Destra di Popolo.net

UN LAVORATORE SU DIECI E’ STRANIERO E DI QUESTI IL 20% E’ LAUREATO

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

IL 16,6% DEGLI OCCUPATI IN AGRICOLTURA E’ STRANIERO

Il tema dell’accoglienza dei migranti mai come oggi si intreccia con quello del contributo dei lavoratori stranieri in Italia.
È difficile però mettere sullo stesso piatto l’odierno flusso di immigrati, che arriva sostanzialmente dall’Africa e in parte dall’Est Asiatico e quello della prima ora, soprattutto europeo, che invece fornisce da circa un decennio un contributo ai conti pensionistici.
Su quest’ultimo punto, proprio mentre infuriano le polemiche sulla gestione dei salvataggi nel Mediterraneo, sono da poco disponibili dati molto interessanti.
Si tratta del Rapporto “I migranti nel mercato del lavoro in Italia”, da cui emerge come l’incremento dell’occupazione valga anche per i non italiani.
In particolare, l’aumento è stato nel 2016 superiore alle 19mila unità  nel caso dei cittadini Ue (+2,4%), di 22.758 unità  nel caso dei cittadini non Ue (+1,4%), di 250mila unità  per gli occupati italiani (+1,2%).
Il dossier, curato dalla Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, messo in luce tra i primi dall’Associazione La Nuova Europa, evidenzia la complessità  dello scenario migratorio nazionale.
Il quadro è multiforme e fornisce informazioni inedite su tre fronti: la composizione della forza lavoro in Italia, il grado di istruzione dei lavoratori stranieri e i settori dove sono occupati, il livello di soddisfazione.
In primo luogo, va ricordato che la popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2016 era pari a 5 milioni e 26mila persone, l’8,3% della popolazione complessiva.
L’aumento rispetto al 2015 è di lieve entità . Nel 2016, la stima del saldo migratorio è stata di +135 mila unità : giusto qualcosa in più degli italiani che invece hanno lasciato il paese nello stesso anno, in gran parte giovani.
Un bilancio che fa pensare ma non deve indurre a conclusioni affrettate. Gli uni (gli stranieri) non hanno tolto il posto agli altri (gli italiani).
Anche l’importanza dei lavoratori stranieri, comunitari e non comunitari, è cresciuta negli ultimi dieci anni: l’incidenza percentuale sul totale degli occupati è infatti passata dal 6,3% del 2007 al 10,5% del 2016, con rilevanti differenze settoriali.
Si tratta di un lavoratore su dieci, una percentuale importante, che aumenta se si prendono in considerazione l’Agricoltura, dove la forza lavoro straniera pesa per il 16,6% del totale, il Commercio, dove si è passati dal 3,7% rilevato nel 2007 al 7,2% del totale degli occupati nel 2016, e i Servizi, in cui la presenza straniera è passata dal 5,9% al 10,7%.
Sono numeri che danno un volto a tutti coloro che ogni giorno incontriamo nei cantieri, nei negozi aperti h 24 e nei tanti campi coltivati.
Ancora più sorprendenti sono i dati sul livello di istruzione dei lavoratori stranieri regolari in Italia.
Uno su cinque è infatti laureato, ma l’80% del totale ha una semplice qualifica di operaio. Un destino comune a molti altri giovani italiani.
Con riferimento ai livelli di istruzione, i dati dello studio consentono poi di rilevare anche altri elementi importanti: il 21% dei lavoratori Ue e non Ue impiegati con mansioni di basso livello è laureato e il 36,4% dei laureati svolge la funzione dirigenziale; i lavoratori stranieri con al massimo la licenza media che svolgono mansioni tecniche di tipo operaio sono il 32,1%; nel caso dei lavoratori con educazione secondaria superiore equivalente al diploma, il 31,2% dei cittadini Ue e non Ue svolge un lavoro manuale specializzato.
Interessante anche la parte conclusiva dell’indagine sul grado di soddisfazione sul lavoro, replicata su questionari dell’Istat.
Alla domanda “Quanto è soddisfatto del lavoro attuale?”, in base a una scala di punteggio compresa tra 0 e 10 (dove 0 indica “per niente soddisfatto” e 10 “molto soddisfatto”), il 41,3% degli occupati non comunitari di 15 anni e oltre e il 48,5% dei comunitari dichiara di avere un alto livello di soddisfazione, a fronte del 54,8% dei lavoratori italiani, mentre solo l’11,4% si dice insoddisfatto.
Complessivamente, se si vuole provare a trarre un quadro d’insieme di tutti questi numeri, si può dire che, a dispetto della vulgata, i cittadini stranieri sono integrati nel nostro tessuto economico, soffrono spesso gli stessi problemi professionali dei lavoratori italiani, ma forniscono un contributo rilevante.

(da “Huffingtonpost”)

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MACRON E BRIGITTE IN VACANZA IN PUGLIA: LA PRIMA VOLTA DI UN PRESIDENTE FRANCESE IN ITALIA

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

SEMPRE PIU’ CONSISTENTI LE VOCI CHE IL PREMIER FRANCESE TRASCORRERA’ LE VACANZE ESTIVE IN UNA LOCALITA PUGLIESE

Puglia sì, Puglia no. Si fanno sempre più insistenti le voci che vogliono il presidente della repubblica francese e consorte prossimamente in Italia, anche se nulla di certo si sa ancora.
Ma – come spiega Massimo Nava del Corriere della Sera – se davvero Macron e Brigitte dovessero passare dei giorni d’agosto qui da noi, sarebbe un evento storico.
Nessun presidente francese, da de Gaulle in poi, ha trascorso vacanze estive in Italia. Al massimo, un weekend a Venezia e Capri, come fece Sarkozy con Carla Bruni.
Che Emmanuel Macron abbia scelto la Puglia sarebbe una rottura della tradizione e una stoccatina all’orgoglio nazionale: i francesi amano il Bel Paese come lo racconta Stendhal, ma non lo ammettono apertamente.
E se la Puglia offre molte bellezze appetibili per una coppia presidenziale, c’è già  chi ha ben chiaro quale sarà  l’approdo di Emmanuel e della première dame.
C’è chi lo dà  nella wedding valley, la zona dei resort di lusso, fra Savelletri e Ostuni, famosa per matrimoni celebri, e chi è sicuro di accoglierlo fra i borghi bianchi e i trulli della Val d’Itria.
E chi annuncia anche l’indirizzo, un castello di nobili pugliesi, a San Vito dei Normanni, cornice ideale per un presidente già  accusato in patria di tendenze “bonapartiste”.
Comunque, se Macron farà  come Napoleone e scenderà  in Italia, lo si saprà  per certo solo tra qualche settimana.

(da agenzie)

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CASE POPOLARI ROMA, ABUSIVI 6 INQUILINI SU 10. E MENO DI 1 SU 2 PAGA

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

L’ATER RISCHIA IL FALLIMENTO: AFFOSSATA DA INCASSI MANCATI, CANONI DA POCHI EURO, TENTATIVI DI VENDITA FALLITI, CLIENTELE POLITICHE A AFFARI DEI CLAN

“Il problema di Ater? Pensa ancora di essere Iacp”. Tradotto: una società  di diritto privato — seppure a capitale totalmente pubblico — che si comporta ancora come un istituto assistenziale del secolo scorso.
E’ probabile che questa spiegazione, ricorrente fra i sindacati degli inquilini, possa riassumere in un colpo solo i mali endemici che hanno colpito l’Ater di Roma, l’azienda regionale che gestisce le case popolari nella Capitale, fino a spingerla in queste ore sull’orlo di un drammatico fallimento, non ancora scongiurato dall’intervento straordinario di garanzia operato dal suo socio unico, la Regione Lazio.
Per i suoi 48.426 alloggi la società  — commissariata dal dicembre 2015 — incassa esattamente la metà  degli affitti dovuti (48,91% l’ultimo dato aggiornato), non riesce a vendere gli immobili che mette all’asta (sebbene i prezzi siano anche 5 volte più bassi di quelli di mercato) e conta una percentuale di inquilini “senza titolo” o “abusivi” pari a circa il 60% del totale, fenomeno in cui negli anni si sono insinuate le classiche clientele politiche e gli affari di clan criminali come i Casamonica e gli Spada.
MOROSITA’ E CORTE DEI CONTI
Il dato che salta maggiormente all’occhio è quello della morosità . I numeri ufficiali relativi al bilancio 2015 — quelli del 2016 non sono ancora disponibili — parlano di canoni non incassati per il 51,08%.
Tradotto in denaro, a fronte di bollette emesse per 78,9 milioni di euro, gli inquilini corrispondono regolarmente appena 38,6 milioni, ben 40,3 milioni di differenza: in 10 anni sarebbero oltre 400 milioni persi per strada.
I più indisciplinati sono i cosiddetti “occupanti senza titolo”, cioè chi non avrebbe diritto ad abitare quegli alloggi per motivi reddituali o per mancato rispetto delle graduatorie: ogni anno non versano nelle casse Ater ben 28,4 milioni contro i 34,8 milioni emessi in bolletta (84%).
Più sostenibile, si fa per dire, la morosità  degli utenti regolari (6,1 milioni, il 20,76%) mentre anche coloro che sono “in attesa di regolarizzazione” non pagano canoni per 4,9 milioni l’anno (41,21%).
“Tra l’altro l’azienda — spiega Guido Lanciano, segretario dell’Unione Inquilini — ha la pessima abitudine di inserire in bolletta canone e utenze condominiali, per cui i morosi abituali finiscono per non pagare ne’ l’uno ne’ le altre”. Non solo.
Sempre nel 2015, il tentativo di “aggredire le morosità ” pregresse è miseramente fallito: su un importo di 25,3 milioni ne sono stati recuperati appena 2,3 milioni, più 4 milioni rateizzati.
Uno “scandalo” che ha spinto il procuratore regionale della Corte dei Conti, Guido Patti, a portare sotto processo contabile ben 20 fra i dirigenti che si sono alternati ai posti di comando dell’ente fra il 2011 e il 2015, contestando loro un presunto danno erariale di ben 24,6 milioni di euro (sarebbero state spedite soltanto 844 diffide contro le 5.486 posizioni critiche): soldi che i manager in caso di condanna potrebbero essere costretti a pagare di tasca loro
DIATRIBA SUI CANONI
Altro tema è quello dell’importo dei canoni. E’ opinione comune che la quota degli affitti fissati dalla Regione Lazio sia troppo bassa.
Gli assegnatari più indigenti, infatti, corrispondono l’importo minimo di 7,75 euro, la traduzione delle vecchie 15.000 lire previste da una legge regionale risalente al 1987. Da allora i canoni non sono stati più aggiornati.
Un alloggio medio fra quelli presenti nel patrimonio Ater misura circa 75 metri quadri, mentre il canone mensile medio è di 128 euro, valori validi anche per quartieri romani oggi di pregio come Monti (zona Colosseo), San Saba e Trastevere.
Da un confronto fra i ricavi da canoni Erp e i valori di mercato (dati dell’Osservatorio immobiliare) si evince sulla città  di Roma una “perdita/utilità  sociale” di circa 280 milioni di euro.
“Da tempo proponiamo di elevare il canone del 20-25% — sottolinea ancora Lanciano — fattore che consentirebbe all’azienda di respirare. Per i più indigenti non cambierebbe molto spendere 7,75 o 10 euro al mese”.
VENDITE FALLITE
In una concezione moderna, l’obiettivo finale di un’azienda che gestisce l’edilizia residenziale pubblica dovrebbe essere la vendita: costruisco (o rigenero) e assegno con l’obiettivo di portare la famiglia in graduatoria all’acquisto dell’alloggio. Un meccanismo virtuoso che in Ater Roma non è mai iniziato.
“Qui siamo fermi a Petroselli — ricorda Nicola Galloro, consigliere capitolino di centrosinistra ai tempi di Walter Veltroni — quando si toglievano i poveracci dalle baracche e si dava loro un tetto. Una grande stagione, fondamentale per la città , ma ora i tempi sono cambiati: le famiglie vanno aiutate ad emanciparsi”.
Dunque, a un certo punto, l’Ater dovrebbe vendere, per monetizzare e tornare a investire. Eppure non ci riesce, nonostante i prezzi fissati siano a dir poco concorrenziali: in media appena 61.000 euro, quanto un privato chiede per un box auto in periferia.
Basti pensare che nel 2015 l’azienda è riuscita ad “alienare” solo 283 alloggi, per un incasso di appena 17,2 milioni di euro e anche l’ultima maxi-vendita voluta dalla gestione commissariale è terminata con la cessione di 8 locali e 2 aree di proprietà .
Si legge candidamente sulla relazione allegata al bilancio: “I quartieri in lavorazione presentano problematiche di tipo tecnico-catastale”, mentre “i reiterati tentativi di completare le vendite nei condomini costituiti non hanno dato i risultati sperati, trattandosi per lo più di utenza che non ha mostrato interesse all’acquisto’.
CAOS ICI E DEBITI
Il caos generato da anni di “gestioni allegre” e problematiche sociali non semplici da affrontare ha portato all’attuale, drammatica, situazione contabile. Ater Roma ad oggi conta debiti per 1 miliardo e 448 milioni di euro. Il cappio al collo è rappresentato dai 543 milioni di euro dovuti a Equitalia, che grazie alla rottamazione del debito potrebbero scendere a quota 280 milioni.
Ma Ater deve versare entro la mezzanotte del 31 luglio la prima rata da 65 milioni. In pratica, l’azienda non ha mai pagato (dal 2000 a oggi) Ici e Imu, sperando che il governo approvasse una legge che la esentasse, provvedimento che non e’ mai arrivato.
“E’ un po’ iniquo — afferma ancora Lanciano — che si debba pagare la tassa sulla casa popolare e il costruttore che ha un alloggio sfitto non debba versare un euro”. Ma non è l’unica voce passiva a preoccupare chi gestisce i conti. Ci sono anche 734 milioni relativi alla “gestione speciale per opere in corso di realizzazione”: in pratica sono soldi prestati dal Comitato Edilizia Pubblica che sarebbero dovuti servire per costruire nuovi alloggi popolari e “opere di urbanizzazione socialmente rilevanti” ma che nel corso degli anni sono stati utilizzati nella spesa corrente come liquidità .
FATTORE CLAN E CRIMINALITA’

Naturalmente, per analizzare a dovere la questione Ater, non si può far riferimento solo alla lettura dei bilanci e alle analisi economiche.
L’edilizia residenziale a Roma, infatti, è da decenni preda delle organizzazioni criminali della capitale, le quali — al netto delle singole illegalità  — hanno dato vita a un vero e proprio mercato nero degli alloggi.
Basti pensare all’operazione “Sub Urbe”, grazie alla quale la Dda di Roma sgominò una parte degli affari del clan Spada a Ostia, protagonista di sfratti “coatti”, usura e traffico di alloggi. Situazione simile a quella che si vive nei quartieri a sud-est di Roma, dove il cognome di oltre 40 assegnatari è Casamonica e il prezzo è quasi sempre quello base di 7,75 euro.
Secondo i rapporti della Polizia Locale — che negli anni ha indagato e provare ad arginare i fenomeni di illegalità  — gli interessi degli “zingari” (Casamonica, ma anche Spada e Di Silvio) si incrociano con i “napoletani”, varie famiglie camorristiche fuggite dalle faide anni ’80 e ’90 all’ombra del Vesuvio e stabilitesi nella periferia romana.
“Non mi stupirei se trovassi qualcuno dei Casamonica in case da sessanta metri quadrati e con la Ferrari in garage”, affermava beffardo qualche anno fa l’attuale deputato Pd Stefano Esposito. Secondo la Guardia di Finanza, il “traffico di alloggi” nella Capitale si aggira sui 1.500 appartamenti.
LA POLITICA E GLI INQUILINI “FACOLTOSI”
Ma non è solo questione di criminalità . Anche (o soprattutto) la politica, negli ultimi decenni e con tutti i colori politici, ha sguazzato nel far west delle case popolari a Roma.
D’altronde il tetto — insieme al lavoro — è da sempre merce di scambio elettorale, specie fra le classi meno abbienti. “Sindacati e politica — denuncia a IlFatto.it Annamaria Addante, voce storica dell’Associazione Inquilini e Proprietari Ater — si sono spartiti da sempre la torta. Per anni ho denunciato i funzionari che hanno portato avanti il business delle occupazioni: davano le dritte per sfondare, poi prendevano mazzette e voti”. E nelle case ci finivano anche vip e personaggi “facoltosi”.
Celebre il caso del quartiere San Saba, una delle zone più affascinanti del centro capitolino, dove un tempo furono costruiti alloggi destinati alle famiglie dei ferrovieri. Oggi, in quelle case popolari — è la stessa Ater a dirlo — ci vivono decine di avvocati, medici, diplomatici, professionisti e familiari di politici, i quali puntualmente, all’arrivo dei controlli, non si fanno trovare in casa. C
elebre il caso dell’ex marito di Renata Polverini, Massimo Cavicchioli, venuto alla luce poco le elezioni regionali del 2010: l’uomo, esperto informatico ed ex sindacalista, venne sfrattato nel 2014 dalla casa in cui era nato e che aveva “ereditato” dalla madre scomparsa, ma che aveva anche più volte subaffittato.
COSA ACCADE SE FALLISCE
Il quadro, dunque, è questo. Ma cosa accade se Ater fallisce (oggi o fra qualche mese)?
La prima conseguenza è quella comune a tutte le aziende in default: si blocca il pagamento degli stipendi (circa 460 persone) e delle fatture ai fornitori, creando un primo serio problema all’amministrazione regionale. C’è però dell’altro.
Se il socio unico (la Regione Lazio) non ripianasse i debiti e, in pratica, internalizzasse la struttura, ai creditori potrebbe essere consentito di aggredirne il patrimonio, prendendo in custodia i quasi 50.000 immobili e, attraverso il curatore fallimentare, procedere alla vendita.
A quel punto, non ci sarebbe alcuno spazio per la trattativa politica: indigenti o no, regolari o no, agli inquilini potrebbe essere concessa una prelazione (a prezzi di mercato), la cui alternativa sarebbe solo la vendita all’esterno e, quindi, lo sfratto.
Con conseguente disastro sociale.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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PRIMI DUBBI DI DE MASI SUI 5 STELLE: “SI SENTONO TAUMATURGHI, SONO SOLO IMMATURI”

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

IL SOCIOLOGO TESTIMONIAL SUL LORO LAVORO BOCCIA I GRILLINI A ROMA

Prima li promuoveva, ora li boccia.
“Se a governare Roma ci fosse un triumvirato fatto da Churchill, Roosevelt e De Gaulle, anche loro avrebbero difficoltà  enormi. Figuriamoci la giunta Raggi. A chi mi chiede se sono grillino o renziano rispondo: sono demasiano”.
A Repubblica Domenico De Masi, ordinario di Sociologia del lavoro alla Sapienza che due mesi fa è stato un testimonal di Grillo sulle politiche del lavoro, analizza e critica l’operato della giunta grillina.
“I 5S sono l’anello terminale di una decomposizione in atto da decenni. Roma è stata tradita innanzitutto dai suoi cittadini che hanno contribuito al suo degrado, si sono assuefatti alla deregulation, hanno tollerato con noncuranza anni di malagestione” spiega a Repubblica il sociologo.
“La colpa del M5S romano è di aver puntato solo su se stesso con un’ambizione taumaturgica, come se fosse in grado di fare miracoli. Per risanare la città  avrebbero dovuto chiamare a raccolta le cinquanta persone migliori d’Italia e metterle a giocare una partita quasi persa in partenza. Ora non basterebbe nemmeno una squadra di supereroi. Nel breve periodo non vedo vie d’uscita, occorrerebbero almeno 10 anni per risollevarla. Il guaio è che l’amministrazione grillina non riesce a salvare nemmeno le apparenze. Rutelli e Veltroni, non potendo risolvere i problemi di fondo, hanno tentato almeno la carta della cultura”. Continua bocciando i 5s come “immaturi” e poi si smarca “Non li fiancheggio nè li voto, sono un socialdemocratico e ho sempre votato per il partito che stava dalla parte dei poveri”.

(da “Huffingtonpost”)

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“INSODDISFATTI, EGOISTI E VENALI”: GLI ITALIANI SI BOCCIANO DA SOLI

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

I RISULTATI DEL SONDAGGIO RESEARCH: POCHI RICONOSCONO AI CONCITTADINI SOLIDARIETA’ ED ALTRUISMO

Gli italiani si guardano allo specchio e l’immagine che vedono riflessa non ha un profilo positivo. Sia chiaro, parliamo di rappresentazioni sociali, con una narrazione che non sempre corrisponde alla realtà . Anzi. Conosciamo bene, anche dagli episodi di cronaca, quanto la popolazione sia capace di gesti di solidarietà , di vicinanza a chi soffre e di costruzione di reti di coesione.
Dai cosiddetti «angeli del fango» alla protezione civile, dalle molteplici espressioni del volontariato ai vigili del fuoco, dai semplici aiuti «dona-1-euro» via sms alle ong e alla cooperazione sociale.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma già  questi esempi raccontano come nel nostro Paese sia vivido un capitale sociale che oggi non è ancora conteggiato nel Pil, ma genera una ricchezza (sociale e indirettamente economica) fondamentale per il tessuto collettivo e per la crescita.
I tratti principali  
Nonostante questo, se gli italiani si guardano allo specchio non sembrano riconoscere simili fattezze. Fanno risaltare, invece, i tratti meno positivi.
La ricerca di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa, tratteggia in modo evidente questa dissonanza cognitiva: una polarizzazione fra la realtà  e l’immaginario collettivo.
Così, nel complesso, due sono le caratteristiche prevalenti sottolineate dagli italiani di se stessi: il non essere mai soddisfatti (24,6%) e un interesse prevalente ai soldi più che alla cultura (24,2%).
Dunque, da un lato un sentimento malmostoso, un «mal-pancismo» perenne attraversa gli animi dei connazionali.
Dall’altro, la propensione strumentale, un’attenzione più alle dimensioni materiali che a quelle immateriali. Se a questi due caratteri aggiungiamo che la terza caratteristica è l’essere egoisti (17,5%) possiamo tranquillamente affermare che la maggioranza vede nei connazionali tratti negativi.
Più residuali sono altre caratteristiche segnate da valenze positive.
La laboriosità  è un aspetto riconosciuto complessivamente da un quinto dei rispondenti (lavoratori 17,5%, imprenditori 2,4%).
L’altruismo e la solidarietà  sono virtù identificate solo dal 5,2%, al pari dell’autonomismo (5,3%).
Da buon ultimo, viene la religiosità  (3,3%), esito che dice molto sui processi di secolarizzazione che hanno interessato anche il nostro Paese.
Tale immagine, però, non è omogenea sul territorio nazionale, ma conosce significative differenziazioni che rimarcano alcuni stereotipi tradizionali.
L’aspetto della laboriosità  è un carattere riconosciuto più nel Nord del Paese (Nord Ovest 21,7%; Nord Est 21,1%), meno nel Centro (13,5%) e nel Mezzogiorno (12,8%). Seppure minoritari, l’altruismo e la solidarietà  appaiono più presenti nel Nord e nel Centro piuttosto che nel Mezzogiorno. Dove, invece, prevale un orientamento materialistico e privatistico.
Il Nord Est si caratterizza, a sua volta, per uno spirito più autonomista (12,5%) rispetto alla media nazionale (5,3%) e dove l’elemento della religiosità  ha ancora un peso relativo (Nord Est 5,6%, Italia 3,3%).
L’immagine degli italiani, dunque, non è omogenea, ma conosce diverse sfumature determinate dal capitale sociale territoriale, dalle tradizioni culturali, dalle opportunità  che la società  e l’economia locale offrono.
Nel complesso, però, si tende a sottolineare più gli aspetti negativi e deteriori, piuttosto di quelli positivi.
Questo è un vezzo italico e ha diverse motivazioni. Sicuramente c’è un meccanismo psicologico di fondo: proiettare sugli altri vizi propri è un modo per liberarsi la coscienza.
Certamente, una transizione economica e soprattutto politica (che sembra interminabile) non consente di gettare una luce positiva sul mondo che ci circonda. Così pure, di conseguenza, la scarsa fiducia nelle istituzioni e la disillusione verso la politica nostrana non aiutano a vedere negli altri tratti positivi.
Inoltre, la prolungata operazione di destrutturazione operata da privati, attori collettivi e istituzionali (tangenti, corruzioni), piuttosto che dai mezzi di comunicazione, non aiuta a costruire un ambiente sociale positivo.
L’idea di futuro
Non da ultimo viene l’assenza di un progetto del futuro del Paese, di una cornice simbolica e valoriale in grado di tenere assieme i diversi pezzi di società  ed economia verso una direzione condivisa.
In mancanza di un’identificazione forte nel proprio Paese, risultiamo più diffidenti nei confronti degli altri, ne esaltiamo i caratteri meno positivi. Il risultato di tutto ciò è uno scollamento e una dissociazione fra la realtà  e l’immaginario collettivo.
Ci dipingiamo peggio di quello che siamo. E poichè le rappresentazioni sociali influiscono sulla realtà  più di quanto quest’ultima non faccia nei confronti dell’immaginario, rischiamo di imprigionarci all’interno di un circuito perverso.
Se non possediamo un orgoglio nazionale cui appellarci, almeno cerchiamo di costruire una narrazione dell’essere «diversamente italiani».

(da “La Stampa”)

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IL MITICO VESCOVO DI VENTIMIGLIA NEGA LA CATTEDRALE AL SINDACO: “NON E’ UNA SALA CONCERTI”

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

MONS. SUETTA SI ERA RECATO SUGLI SCOGLI DUE ANNI FA A TROVARE I MIGRANTI, UN UOMO DI CHIESA VICINO AI POVERI… IL SINDACO PD E’ INVECE QUELLO DEI DIVIETI

Il vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta nel 2015 era diventato l’eroe dei No Border che assistono i migranti accampati al confine con la Francia. La sua visita agli africani sugli scogli era stata accolta da applausi e cori da stadio.
Oggi è al centro di un altro caso mediatico: fa discutere la sua decisione di negare l’uso delle chiese della diocesi al sindaco e ad alcune associazioni locali per l’assegnazione di premi, per concerti e altri eventi laici.
«La chiesa non è una sala da concerto», è la motivazione ufficiale. Ma c’è chi mette in relazione i “no” di Suetta ai contrasti con il sindaco Ioculano sui limiti all’uso per i migranti delle strutture religiose.
Ma andiamo con ordine: la data è il 30 settembre 2015 ed è in quel giorno che il vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta diventa, da capo spirituale di una diocesi che si allunga fino a Sanremo e che conta quasi 160 mila abitanti, anche un personaggio mediatico. Ruolo che strappa, davanti a obiettivi, telecamere e mezza stampa d’Italia, quando arriva alla scogliera dei Balzi Rossi. Urla, battimani: un’accoglienza entusiasta.
Eppure lì sta andando in scena, anzi, volge verso l’epilogo, uno degli episodi più drammatici della storia recente: i tre mesi dei migranti accampati sugli scogli, dispersi dalla polizia mentre premevano sul confine francese blindato e rimasti lì, nell’impossibile illusione di varcare prima o poi la frontiera.
Cosa ci fa un sacerdote sugli scogli, tra la polizia, accolto come un eroe dai migranti e dai No Border, i giovani dei centri sociali arrivati a dar man forte alla protesta?
Rispetto a questo momento, bisogna fare un passo indietro. E comprendere come, in quei giorni, si fosse verificata una strana saldatura, tra la Curia di Ventimiglia e quei ragazzi. Suetta aveva donato anche duemila euro per le attività  del presidio e poi aveva spalancato le porte per una serie di incontri. Di più: i No Border, inseguiti dalla polizia che voleva affibbiar loro i fogli di via, avevano sempre trovato rifugio in chiesa
Suetta prete no global? «Ho capito che in loro ci sono delle buone attitudini, vanno coltivate». I soldi? «Io so solo che se c’è qualcuno che ha fame, devo intervenire».
Chi è Antonio Suetta? Ligure di Loano, 55 anni, studia teologia e nel 1988 si licenzia con la tesi “Il carattere escatologico della domenica”. Papa Francesco lo nomina vescovo di Ventimiglia e Sanremo il 25 gennaio 2014 e per qualche mese è il più giovane ordinario diocesano italiano. Lo spirito della solidarietà  arde, con un passato, anche, da direttore della Caritas diocesana.
La ribalta mediatica? Lui non la cerca, è lei che cerca lui.
Perchè arrivano due eventi recenti che riaccendono i riflettori: ma i toni, stavolta, sono diversi. È metà  luglio e il sindaco Enrico Ioculano, che ha già  il suo bel daffare per gestire con equilibrio l’assalto dei migranti che non riescono a varcare il confine con la Francia, sbotta: «Una decisione molto grave per la città ».
Cos’è accaduto? Il prestigioso San Segundin d’argentu, il premio che Ventimiglia concede ogni anno ai concittadini che hanno dato lustro alla città , non si terrà  in cattedrale, ma nell’ex chiesa di San Francesco.
L’autore dello strappo è proprio il vescovo Suetta.
Rivendica il carattere civico e laico del riconoscimento, che non sottovaluta, ma spiega che no, la cattedrale non è il luogo adatto per la celebrazione.
Anzi, dato che «qualche designazione potrebbe suscitare perplessità  nei fedeli», ritiene giusto non far più parte del comitato che assegna il riconoscimento.
Sotto sotto si sussurra di un contrasto con lo stesso Ioculano proprio sulla gestione delle strutture religiose per i migranti.
Si dice, nessuno conferma.

(da “Il Secolo XIX”)

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LE VACANZE CASALINGHE DI PAPA FRANCESCO: PREGHIERA, LETTURE E SVEGLIA PIU’ TARDI

Luglio 31st, 2017 Riccardo Fucile

“LA MIA FAMIGLIA NON ERA RICCA, NON SONO ABITUATO ALLE FERIE”… E MANTIENE L’APPUNTAMENTO DELL’ANGELUS CON I FEDELI

Per Papa Wojtyla vacanza era uguale a montagna, possibilmente alta, con lunghe camminate e tanto silenzio contemplando le vette.
Per Benedetto XVI vacanza era soprattutto leggere, studiare e suonare il piano, in montagna o a Castel Gandolfo.
Per il suo successore Francesco vacanza è rallentare gli impegni quotidiani, le udienze e le celebrazioni, ma senza allontanarsi da casa.
E così anche la storica residenza per la villeggiatura dei Pontefici – a cui Giovanni Paolo II fece aggiungere una piscina, per poter nuotare indisturbato – inutilizzata dal suo titolare pro-tempore, diventa un museo aperto al pubblico.
Le ultime vacanze intese come ferie lontano da casa Jorge Mario Bergoglio le ha fatte negli Anni 70.
Da allora, l’attuale Pontefice ha sempre preferito vivere il tempo del riposo estivo senza allontanarsi dalla sua residenza abituale e dalla sua città . Rallentando i ritmi del lavoro quotidiano ma senza mai spostarsi.
I RICORDI
Nella famiglia Bergoglio le vacanze non si facevano: «Noi non eravamo ricchi, arrivavamo alla fine del mese normalmente, ma non di più. Non avevamo una macchina, non facevamo le vacanze o tali cose», raccontava il futuro Papa.
Anzi, il padre di Jorge Mario desidera che il figlio si trovi un lavoro durante il periodo di pausa dalla scuola. Lavora prima in una fabbrica di calze, dove inizialmente si occupa delle pulizie. Al terzo anno, gli affidano qualche compito amministrativo. Negli anni successivi studierà  e lavorerà  contemporaneamente in un laboratorio chimico. La decisione di non fare vacanze è dunque legata anche a un’abitudine fin da quando era bambino e poi ragazzo.
Francesco ha parlato delle sue vacanze sul volo di ritorno dalla Corea, nel 2014: «Ho fatto le vacanze, adesso, a casa, come faccio di solito, perchè… una volta, ho letto un libro, interessante, il titolo era: “Rallegrati di essere nevrotico”! Anch’io ho alcune nevrosi… Una di queste nevrosi è che sono un po’ troppo attaccato all’habitat. L’ultima volta che ho fatto vacanze fuori Buenos Aires, con la comunità  gesuita, è stato nel 1975. Poi, sempre faccio vacanze – davvero! -, ma nell’habitat: cambio ritmo. Dormo di più, leggo le cose che mi piacciono, sento la musica, prego di più… E questo mi riposa».
Bergoglio si alza un po’ più tardi rispetto alla normale sveglia delle 4.45, celebra messa privatamente (senza la partecipazione della gente), non tiene le udienze generali. L’unico appuntamento con i fedeli rimane l’Angelus domenicale.
C’è più tempo per incontri e colloqui con le persone amiche, ma non manca lo studio sui dossier e la preparazione dei discorsi per i viaggi.
LA STORIA
Intanto a Castel Gandolfo, al posto del Papa ci va la gente. Prima, era accessibile ai Capi di Stato o alle alte gerarchie ecclesiastiche.
Invece dallo scorso ottobre chiunque può entrare dentro la sobria camera dei pontefici e osservare il letto a una piazza e mezzo su cui sono morti Pio XII e Paolo VI, vedere i telefoni modello Sip usati dai vescovi di Roma, il divano e la poltrona della biblioteca su cui si sono seduti, uno di fronte all’altro, due Papi, Bergoglio e Ratzinger, e il tavolino su cui erano appoggiati i faldoni di Vatileaks.

(da “La Stampa”)

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L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MISSIONE IN LIBIA

Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile

ALLA FINE SARA’ BEN POCA COSA, MA ABBIAMO PUNTATO SUL CAVALLLO SBAGLIATO, SARRAJ

Libia, ovvero l’insostenibile leggerezza di una missione. La missione navale italiana. Dove l’insostenibile leggerezza non è tanto nel suo aspetto militare quanto su quello politico.
Stando alle ultime indiscrezioni, che saranno sciolte martedì in Parlamento dai ministri della Difesa e degli Esteri, Roberta Pinotti e Angelino Alfano, l’Italia risponderà  alla richiesta del Governo di accordo nazionale libico inviando una nave e rafforzando l’addestramento della Guardia Costiera di Tripoli.
Pensare che una nave militare, a supporto di una Guardia non proprio super professionale, possa contribuire ad una svolta significativa nel contrasto ai trafficanti di esseri umani, più che una speranza è una illusione.
Se resterà  questo il livello del nostro impegno, faremo un buco nell’acqua. Ma il punto nodale non è neanche questo.
Perchè, sul piano operativo, l’Italia ha tutte le risorse, di mezzi e di preparazione, per poter accettare la sfida degli scafisti. Il punto vero, la sostanza di questa leggerezza insostenibile, va ricercata sul piano politico.
Roma ha puntato sul “cavallo” perdente: il premier Fayez al-Serray.
Uno dei più autorevoli studiosi di Libia italiani, Angelo Del Boca, ha definito l’ex architetto elevato a premier, come un “Signor nessuno”. Nessuno rispetto alla realtà  libica, alle tribù che contano, alle milizie meglio armate e ancor più addestrate.
Un “Signor nessuno” che proprio perchè tale, era il ragionamento dei diplomatici che hanno negoziato in Marocco l’accordo tra le innumerevoli fazioni libiche, era quello che, forse, non avrebbe fatto troppa ombra a quelli che sul campo contano davvero.
E poi c’è dell’altro.
E’ che l’Italia, confidano all’Huffington Post fonti diplomatiche che hanno lavorato per l’affermazione del Governo di accordo nazionale, più di altri partner europei e occidentali, aveva puntato non solo alla stabilizzazione del Paese nordafricano ma allo sviluppo di un vero processo di democratizzazione che, come tale, non poteva fondarsi su personaggi che con una tale ambizione non avevano nulla a che spartire. Un nome fra tutti, il generale Khalifa Haftar.
Membro della tribù Firjan, Haftar nasce come uno degli uomini che aiutarono Gheddafi ad impadronirsi del potere.
Dopo aver giocato un ruolo chiave nella Guerra in Ciad negli anni 80, il suo rapporto col Raìs si deteriorò irrimediabilmente, tanto da dover fuggire negli Stati Uniti (pare con l’aiuto della Cia), dove rimase quasi 20 anni prima di rientrare in Libia, nel 2011, come uno dei leader delle forze ribelli.
L’esercito di Haftar, composto, verosimilmente, da circa 35.000 unità , si basa prevalentemente su ex membri dell’Esercito gheddafiano reintegrati in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo apparato di sicurezza libico, ma caratterizzati da una profonda avversione per i nuovi commilitoni provenienti dalle milizie rivoluzionarie
Serraj al massimo controlla alcuni quartieri di Tripoli, non conta nulla in Cirenaica. Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur.
Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli. Tutte zone che sfuggono al controllo dell’improbabile esercito del governo Serraj.
I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio.
A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d’affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10%.
Se è vero, come è vero, dunque, la maggior parte dei migranti prendono il mare dalla Tripolitania (dunque dalla fascia di costa formalmente controllata da Serraj), è altrettanto vero che solo un sistema di difesa libico unificato può garantire un contenimento efficace dei flussi.
Il che rimanda per forza di cose al generale Haftar e al Libyan National Army ai suoi ordini. L’Italia non può mollare Serraj ma deve fare i conti con Haftar.
Sotto dettatura del generale, il premier torna a chiarire i termini della richiesta di assistenza fatta all’Italia, smentendo che abbia autorizzato le navi italiane a entrare nelle acque territoriali libiche.
“L’assistenza che ho chiesto all’Italia – ha precisato ancora una volta Serraj, citato dall’agenzia di stampa Lana, al suo arrivo all’aeroporto di Tripoli – è di tipo logistico e per l’addestramento della Guardia costiera, inclusi equipaggiamento e armi moderne per salvare le vite dei migranti e per affrontare le bande criminali dedite al traffico di migranti, che sono armate meglio dello Stato”.
Puntualizzazione che arriva il giorno dopo la nuova minaccia indirizzata all’Italia dal portavoce dell'”Operazione dignità ” che fa capo al generale Haftar. “La risposta all’intervento italiano nelle acque libiche sarà  forte”, ha avvertito Ahmed Al-Mismari.
Ma se Roma piange, Parigi non può ridere.
Perchè il proclamato accordo sbandierato da Macron tra Serraj e Haftar sul campo, solo pochi giorni dopo la stretta tra i due rivali, che si detestano anche personalmente, già  mostra tutta la sua “leggerezza”.
E non poteva essere altrimenti, visto che, vendere come ha fatto il giovane e ambizioso presidente francese, quello di Parigi come un “punto di svolta per stabilizzare la Libia”, più che uno statista definisce un “piazzista”, visto che parlare di stabilizzazione della Libia tagliando fuori le decine di milizie che ancora oggi quando non vi hanno partecipato le decine di milizie che ancora oggi controllano importanti porzioni del territorio, è qualcosa che sfugge completamente al principio di realtà .
E a farlo intendere chiaramente è proprio uno dei due “pattisti”, il generale Haftar che, forte del sostegno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti ha così bollato Serraj: “Non controlla la città , se non a parole. Tripoli è la capitale di tutti i libici — ha spiegato Haftar a Frane 24 – , e non appartiene a nessuno. Serraj a Tripoli non ha alcuna autorità . È un ingegnere. Farebbe meglio a dire cose concrete e attinenti ai fatti e a lasciar perdere le fanfaronate”. Alla faccia dell’intesa.
I fatti sembrano dar ragione al potente generale.
Perchè ogni giorno che passa, il Governo Serraj, riconosciuto internazionalmente ma senza peso in Libia, perde qualche pezzo: tre dei nove membri del Consiglio nazionale si sono dimessi subito o hanno boicottato il nuovo organismo.
E quelli che dovrebbero essergli rimasti fedeli, in conversazioni neanche troppo private definiscono sprezzantemente il premier come “il sindaco di Tripoli, se non di alcuni quartieri di Tripoli”.
Ma la perdita più pesante per Serraj è quella delle tribù. La tribù libica dei Gharyan, tra le più importanti della Tripolitania e composta dai Berberi delle montagne di Nafusa, a sud di Tripoli, si è alleata con il governo di Tobruk (in Cirenaica) e con l’Esercito Nazionale Libico di Haftar, facendo così venire meno il suo sostegno al governo di al-Sarraj.
La nuova alleanza sarebbe stata ufficializzata con il rilascio da parte delle milizie Gharyan di Sasi al-Ghani al-Tarhouni, ex colonnello nell’ENL e già  fedelissimo di Gheddafi prigioniero della tribù da quasi cinque anni. Al-Tarhouni è stato riconsegnato agli uomini di Haftar nell’ambito dell’accordo di cooperazione.
Quella dei Gharyan non è certo la prima defezione di tribù dal sostegno al governo di al-Sarraj. Le tribù Mshait, Obeid, Fwakher, Drasa ma soprattutto Warfalla – la più numerosa e potente della Libia, hanno abbandonato il premier inconcludente di Abu Sittah per sostenere Haftar.
“Nel frattempo — rimarca una fonte indipendente a Tripoli – le condizioni di vita peggiorano: per 16 ore al giorno non c’è luce, Serraj è sempre più solo, anche i suoi uomini più fedeli lo stanno abbandonando con Haftar che guadagna forza e legittimità  tra i libici che hanno bisogno di un punto di riferimento forte”.
Ai problemi della sicurezza si aggiungono quelli economici. La Libia è colpita da frequenti blackout, oltre che dalla crisi economica (il Pil è in caduta libera) e dalla scarsità  di contante che molti attribuiscono all’incapacità  dell’attuale governo.
Su un punto, e che punto, analisti militari e geopolitici concordano: delle due, l’una, o le grandi tribù libiche puntellano il Governo Seraj, altrimenti per “stabilizzarlo” occorrerebbe un contingente internazionale (formato da quali Paesi, sotto quale egida?) di almeno 50mila soldati.
Le milizie più rilevanti sono almeno 5: Zintan, Misurata, Lybian Shield, la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio e la milizia/Esercito del Generale Haftar. Il Consiglio Militare di Zintan, dal nome della città , appunto, dove è basato, conta circa 4.000/5.000 uomini armati di tutto punto – armi leggere, sistemi di supporto del fuoco ed armi pesanti. Quanto alla milizia di Misurata (appoggiata da elementi del Lybian Shield), si tratta di un altro degli attori forti di questa crisi. Di tendenze islamiste, la milizia conta qualche migliaio di uomini e da tempo ha ormai imposto un regime di sostanziale autonomia alla città  costiera di Misurata dalla quale prende il nome.
E come se non bastasse, c’è la minaccia Isis.
Un rapporto del capo delegazione italiano, Andrea Manciulli, all’Assemblea della Nato mette l’accento sull’ “espansione della minaccia di Daesh (Isis) in Libia e nel Mediterraneo Occidentale”.
“La Libia è il perfetto epicentro di instabilità  per l’intero contesto regionale e assume una valenza strategica per la penetrazione di Daesh nel Mediterraneo, fornendo accesso a porti, ampi depositi di armi e lucrose rotte del contrabbando. L’anima del Daesh in Libia è intrinsecamente legata ai flussi clandestini che transitano sul suo territorio”. Ed è soprattutto a sud, nel Fezzan, il deserto che confina con la fascia dell’Africa, dall’Egitto al Ciad, al Niger, la situazione sta diventando sempre più esplosiva.
Gli islamisti di Misurata da tempo hanno mandato centinaia e centinaia di uomini, la cosiddetta “Terza Forza”, a controllare il Fezzan dove si sono ritirati militanti del Daesh dopo aver lasciato Sirte.
In questa situazione sono arrivati dal Ciad, dal Niger, dal Mali altri nomadi della tribù Tabu. Uno scenario inquietante, quello che si sta delineando, e che attualizza quanto affermato dal coordinatore europeo antiterrorismo, Gilles De Kerchove, in audizione, il 26 settembre 2016, davanti alla commissione Libertà  civili del Parlamento europeo. La situazione in Libia, secondo il coordinatore antiterrorismo Ue, si farà  ancora più complicata “quando il califfato collasserà ” in Siria e Iraq e ci sarà  un “esodo dei foreign fighters”: a quel punto, ci saranno “non centinaia ma migliaia di combattenti” che si muoveranno verso un altro luogo e “la Libia è il più ovvio”.
Ci si troverà  dunque a gestire un “numero elevato di persone di diversi profili: chi era in prima linea nella lotta, chi stava nella cabina di regia, ma anche le moglie e i figli dei combattenti e sappiamo che più di cinquecento bambini sono nati là “, aveva spiegato ancora il responsabile antiterrorismo Ue, avvertendo che “nonostante il successo a Sirte, Daesh è ancora presente in Libia e la preoccupazione è vedere sempre di più il Paese diventare un trampolino per Daesh e il luogo in cui possono essere pianificati gli attacchi verso l’Europa”. Allarme rosso, dunque. Alle “porte” dell’Italia.

(da “Huffingtonpost”)

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INTERVISTA A BOSSI: “MARONI CANDIDATO PREMIER, SALVINI NON TOCCHI LA PAROLA NORD”

Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile

“L’UNICA ALLEANZA E’ CON BERLUSCONI, I GRILLINI NON SONO SERI”

Per due giorni, la capitale estiva della Lega è «l’altra» Milano: Milano Marittima.
Alla festa della Lega romagnola, in piazza, nel capoluogo Cervia, sono attesi tutti i papaveri del partito, compresi il leader attuale, Matteo Salvini, che ci ha comiziato ieri sera, e quello storico, Umberto Bossi, che parlerà  stasera.
Bossi anticipa quel che dirà  in questa intervista, la prima dopo la condanna in primo grado per la vicenda del «cerchio magico». «Ma ci piacerebbe parlare di politica», fanno sapere dall’entourage del Senatur.
Va benissimo. Bossi, allora, in tutto questo tira e molla sulle alleanze in vista delle elezioni, con chi dovrebbe farla la Lega?  
«Io credo che la Lega debba ripartire dall’alleanza con Berlusconi. Per una ragione molto semplice: anche se ha avuto i suoi problemi, Berlusconi è comunque un uomo che mantiene la parola. E se vogliamo vincere le elezioni e governare, l’accordo lo dobbiamo fare con qualcuno di cui ci possiamo fidare. Non si può certo pensare di mettersi insieme con i Cinque Stelle, che non sono seri. Quindi l’unica coalizione che può davvero vincere passa dall’accordo fra la Lega e Berlusconi».
Cita sempre Berlusconi e mai Forza Italia.  
«Infatti. Io parlo di Berlusconi».
L’alleanza, però, ha bisogno di un candidato premier. Di nomi appunto Berlusconi ne ha fatti molti, e l’ultimo è quello di Maroni. Che ne pensa?  
«Penso che in questo momento Maroni abbia una responsabilità  enorme, che è quella di portare a casa l’autonomia della Lombardia al referendum del 22 ottobre. Vinto quello, tutto diventa possibile».
Quindi Maroni candidato primo ministro le andrebbe bene?  
«Sì, potrebbe andare bene».
Altro nome di cui si parla molto in questi giorni è quello di Giovanni Toti, che del resto di tutti gli uomini di Forza Italia è il più vicino alla Lega…  
«È una brava persona ma al momento non penso che abbia le spalle abbastanza larghe per fare il candidato premier».
Altro problema: i confini della coalizione. Alfano lo riporterebbe dentro?  
«Secondo me, lo ripeto, l’asse della coalizione è l’accordo fra Lega e Berlusconi. Alfano non è un problema nostro, è un problema di Berlusconi. La scelta di riprenderlo con sè deve farla lui. Noi non c’entriamo».
C’è anche l’ex sindaco di Verona ed ex leghista Flavio Tosi, che Berlusconi, pare, sta cercando di arruolare. Crede che per la Lega sarebbe accettabile?  
«Sappiamo tutti com’è stato sbattuto fuori. Ma se è stato sbattuto fuori così lui, allora chissà  quanta gente avremmo dovuto cacciare dalla Lega. Per me, non sarebbe un problema se entrasse nell’eventuale coalizione. Anche perchè in ogni caso ci sono stati dei momenti in cui una figura come la sua è mancata».
Lei continua a parlare di coalizione. Alla fine con quale legge elettorale crede che si andrà  a votare?  
«Credo che alla fine ci si metterà  d’accordo, magari all’ultimo momento, su una legge elettorale maggioritaria. Con un premio alla coalizione, appunto».
In questi giorni girano dentro la Lega dei simboli dove sparisce la parola «Nord». Il partito smentisce che si voglia toglierla, però sembra assodato che la questione settentrionale non sia più la priorità . Immagino che non sia d’accordo.
«Cancellare la parola Nord dal nome e dal simbolo della Lega significherebbe tradire un progetto politico. Sono convinto che la questione settentrionale esista sempre e sia tuttora attuale per la Lega e per la nostra gente. Così attuale che l’obiettivo immediato dev’essere la vittoria al referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto».
Dentro la Lega, lei è ormai all’opposizione. In sintesi, cosa rimprovera a Matteo Salvini?  
«Per il momento nulla, perchè la Lega in questo momento ha bisogno di essere compatta per portare a casa il risultato del referendum. Una volta vinto il referendum, parleremo di quello che non va».
Ultima domanda. Dopo le ultime vicende giudiziarie, è pentito di essersi fidato di Belsito?  
«Sì».

(da “La Stampa”)

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