Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
UN TIPICO CASO DI OCCUPAZIONE ABUSIVA, VISTA LA MOROSITA’… CON CHE CREDIBILITA’ LA MELONI INVOCA POI LO SGOMBERO DELLE CASE OCCUPATE DAI SENZATETTO?
“È stata sgomberata a via delle Terme di Traiano una sede di FdI e AN” con “una soluzione di morosità prolungata nel tempo. Si trovavano all’interno della sede comunale. Il contratto era scaduto nel 1972. Quindi da quella data occupavano una sede del Comune. E non pagavano i canoni”.
Così su Facebook la sindaca di Roma Virginia Raggi.
“Io credo che un’azione di ripristino della legalità passi anche da un’azione particolarmente energica nei confronti di tutti quei soggetti, in questo caso partiti, che tra l’altro prendono rimborsi elettorali assai cospicui, che per anni hanno approfittato di un’amministrazione particolarmente disattenta” ha aggiunto la sindaca di Roma.
La concessione degli spazi era stata stipulata nel 1959 con l’allora Sezione “Istria e Dalmazia” del Movimento sociale italiano e successivamente rinnovata nel 1963 per nove anni. L’immobile presenta al suo interno ambienti di età romana pertinenti al complesso delle Terme di Traiano, così come sottolineato anche dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali che aveva già sottolineato più volte, da ultimo nel 2015, la necessità di riacquisire il bene per sottoporlo alla sorveglianza degli organi di tutela.
“Finalmente l’amministrazione rientra in possesso di un immobile di grande valore archeologico nel cuore di Roma, di fatto occupato dal 1972. Uno scandalo a cui è stato posto fine – spiega l’assessora al Patrimonio e alle Politiche Abitative di Roma Capitale, Rosalba Castiglione -. Adesso l’immobile torna ai romani e potrà essere valorizzato in un’ottica di legalità , anche in considerazione del suo valore storico, sotto la sorveglianza degli organi di tutela. Andiamo avanti determinati per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima”.
(da agenzie)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
I CASI LI DESTRI E PARISI PREOCCUPANO I VERTICI DEL MOVIMENTO
Adesso sentono l’effetto boomerang. Le pagine Facebook del Pd sono piene di: “M5s, gli impresentabili sono loro”.
I grillini che hanno molto insistito nella polemica contro le persone da non candidare e quindi sulla questione morale, ora si vedono rivolgere accuse simili a quelle lanciate da loro ai candidati di centrodestra.
Giancarlo Cancelleri prepara il tour nella zona di Sciacca quando, di mattina presto, due fatti irrompono nello sprint finale della campagna elettorale siciliana.
La notizia che un candidato grillino di punta, Giacomo Li Destri, ha un cugino indagato non viene più tenuta sottotraccia, anzi diventa bersaglio degli avversari.
Tanto che Claudio Fava sostiene: “Dalle intercettazioni emergono rapporti tra il candidato M5s e il cugino presunto capomafia sotto processo. Quest’ultimo lo rassicura su una presenta richiesta di pizzo nei confronti del parente”.
Poche ore dopo, il candidato presidente della lista ‘I Cento passi” si prende una querela ma nei 5Stelle la preoccupazione resta alta, vengono colpiti al cuore, proprio loro che delle liste pulite ne hanno fatto un vanto assoluto su tutti gli altri.
E poi restano agli atti le parole di Cancelleri di domenica scorsa durante la trasmissione “In Mezz’ora in più” quando ha affermato: “Agli impresentabili dobbiamo aggiungere quelli che si portano dietro le colpe di padri o comunque dei familiari”.
Parole appunto che tornano indietro come boomerang nel quartier generale 5Stelle e Li Destri si dicendo che non sente il cugino da trent’anni.
A generare il caos c’è poi un tweet, quello di Angelo Parisi, l’assessore designato ad occuparsi dei rifiuti, che manda in tilt una giornata di campagna elettorale.
Sul social si è legge: “Rosato, se questa legge sarà cassata dalla Consulta ti bruceremo vivo, ok?”.
I piani alti dei 5Stelle non la prendono bene, sono preoccupati.
In questo testa a testa da ogni scivolone può dipendere la partita intera. Da Roma quindi arriva l’ordine di correggere il tiro, Parisi deve scusarsi immediatamente, e subito dopo tutti gli altri, in batteria, devono provare sminuire l’accaduto e di controreplicare attaccando Silvio Berlusconi, anche perchè nelle stesse ore viene fuori che il leader di Forza Italia è di nuovo indagato per le stragi di mafia del ’92 e ’93.
“Ora la notizia è un tweet infelice”, scrive Alessandro Di Battista: “Il Pd non ha niente di meglio da fare, invece di attaccare il centrodestra per questi nuovi fatti sconvolgenti gli va in soccorso. Se prima ci eravamo scusati, ora gli diciamo che fanno ridere”.
I dem danno fuoco alle polveri, si scatenato contro il tweet incriminato. Tutti nessuno escluso. Dal vicesegretario dem Lorenzo Guerini al capogruppo dei senatori Luigi Zanda. Si parla di termini “violenti e indecenti. Gli impresentabili sono loro”.
Il candidato presidente Fabrizio Micari dice che “le scuse non bastano. Mi prendono in giro per la sfida gentile, mentre un assessore designato vuole bruciare viva una persona”.
I 5Stelle, nella loro strategia, provano a distogliere l’attenzione facendo sapere che è stato depositato il ricorso alla Consulta sulla legge elettorale, “una via giusta e consentita dalla legge. Abbiamo solo protestato in maniera pacifica”.
Quel tweet però “non ci voleva”, dicono preoccupati e “neanche possiamo fargli fare un passo indietro. È come ammettere l’errore”.
E infatti Giancarlo Cancelleri di rinunciare a lui, nonostante qualche sollecitazione sia arrivata, non ne vuole sapere, almeno non adesso a quattro giorni dalle elezioni.
Si aprirebbe un nuovo caso come quello della Giunta Raggi quando l’assessore allo Sport lasciò in campagna a elettorale e da quel momento la Giunta non ebbe più pace.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
“NON SI PUO’ PAGARE PER COLPE DI ALTRI”: LA MORALE GRILLINA VALE SOLO PER GLI AVVERSARI… COME STANNO REALMENTE LE COSE, FAVA NON PARLA A VANVERA, C’E’ UNA INTERCETTAZIONE
Il pentastellato Giancarlo Cancelleri ha fatto della lotta contro gli “impresentabili” uno dei temi portanti della sua campagna elettorale.
Nelle liste dei suoi avversari ci sono gli impresentabili di “primo livello” — quelli che hanno in corso qualche processo o che sono stati già condannati per qualche reato.
E ci sono anche quelli di “secondo livello”, che pagano le colpe dei padri o di altri parenti.
Candidati che pur non avendo commesso alcun reato e non essendo nemmeno indagati sono lo stesso degli impresentabili per vincolo familiare.
Ma Cancelleri sta imparando che chi di “impresentabilità ” ferisce di impresentabilità perisce.
Il boomerang dell’attacco dei 5 Stelle agli impresentabili delle altre liste
La cosa ovviamente non ha mancato di scatenare polemiche. Un po’ perchè il M5S aveva messo nella lista degli impresentabili persone che non lo sono. Un po’ perchè è venuto fuori che anche il MoVimento 5 Stelle ha la sua buona dose di persone “impresentabili”.
Nessun indagato, beninteso, ma la presenza nella lista per le regionali siciliane di un vero e proprio esercito di parenti di altri eletti e candidati del M5S o di portaborse e assistenti qualche problema lo potrebbe creare.
Infatti Cancelleri per un po’ ha fatto finta di non capire quale fosse la parentopoli grillina di cui tutti parlavano (eppure sua sorella è deputato della Repubblica). L’attacco a Cancelleri arriva oggi da Claudio Fava, il candidato della lista “I cento passi per la Sicilia”.
Nei giorni scorsi i 5 Stelle avevano chiesto a Fava di ritirarsi in nome “della storia della sua famiglia”.
Oggi Fava ha denunciato che “nella lista di Palermo dei 5stelle è candidato Giacomo Li Destri, cugino di primo grado del’omonimo Giacomo Li Destri, sotto processo per associazione a delinquere di stampo mafioso e ritenuto referente di Cosa Nostra a Caltavuturo”.
Giacomo Li Destri è effettivamente candidato nella lista del M5S.
Tra le altre cose è il proprietario dell’impresa edile che costruì — con i soldi dei consiglieri regionali a 5 stelle la famosa trazzera di Caltavuturo, presto soprannominata la Via dell’Onestà .
Ci sarebbe da discutere sul fatto che per ottenere una candidatura è utile aver fatto qualche opera buona per il MoVimento, ma non è questo il punto
Le accuse di Claudio Fava a Giacomo Li Destri
Secondo Fava i problemi di Li Destri sono due.
Il primo è avere un cugino che è considerato il referente di Cosa Nostra a Caltavuturo. La vicenda è stata rivelata ieri dal Giornale e Fava ha colto la palla al balzo.
“Va detto quindi che se c’è un candidato di Forza Italia con un fratello a processo, c’è anche un cugino di un candidato grillino con accuse molto gravi. Candidare il cugino di colui che è considerato il referente di Cosa nostra a Caltavuturo dimostra molta fantasia. Nessuno mette in dubbio l’onestà del candidato. Le carte hanno poi fatto emergere che i rapporti tra i due cugini sono concreti. E che il candidato si sarebbe rivolto ad alcune persone che avrebbero dovuto esimerlo dal pagamento del pizzo. E quelle persone sarebbero state indicate dallo stesso cugino sotto processo anche nel corso di un incontro tra i cugini e un’altra persona.”
Il secondo riguarda il candidato del M5S che avrebbe pagato il pizzo e avrebbe omesso di denunciare la richiesta di pagamento.
Giacomo Li Destri non nega di avere un cugino coinvolto in un’inchiesta di mafia ma precisa che da trent’anni non ha più rapporti con il suo omonimo parente e che non può certo rispondere lui delle colpe di altri.
Il che è quello che disse anche la consigliera regionale M5S Valentina Corrado e quello che dissero tutti quelli accusati da Cancelleri di essere impresentabili in ragione delle loro parentele.
Evidentemente per i 5 Stelle le parentele altrui sono una colpa quelle proprie invece no.
La vicenda del pizzo è diversa. Li Destri ha annunciato che sporgerà querela nei confronti di Fava perchè non ha mai pagato il pizzo e se l’avesse fatto sarebbe stato denunciato per aver dichiarato il falso.
Ma allora perchè Fava ha detto che Li Destri ha pagato il pizzo?
Nell’inchiesta Black Cat Li Destri (candidato) figura come parte lesa perchè avrebbe subito un’estorsione e — secondo i Carabinieri — non si sarebbe opposto alle richieste di pagamento “venendo in contatto con il cugino”.
Da dove viene fuori la storia del pizzo pagato da Li Destri?
La spiegazione ce la fornisce la ricostruzione di MeridioNews che riporta alcune intercettazioni dove il Li Destri (cugino) Mario Cascio (referente per la famiglia mafiosa di Valledolmo), come si stesse comportando suo cugino (il candidato del M5S).
Cascio rispose che l’imprenditore aveva eseguito gratuitamente dei lavori e che quindi si era “comportato bene”.
Questa intercettazione conferma la ricostruzione di Li Destri che ha scritto che suo cugino si era “informato su di lui”.
C’è però un’altra intercettazione nella quale altri due presunti mafiosi affermano che Li Destri (il candidato pentastellato) «si sarebbe rivolto ad Antonio Maria Scola al fine di pagare quanto dovuto all’organizzazione mafiosa, ma questi gli avrebbe detto di rivolgersi direttamente a Mario Cascio».
Secondo i magistrati Li Destri (candidato) avrebbe eseguito dei lavori a titolo gratuito a Cascio e e si sarebbe “messo in regola” pagando il pizzo per i lavori eseguiti nel territorio di competenza della cosca.
Secondo Cancelleri il fatto che Li Destri non sia stato incriminato per favoreggiamento è la prova della sua innocenza e quindi Fava sta solo spargendo fango sul candidato a 5 Stelle.
Fava invece rilancia:
Resta come un macigno l’assoluta inopportunità di candidare nella lista dei 5Stelle un imprenditore edile cugino di primo grado di un capomafia delle Madonie arrestato e sotto processo. Gli scrupoli morali che valgono per i candidati di Musumeci a maggior ragione dovrebbero valere per Cancelleri che da mesi parla di onestà a casa degli altri. Se Cancelleri sapeva e ha taciuto è grave; se non sapeva è peggio: chi non si accorge della pericolosità di queste relazioni familiari all’interno della propria lista come farebbe ad accorgersi dei comitati d’affare mafiosi nella spesa pubblica della Regione?
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
SAIF UDDIN, 26 ANNI, ARRIVATO DAL BANGLADESH DA SOLO E SENZA NULLA… ORA LAVORA IN UN RISTORANTE DI MILANO: “NELLA VITA CI VUOLE ELEGANZA E DIGNITA'”
Da ragazzino vendeva i fiori per strada, arrivato dal Bangladesh da solo e senza possedere nulla. Oggi lavora in un ristorante che l’ha assunto e lo sta formando come sommelier.
Saif Uddin, 26 anni, sorride. Esile, occhi fiduciosi.
La sua storia la racconta volentieri, ma partendo dal presente. «Ho preso il diploma di terza media e vorrei parificare anche gli studi del liceo che ho fatto in Bangladesh, ero molto bravo in matematica. Ho un lavoro che mi piace, abito in zona Niguarda con tre amici in una casa spaziosa abbastanza per farci stare bene tutti».
A fatica, Saif si è guadagnato tutto questo.
«Ogni mattina mi alzo, prendo il motorino e vengo a lavorare al Ratanà , in zona Isola. Nel pomeriggio vado alla scuola per sommelier, poi torno al ristorante e ci resto fino all’una di notte». Ritmi faticosi.
Pesano? «Non mi lamento – risponde –. Milano mi ha dato l’occasione della vita, mi ha insegnato a lavorare».
Il manager Mattia Mor l’ha scoperto per caso e subito coinvolto nel suo progetto #hosceltomilano.
«È una delle storie personali più belle che ho sentito», ha detto, registrando il suo video con gli altri 130 che compongono il mosaico di testimonianze sulle opportunità che Milano ha regalato a chi le ha potute, o sapute, raccogliere.
Per Saif l’inizio è stato molto difficile.
In Bangladesh la sua è una famiglia di contadini. I genitori non riuscivano a mantenere i tre fratelli. Così, a 18 anni, Saif è partito ed è arrivato a Milano, dove un connazionale all’inizio lo ha ospitato. Un monolocale in cinque.
«Era dicembre, prima di Natale. Non sapevo una parola di italiano, non avevo i documenti, e neanche la giacca e i guanti. Mi svegliavo all’alba, correvo all’Ortomercato a prendere i fiori, toglievo tutte le spine dalle rose e andavo in giro a venderle. Me lo ricordo, quel primo mese. Nevicava tantissimo».
Non sono tutti gentili, con chi vende per strada. «Mi vedevano ragazzino magro, senza niente. Qualcuno mi allungava delle monete e non voleva i fiori in cambio ma io davo lo stesso loro una rosa. Nella vita ci vuole eleganza, dignità . Io facevo un lavoro e speravo che quei fiori servissero a qualcuno».
Lungo la strada, nel quartiere Brera in cui Saif girava di sera con le sue rose, dopo qualche mese lo nota il proprietario di una pizzeria.
Gli propone di fare da lui una settimana di prova come lavapiatti. Saif se la cava egregiamente. Il ristoratore, colpito, lo tiene con sè al lavoro per un altro mese, dopo qualche tempo lo «promuove» aiuto cuoco.
«Il mio sogno era servire in sala ma invece dovevo rimanere nascosto per non mettere nei guai nessuno, visto che non avevo i documenti per stare in Italia», dice lui.
Nel 2012, dopo due anni a Milano, una sanatoria gli permette di mettersi in regola. A quel punto però entra in crisi la pizzeria in cui aveva trovato lavoro. Il ristoratore dimezza il personale, lo lascia a casa.
Saif torna alle rose. «In un internet point ho scritto il curriculum, quello che guadagnavo con i fiori lo spendevo per farne tantissime copie».
Ne ha distribuiti a centinaia in giro, personalmente. Dal quartiere Brera, è arrivato anche all’Isola. «Ho incontrato Cesare e Federica, i proprietari del Ratanà . A loro devo dire tutta la vita: graziemente», dice, inventandosi una crasi tra «grazie» e «veramente».
«Mi hanno dato fiducia. Mi hanno incoraggiato a migliorare studiando».
Saif si volta verso il Bosco Verticale, alza la testa e guarda in alto.
Hai un sogno?
«Continuare così».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
MA LA BICI E’ SUA: “COSTRETTO A GIRARE CON LO SCONTRINO”… FERMATO TRE VOLTE ALLA STAZIONE DI PORTA NUOVA SOLO PERCHE’ DI PELLE NERA, I DELINQUENTI ITALIANI LIBERI DI CIRCOLARE
Un adolescente con la pelle nera, a Torino, può possedere una bici pieghevole, stesso modello e valore di quelle usate dai giovani in carriera per spostarsi in centro?
Quanto è accaduto a un diciannovenne, che chiameremo Cheikh, senegalese, fa capire che, almeno per ora, sarebbe meglio di no. Il rischio costante è di passare per ladro di biciclette.
Cheikh è arrivato in Italia tre anni fa – «minore straniero non accompagnato» -, è entrato in un progetto Sprar per i rifugiati, ha imparato l’italiano, si è formato come idraulico.
In febbraio la Pastorale Migranti della Diocesi ha proposto a una giovane coppia, che si era resa disponibile per il progetto «Rifugio diffuso», di accoglierlo.
In questa famiglia, che vive nei dintorni di Torino, Cheikh si fa subito voler bene.
Marito e moglie cercano di aiutarlo a rendersi autonomo, il dono di una bici pieghevole ha l’obiettivo di facilitarlo nel raggiungere il suo posto da apprendista.
Cheikh ogni giorno prende il treno per arrivare a Torino e porta con sè la bici.
Pochi giorni fa il giovane è alla stazione di Porta Nuova.
«Avevo qualche minuto per chiedere un’informazione sugli abbonamenti all’ufficio Gtt. Sono entrato, lasciando la bici fuori. Ho chiesto a un ragazzo di guardarmela – racconta Cheikh -, quando sono uscito il ragazzo se n’era andato, ma aveva passato la consegna a una ragazza. Mancavano cinque minuti alla partenza del treno, ho preso in fretta la bici e sono andato verso il binario».
È stato allora che si è sentito afferrare.
«Erano in tre, tre agenti. Mi hanno preso la bici e bloccato le braccia. Mi hanno detto “Di chi è? Non è tua”. Poi, mi hanno trascinato all’ufficio Gtt».
Dentro, il peggio. «Hanno domandato di chi era la bicicletta – ricorda Cheikh -, se fosse stata rubata a qualcuno. Credo che se fossi stato un ragazzo bianco, mi avrebbero chiesto i documenti, magari lo scontrino della bici. Hanno tutto il diritto di controllare, è il loro lavoro. Ma di fronte a tutti mi hanno trattato come se avessi ammazzato qualcuno. Io li pregavo di telefonare ad Anna, la signora da cui abito. Al Gtt ci guardavano, nessuno ha detto niente. Allora mi hanno lasciato andare».
In pericolo
Anna (nome di fantasia, nella realtà è una consulente finanziaria, il marito è insegnante) interviene: «Immaginarsi se un disonesto avesse detto “Sì, la bici è mia”. Cheikh era impaurito, gli hanno anche preso il cellulare. Quando è arrivato a casa, era abbattuto, triste. Ed ero mortificata anch’io».
Aggiunge: «Certo, abbiamo ragionato, ci siamo detti che quei poliziotti ogni giorno hanno a che fare con africani che spacciano. Ma il pregiudizio non può arrivare al punto che un ragazzo con la pelle nera non possa avere una bella bici e che non possa mettersi a correre per prendere il treno. Con mio marito stiamo pensando che forse con questo regalo non stiamo facendo il bene di Cheikh, lo abbiamo messo in una situazione pericolosa».
Il perchè lo spiega ancora Anna: «Qualche tempo fa, mentre era in treno, un ragazzo bianco è passato e gli ha preso la bici. Cheikh l’ha inseguito e quello gli ha detto: “Ma è tua? Pensavo fosse abbandonata”.
Un’altra volta un uomo, per strada l’ha fermato: “Questa bici è di un mio collega, gliel’hanno rubata ieri. Ora lo chiamo perchè venga a vederla”.
Cheikh deve girare con lo scontrino».
Anna riflette: «Quando in febbraio mi hanno chiamata dalla Diocesi, stava per nascere mia figlia. Ho riflettuto un momento, poi ho detto sì. Ora Cheikh gioca con il nostro bimbo di tre anni, aiuta in casa, ci considera il suo punto di riferimento».
Marcella Rodino, operatrice della Pastorale Migranti cura il progetto che rientra nei percorsi Sprar del Comune di Torino: «Noi cerchiamo di seminare inclusione, trovando famiglie disposte ad accompagnare questi ragazzi verso l’autonomia. Mi ha colpita una frase di Cheikh. “Mi trattano come un figlio – ha detto -, ma io resterò nero tutta la vita”».
(da “La Stampa”)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
PD DEFILATO, PRIMO TEST PER LA RAGGI… IL M5S AVEVA PRESO IL 43,6%… E IL CAPO DELLA FAMIGLIA SINTI SOSPETTATA DI TRAFFICI ILLECITI INVITA A VOTARE CASAPOUND
Parlano tutti dei siciliani, ma fra cinque giorni andranno a votare anche i romani.
Tanti: quasi duecentomila elettori, quelli periferici e litoranei che vivono nel quartiere di Ostia e che dopo due anni di commissariamento per mafia, eleggeranno il presidente della decima circoscrizione.
Certo, Ostia è come se fosse un’isola sulla terraferma, distante una trentina di chilometri dal centro di Roma, con problemi tutti suoi, di criminalità pervasiva, problemi lasciati marcire e in qualche modo rappresentati dagli originalissimi sfidanti per la guida della circoscrizione.
Una campagna elettorale appartata, seguita con notevole distrazione dai media, anche se nelle ultime ore un endorsement è destinato ad accendere i riflettori: con un post su Facebook, Roberto Spada – della famiglia sinti sospettata dagli inquirenti di muovere diversi “traffici” – ha invitato a votare per Luca Marsella, il candidato dei «fascisti del terzo millennio», come si definiscono i ragazzi di Casa Pound.
E lo ha fatto con queste parole: «Sento dai cittadini tutti la stessa cantilena: Qua sto’ periodo se vedono tutti sti politici a raccontarci barzellette, mai visti prima, e dopo le votazioni torneranno tutti a farsi i fatti propri… gli unici sempre presenti sono quelli di Casa Pound».
Un intervento che non è una novità , ma che accresce l’interesse per il risultato di queste elezioni localissime anche se la notte del 5 novembre gli occhi degli italiani misureranno anzitutto un dato: un anno e mezzo dopo l’elezione di Virginia Raggi, quale sarà il giudizio sulla loro sindaca da parte dei romani del mare che nel 2006 votarono al 43,6% per i Cinque stelle, percentuale record?
La sfida di Ostia è stata affrontata dai partiti con tratti di forte originalità .
Per primo si è lanciato nella mischia don Franco De Donno, un battagliero viceparroco di 71 anni che si è sospeso a divinis e sta cercando di conquistare consensi con slogan solo apparentemente naif. Don Franco maneggia con semplicità il linguaggio politico («sussidiarietà », «giustizia sociale») e indica con coraggio come «nostri acerrimi nemici» quelli che «hanno imposto l’illegalità in una parte del territorio».
Con lui le forze di sinistra e anche il pathos popolare dei suoi seguaci.
Quello che manca al Pd: correndo da solo, sta calamitando le invettive convergenti degli altri. A guidare le truppe è stato chiamato da Roma un personaggio “preistorico” come Athos De Luca: 71 anni (magnificamente portati), entrato nel consiglio comunale di Roma 28 anni fa.
Nella prima intervista tv, le sue prime parole sono state: «Io amo molto Ostia perchè amo molto il mare». De Luca, pur non avendo mai abitato da queste parti, si è generosamente offerto dopo che il Pd si era dilaniato e aveva vinto la linea del no anche ad una coalizione con i Centristi della ministra Beatrice Lorenzin (che è di queste parti) e che ha candidato il giornalista Andrea Bozzi, alla guida di una lista sostenuta da imprenditori, una delle possibili sorprese del voto.
Da soli corrono anche i Cinque stelle con Giuliana Di Pillo, insegnante di sostegno all’Istituto Fanelli, che ha pensato di fronteggiare il malcontento, con un annuncio via Facebook all’inizio della campagna elettorale: «Questa settimana sono iniziati i lavori per la manutenzione delle strade nel decimo Municipio».
Da allora compiacimento ed ironie sul tempismo sospetto si sono intrecciati.
Ad Ostia, come in Sicilia, i favoriti sono quelli del centrodestra, che confidano in Monica Picca, vicepreside: «Sono la signora del fare», «pugno duro col Campidoglio», «sulla facciata del Municipio vorrei le immagini di Falcone e Borsellino».
Se si andrà al ballottaggio Cinque Stelle-destra, decisivi saranno quelli di Casa Pound, accreditati di un buon risultato: da anni osteggiano gli stranieri e difendono gli sfrattati delle case popolari, i cui veri “proprietari” occulti – dicono a Ostia – sono i padrini della mafia locale. E l’altro giorno per sostenerli è arrivata anche la showgirl Nina Moric.
Siamo a posto.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
“PER INDOLE NON REAGIAMO MAI, CI ATTACCANO PERCHE’ SONO DEI VIGLIACCHI. E MANDANO AVANTI I MINORENNI”
«La verità è che siamo troppo buoni. Noi, per indole, non reagiamo quasi mai, e non scappiamo nemmeno. Per questo i bengalesi sono sempre fra le vittime delle aggressioni, specialmente quelle razziste. Ma adesso è ora di finirla, cosa dobbiamo fare? Andare a picchiare chi ci minaccia e ci insulta?».
Siddique Nure Allam, per tutti Bachcu, sa che il pestaggio del povero Kartik Chombro non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo.
Solo nel 2017 i connazionali pestati a sangue sono stati quattro — almeno quelli finiti poi sui giornali -, ma gli episodi di violenza e sopraffazione nei confronti di appartenenti alla comunità sono all’ordine del giorno.
Basti pensare al commerciante ferito poche settimane fa a colpi di pistola alle gambe per aver affrontato un paio di rapinatori nel suo bazar all’Aurelio.
«Paghiamo perchè una certa politica — e non solo di estrema destra — dipinge l’immigrato come un poco di buono, un delinquente che vive sulle spalle degli italiani, ma non è così», dice ancora Bachcu, da quasi 20 anni alla guida di Dhummcatu, l’associazione dei bengalesi di Roma protagonista di proteste e manifestazioni per i diritti dei lavoratori stranieri. «Di conseguenza i ragazzi romani, specialmente quelli giovanissimi, si sentono protetti e direi quasi autorizzati a picchiarci».
Un lavapiatti da trent’anni a Roma con i figli studenti universitari ormai italiani, un giovane agricoltore che ha avviato un’azienda tutta sua, un commerciante ambulante che ha fatto arrivare la moglie da Dakka.
Sono le vittime delle ultime aggressioni a sfondo razziale e di bullismo fra Tor Bella Monaca, Anzio e Don Bosco prima di quella di Chombro a piazza Cairoli sabato scorso. «Noi pensiamo solo a lavorare, non vogliamo creare problemi. A Roma e provincia siamo 35 mila. Per cultura non siamo portati ad aggredire, a confrontarci con i violenti — spiega Bachcu — e anche quanto accaduto di recente ci scoraggia dal farlo: a Torpignattara, ad esempio, alcuni commercianti hanno provato a bloccare dei teppisti che li insultavano. Sapete come è finita? Si sono beccati loro una denuncia per rissa. Insomma, meglio lasciar perdere».
Ma il leader dei bengalesi ha anche un’altra teoria sul perchè da qualche mese bande di ragazzetti, spesso minorenni, non esitano a prendersela con un connazionale quando lo incrocia per strada.
«I movimenti di estrema destra mandano avanti loro perchè è più difficile perseguirli. E’ un trucco per non essere mai colpevoli. E sono vigliacchi perchè se la prendono con chi non reagisce. Sanno bene che attaccare nigeriani o nordafricani non è così facile: allora sì che le prenderebbero. Ma da noi no, almeno non è successo ancora», avverte Bachcu, che per oggi ha indetto «una riunione della nostra associazione per affrontare la situazione dopo il pestaggio di Kartik e organizzare quantomeno un presidio di solidarietà e protesta in piazza Cairoli. Roma sta diventando troppo violenta per noi. Ci sono interi quartieri dove è ormai rischioso farsi vedere in giro. Penso alla zona fra Quadraro, Arco di Travertino e Porta Furba ma anche a Porta Maggiore, Tor Bella Monaca e via Prenestina».
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
PER UNA RAGAZZA STUPRATA NON PIU’ DI 4.800 EURO, PER L’UCCISIONE DOLOSA AL MASSIMO 8.200 EURO
In Italia la tutela indennitaria delle vittime di reati intenzionali violenti (omicidi e lesioni personali “comuni”, violenze sessuali) non ha mai costituito una priorità per nessun governo.
Neppure per l’attuale Esecutivo: il decreto ministeriale di Minniti, Orlando e Padoan, in vigore dallo scorso 11 ottobre, offende le vittime stabilendo degli indennizzi ridicoli, autentici oboli statali.
Per l’uccisione dolosa il decreto riconosce ai famigliari un massimo di euro 8.200. Ad una ragazza stuprata spettano non più di euro 4.800.
Italia da sempre inadempiente verso le vittime
Per apprezzare la gravità della presa in giro operata dal decreto occorre considerare le precedenti tappe. La Convenzione europea del 1983, intervenuta per prima a tutelare le vittime laddove non risarcite dai rei, non fu ratificata dall’Italia e non lo è ancora oggi.
Nel 2002 la Commissione Europea, attivatasi per rafforzare la tutela delle vittime, tenne le audizioni finali sul Libro Verde Risarcimento alle vittime di reati. Per l’Italia non partecipò nessun rappresentante. Il ministro Castelli addusse “la necessità di operare dolorose selezioni degli impegni” a fronte di “una disponibilità limitata di risorse umane”.
La direttiva 2004/80/CE sancì poi per ogni Stato il dovere di garantire un “indennizzo equo ed adeguato” alle vittime di reati intenzionali violenti occorsi sul suo territorio, allorquando impossibilitate ad ottenere un risarcimento dal reo in quanto privo di risorse economiche od ignoto.
La direttiva fissò due termini: entro il 1° luglio 2005 l’Italia avrebbe dovuto attuare il suo “sistema di indennizzo nazionale” per tutte le vittime di crimini occorsi sul suo territorio (sia quelle residenti che quelle in transito); entro il 1° gennaio 2006 avrebbe dovuto approvare le procedure per facilitare le vittime straniere nell’accesso a tale sistema. L’Italia non rispettò tali termini.
L’Italia già condannata nel 2007
Nel 2007 la Corte di Giustizia emise una prima condanna, ma i governi successivi continuarono a non apprestare il sistema di indennizzo nazionale.
Le vittime iniziarono a fare causa alla Presidenza del Consiglio dei ministri in base al principio per cui i cittadini hanno diritto ad agire contro il proprio Stato che non attua le disposizioni comunitarie. Nel 2010 il Tribunale di Torino condannò la Presidenza del Consiglio del governo Berlusconi a risarcire una ragazza sequestrata e violentata da due aguzzini poi scappati. Seguirono altre pronunce simili.
A stimolare l’adempimento non servì neppure la Convenzione di Istanbul (2011) che impone di assicurare alle vittime di violenze sessuali o domestiche “un adeguato risarcimento… se la riparazione del danno non è garantita da altre fonti, in particolare dall’autore del reato, da un’assicurazione o dai servizi medici e sociali finanziati dallo Stato”. Eppure la ratifica della Convenzione fu celebrata in pompa magna da Parlamento e Governo.
La nuova condanna dell’Italia
Nel 2011 la Commissione Ue, dinanzi alle denunce di vittime lasciate senza un indennizzo “in situazioni nazionali o transfrontaliere”, avviò una nuova procedura di infrazione contro l’Italia. Nel 2014, insoddisfatta dalle nostre risposte, la stessa avviò il deferimento alla Corte di Giustizia, ribadendo che “l’indennizzo dovrebbe essere possibile tanto nelle situazioni nazionali quanto in quelle transfrontaliere”.
L’Italia sostenne che la direttiva non l’avrebbe obbligata a garantire indennizzi per tutti i reati dolosi violenti e non sarebbe valsa per i suoi cittadini, discriminabili in peius rispetto agli stranieri in transito nel nostro Paese. In pratica l’Italia tentò di sottrarsi alla condanna con una tesi assurda: la direttiva non avrebbe protetto le persone lese nel proprio Stato di residenza. Per esempio, secondo il governo Renzi, la direttiva lo avrebbe legittimato a discriminare fra una ragazza italiana e una turista olandese violentate sul nostro territorio, lasciando la prima priva di tutela e proteggendo solo la straniera.
La Corte ha respinto questa tesi con sentenza dell’11 ottobre 2016: la direttiva “mira a garantire al cittadino dell’Unione il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova…, imponendo a ciascuno Stato… di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio”.
La legge del 2016: ancora nessun indennizzo per le vittime
Nel luglio 2016 il Parlamento, per scongiurare la condanna della Corte, licenziò la legge n. 122, che dichiarava di introdurre la tutela prevista dalla direttiva. Sennonchè per l’accesso agli indennizzi la legge prevedeva intralci vessatori; soprattutto rinviava la determinazione delle indennità ad un decreto da emanarsi entro sei mesi.
Dunque non corrispondeva al vero quanto riportato dal comunicato stampa del ministro Orlando all’indomani della condanna: “Indennizzo vittime reati: sentenza Corte Ue su norme precedenti, ora Italia in regola”. Mancando ancora il decreto ministeriale, l’Italia non era in regola! Però il ministro ammetteva “il sacrificio ai diritti individuali che in tutti questi anni si è consumato” malgrado il “principio secondo il quale tutti i crimini violenti intenzionali devono dare accesso a un indennizzo”.
Dinanzi a queste dichiarazioni ci si sarebbe aspettati un’emanazione tempestiva del decreto, invece firmato soltanto il 31 agosto 2017, poi pubblicato il 10 ottobre.
Gli importi del decreto-beffa
Ritardi a parte, la doccia fredda sono gli importi meschini individuati dai ministri: per l’omicidio doloso la somma fissa di euro 7.200 da dividersi fra tutti i superstiti (8.200 per l’omicidio commesso dal coniuge o da persona legata da relazione affettiva); per la violenza sessuale euro 4.800; per le lesioni personali dolose solo la rifusione delle spese mediche/assistenziali entro il massimo di euro 3.000, senza differenza tra una persona con una cicatrice ed un tetraplegico.
I soldi non restituiscono le persone, la salute o la dignità . Però il legislatore Ue ha imposto di riconoscere indennizzi “equi ed adeguati”. Equità ed adeguatezza sono concetti relativi da confrontarsi con gli standard risarcitori e indennitari esistenti. Anche a non considerare i livelli dei risarcimenti (incommensurabilmente superiori) emergono impressionanti differenze con altri indennizzi: ai famigliari della vittima di terrorismo o della criminalità organizzata è data la somma di euro 200.000,00; agli eredi delle vittime del disastro (colposo!) del Cermis del 1998 fu riconosciuto l’importo di euro 1.960.000,00 per persona deceduta.
eraltro, l’assenza di tutela delle vittime di lesioni personali (salvo il limitato rimborso delle spese mediche) stride con la legge n. 117/2014 che appresta rimedi risarcitori per i detenuti con stanziamenti maggiori a quelli previsti per le vittime. Il carcerato costretto in una cella angusta può aspirare ad un risarcimento che non è garantito alla sua vittima, magari relegata a letto per il resto della sua vita. La tutela del primo è sacrosanta; ma dovrebbe risultare tale anche quella della vittima e dei suoi famigliari.
In definitiva il decreto è iniquo e pure perverso: nella consapevolezza di avere istituito un percorso ad ostacoli e requisiti assurdi (per esempio la persona stuprata può accedere all’indennizzo solo se non ha ricevuto aiuti economici di sorta, neppure dai suoi famigliari), pone alla fine dell’iter delle somme grottesche, tali da non giustificare costi e sforzi per conseguirle.
Tutto ciò non potrà che offendere le vittime e costringerle a nuove cause, giacchè è certo che gli indennizzi previsti non sono equi ed adeguati. Ma intanto questo sarà un problema per i prossimi governi e parlamentari, ragionamento che accompagna i nostri politici in ogni ambito.
(da “il Fatto Quoitidiano“)
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Ottobre 31st, 2017 Riccardo Fucile
E’ IL PRIMO MEMBRO DELLO STAFF DI TRUMP A RICONOSCERE UFFICIALMENTE DI AVER COLLABORATO CON I RUSSI PER DANNEGGIARE HILLARY CLINTON… IMMORTALATO SU TWITTER
La parola d’ordine, alla Casa Bianca, è minimizzare. Negare.
Come ha detto ai giornalisti la portavoce di Donald Trump, Sarah Huckabee Sanders: Paul Manafort è stato capo della campagna di Trump “soltanto per alcuni mesi, il tempo necessario a vincere le primarie”; e George Papadopoulos era “un collaboratore volontario”.
In realtà le carte che hanno portato all’incriminazione di tre tra i collaboratori/consulenti/amici del presidente dipingono un quadro schiacciante dei rapporti tra l’attuale presidente e Mosca, oltre a scoperchiare un quadro terrificante di interessi segreti. Il silenzio e l’imbarazzo di molti deputati e senatori repubblicani, di fronte alle rivelazioni, sono un segnale della gravità della situazione.
Iniziamo dalla questione Paul Manafort.
La difesa ufficiale della Casa Bianca è che si tratti di fatti vecchi, che comunque non c’entrano con la politica e soprattutto con la campagna presidenziale. Si tratta di una difesa debole.
Se davvero Manafort, insieme al suo socio Rick Gates, ha riciclato milioni di dollari, creando conti offshore e sottraendo quei soldi al fisco americano, la cosa ha un indubbio valore politico. Quei soldi vennero infatti dati a Manafort dal partito filo-russo di Viktor Yanukovich — per attività di lobbying e per un periodo che va dal 2005 al 2016, quindi ben dentro la campagna presidenziale di Trump.
Se il Cremlino sapeva di quei milioni di dollari, se sapeva dell’attività di evasione e riciclaggio di Manafort, questo poteva costituire un indubbio elemento di ricatto, intrusione, manipolazione nella campagna del candidato repubblicano.
Vanno inoltre ricordati altri due fatti. Il primo: Manafort partecipò al meeting del giugno 2016 alla Trump Tower con un’avvocatessa legata al Cremlino — meeting che ha fatto sorgere sospetti di collaborazione stretta tra team di Trump e russi. Il secondo: se Manafort lasciò la campagna di Trump nell’agosto 2016, Rick Gates rimase consulente fino alla fine; fece parte del comitato di inaugurazione, per poi diventare un visitatore regolare della Casa Bianca.
La questione legata a George Papadopoulos è, da un punto di vista politico, ancora più significativa.
Papadopoulos è infatti il primo collaboratore di Trump a riconoscere esplicitamente e ufficialmente di aver collaborato con i russi per raccogliere materiale compromettente contro Hillary Clinton. Non solo.
Papadopoulos ha lavorato per far incontrare Trump e Vladimir Putin e per stabilire una linea di rapporti privilegiati tra la campagna del candidato repubblicano e Mosca.
Fu imbarcato nel team Trump a inizi marzo 2016: non come semplice “volontario”, come dice oggi la Casa Bianca, ma con espressioni di giubilo da parte del futuro presidente per il suo team di esperti (c’è anche una foto, twittata da Trump, che mostra Papadopoulos seduto allo stesso tavolo di Trump, intento a discutere di “questioni internazionali”).
Oggi Papadopoulos viene incriminato, e patteggia, per un’accusa gravissima: “aver ostacolato l’indagine dell’Fbi sull’esistenza di legami e forme di coordinamento tra membri della campagna e gli sforzi del governo russo per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016”.
Ma osserviamo più da vicino la figura di Papadopoulos. Non ha nemmeno trent’anni quando viene assunto da Trump.
E’ un greco-americano, con un master alla University of London e un passato di consulente per un altro candidato repubblicano alle primarie, Ben Carson.
Quando entra nel team Trump, il suo compito è chiaro: occuparsi dei rapporti con la Russia.
Papadopoulos si mette a lavorare alacremente. Poche settimane dopo essere stato assunto, Papadopoulos vola a Roma, dove incontra un “professore”, così lo definiscono le carte processuali, che in realtà è Joseph Mifsud, ex funzionario diplomatico maltese, oggi in forza alla London Academy of Diplomacy.
Mifsud non pare molto interessato a stabilire un contatto con Papadopoulos, sino a quando non viene a conoscenza del fatto che il giovane è nel team di Trump. Il 24 marzo i due si incontrano ancora a Londra.
Il “professore” porta con sè una cittadina russa che Papadopoulos descrive in una email come la “nipote di Putin” (in realtà , Putin non ha nipoti). In risposta all’email, un supervisor della campagna di Trump scrive: “Gran lavoro”.
Il 31 marzo Papadopoulos vola a Washington e prende parte al meeting immortalato dalla foto su Twitter. In quell’occasione, spiegano fonti dell’Fbi, dice che potrebbe arrivare a organizzare un incontro tra Trump e Putin.
Tornato a Londra, Papadopoulos si dedica all’organizzazione dell’incontro. Scrive alcune email alla presunta nipote di Putin e al “professore”.
Il 18 aprile il “professore” gli risponde con un messaggio da Mosca, in cui mette in contatto Papadopoulos con un “individuo influente” per i suoi legami con il ministero degli affari esteri russo.
L’“individuo influente” risulta essere Ivan Timofeev, cittadino russo che lavora per l’International Affairs Council e per il Valdai Discussion Club, un istituto che organizza incontri annuali tra accademici occidentali e Putin.
Ancora una volta a Londra, Papadopoulos e Joseph Mifsud si incontrano. Il professore dice che “i russi hanno cose sporche su Hillary Clinton… migliaia di email”.
Dopo quell’incontro, i due continuano a comunicare; come continuano le comunicazioni che Papadopoulos ha ormai sviluppato, grazie a Timofeev, con funzionari del ministero degli esteri russo.
In ben sei occasioni, Papadopoulos scrive a Washington e chiede alla campagna di Trump di far incontrare il candidato con politici russi. Dice che i russi saran ben contenti di ospitarlo. Si offre per andare a Mosca e preparare il viaggio. Paul Manafort gli risponde che “Trump non farà questi viaggi. Dovrebbe essere qualcuno di più basso livello nella campagna a farli, in modo da non mandare segnali”.
Il resto è cosa risaputa. In estate comincia la pubblicazione da parte di Wikileaks delle email di Clinton. E l’agenzia di intelligence britannica GCHQ avverte la Cia che ci sono stati incontri tra funzionari di Trump e gente dell’intelligence russa.
L’inchiesta si sviluppa, fino alla conclusione cui giungono lo scorso gennaio tutte le agenzie di intelligence USA: c’è stato un tentativo da parte del Cremlino di ingerire nelle elezioni americane e far vincere Donald Trump. Papadopoulos potrebbe essere proprio uno degli elementi di collegamento tra Mosca e Washington. Va comunque ricordata una cosa: le eventuali “collusioni” con membri del Cremlino non è, in sè, un reato.
Papadopoulos è stato infatti incriminato non per aver stabilito quei contatti, ma per aver mentito all’Fbi: il giovane collaboratore di Trump ha infatti in un primo tempo testimoniato di aver intrattenuto legami con funzionari russi prima di entrare nella campagna di Trump. In questo senso, ha “ostacolato l’indagine dell’Fbi”.
Ciò non toglie che la figura di Papadopoulos diventi ora una minaccia drammatica per la sopravvivenza politica di Trump.
Questo trentenne greco-russo è la prova che contatti di alto livello con i russi ci furono — e che furono organici. Papadopoulos potrebbe aver fatto i nomi di altri membri importanti del team Trump, che parteciparono a quella rete di incontri e abboccamenti. Questa rete — insieme ai milioni fatti transitare nei conti di Manafort — potrebbe rivelarsi così tossica per la sicurezza americana da condurre a un’altra decisione (anche questa tutta politica): e cioè la richiesta di impeachment per Donald Trump.
(da “Huffingtonpost”)
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