Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile I SOVRANISTI DE NOIATRI CHE NON SI INDIGNANO CON RENZI PER AVER NASCOSTO LA VERITA’ SU REGENI COMUNICATA DAGLI USA
Queste note sono destinate a coloro che, per età anagrafica, hanno conosciuto qualche destra seria,
pur con tutti i difetti che poteva avere.
Ma in parte anche a quei pochi giovani non ancora rincoglioniti dalla propaganda sovranista-populista-macchiettarapseudofascistadaavanspettacolo.
Immaginate la reazione di un Almirante, di un Rauti o anche solo di un democristiano “perbene” della tanto vituperata prima Republica di fronte al sequestro, alle torture e all’assassinio di un giovane italiano da parte di un regime militare straniero.
Altro che ritiro dell’ambasciatore, ci sarebbero state manifestazioni, cortei, proteste, occupazioni del Parlamento fino a pretendere le teste dei criminali.
Invece nulla, silenzio complice per un anno e mezzo, la destra “sovranista” che ha riscoperto, dopo anni di “secessione”, la via della sedicente “identità nazionale” se ne fotte se un italiano viene massacrato da servizi segreti stranieri.
La compagnia di merende salvian-meloniana, i sedicenti fasci da combattimento e i leoni da tastiera, gli urlatori e le oche giulive dei programmi nazional-popolari, pronti a scendere in piazza se un immigrato piscia controvento, i governatori dai tappeti rossi e i politici per la “legalità “, tutti uniti nel silenzio, nella omertà , nella collusione.
Nel tradimento dell’Italia.
Oggi il New York Times rivela (e altre fonti confermano) che Obama avvertì Renzi di avere le prove della responsabilità del regime di Al Sisi nel massacro di Giulio Regeni.
Di questo Renzi non ha mai informato nè il Parlamento, nè gli Italiani.
Quella destra avrebbe assaltato i banchi del governo, se non l’ambasciata egiziana a Roma, accompagnando a calci nel culo l’ambasciatore sul primo aereo per il Cairo.
I sovranisti de noiatri tacciono persino ora che il gioco, da noi denunciato da 18 mesi, caso quasi unico a destra, è ormai scoperto: dell’Italia se ne fottono, gli italiani possono essere torturati e uccisi, un governo può nascondere i fatti e coprire gli assassini, un regime straniero può depistare le indagini delle nostre istituzioni, una famiglia “non meticciata” può essere abbandonata al proprio dolore, a loro non frega una emerita mazza.
Evviva i sovranisti egiziani.
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile SONO DUE GIOVANI OSPITI DI UN CENTRO DI ACCOGLIENZA DI GENOVA
Due giovanissimi migranti africani richiedenti asilo, ospiti a Fumeri, nell’entroterra del capoluogo ligure, hanno trovato un portafoglio su un treno con dentro 35 euro e lo hanno consegnato alla responsabile della struttura che li ospita.
La donna ha rintracciato il proprietario per restituirglielo.
Si chiama Salvatore Scalabrini, è un pensionato e ha regalato ai due ragazzi 20 euro a testa, ringraziandoli: «Ce ne fossero di ragazzi come voi! Benvenuti in Italia!».
A raccontare la storia è stata Gabriella Profumo, insegnante e responsabile del centro di accoglienza di Fumeri, dove i due migranti hanno trovato ospitalità : «Le parole di quel pensionato mi hanno commosso, perchè conosco bene quei due ragazzi e so che hanno alle spalle esperienze terribili. Sono sbarcati dai barconi dopo una prigionia nelle carceri libiche, dove sono stati rapinati di tutto e torturati ».
I ragazzi si chiamano Jafra Drame (19 anni, della Guinea) e Mamadì Sware (17, del Gambia) e ormai sono come fratelli: «Quando ho chiesto loro perchè non hanno aperto il portafoglio – ha raccontato ancora la Profumo – mi hanno risposto in modo disarmante che “non è roba nostra”».
Il centro che ospita i due africani è gestito dalla Croce Bianca Genovese. Il presidente della pubblica assistenza, Walter Carrubba, non si è stupito del gesto dei due ragazzi: «Conosco molti degli ospiti dei nostri centri di accoglienza temporanea e so che hanno una grande rettitudine morale. E poi noi non ci limitiamo a ospitare i migranti, ma li impegniamo in lavori utili, insegniamo loro l’italiano e il senso civico, rimarcando soprattutto il valore dell’onestà ».
(da “il Secolo XIX”)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile E LA GUARDIA COSTIERA SCORTA CHI HA PAGATO E BLOCCA CHI NO
Il reportage di Domenico Quirico per “La Stampa” da Sabratha è come sempre illuminante. 
Mentre in Italia qualcuno vuole avvalorare la tesi della “lotta agli scafisti” affidata all’eroica Guardia Costiera libica, Quirico ci domanda: “sappiamo che le regole del «viaggio» nel Mediterraneo sono cambiate? E che lo hanno imposto loro, i migranti? Non cercano più lo scafista direttamente, lo pagano e partono, affidandosi a Dio. Non si fidano più: troppi morti, troppi naufragi, troppi inganni. Ora c’è un mediatore, sempre libico, riunisce i gruppi, marocchini senegalesi eritrei, raccoglie il denaro e lo custodisce. Paga lo scafista solo quando una telefonata del migrante conferma che è arrivato in Italia o è al sicuro su una nave di soccorso. Il viaggio con l’assicurazione. Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri.”
La garanzia del viaggio da chi può essere assicurata?
Perchè i viaggi avvengono a ondate, con improvvise interruzioni?
Perchè ormai si parte solo quando c’è la garanzia di non essere fermati dalla Guardia costiera libica.
Ecco allora che si spiega la denunce di alcune Ong (confermate dai profughi e dalla procura di Trapani) sul fatto che certi natanti sono stati “scortati” fino alle navi delle Ong proprio dalla Guardia costiera libica che ha incassato la tangente dagli scafisti.
Mentre altri che non hanno pagato sono state fermati.
E il governo italiano ha affidato a questa associazione a delinquere la gestione dei flussi?
O siete in malafede o avete bisogno di cure psichiatriche.
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile ALTRO CHE LE CAZZATE DELLA “LUCE IN FONDO AL TUNNEL”, IL GOVERNO VEDRA’ SOLO PIU’ AFFOGATI IN FONDO AL MARE
Il codice di condotta delle Ong limita il loro lavoro di salvataggio” provocando “più’ decessi”.
La “conseguente perdita di vite umane, essendo prevedibile e prevenibile, costituirebbe una violazione degli obblighi dei diritti umani in Italia”.
Così Agnes Callamard, relatrice speciale dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie. “Codice e piano d’azione globale – aggiunge – suggeriscono che Italia, Commissione europea e Stati membri Ue ritengono i rischi e le realtà di morti in mare il prezzo da pagare per scoraggiare migranti e rifugiati”.
Callamard sottolinea inoltre il rischio di gravissimi abusi e violenze per i rifugiati e i migranti in Libia.
“Fino a quando i migranti e i rifugiati che transitano attraverso la Libia o vengono ricondotti in Libia sono a rischio di violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni arbitrarie, l’Italia deve fornire ricerca e soccorso nel Mediterraneo, rispettare il divieto di respingimento e garantire che le Ong possano contribuirvi pienamente”, afferma. Inoltre, “la commissione europea deve sostenere l’Italia, e gli Stati membri dell’Ue devono assumere le loro responsabilità , incluse la ricezione e la ricollocazione dei rifugiati e dei migranti”, conclude la relatrice che ha chiesto chiarimenti da parte dell’Ue, delle autorità italiane e delle autorità libiche.
(da agenzie)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile LA GOLFO AZZURRO ERA NELLA ZONA SAR CHE I TRAFFICANTI DELLA GUARDIA COSTIERA LIBICA HANNO AUTOPROCLAMATO ILLECITAMENTE DI LORO COMPETENZA, GOVERNO ITALIANO COMPLICE DEGLI SCAFISTI LIBICI
Fermati e minacciati di morte dalla Guardia costiera libica. È il terribile racconto dell’equipaggio
della nave Golfo Azzurro della ong spagnola ProActiva, una delle pochissime organizzazioni umanitarie che ancora operano nel Mediterraneo per il salvataggio di migranti dopo lo stop deciso di Msf e Save the Children “per ragioni di sicurezza”.
L’episodio sarebbe avvenuto intorno alle 17.30 ora italiana, a 27,3 miglia dalla costa di Sabratha, in Libia, dunque in acque interrnazionali ma all’interno della zona “Sar” dichiarata da Tripoli la settimana scorsa, di cui non si conoscono le misure esatte ma si parla di decine e decine di miglia (come le 97 dell’era Gheddafi).
Le autorità libiche avevano avvertito le ong: “Non entrate nella nostra zona, voi aiutate i trafficanti”.
Ma ProActiva non ha voluto piegarsi al diktat. E così, sfidando le minacce e il pericolo, oggi è entrata nella sar libica alla ricerca di migranti in difficoltà , rimanendo comunque in acque internazionali: la risposta di Tripoli non si è fatta attendere, secondo il racconto di Riccardo Gatti, a capo delle operazioni della Golfo Azzurro, raggiunto da Repubblica via Whatsapp: “Non è vero come è stato scritto su Twitter che ci hanno sparato addosso. Ma sì, la guardia costiera libica ci ha fermato, sequestrato per un po’ (eravamo in acque internazionali) e poi ci hanno intimato di seguirli con loro verso Tripoli. Ci siamo rifiutati, ma poi ci hanno lasciato andare intimandoci di non tornare più: “Altrimenti vi ammazziamo”, ci hanno detto”.
La ProActiva, che ora sta tornando verso Nord e probabilmente attraccherà a Malta stasera, è l’unica nave ong attiva nel Mediterraneo insieme alla Acquarius di Sos Mediterranee e al Moas. Le altre sono tutte ferme dopo i proclamo di Tripoli. Un paio di settimane fa la marina libica aveva sparato in aria sempre contro ProActiva, scatenando polemiche. Le autorità di Tripoli al momento non hanno confermato l’incidente di oggi.
La Golfo azzurro e’ appena tornata in zona SAR dopo la disavventura della scorsa settimana quando, dopo aver salvato tre libici in zona sar maltese, è stata costretta a vagare tre giorni in mare perchè nè Italia nè Malta davano l’autorizzazione all’approdo in porto. Poi, denunciando un problema tecnico ad un motore, e’ stata autorizzata ad approdare a Pozzallo dove ha sbarcato i tre libici.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile AL SISI E’ IL PROTETTORE DEL GENERALE LIBICO CHE CONTROLLA LA CIRENAICA… PIU’ CHE UNA RESA E’ UNA VERGOGNA
Giustizia e verità su Giulio Regeni non sarà mai ottenuta, nè il rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo contribuirà a dare volti e nomi ai mandanti e agli esecutori del rapimento e del brutale assassinio del giovane ricercatore friulano.
Solo facendo riferimento al caos libico è possibile cogliere il senso della mossa di Roma. Fonti diplomatiche la mettono così con l’Huffington Post”: per raggiungere una intesa con il generale Haftar occorre rivolgersi al suo protettore egiziano, il presidente al-Sisi”. E rivolgersi ad al-Sisi è possibile solo, rimarca ancora la fonte, se si trova un compromesso sui rapporti politico-diplomatici che segnano le relazioni italo-egiziane nel “dopo-Regeni”.
Un segnale all’Italia l’uomo forte della Cirenaica lo aveva lanciato con l’intervista a Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera: da premier in pectore, Haftar aveva criticato l’Italia aprendo però ad una possibile collaborazione sul tema che più sta a cuore oggi al governo Gentiloni-Minniti: il contrasto al traffico di esseri umani.
Il modello delineato da Haftar è quello “turco”. Come per Erdogan, così con lui l’Europa, e l’Italia, devono investire in risorse economiche (20 miliardi di euro) e in sostegno politico per mettere un tappo alla rotta mediterranea.
Ma Haftar non gioca da solo. Se è riuscito a riconquistare Bengasi e a sfondare anche in Tripolitania è soprattutto perchè ha potuto godere del sostegno, militare, dell’Egitto.
Dunque, se l’Italia vuole negoziare con Haftar, la luce verde deve venire dal Cairo.
E per farla scattare occorre riaccendere la luce nella stanza del nostro ambasciatore nella capitale egiziana.
L’indignazione della famiglia Regeni si scontra con le pressioni esercitate in questi mesi su Farnesina e Palazzo Chigi perchè l’Italia desse un segnale concreto verso la leadership egiziana per non essere tagliati fuori da un giro di affari milionari, commesse militari, infrastrutture, sfruttamento risorse petrolifere, con l’Egitto.
Ed ora, sul tavolo del do ut des c’è anche la “questione libica”.
Ed è alla luce delle ultime vicende libiche che era ripresa, sottotraccia, la pressione su Palazzo Chigi e Farnesina perchè il nostro ambasciatore facesse rientro al Cairo.
“D’altra parte, se dovessimo avere relazioni, politiche, economiche, commerciali, solo con Paesi retti da regimi democratici, dovremmo chiudere ambasciate e smettere di fare affari con più della metà de mondo…”.
La nostra fonte, un ex diplomatico ora influente lobbista, in maniera un po’ brutale ma certamente chiara, sintetizza la realpolitik che vorrebbe un recupero di relazioni a tutto campo con l’uomo forte dell’Egitto. “Avevamo abboccato alle cosiddette ‘Primavere arabe’ — ed ora eccoci a rimpiangere Mubarak, Gheddafi e pendere dalle labbra di Erdogan…”.
La restaurazione è compiuta. La stagione della speranza, archiviata. In occasione dei diciotto mesi dal rapimento al Cairo di Giulio Regeni, il cui corpo venne ritrovato orribilmente torturato alcuni giorni dopo, Amnesty International Italia aveva scritto al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni chiedendo se, dopo la recente missione nella capitale egiziana di una delegazione della Commissione difesa del Senato, la posizione del governo sul mancato ritorno dell’ambasciatore abbia subito mutazioni. Nella sua lettera al primo ministro, il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi faceva riferimento a quanto riportato dall’autorevole portale indipendente egiziano Mada Masr circa il possibile ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo nel mese di settembre, che sarebbe stato annunciato dalla stessa delegazione parlamentare italiana.
Marchesi aveva ribadito che qualunque forma di rafforzamento delle relazioni fra i due Paesi non può prescindere dagli sviluppi nella ricerca della verità per Giulio Regeni
La scelta di revocare l’unica misura adottata in un anno e mezzo fra le diverse possibili, rischia di compromettere definitivamente il raggiungimento di quel risultato. Una preoccupazione che investe l’atteggiamento dell’Europa che, dopo aver “sdoganato” Erdogan, vede in al-Sisi un altro Gendarme del Mediterraneo.
“C’è il concreto pericolo che le violazioni dei diritti umani in Egitto vengano messe sotto il tappeto e che l’Unione europea dia priorità alla sicurezza, all’immigrazione e ai rapporti commerciali a spese dei diritti umani”, avverte David Nichols, responsabile di Amnesty International per la politica estera dell’Unione europea.
Dopo il massacro di Rabaa dell’agosto 2013, quando al Cairo le forze di sicurezza uccisero almeno 900 persone in un solo giorno, gli Stati membri dell’Unione europea avevano deciso di sospendere le licenze all’esportazione di ogni tipo di armi che avrebbero potuto essere usate a scopo di repressione interna.
Il rapporto dell’Unione europea sull’Egitto, pubblicato in vista del Consiglio di associazione, svoltosi il 25 luglio, neanche menziona Rabaa e il fatto che, da allora, nessuno è mai stato chiamato a rispondere nè tanto meno è stato indagato per quel massacro.
Il rapporto tace anche sul ricorso alle esecuzioni extragiudiziali, sugli sgomberi forzati di migliaia di famiglie nel Sinai e sull’assenza di procedimenti giudiziari per i responsabili degli attacchi settari contro i cristiani copti. Non basta.
La piaga della tortura viene derubricata come “denunce di presunte torture in carcere, di morti a causa della tortura o di negligenza medica”. L’ultimo caso risale a neanche un mese fa.
Dell’altra piaga delle sparizioni forzate, secondo Amnesty International tre o quattro al giorno, ci si limita a segnalare che la Commissione nazionale sui diritti umani ha prodotto un rapporto.
Non si parla delle detenzioni arbitrarie, seppure si accenni ai processi di imputati civili in corte marziale e a sentenze di massa al termine di processi irregolari.
Le forze di sicurezza egiziane beneficiano della completa impunità per le violazioni dei diritti umani, come le sparizioni forzate, la tortura, le morti in custodia e le esecuzioni extragiudiziali.
Nonostante tutto ciò, quasi la metà degli Stati membri dell’Unione europea – Italia inclusa – ha proseguito, in violazione degli obblighi di diritto internazionale, a inviare armi all’Egitto.
“In Egitto è in corso un’ondata senza precedenti di violazioni dei diritti umani. Nell’ultimo anno e mezzo decine di difensori dei diritti umani si sono visti congelare i beni patrimoniali, hanno subito divieto di viaggi o sono stati interrogati per accuse ridicole che potrebbero comportare l’ergastolo e la fine delle attività delle organizzazioni indipendenti”, ha sottolineato Nichols.
“Mentre la società civile subisce una crescente repressione, le forze di sicurezza egiziane hanno mano libera per compiere massicce violazioni come le detenzioni arbitrarie, la tortura e le uccisioni illegali. L’Unione europea deve usare la sua autorevolezza e dire chiaramente, anche durante il vertice del 25 luglio, che non resterà in silenzio di fronte al fosco quadro delle violazioni dei diritti umani in Egitto”. Violazioni che reiterano tragedie di sequestri e di morte.
Recentemente, l’ennesimo giovane egiziano è stato ritrovato morto, con segni di percosse e bruciature sul corpo.
Tharwat Sameh aveva 19 anni. Secondo quanto riferito dai familiari al sito web informativo “Veto Gate”, il ragazzo sarebbe scomparso venerdì 21 luglio dopo essere uscito di casa, senza telefono cellulare, per comprare da mangiare: una versione diversa da quella secondo cui il 19enne sarebbe stato prelevato dalle forze di sicurezza il 22 luglio direttamente nella sua abitazione in un sobborgo del Cairo.
Inoltre il 19enne, secondo “Veto Gate”, non svolgeva alcuna attività politica. Domenica 23 luglio, prosegue il sito web egiziano, la famiglia ha ricevuto una telefonata anonima che avvertiva che il ragazzo era stato investito da un’auto a Fayoum, 130 km a sud ed era stato ricoverato in ospedale.
Il corpo è stato poi ritrovato abbandonato poco dopo seminudo con segni di percosse e bruciature da scarica elettrica.
Il caso ha alcuni agghiaccianti particolari in comune con l’omicidio irrisolto di Regeni. Le bruciature sul corpo, i segni di tortura, il cadavere ritrovato sul ciglio della strada. E, soprattutto, il fatto che il direttore della sicurezza di Fayoum è oggi Khaled Shalaby, lo stesso poliziotto che 18 mesi fa era l’investigatore capo nel governatorato di Giza, dove fu trovato il corpo di Regeni. Shalaby, già condannato nel 2003 per tortura (ma la sentenza era stata sospesa), dichiarò che la morte di Regeni sembrava frutto di un incidente stradale, ma fu subito smentito dall’autopsia.
Ora le autorità affermano che “tre ignoti” avrebbero picchiato a morte. D’altro canto, il rapporto dell’Unione europea non fa menzione neanche del terribile omicidio di Giulio Regeni e della detenzione, arrivata al quarto anno, del cittadino irlandese e prigioniero di coscienza Ibrahim Halawa.
Amnesty International chiede all’Unione europea di sostenere la richiesta di un’indagine efficace, indipendente e imparziale sulla sparizione e l’uccisione del ricercatore italiano e l’immediato e incondizionato rilascio di Ibrahim Halawa.
“Ho sollevato il caso di Giulio come facciamo spesso perchè per tutta l’Ue, non solo per l’Italia, è una questione prioritaria e l’Ue è accanto al governo italiano nel fare tutto il possibile per trovare la verità “. Ad affermarlo era stata (25 luglio) l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, interpellata riguardo il caso Regeni durante una conferenza stampa con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Hassan Shoukry.
“Consideriamo importante trovare una soluzione al caso – ha sottolineato quest’ultimo – ed è stato intrapreso ogni sforzo per risolverlo”. Chiacchiere.
Perchè questi “sforzi”, in 19 mesi, si sono rivelati una sequenza ininterrotta di depistaggi, di collaborazioni millantate ma senza costrutto. I depistaggi come i silenzi che hanno accompagnato queste sollecitazioni, non inducono all’ottimismo. In compenso, per il periodo che dal gennaio 2015 al maggio 2017, complessivamente la somma dell’assistenza finanziaria dell’Unione europea, dei suoi Stati membri e delle istituzioni finanziarie europee ha superato gli 11 miliardi di euro.
Dopo Erdogan, anche al-Sisi diviene per l’Europa il “male minore”. Con cui trattare. Da riempire di miliardi, con cui fare affari e un patto per la stabilizzazione della Libia. Verità e giustizia (per Giulio Regeni e per gli egiziani massacrati nelle prigioni del regime o fatti trovare cadavere sui bordi delle strade) possono attendere. All’infinito. “Sono stati quattordici mesi surreali. Noi siamo una famiglia normale catapultata in questa situazione. Non possiamo abbassare mai la guardia perchè abbiamo scelto di essere dentro le cose. Per avere verità per Giulio dobbiamo agire, non basta proclamare ‘verità per Giulio’ e poi la bolla si sgonfia”, così Paola, la madre del ricercatore in conferenza stampa, il 3 aprile scorso al Senato.
Il padre del giovane dottorando ha chiesto che “non venga rinviato l’ambasciatore e questo esempio sia seguito anche da altri paesi europei. Abbiamo avuto rassicurazioni dal premier Gentiloni. Continuiamo a confidare nelle nostre istituzioni”.
Claudio Regeni ricorda come con l’Egitto “gli scambi commerciali vadano a gonfie vele”. “Abbiamo diritto alla verità per la nostra dignità ma anche per guardare negli occhi a testa alta i tanti giovani che stanno seguendo questa vicenda e ci stanno scrivendo — affermava Paola Regeni -. Pochi giorni fa si è celebrato l’anniversario dei Trattati di Roma — aggiungeva — ma se non cerchiamo la verità cosa insegneremo a questi ragazzi, che sono già della generazione post Erasmus, dei valori dell’Europa?”. Non sono solo le parole di una madre e di un padre straziati dal dolore.
Sono questo, certamente, ma anche altro: le considerazioni di due cittadini che chiedono, con coraggio e dignità , al proprio Paese di mantenere la schiena diritta e di ricordare ad una Europa smemorata, che Giulio Regeni era un cittadino europeo, non solo sul passaporto ma per le sue esperienze di studio, per i valori che hanno permeato la sua attività di ricercatore.
Quattro mesi dopo quell’incontro con la stampa, non è accaduto niente di così significativo da giustificare una normalizzazione dei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. “Giulio — ha ricordato in più occasioni la madre Paola – poteva aiutare l’Egitto, il Medio Oriente, studiava il sindacato, l’emarginazione. Un italiano che poteva fare tanto e non avremo più. E io continuerò a dire: verità per Giulio”. Una verità che le alte sfere del Cairo non vogliono svelare.
La famiglia Regeni ha definito la decisione preferragostana presa dal Governo come una “resa incondizionata” dell’Italia. Più che una resa è un “baratto”. La mancata verità per sancire un patto con Haftar favorito da al-Sisi.
Più che una resa, è la vergogna della “realpolitik”.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile LA CASA BIANCA DIEDE A RENZI LE PROVE SENZA RIVELARE LA FONTE PER NON BRUCIARLA: “AL SISI ERA A CONOSCENZA”… IL GOVERNO ITALIANO HA COPERTO TUTTO
Giulio Regeni è stato rapito, torturato e ucciso da ufficiali della sicurezza egiziana. Una certezza,
che gli Usa hanno acquisito dall’intelligence nelle settimane successive al ritrovamento del corpo martoriato del ricercatore italiano al Cairo.
Quello che Carlo Bonini sulle pagine di Repubblica scriveva più di un anno fa, ora è messo nero su bianco in un lungo articolo del New York Times Magazine a firma di Declan Walsh.
Il giornalista, che dal Cairo ha seguito tutte le fasi dell’inchiesta sull’omicidio, ha avuto conferma di questo da tre fonti dall’amministrazione Obama: dunque Washington aveva ottenuto “prove incontrovertibili sulla responsabilità egiziana”, “non c’era alcun dubbio”.
L’articolo arriva mentre nel nostro Paese è altissima la polemica per la decisione del governo italiano di far rientrare al Cairo l’ambasciatore Giampaolo Cantini. alla luce dei nuovi documenti che la procura egiziana ha trasmesso ieri a quella di Roma, relativi ad un nuovo interrogatorio cui sono stati sottoposti i poliziotti che hanno avuto un ruolo negli accertamenti sulla morte di Regeni. Interrogatori che erano stati sollecitati proprio da piazzale Clodio.
Ma se la consegna viene considerata “un passo avanti nella collaborazione” tra le due procure, come viene sottolineato in una nota congiunta firmata da Giuseppe Pignatone e Nabil Ahmed Sadek, i genitori del ricercatore non sono dello stesso avviso.
“Sempre più lutto!”, scrive la mamma di Giulio Regeni, Paola Deffendi, in un post sul proprio profilo Facebook nel quale pubblica le foto della bandiera italiana listata a lutto esposta dal giorno della morte del giovane sul Municipio di Fiumicello, in provincia di Udine, dove vive la famiglia Regeni.
Secondo il giornalista americano, le informazioni sulle responsabilità di “alti papaveri” egiziani nella morte di Giulio Regeni vennero passate al governo Renzi “su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”.
Ma “per evitare di svelare l’identità della fonte non furono passate le prove così come erano, nè fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l’omicidio”.
Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: “Non è chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere” Regeni, ma “quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell’uccisione” del ricercatore.
Di più: “Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli”. Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità , ma sapevano, sapevano”.
Questo portò alcune settimane dopo “l’allora segretario di Stato, John Kerry, ad un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington”. Si trattò di una conversazione “quantomai burrascosa” anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità “, Un approccio brutale, quello di Kerry, “che provocò più di un’alzata di sopracciglio” all’interno della Amministrazione, dal momento che Kerry “aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi”.
Nel frattempo i sette magistrati italiani inviati al Cairo “venivano depistati ad ogni piè sospinto” e lo steso ambasciatore italiano Massari “presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate, ricorrendo ad una vecchia macchina che scriveva su carta sulla base di un codice criptato”.
Anche perchè “si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane”.
L’inchiesta affronta anche altre questioni spinose: il Times parla apertamente di “fratture” all’interno dello Stato italiano. “C’erano altre priorità . I servizi di intelligence italiani avevano bisogno dell’aiuto dell’Egitto nel contrastare lo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso di migranti nel Mediterraneo”, scrive Walsh.
Poi il NYT affronta le tensioni tra gli apparati dello Stato italiano per la collaborazione tra l’Eni e i servizi di intelligence sul caso del ricercatore ucciso.
L’Eni solo poche settimane dell’arrivo al Cairo di Regeni aveva annunciato una grande scoperta: il giacimento di gas naturale di Zohr, 120 miglia a nord della costa egiziana, contenente 850 miliardi di metri cubi di gas, dice il giornalista ricordando il fabbisogno energetico italiano e l’importanza per il nostro Paese – ricordata anche da Renzi – della stessa Eni.
Secondo un funzionario della Farnesina, aggiunge Walsh, i diplomatici si erano convinti che l’Eni avesse unito le forze con i servizi italiani per arrivare a una veloce soluzione del caso.
E “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”, scrive il New York Times Magazine.
Che cita la dichiarazione di un funzionario italiano: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani”.
L’azienda in passato ha assunto molte ex spie nella sua unità per la sicurezza interna, dice il giornalista citando il libro del 2016 sull’Eni di Andrea Greco e Giuseppe Oddo: Lo Stato Parallelo.
Un portavoce dell’Eni ha detto che la società era “inorridita” per la morte di Regeni e pur non avendo la responsabilità delle indagini, avrebbe continuato a “seguire il caso molto da vicino” nelle sue interazioni con il governo egiziano”.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile E’ L’ORGANIZZATORE CHE DOVREBBE PROVARE LE GALERE ITALIANE, COSI’ CAPISCE QUALE DEVE ESSERE LA FINE DEI RAZZISTI
“Sono un italiano, un italiano vero”. E vai, con gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente.
Così, 34 anni fa, Toto Cutugno disegnava il nostro popolare identikit in una canzone che fece il giro del mondo. Evidentemente qualcuno, proprio nell’ambiente musicale, non si è accorto che in questi 34 anni qualcosa è cambiato.
Soprattutto, chi può dirsi oggi “italiano vero”? A quali requisiti occorre corrispondere per passare l’esame?
La domanda è piombata, spiazzante, nella vita fino a ieri spensierata di Dora B. Una ragazzina di 15 anni, nata in Italia da genitori ghanesi arrivati nel nostro Paese circa 30 anni fa. Loro conoscevano bene L’italiano di Cutugno. Con buona pace di Toto, Dora B. avrebbe cantato certamente altro, se fosse stata ammessa al Canta Verona Music Festival.
Ma qui la musica passa decisamente in secondo piano. Perchè la ragazzina, quando ha contattato l’organizzatore sulla pagina Facebook dell’evento per avere informazioni, si è sentita rispondere che non si accettavano stranieri. Dora ha insistito: “Ho la cittadinanza italiana, posso partecipare, no?”. “No!!! Italiani si nasce, non si diventa e si nasce da genitori italiani…Io la penso così ed è riservato solo a italiani di fatto”.
E l’affare si complica, dall’italiano vero si passa all’italiano di fatto. Fatto è che, dal basso dei suoi 15 anni, Dora B. ci resta malissimo.
Chiede aiuto al fratello, che contatta l’organizzatore perchè le chieda scusa. E alla fine le scuse arrivano, ma soltanto quando Dora diffonde su Facebook gli screenshot della conversazione con l’organizzatore.
E la sua storia diventa inevitabilmente virale.
L’organizzatore, S.P., non si nega al telefono. La sua voce tradisce la paura di finire nel tritacarne, ma lui prova a spiegarsi. “Ho 42 anni, faccio questo mestiere da 24. Non sono razzista, la mia ragazza è straniera e ho amici di ogni nazionalità “.
E allora, perchè quella risposta. Anche in questo caso, S.P. non si tira indietro: “Ricevo tanti contatti su Facebook. Ma come faccio a sapere chi c’è dietro quel profilo? Mi rendo conto di aver sbagliato a scrivere quelle cose, ma non sapevo con chi avessi realmente a che fare. Credevo fosse uno scherzo, una provocazione. Comunque, quella è la mia opinione, non credo di aver commesso un reato. E invece qui mi rovino la vita”.
L’organizzatore si dice lontano da appartenenze partitiche, ma sui suoi profili non nasconde convinzioni di destra. Lei può avere tutte le simpatie che vuole, insistiamo, ma cosa c’entrano con il concorso canoro? Cosa dice il regolamento?
“Che possono partecipare solo gli italiani, maggiorenni, professionisti, autori di musiche originali e diplomati al Conservatorio”. Piccolo inciso: il Canta Verona era una gara “pop”, non un concorso per orchestrali o cantanti lirici.
In ogni caso, l’organizzatore avrebbe potuto escludere Dora semplicemente per il suo essere minorenne. Ma l’organizzatore ha preferito rimarcare quel suo non essere “italiana di fatto”.
Cosa è accaduto dopo? “Mi ha contattato il fratello. Io ho chiesto scusa, più e più volte. Mi sono anche offerto di ospitare la ragazza in qualche evento futuro, perchè il Canta Verona non lo faccio più. Le ho anche proposto di cantare dietro compenso. Ma è stato inutile. Il fratello mi ha detto semplicemente: ora ti sputtano”.
Emmanuel, il fratello di Dora, conferma questo particolare. Ma lo circostanzia con precisione. “Gli ho scritto che doveva chiedere scusa a mia sorella. Lui mi ha risposto che non è un razzista ma che quella è la sua opinione. Io ho cercato di fargli capire che il problema non sono le sue opinioni, il problema è scrivere che un concorso è riservato a cittadini italiani e che mia sorella non lo è perchè è figlia di genitori non italiani. Quando invece anche loro lo sono. Io ho insistito per le scuse, perchè mia sorella stava vivendo la cosa con grande disagio e aveva bisogno di sostegno. E siccome sono molto diretto, gliel’ho detto. Gli ho anche detto: se chiedi scusa non ti denuncio. E lui alla fine ha chiesto scusa, ma soltanto dopo che mia sorella aveva diffuso gli screenshot e la storia iniziava a girare”.
Emmanuel ha 24 anni ed è nato in Italia. “Sono un ingegnere, mi occupo di trasmissione di potenza in campo agricolo e industrale. I miei sono originari del Ghana, in Italia da trent’anni. Noi siamo la seconda generazione, mia sorella col Ghana ha poco a che fare. Ma se qualcuno le dice che non è italiana, finisce col trovarsi psicologicamente in una terra di mezzo. Io sono nato e cresciuto a Verona, ho vissuto episodi simili e sono forte. Ho reagito con i miei titoli, ho una consapevolezza. Ma mia sorella non è abituata, deve andare in terza liceo classico. Per questo mi sono agitato”.
Denuncerà davvero l’organizzatore per discriminazione?
“La prima cosa che mi preme chiedervi è di non diffondere le sue generalità . Io sono un lavoratore e capisco cosa vuol dire essere mandati in pasto all’opinione pubblica. Ma lo denuncerò. Non per vendetta. E’ una questione morale che va oltre noi. Se non lo facciamo noi, che siamo qui da trent’anni, chi è in Italia da meno farà altrettanto, portando a un circolo omertoso. E la vicenda non avrebbe l’importanza che invece deve avere. L’organizzatore si è inventato una sua Costituzione. E gli è andata anche bene, perchè se fosse successo a Londra o a Berlino le conseguenze sarebbero state ben diverse”.
Appunto, solo in Italia il razzismo non è un reato perseguito nonostante esista una legge. Minniti ha altro da fare.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 15th, 2017 Riccardo Fucile QUESTA E’ LA FINE CHE DEVE FARE CHI ISTIGA ALL’ODIO IN UNA SOCIETA’ CIVILE, QUESTA E’ UNA VERA FAMIGLIA DAI VALORI DI DESTRA
Uno dei partecipanti alla marcia dei suprematisti bianchi di sabato scorso a Charlottesville, in
Virginia, è stato ripudiato pubblicamente dalla famiglia.
Pete Tefft, originario di Fargo, in North Dakota, è uno dei manifestanti le cui foto sono state pubblicate su @YesYoureRacist, un account Twitter che denuncia atteggiamenti e attitudini razziste.
A febbraio Tefft si era descritto in un’intervista come “100% pro-white”.
Ora suo padre e il resto della sua famiglia sono 100% contro le sue esternazioni razziste.
In una lettera pubblicata su The Forum of Fargo-Moorhead, Pearce Tefft ha scritto che lui e il resto della famiglia “desiderano ripudiare a voce alta le azioni e la retorica vile, odiosa e razzista” del figlio.
“Non sappiamo esattamente dove abbia appreso queste convinzioni. Di certo non le ha imparate a casa”, ha scritto il padre, che precisa di aver insegnato ai suoi figli che “tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali e meritevoli d’amore”. “Evidentemente — prosegue Tefft padre — Peter ha scelto di disimparare queste lezioni, lasciando me e la sua famiglia con il cuore spezzato e afflitto”.
(da “Huffingtonpost”)
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