i giorni peggiori: si stava avverando la profezia che Ninni Cassarà ti aveva fatto sul luogo dell’omicidio di Beppe Montana: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”.
Accettasti con piena consapevolezza, ancora di più che negli anni precedenti, ogni rischio, ogni conseguenza del lavoro che avevamo scelto e della testarda convinzione di farlo fino in fondo.
Sentivi che il tempo stringeva. In meno di due mesi hai fatto ogni sforzo possibile per arrivare alla verità su Capaci e per difendere l’eredità di Giovanni, rifiutando con una dura lettera al ministro Scotti la proposta, imprudentemente fatta in pubblico, di riaprire per te il concorso per la Procura antimafia, quel concorso che aveva visto Falcone perdente.
Hai cercato in ogni occasione possibile di risvegliare la coscienza del Paese. Ci sei riuscito, caro Paolo: la registrazione dei tuoi interventi di quelle settimane — il ricordo di Giovanni fatto agli scout nella chiesa di San Domenico a un mese dalla sua morte e meno di un mese prima della tua, in cui sottolineavi tre volte la “perfetta coscienza” con cui lui, Francesca e tutti gli uomini della scorta affrontavano il rischio di morire, l’intervento presso la biblioteca comunale del 25 giugno, le numerose interviste rilasciate, mai così tante come in quei giorni — sono tra i documenti più limpidi per capire chi eri tu, chi era Giovanni, quale straordinario impegno — “per rendere migliore Palermo e la patria cui essa appartiene” — la mafia ha cercato di spezzare con la vostra morte, senza riuscirci.
Ripeto spesso anche io quelle parole, le diffondo come una sorta di testamento che hai voluto lanciare ai giovani riuniti in chiesa per il trigesimo, parlando del tuo amico ma in fondo, ne sono sicuro, anche di te:
“Sono morti per tutti noi e abbiamo un grande debito verso di loro: dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera:
— facendo il nostro dovere;
— rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici;
— rifiutando del sistema mafioso anche i benefìci che potremmo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro);
— collaborando con la giustizia;
— testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia;
— troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli
— accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito;
— dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.”
Cinquantasette giorni: pochi per fare tutto quello che avresti voluto, ma forse sufficienti per prepararti a morire in “perfetta coscienza”.
Avevi sempre saputo che la mafia ti avrebbe ucciso, eri riuscito persino ad abbracciare Vincenzo Calcara, il killer che era stato incaricato di farlo a Marsala, dove vivevi ancora più blindato, e a scherzarci proprio con lui durante un interrogatorio: “Hai sbagliato, a Marsala era difficile, dovevi provarci a Palermo”.
Non accettavi il consiglio di chi, forse non conoscendoti abbastanza, ti invitava a mollare la città , tu che alla camera ardente dei caduti a Capaci, avevi avvisato tutti: “Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada, ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende: il nostro futuro è quello lì”, puntando il dito verso le cinque bare. Ma in quei caldi giorni di luglio la consapevolezza che il tempo ti stesse sfuggendo dalle mani ti portò a prepararti anche spiritualmente, da fervente cattolico quale eri. Alla camera ardente del palazzo di giustizia allestita per le vittime del 23 maggio stringesti i rapporti con un giovane prete, il cugino di Vito Schifani, quello che sosteneva la moglie Rosaria mentre tuonava in chiesa contro i mafiosi, e fu proprio a lui che, pochi giorni prima di morire, chiedesti di confessarti, perchè non eri sicuro di arrivare alla domenica successiva.
La tua vita finì proprio quella domenica, il 19 luglio.
Ti sei alzato presto, alle 5, per “fregare” due ore alla giornata, parlare al telefono con Fiammetta che era in vacanza in Thailandia e rispondere a una professoressa del liceo Cornaro di Padova: le tue ultime parole sulla mafia, qualche ora del tuo poco tempo libero dedicata a ragazzi mai visti, nel primo giorno in cui ti eri imposto di non lavorare.
Poi una mattinata di mare, a Villagrazia di Carini, per un ultimo bagno e un pranzo con gli amici e la famiglia. Un piccolo spazio di tempo dedicato a loro, che con dolore avevi trascurato negli ultimi giorni: un po’ per l’impegno infaticabile nel lavoro, un po’ per abituarli a quel tragico distacco che sapevi avrebbero vissuto a breve.
Il lunedì successivo saresti dovuto andare dal procuratore di Caltanissetta per rivelare ciò che sapevi sulla fine di Falcone, su ventilate ipotesi di dissociazione dei boss all’ergastolo, sulle ultime indagini di Giovanni nel settore degli appalti pubblici che volevi riprendere personalmente, riesumate nel corso di un incontro riservato, fuori dalla Procura di Palermo, con i vertici operativi del Ros dei carabinieri
In via D’Amelio, sotto casa di tua madre, c’erano troppe auto parcheggiate: nonostante le numerose segnalazioni per evidenti ragioni di sicurezza, non era ancora stato imposto l’obbligo di rimozione. Una gravissima omissione.
Da giorni avevano già occupato il posto più vicino al citofono, per poi sostituire l’auto posteggiata con la Fiat 126 imbottita di esplosivo in attesa del tuo arrivo.
Un attimo, un boato, l’inferno. Perdeste la vita tu, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.
Il tuo affezionato autista, Antonio Vullo, che stava facendo manovra con la tua auto blindata, provò disperatamente a soccorrervi, venendo investito da un’ondata di fumo, fiamme e calore. I dettagli di quel che avvenne sono così carichi di orrore che preferisco non ripeterli.
Ero a Roma in quel momento — continuavo a lavorare, dopo la morte di Giovanni, al ministero di Grazia e giustizia— e mi precipitai a Palermo con un volo di Stato insieme al ministro Martelli.
Il dolore e la rabbia si rinnovarono, insieme all’angoscia e allo smarrimento.
Tante domande iniziarono ad affollarsi nella mia mente: perchè un’ulteriore strage a distanza così ravvicinata dopo Capaci?
Era la paura che Borsellino diventasse procuratore nazionale antimafia, non essendo stata ancora resa nota la sua lettera di rifiuto?
O il timore che avrebbe portato avanti le indagini su mafia e appalti?
Serviva ad alzare il prezzo della tregua nella guerra contro lo Stato?
O ancora, un coacervo di interessi, quel connubio tra imprenditoria, massoneria e servizi deviati che vedevano in pericolo i loro lucrosi affari e gli illeciti profitti?
Era il paventato pericolo dello sconvolgimento politico dopo Tangentopoli? Probabilmente ciascuna e tutte queste motivazioni insieme: di certo non basta l’ipotesi della vendetta contro un nemico giurato, sapevano che la reazione dello Stato sarebbe dovuta essere implacabile: quella seconda strage comportava più rischi che vantaggi per Cosa nostra.
Da Palermo tornai a Roma, per aspettare il rientro di Fiammetta da Bangkok e accompagnarla al tuo funerale.
Nel frattempo, alle esequie degli agenti, assistemmo a un nuovo momento di vicinanza tra i cittadini di Palermo e l’Italia intera, un momento di rabbia cieca contro la mafia, di indignazione verso le istituzioni che non avevano fatto abbastanza, ancora una volta, per difendere i propri cittadini migliori, un momento di dolore per le vittime e di profonda solidarietà con i loro familiari.
C’è un’altra vittima di quell’attentato, anche se non per effetto della spaventosa esplosione di via D’Amelio.
Una ragazza di soli diciassette anni, Rita, la tua “picciridda”. A quell’età si dovrebbero inseguire i sogni, progettare il futuro, vivere la bellezza di un’età spensierata.
Invece Rita Atria patì il dolore per la morte del padre e del fratello, affiliati a Cosa nostra; con coraggio denunciò quanto sapeva, subendo il ripudio della sua famiglia; soffrì per la solitudine a cui la relegarono. Eri tu il suo sostegno.
La ascoltavi, la incoraggiavi, le davi la forza per affrontare gli ostacoli. Avevi un rapporto protettivo con le donne che decidevano di collaborare con la giustizia e che per questo venivano isolate dalle loro stesse famiglie.
Grazie alle parole di Pietra Lo Verso, Giacoma Filippello, Piera Aiello, Rosalba Triolo imparasti a decifrare, come nessun altro prima, il rapporto che lega le donne ai mariti o ai parenti mafiosi, ad analizzare il loro ruolo in seno a Cosa nostra.
Una settimana dopo la tua morte, Rita non ce la fece più e si suicidò. Al conto delle vittime di via D’Amelio andrebbe aggiunto anche il nome di questa giovanissima donna, che ha saputo dare dignità al poco tempo che il destino le ha concesso.
Niente è stato più lo stesso: dopo il 19 luglio sono stati in tanti a portare avanti il tuo ricordo, a partire dai tuoi fratelli Rita e Salvatore.
La tensione morale intorno a te e a Giovanni non è mai diminuita: siete tra le poche figure non controverse, icone trasversali di un Paese che ha disperatamente bisogno di credere in qualcuno e che nelle vostre vite ha trovato un punto di riferimento, una sorgente dalla quale attingere forza e voglia di impegnarsi nel proprio quotidiano.
Per scriverti questa lettera, caro Paolo, ho ripreso gli appunti che avevo usato nel 2002 per commemorare i dieci anni dal tuo assassinio.
C’era già una sentenza, ma dalle parole che usai emergono i tanti dubbi che avevo, e non solo io, sulla ricostruzione di Vincenzo Scarantino.
Dissi che era emersa solo una parte di verità , ma non tutta: “Dopo dieci anni di indagini ancora non si è trovato il bandolo della matassa sotto il profilo giudiziario. Ma di sicuro c’è l’aspirazione di tutti i giudici inquirenti, a qualsiasi ufficio appartengano, di consegnare al popolo italiano il quadro di una situazione, che al di là della rigida e ardua ricostruzione di un valido contesto probatorio, va chiarita in tutti i suoi aspetti, rispondendo a domande fondamentali, che ancora oggi rimangono senza risposta”.
Ne ero così convinto che non ho mai smesso di indagare sulle stragi, qualsiasi ruolo abbia ricoperto.
Da procuratore nazionale ho avuto nel 2008 la conferma di quel che avevo intuito. Dopo aver insistito per anni, finalmente Gaspare Spatuzza iniziò a parlare, e grazie alle sue inedite confessioni il quadrò cambiò del tutto.
Persone innocenti vennero scarcerate, sentenze passate in giudicato vennero messe in discussione. Iniziò una nuova stagione processuale, con nuovi colpevoli noti e altri ancora ignoti; a tanti improvvisamente tornò la memoria di fatti di cui non avevano mai parlato.
Proprio per trovare quei colpevoli ancora nascosti ho usato ogni strumento in mio possesso al fine di arrivare alla verità .
Ho lasciato la Procura orgoglioso di aver continuato a ricercare informazioni per dare nuovi spunti alle indagini sulle stragi e sugli omicidi “eccellenti”.
Quelle informazioni, raccolte grazie ai colloqui investigativi, sono diventate atti d’impulso alle Procure, tracce e suggerimenti da approfondire per trovare, se ve ne sono, conferme e riscontri.
La mia speranza, caro Paolo, è che, com’è successo con Spatuzza, possano esserci nuovi collaboratori, interni o esterni alla mafia, che aiutino i magistrati impegnati su questo fronte a far piena luce sui tanti punti oscuri che ancora rimangono nella nostra storia.
Alle forze dell’ordine e ai magistrati che si impegnano ogni giorno, con dedizione, sacrifici e talvolta anche a rischio della vita, non devono mancare solidarietà , risorse, tecnologie e strumenti adatti per soddisfare questa ansia di verità .
Quella mafia infame e violenta che ha deciso il tuo assassinio non c’è più: alcuni sono morti in carcere, altri sono ancora oggi detenuti.
Dal 1993 non abbiamo assistito a omicidi così eclatanti: la strategia della sommersione prosegue.
Sotto il profilo che definiamo militare la repressione investigativa ha funzionato. Questo non significa che la mafia sia stata sconfitta. Ha imparato a mimetizzarsi ancora meglio, lascia silenziose le armi ma continua a lucrare sui fondi pubblici e sul malessere della popolazione.
Molte indagini, non solo in Sicilia ma in tutto il Paese, hanno svelato complesse reti di relazioni fra mafiosi, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici, inizialmente caratterizzate da intimidazione e violenza, alle quali poi si aggiungono collusione e corruzione, fino a diventare coincidenze di interessi.
Sappi che nell’unico giorno in cui sono stato senatore prima di essere eletto presidente del Senato, ho presentato un disegno di legge per affinare gli strumenti utili a colpire il fenomeno dell’economia criminale sotto i diversi aspetti della corruzione, del riciclaggio, dell’evasione fiscale, del falso in bilancio e del voto di scambio.
Dopo qualche anno, seppur con modifiche ne hanno annacquato la portata, le mie proposte, quelle che tante volte da magistrati avevamo discusso e proposto ma non avevano visto la luce, sono diventate legge.
Avevo anche chiesto che fosse istituita una commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte, mafiose e terroristiche, per cercare, con altri strumenti, i pezzi mancanti di verità , ma la proposta non è passata.
Siamo sempre stati consapevoli, d’altronde, che la lotta alla mafia non può essere solo una battaglia giudiziaria o di ideali: è necessario intervenire sulla prevenzione, e quindi sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori di attrarre investimenti e risorse, per sottrarre quella larga parte di ragazzi che non studiano e non lavorano alle lusinghe del crimine
Nulla potrà fermarci dal continuare. Ci sono tantissime persone che, guardando al vostro esempio, difendono lo Stato, la Costituzione e i suoi valori.
Politici che vivono seriamente il loro impegno, come il presidente della Repubblica: un uomo che è parte di questa dolorosa storia e che rappresenta un sostegno affidabile e coerente per tutti i familiari delle vittime e per i cittadini che non si arrendono. Sindaci che guidano il cambiamento nel loro territorio, e per questo vengono minacciati. Magistrati che vanno avanti con coraggio. Giornalisti che fanno emergere, talvolta prima degli investigatori, gli intrecci criminali, spesso costretti anche loro a una vita blindata.
Professori che a scuola, ogni mattina, trasmettono alle giovani generazioni i valori per cui avete vissuto e per cui siete morti, raccontano la vostra storia, educano a una cittadinanza consapevole.
Cittadini che scelgono per i loro acquisti i negozi che non pagano il pizzo, che fanno i volontari nelle tante associazioni antimafia, che lavorano gratuitamente sulle terre confiscate, che denunciano, che protestano, che non stanno più zitti. È un numero che cresce costantemente, che mi dà speranza, perchè sono frutto del vostro sacrificio.
Ora ti immagino insieme ad Agnese. L’ultima volta che l’ho sentita, poco prima che morisse, ero insieme a tua figlia. Ho incontrato Lucia a Palermo qualche giorno dopo la mia elezione a presidente del Senato, mi ha detto che la sua salute era peggiorata e me l’ha passata al telefono.
La voce era affaticata, ma non l’animo coraggioso in quel corpo minuto. Mi sono tornati in mente ricordi lontani di quando, da ragazzi, prima che vi conosceste, venivo invitato il sabato sera alle feste a casa sua, lei le chiamava “serate danzanti”.
Per vent’anni, dopo la tua morte, ha condotto una battaglia discreta per arrivare alla verità . Quella battaglia continua ancora oggi.
La mattina del 24 luglio, il giorno dei tuoi funerali, atterrammo con Fiammetta all’aeroporto di Punta Raisi, che oggi è l’aeroporto “Falcone e Borsellino”.
Era l’alba, e la bellezza del sole che sorgeva dal mare e di Monte Pellegrino strideva terribilmente con gli orrori compiuti dagli uomini.
Mi vennero in mente le tue parole sulla nostra “terra bellissima e disgraziata”: non le ho mai sentite così vere come in quel momento.
Quel contrasto ancora mi ferisce ma la Sicilia non è più la terra degli infedeli: saresti orgoglioso dei successi ottenuti in questi venticinque anni, anche se non è ancora l’isola libera che sognavamo.
Continueremo a credere in quel sogno. Continueremo a fare tutto il possibile perchè si avveri. Potremo dirci soddisfatti solo quando, e succederà , la mafia avrà una fine.
Tuo, Piero
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 19th, 2017 Riccardo Fucile
A 25 ANNI DALL’ATTENTATO DI VIA D’AMELIO LA TRASCRIZIONE DEL COLLOQUIO CON DUE GIORNALISTI DI CANAL+… I RAPPORTI TRA L’ENTOURAGE DI BERLUSCONI E COSA NOSTRA
«Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta
l’inquadratura — Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania – Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l’intervista domandado al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio ’86.
Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell’estate dell’85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio.
Subito dopo, i due giomalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E’ solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino – che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso.
Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di “cavalli”.
Come la telefonata di Mangano a Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr].
E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri.
Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo… qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità ».
Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «…Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso… Non sono io il magistrato che se ne occupa…».
A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n’è saputo nulla è perchè i magistrati non hanno trovato prove sufficienti?
Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «…a Catania poi li hanno prosciolti tutti… quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra…» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l’unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti.Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.
ALLA CORTE DI ARCORE
Tra queste centinaia di imputati ce n’è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l’ha conosciuto?
«Sì, Vittorio Mangano l’ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il ’75 e 1’80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L’indagine fu particolarmente fortunata perchè — attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice – si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un’ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perchè venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere – ora i miei ricordi si sono un po’ affievoliti – di questa famiglia, che era stata l’autrice dell’estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l’esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l’ho ritrovato nel maxiprocesso perchè Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente a Cosa Nostra».
Uomo d’onore di che famiglia?
«L’uomo d’onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano – ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto “procedimento Spatola” [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso – che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
«Il Mangano, di droga … [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1’arrivo di una partita d’eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come “magliette” o “cavalli”. Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa – beh, sì per associazione semplice — riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d’Appello confermò questa decisione di primo grado… ».
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
«La prima volta che l’ho visto anche fisicamente? Fra il ’70 e il ’75».
Per interrogarlo?
«Sì, per interrogarlo».
E dopo è stato arrestato?
«Fu arrestato fra il ’70 e il ’75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l’ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po’ sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».
Quando, in che epoca?
«Fra il ’75 e 1’80, probabilmente fra il’75 e l’80».
Ma lui viveva già a Milano?
«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».
E si sa cosa faceva a Milano?
«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un’agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perchè anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non “cavalli” per mascherare il traffico cli stupefacenti».
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero… ».
Ma lui comunque era già uomo d’onore negli anni Settanta?
«…Buscetta lo conobbe già come uomo d’onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell’estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d’incontro… ma tutti e due erano detenuti all’Ucciardone qualche anno prima o dopo il ’77».
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova…
«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d’onore. Contorno tuttavia – dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo – precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».
Mangano conosceva Bontade?
«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarnzione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe paranto a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]… ».
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c’è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D’Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.
«Non sono a conoscenza di questo episodio».
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un’avanguardia?
«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le “teste di ponte” dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n’erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell’inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c’è dubbio comunque che… è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po’ diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel ’76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all’interno dell’organizzazione mafiosa».
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».
AL TELEFONO CON MARCELLO
Dunque quando Mangano parla di “cavalli” intendeva droga?
«Diceva “cavalli” e diceva “magliette”, talvolta».
Perchè se ricordo bene c’è nella San Valentino un’intcrcettazione tra lui e Marcello Dell’Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: “Mangano parla con tale dott. Dell’Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L’interlocutore risponde affermativamente… il Mangano riferisce allora a Dell’Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche “Il cavallo” che fa per lui. Dell’Utri risponde che per il cavallo occorrono “piccioli” e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico “Silvio”. Dell’Utri risponde che quello li non “surra”[non c’entra, ndr]”).
«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo… Tra l’altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant’è che Mangano fu condannato».
E Dell’Utri non c’entra in questa storia?
«Dell’Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».
A Palermo?
«Sì. Credo che ci sia un’indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».
Dell’Utri. Marcello Dell’Utri o Alberto Dell’Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].
«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell’Utri Marcello e Alberto, entrambi».
I fratelli?
«Sì».
Quelli della Publitalia, insomma?
«Sì».
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell’Utri?
«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».
Sì, ma quella conversazione con Dell’Utri poteva trattarsi di cavalli?
«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l’albergo».
In un albergo. Dove
«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l’albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».
Ah, oltretutto.
«Sì».
SICILIANI A MILANO
C’è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell’Utri?
«Non mi dovete fare queste domande su Dell’Utri perchè siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena… dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».
Sono di Palermo tutti e due…
«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione… a Palermo gli uomini d’onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».
C’è un socio di Dell’Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell’Utri e Mangano partiva da un’utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell’Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].
«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò… Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose — almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime – la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un’unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera… So dell’esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente…».
A Palermo c’è un giudice che se n’è occupato
«Credo che attualmente se ne occupi…, ci sarebbe un’inchiesta aperta anche nei suoi confronti…».
A quanto pare Rapisarda e Dell’Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell’immobilare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].
«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell’Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».
I SOLDI DI COSA NOSTRA
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poichè ci sono addirittura… so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda – che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».
Ma c’è un’inchiesta ancora aperta?
«So che c’è un’inchiesta ancora aperta».
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo
«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia. concernenti anche Mangano».
Concernenti cosa?
«Questa parte dovrebbe essere richiesta… quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell’Utri e uomini d’onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s’interessa all’industria, o com’è?
«A prescindere da ogni riferimento personale, perchè ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorchè l’organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perchè questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità , quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s’interessi a Berlusconi?
«E’ normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
E uno come Mangano può essere l’elemento di connessione tra questi mondi?
«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un’attività commerciale. E’ chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l’abbiamo visto anche In sequestri di persona…
«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni – siamo probabilmente alla fine degli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70 – appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c’è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».
A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perchè fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so …» . Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell’Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesta quando finirà ?
«Entro ottobre di quest’anno…».
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
«Certamente …».
Perchè cl servono per un’inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria…
«Passerà del tempo prima che … », sono le ultime parole di Paolo Borsellino.
Palermo, 21 maggio, 1992.
(da “L’Espresso”)
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