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LA CORTE COSTITUZIONALE RESPINGE IL RICORSO DEL VENETO SUI VACCINI, LA BRUTTA FIGURA DI ZAIA

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

NONOSTANTE UN SACCO DI LAUREATI DELL’UNIVERSITA’ DELLA STRADA CI DICESSERO CHE LA LEGGE ERA INCOSTITUZIONALE, L’UNICO ORGANISMO DEPUTATO A DIRLO HA DECISO CHE NON LO ERA

La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate tutte le questioni prospettate nei ricorsi della Regione Veneto sull’obbligo dei vaccini. Secondo i giudici costituzionali, le misure in questione rappresentano una scelta spettante al legislatore nazionale. Lo ha deciso la Corte Costituzionale al termine della camera di consiglio.
La Corte Costituzionale “ha dichiarato non fondate tutte le questioni prospettate”.
Così ha risposto la Consulta in merito al ricorso della Regione Veneto sul decreto legge n. 73 del 2017, convertito nella legge n. 119 del 2017, in materia di vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a 16 anni di età . In una nota si ricorda che le “questioni sottoposte alla Corte costituzionale non mettevano in discussione l`efficacia delle vaccinazioni — attestata dalle istituzioni a ciò deputate (Organizzazione mondiale della sanità ; Istituto superiore di sanità ) e da una lunga serie di piani nazionali vaccinali — ma la loro obbligatorietà , sospesa dalla Regione Veneto con una legge del 2007 che aveva introdotto un sistema di prevenzione delle malattie infettive basato solo sulla persuasione”. Insomma “secondo i giudici costituzionali, le misure in questione rappresentano una scelta spettante al legislatore nazionale.
Questa scelta non è irragionevole, poichè volta a tutelare la salute individuale e collettiva e fondata sul dovere di solidarietà  nel prevenire e limitare la diffusione di alcune malattie”.
E quindi “la Corte ha considerato tra l`altro che tutte le vaccinazioni rese obbligatorie erano già  previste e raccomandate nei piani nazionali di vaccinazione e finanziate dallo Stato nell`ambito dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea). Inoltre, il passaggio da una strategia basata sulla persuasione a un sistema di obbligatorietà  si giustifica alla luce del contesto attuale caratterizzato da un progressivo calo delle coperture vaccinali”. Poi è “stato altresì considerato che la legge di conversione ha modificato il decreto legge riducendo sensibilmente le sanzioni amministrative pecuniarie e prevedendo che, in ogni caso, debbano essere precedute dall`incontro tra le famiglie e le autorità  sanitarie allo scopo di favorire un`adesione consapevole e informata al programma vaccinale. Infine, la mancata vaccinazione non comporta l`esclusione dalla scuola dell`obbligo dei minori, che saranno di norma inseriti in classi in cui gli altri alunni sono vaccinati”.
Luca Zaia, il primo sconfitto
Il primo sconfitto della vicenda è Luca Zaia, governatore del Veneto, il quale aveva prima provato a disapplicare la legge con un provvedimento che poi ha ritirato prima che il Consiglio di Stato lo seppellisse nel parere che lo stesso Veneto aveva chiesto. Poi ha tentato la via della Corte che oggi gli ha dato torto.
Insieme a Zaia tra gli sconfitti c’è quella lunghissima pletora di politici laureati in giurisprudenza all’università  della strada che o per raccattare i voti dei gonzi o proprio perchè non ci arrivano hanno per molto tempo biascicato le loro sentenze sull’incostituzionalità  della legge: anche loro erano in torto.
Ma non si scuseranno perchè saranno impegnati a cavalcare domani l’ennesima bufala.

(da “NextQuotidiano”)

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ALESSANDRO FERRO, IL SINDACO DEL M5S CHE NON SA PERCHE’ E’ INDAGATO

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

IL SINDACO DI CHIOGGIA FORSE FAREBBE BENE A LEGGERE I GIORNALI… SI TRATTA DI UNO STABILIMENTO BALNEARE GESTITO DA UNA SOCIETA’ DI CUI FERRO ERA SOCIO E AFFIDATOGLI SENZA GARA PUBBLICA

Alessandro Ferro, sindaco di Chioggia del MoVimento 5 Stelle, ha pubblicato su Facebook un post in cui annuncia di essere indagato per abuso d’ufficio.
Dice di averlo pubblicato in nome della trasparenza ma sostiene di non sapere per cosa è indagato. In effetti, avendo ricevuto soltanto una richiesta di proroga d’indagini è possibile che non siano illustrate le accuse nei confronti di Alessandro Ferro.
Tuttavia è facilmente intuibile a cosa si riferisca la proroga d’indagine.
Tutto parte da Ultima Spiaggia, uno stabilimento balneare gestito da una società  di cui Ferro era socio di capitale che era stato affidato senza gara pubblica nel 2014, quando non era ancora sindaco.
Una società  concorrente, la Chiara SRL, ha fatto ricorso al TAR contro la decisione e ha vinto prima davanti al tribunale amministrativo regionale e poi davanti al Consiglio di Stato.
Il Comune di Chioggia però non ha mai messo a gara la spiaggia.
All’epoca, racconta La Nuova Venezia, sulla vicenda, presentarono un esposto dei consiglieri di opposizione.
Quindi diversi elementi concorrono a identificare quella vicenda come «l’abuso d’ufficio» di cui parla Ferro.
Il GIP potrebbe non concedere la proroga d’indagine: a quel punto la procura dovrà  decidere se chiedere o meno il rinvio a giudizio o archiviare tutto.

(da “NextQuotidiano“)

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IL MAROCCHINO CHE HA TROVATO IL BIMBO PER STRADA: “I GENITORI NON MI HANNO RINGRAZIATO? VA BENE COSI'”

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

L’UOMO HA SUBITO CHIAMATO I CARABINIERI: “MIA MOGLIE E’ MORTA E ALLEVO I MIEI DUE RAGAZZI DA SOLO, QUEL PICCOLO POTEVA ESSERE MIO FIGLIO”

Ad accorgersi del piccoletto è stato suo figlio Mohammed, attaccante tredicenne del Montà , quando è rientrato dalla partita di calcio di domenica.
«Papà , qui fuori c’è un bambino da solo. È normale?».
Abdelouamed stava preparando il pranzo in cucina, è uscito subito fuori e si è trovato un bambino di due anni e mezzo, senza cappottino o giubbotto, che girovagava da solo per strada con la faccia un po’ spaesata.
«Dov’è la tua mamma?», gli ha chiesto. Per tutta risposta quello gli ha preso la mano, forse per farsi riaccompagnare a casa. Ma si capiva che non sapeva dove andare. Abdelouamed è rimasto ancora un po’ fuori con lui, sperando di trovare i genitori, poi ha chiamato subito i carabinieri del comando provinciale di Padova.
L’arrivo dei carabinieri
Sono stati loro, con l’antico metodo del campanello (hanno suonato ad ogni porta finchè non hanno trovato qualcuno che riconoscesse il bambino) a riconsegnare il pargolo agli ignari genitori, che erano usciti a comprare i regali di Natale affidando il più piccolo al fratello maggiore quindicenne.
I due sono stati segnalati ai servizi sociali e denunciati per abbandono di minore, anche se in realtà  contavano sulla vigilanza del figlio più grande.
Il pensiero di un padre
Forse è per questo che non hanno neanche detto grazie a Abdelouamed Sarour, 48 anni di Casablanca, da ventuno in Italia dove sono nati i suoi due figli, Mohammed, 13 anni, e Ines, di undici.
«Quando ho visto il bambino da solo ho agito da padre, senza pensare a un grazie o a una ricompensa», racconta al telefono. «Si capiva che era uscito di casa all’improvviso, perchè non era coperto. Ho temuto che sua madre si fosse sentita male o che fosse caduta in cucina. Ho provato a farmi indicare la strada da lui, ma quando ho capito che non sarebbe riuscito a mostrarmela ho chiamato subito i carabinieri, non potevo fare altro. L’ho fatto sedere in una sedia vicino a casa mia e ho aspettato che arrivassero i militari».
«Era naturale aiutarlo»
Abdelouamed, operaio in una ditta di stampaggio, ripete di averlo «fatto con piacere»: «Era una cosa naturale. Mia moglie è morta per un tumore tre anni fa e sto crescendo da solo i miei due figli. Sono un padre, poteva essere mio figlio».
La verità  è che poteva finire in molti modi.
Grazie a lui è finita bene.

(da “Il Corriere della Sera”)

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MDP E SINISTRA ITALIANA CHIUDONO AL PD: TEMPO SCADUTO”

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

“IL 3 DICEMBRE LANCEREMO LA NOSTRA LISTA UNITARIA PER L’ALTERNATIVA, IL NOSTRO LEADER SARA’ GRASSO”

“Non abbiamo dato una disponibilità  a una trattativa in quanto le differenze sono su temi di fondo sulla vita delle persone. Mi riferisco in particolare al lavoro, alla sanità  universale e al no a una compagna elettorale su meno tasse per tutti”. Lo dice Maria Cecilia Guerra, capogruppo Mdp, al termine dell’incontro con la delegazione Dem.
“Il tempo è scaduto, non ci sono margini per nessuna intesa”, aggiunge Giulio Marcon di Sì-Possibile. “Il 3 dicembre – spiega – lanceremo la nostra lista unitaria per l’alternativa: ci sarà  Grasso, il nostro candidato e leader”.
Con Mdp-Si-Possibile “c’è stato un confronto programmatico vero. Ma ci rispondono che non sussistono le condizioni politiche” per trattare.
“Non posso che esprimere rammarico: non capisco perchè ci si debba precludere il confronto ma come noto i matrimoni per farli bisogna essere in due e prendiamo atto della indisponibilità . Continueremo con le altre forze con cui abbiamo interloquito”. Lo dice Piero Fassino al termine dell’incontro. “Non c’è mai un tempo limite” per trattare, nota Maurizio Martina.
A proposito dell’investitura di Grasso come leader del nuovo soggetto politico della sinistra, il portavoce del presidente del Senato afferma: “Come già  ribadito in altre occasioni il presidente Grasso non ha sciolto alcuna riserva in merito al suo futuro. Notizie e dichiarazioni in un senso o nell’altro vanno lette come auspici dei singoli e non interpretano il suo pensiero e le sue decisioni. Quando queste saranno prese sarà  lui stesso a comunicarlo”.

(da “Huffingtonpost“)

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ECCO CHI SONO I “CRISTIANI” DI FORZA NUOVA CHE INSULTANO IL PATRIARCA DI VENEZIA

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

FIORE CHE “IL CATTOLICO LO FA DAVVERO” VUOLE INSEGNARE AI PAPI COME SI FA IL PAPA, MA NEI PREDECESSORI DI BERGOGLIO NON TROVA SPONDE

«Moraglia giuda / L’euro il tuo dio». Lo striscione appeso l’altro ieri a un ponte di Venezia che insulta il patriarca di Venezia Francesco Moraglia (reo di avere invitato i parroci della diocesi a dare una mano agli immigrati e i profughi in marcia dal ghetto di Cona) la dice lunga su come la pensino i neri di Forza Nuova.
Non solo sui loro richiami nostalgici al fascismo anche se il loro leader Roberto Fiore precisa che «Definire Forza Nuova “fascista” è un errore. Anche se non la riterrei una diffamazione».
Ma anche sul loro definirsi «cristiani» applauditi dalla rivista Salpan.org che celebra la «Scuola di Mistica Fascista» e invita tutti a votare FN e Roberto Fiore che «il cattolico lo fa davvero». E si sente dunque legittimato a insegnare ai vescovi come fare i vescovi e al Papa come si fa il Papa.
Anzi, i papi. Perchè non è solo il figlio di emigrati Jorge Mario Bergoglio a sostenere che capisce «un certo timore, ma chiudere le frontiere non risolve niente, perchè quella chiusura alla lunga fa male al proprio popolo e l’Europa deve urgentemente fare politiche di accoglienza, integrazione, crescita, lavoro e riforma dell’economia». Meglio Papa Benedetto XVI, che con quell’accento tedesco e il discorso di Ratisbona aveva fatto palpitare tanti cuori neri che avevano equivocato?
Sui principi Ratzinger la pensava allo stesso modo: «Sarebbe inumano ributtare in mare questo popolo in fuga. Il nostro dovere è aiutare questa gente a tornare in patria e a costruire lì una vita degna. Questa dev’essere la prospettiva. Ma oggi, in attesa di questo rientro, bisogna offrire loro accoglienza».
Meglio allora Papa Giovanni Paolo II, il gran polacco anticomunista?
No, anche lui sosteneva che «Gesù ha voluto prolungare la sua presenza fra noi nella precaria condizione dei bisognosi, tra i quali egli annovera esplicitamente i migranti» e che i Paesi «ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra i Paesi ricchi e quelli poveri, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande». Paolo VI? Macchè: nel 1965, in occasione del proprio compleanno, invitò a Pomezia addirittura tremila rom. Quelli contro cui vengono affissi i manifesti più gonfi di razzismo: «Dovunque voi vi fermiate, siete considerati importuni ed estranei. E restate timidi e timorosi. Qui no. Qui siete bene accolti, siete attesi, salutati, festeggiati».

(da “il Corriere della Sera”)

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FRASI FATTE, STRAFALCIONI, INSULTI: COSI’ PARLANO I POLITICI PER APPARIRE “UNO DI VOI”

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

“DI MAIO, SALVINI, RENZI? TUTTI FIGLI DI BERLUSCONI”: IN “VOLGARE ELOQUENZA” GIUSEPPE ANTONELLI ANALIZZA COM ‘E’ CAMBIATO IN PEGGIO IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA

Un vocabolario sempre più ristretto, discorsi fatti in parole davvero povere, con molte frasi fatte, motti alla moda, sfondoni, parolacce, formulette trite non da salotto ma da tinello tv.
Un italiano grossolano, banale, elementare, quasi infantile che moltiplica parole vuote ma all’occorrenza anche gli strafalcioni.
La crisi della politica sta dentro la crisi della sua lingua che cambia. Male. Di più: di male in peggio.
Berlusconi, colui che come al solito tutto comprende, è stato solo l’inizio, ma in realtà  alla fine è l’alfa e l’omega del nuovo idioma.
Una noncuranza nei confronti delle regole delle scuole elementari, ma anche nei confronti dell’aderenza alla realtà  e del senso delle proporzioni: è così che anche la grammatica è diventata populista, è così che dal politichese si è passati al politicoso.
L’analisi è da disperarsi una volta di più e la mette nero su bianco il linguista Giuseppe Antonelli, in Volgare eloquenza (Collana Tempi nuovi di Laterza, 144 pagine, 14 euro). Un saggio essenziale, nel senso che toglie il superfluo: con una forma leggera, scorrevole, ironica, Antonelli dà  un colpo secco al tavolo stile saloon dei western per scoprire le carte della lingua dei politici della Terza Repubblica. Carte che, nonostante i bluff, non sono esattamente quattro assi.
Il titolo del libro ribalta quello di un’opera (De vulgari eloquentia) con cui Dante certificava che ormai il volgare era “pronto” per sostituire il latino nell’uso corrente perchè era “popolare”.
Ora, spiega Antonelli, questo concetto è stato gualcito, fino ad uscirne accartocciato: “Oggi l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo”. Non più popolare, quindi. Semmai “nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà  come un popolo bue”.
Ci si rivolge al popolo lisciandolo ma parlandogli come a un bambino abbassando sempre di più il livello.
Con parole terra-terra, da poppante (vaffanculo, vergogna, basta, tutti a casa): “E’ uno schifo”, “è infame”, “siamo stufi” dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini quasi ogni giorno quasi su ogni argomento, dalle pensioni alla difesa dell’olio pugliese.
O viceversa con espressioni così universali da assomigliare alla pace nel mondo auspicata dalle concorrenti di Miss Italia (andiamo avanti!, verso il futuro, un futuro meraviglioso, pieno di sfide, sfide che vinceremo, chè siamo tantissimi). “Si può fare di più e meglio, facciamolo insieme — ha detto Matteo Renzi durante la direzione del Pd di dieci giorni fa — L’Italia ha bisogno di una comunità  politica che abbia al centro il futuro dei figli”.
Dall’incomprensibile a quelli che parlano come (o mentre) mangian
Così, il Paese si ritrova a pezzi anche davanti al vocabolario. I burocrati e i magistrati portano avanti la loro dittatura di chi scrive in modo incomprensibile, scambiandolo per aulico, convinti di farlo bene.
Da legislatori i politici usano una lingua rigonfia e oscura, come fu per la riforma della Costituzione poi bocciata.
Mentre da comunicatori, infine, gli stessi politici usano “un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere“, parole che, “rimbalzate all’infinito, stanno paralizzando la politica”.
Altro che mondo nuovo, dunque, altro che sol dell’avvenire, altro che piramide rovesciata, altro che post-politica: quella della classe politica è piuttosto una “veterolingua: rozza, semplicistica, aggressiva” che punta su emozioni, istinti, impulsi. L’obiettivo è uno: dare uno specchio all’elettore. Così “parlano come mangiano”, anche se a volte sembra che parlino e mangino nello stesso momento. “Dal ‘Votami perchè parlo meglio (e dunque ne so di più) di te’ si è passati al ‘Votami perchè parlo (male) come te’” chiude Antonelli.
Razzi, Salvini e Di Mai
Tutto è perdonato, su tutto si passa sopra, perchè l’elettore si sente a casa. Mentre tutti si sentono intelligenti a canzonare il senatore Antonio Razzi — che vabbè, è Razzi — nessuno si scandalizza se il segretario della Lega Nord dice che “migrante” è un gerundio e “Nord” un avverbio.
O se il vicepresidente della Camera dei Cinquestelle dice di avere alter ego in altri Paesi, quando nel frattempo ha un problema conclamato con il congiuntivo con il quale centrò il record con la triplice riscrittura di un tweet (per la cronaca erano sbagliati tutt’e tre).
Il leader del Partito democratico fatica a finire un discorso senza un termine calcistico o una frase fatta (“Chi sbaglia, deve andare a casa” ha detto della Nazionale di calcio), quello del M5s senza una parolaccia o un insulto.
Una comoda verit
Ma il resto degli italiani non è meglio. Nè peggio: secondo Tullio De Mauro — il teorico della lingua come democrazia — 8 su 10 hanno difficoltà  a utilizzare quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà  abbastanza gravi nella comprensione, i 5 milioni di italiani hanno completa incapacità  di lettura. Si chiamano analfabeti.
Una volta a De Mauro hanno chiesto qual è la percentuale di italiani che capiscono discorsi politici o come funziona la politica.
“Certamente inferiore al 30 per cento”, rispose lui. E chi “non possiede strumenti linguistici adeguati rimane un individuo a cittadinanza limitata” chiarisce Antonelli.
De Mauro, d’altra parte, abbottonava l’analfabetismo di ritorno con i “molti spinti a votare più con la pancia che con la testa”.
E tutto questo alla politica fa un gran comodo: “La valutazione di questi gruppi dirigenti — diceva sempre De Mauro — è che uno sviluppo adeguato dell’istruzione mette in crisi la loro stessa persistenza in posizioni di potere“.
“Il falso in bilancio è tornato reato penale” scrivono i deputati del Pd orgogliosissimi in un tazebao digitale che fanno girare su Twitter e nessuno ha detto loro che un reato non penale non esiste.
I politici parlano come te (la “congiuntivite” vuol dire fiducia
Così il circolo è viziosissimo. Da una parte tutto è perdonato perchè non c’è capacità  di sanzione per chi non ha strumenti.
Dall’altra la deformazione della lingua della politica c’entra soprattutto con la psicologia, spiega Antonelli. Sbagliare un congiuntivo o parlare di un fatto storico scambiando il Venezuela per il Cile, usare metafore sciatte come derby, corner, catenaccio, zona Cesarini o parole da reality show o ancora buttare qua e là  un po’ di turpiloquio “hanno la funzione di simulare schiettezza, sincerità , onestà “.
Lo specchio: gli psicologi lo chiamano mirroring, rispecchiamento, cioè il ricalco. “L’imitazione — spiega Antonelli — crea empatia: copiare i gesti e gli atteggiamenti di una persona è un’ottima tecnica per guadagnare la sua fiducia. Per piacergli e dunque per convincerlo più facilmente“. L’analfabetismo, ha detto più volte De Mauro, è un instrumentum regni, cioè “un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni“.
La conclusione è che questo fenomeno “nel migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo) innesca una corsa al ribasso” perchè “alimenta il narcisismo dei destinatari, i quali — lusingati — preferiscono riflettersi che riflettere”.
Non lo fanno solo Berlusconi, Salvini, Renzi o i grillini. Lo fa anche la sinistra, è successo per esempio con Nichi Vendola che — analizza Antonelli — mescolava paroloni e espressioni da comitato centrale (nella misura in cui) in modo da mettere in moto — con quello stile rococò — un “rispecchiamento di nicchia“, magari con il precariato intellettuale o il mondo della scuola.
Tutti i figli di Berluscon
Ma dallo scivolamento verso lo sprofondo non si salva nessuno dei principali leader politici, nonostante tutti abbiamo promesso di incarnare il “nuovo” contro il “vecchio”. Renzi e i Cinquestelle, per come parlano, sono tutti figli dell’arcinemico, l’odiatissimo. E’ Berlusconi — il generalistissimo, lo chiama Antonelli — che in Italia ha completato prima di tutti l’adesione totale del linguaggio politico a quello televisivo e pubblicitario, lui che se ne intendeva, quando dall’altra parte c’era la noia della politica vestita come gli impiegati del catasto (Occhetto nel primo duello tv con Berlusconi, 1994).
L’unica differenza, semmai, tra il linguaggio di allora e quello di oggi, secondo Antonelli, sta nell’insieme delle parole da scegliere: Berlusconi si riferiva al sogno di un futuro migliore, ma quel sogno non si è mai realizzato e la speranza si è trasformata in rabbia, se non in invidia sociale.
I social: condivisione dall’alto più che partecipazione dal basso
Un processo che ha messo l’acceleratore a paletta prima con i talk-show a ogni ora del giorno e di più con i social network che da sinonimo di partecipazione dal basso sono già  ridotti a strumenti di condivisione di un messaggio dall’alto (la parola più frequente sulla bacheca di Beppe Grillo, secondo uno studio recente pubblicato da ilfatto.it, è “diffondete”).
“Il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinquestelle è figlio proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la cosiddetta seconda Repubblica” dice Antonelli.
L’esito di un’involuzione, aggiunge il linguista, che ha trascinato la lingua dei politici “da una lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente bassa”. Sempre più giù. Fino alla continua ricerca della battuta fino alle barzellette di Berlusconi, fino all’estremo, fino all’insulto e alla volgarità  gratuita.
Prima lo sfottò era facoltà  del giullare di corte, poi è finito scritto a penna sotto gli slogan dei manifesti (“La Dc ha vent’anni”, ed è già  così puttana), ora tutto è ribaltato: il Vaffanculo day è l’anniversario della fondazione di un movimento.
Dai pensieri ai simboli (leggere o guardare le figure
Così ci si ritrova ad ascoltare l’offerta politica “un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos preferisce i loghi.
Un linguaggio infantile, che — rinunciando a interpretare la complessità  del mondo — la semplifica in una serie di disegnini stilizzati”. Renzi dice di voler abbattere le ideologie, ma passa all’ideografia, cioè al pensiero dell’immagine.
“Tutta la sua comunicazione è improntata a questa retorica ideografica, che procede accostando simboli diversi”. Nei suoi libri, ricorda Antonelli, cita Clint Eastwood, Josè Mourinho, Steve Jobs, Pierluigi Collina, usa termini calcistici, giochi di parole di grana grossa (il consunto “voti/veti” che dirà  cento volte all’anno).
“Renzi parla velocemente, correttamente, senza perdere mai il filo — scriveva Claudio Giunta in Essere #matteorenzi — Usa male le parole che tutti quanti oggi usano male”. L’altro giorno non ha risparmiato un commento dell’eliminazione dell’Italia dai Mondiali: “Il calcio in Italia è un’emozione fantastica“, “Non partecipare al Mondiale di Russia è una sberla enorme“, “Ripartiamo dai volontari dei settori giovanili e da chi crede nella magia di questo sport”.
Il punto, sottolinea Antonelli, è “che parli o che scriva, Renzi non spiega: racconta”. Altro che partito della Nazione, “è il partito della narrazione”.
La soluzione ci sarebbe, per tutti, secondo Antonelli: spostare il concetto di chiarezza dalla forma al contenuto: “Smettere di usare le parole senza le cose“. Prima il cosa e poi il come, prima l’analisi della realtà  (tutta) e poi il modo giusto per dirla. “Significa abbandonare l’idea che la politica debba limitarsi a ripetere la vox populi“.
Specchio, servo delle mie brame
Dal politichese al politicoso, appunto. Visto che -oso indica abbondanza di qualcosa, ecco che politicoso è “un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere“, “fatto di favole per adulti che affascinano chi si lascia affabulare”.
E forse anche con il rischio dell’autoaffabulazione. Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame? e quello le rispondeva che era lei, ma non era vero. La politica delle tifoserie — quella di questi anni — corre lo stesso pericolo: gli elettori di ciascuna area dicono al proprio leader che non c’è nessuno bello come lui, onesto come lui, convincente come lui, ganzo come lui.
E così i leader — ma anche quelli un po’ meno leader — si sentono in diritto di parlare “a nome del popolo”: “Siamo noi il popolo sovrano e ne usciremo più forti che mai” gridava alla manifestazione anti-Rosatellum la deputata M5s Roberta Lombardi che tuttavia al momento è solo candidata alla presidenza della Regione Lazio.
Piace così tanto intestarsi l’opinione del popolo che spesso — come fece Salvini nel 2015 insieme a CasaPound che ora aborre — i partiti organizzano le loro manifestazioni a piazza del Popolo.
Che però, come si è spesso divertito a ricordare proprio De Mauro, è riferito alla chiesa vicina, è tradotto dal latino e soprattutto vuol dire pioppo.
Da avere la maggioranza al Senato ad andare per boschi, insomma, per qualcuno può essere cosa di un attimo.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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VIRGINIA RAGGI E I 15 AUTOBUS IN ARRIVO (SULLA CASSA DA MORTO)

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

L’ANNUNCIO UN ANNO FA, GRAZIE AI SOLDI STANZIATI DAL GOVERNO PER IL GIUBILEO… LA RAGGI PROVA A PRENDERSENE IL MERITO, MENTRE ATAC E’ AL CONCORDATO PREVENTIVO

15 autobus sulla cassa del morto e una cassa di rum.
«Floris, le do una notizia straordinaria: arrivano 15 autobus nuovi», ha annunciato trionfalmente Virginia Raggi ieri a DiMartedì dando il là  a scene di giubilo da parte degli appena tre milioni di romani residenti nelle piazze della Capitale.
Ben quindici diconsi quindici autobus n-u-o-v-i, signore e signori, e mi voglio rovinare: addirittura funzioneranno.
Ma da dove spuntano i 15 autobus, tenendo presente che la sindaca e la giunta si sono ripetutamente vantati dell’acquisto di bus fatto in realtà  dalla giunta Marino già  qualche tempo fa?
Ebbene, basta cercare un po’ per scoprire da dove arrivano, quando sono stati annunciati, quando dovevano arrivare e quando arriveranno.
Il 30 dicembre 2016 infatti l’assessora all’immobilità  romana Linda Meleo annunciava trionfalmente che erano in arrivo proprio 15 autobus.
“In arrivo” è ovviamente un concetto che i romani che aspettano l’autobus sanno essere piuttosto lasco.
Infatti i soldi arrivavano dalle risorse stanziate dal governo per il Giubileo, le offerte dovevano essere presentate entro il 10 febbraio scorso e la fornitura doveva essere completata nell’aprile 2017.
Ieri, 21 novembre, la Raggi ha annunciato che quegli autobus sono in arrivo, consentendoci quindi di brindare finalmente sulla cassa del morto ATAC in concordato preventivo.
Ah, anche la bottiglia di rum per conforto è in arrivo.
Come la metro.

(da “NextQuotidiano”)

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LA STORIA NON SIAMO PIU’ NOI, IL GRANDE DISINCANTO DELL’ELETTORE DI SINISTRA

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

IL PROTAGONISTA DELLE PROSSIME ELEZIONI   SARA’ L’ASTENUTO DI SINISTRA

Una volta cantava che «ti dicono tutti sono uguali/ tutti rubano alla stessa maniera /ma è solo un modo per convincerti/ a restare in casa quando viene la sera».
Era la stagione dell’impegno, della bella politica, della storia-siamo-noi, di lettere da scrivere, onde del mare, prati di aghi sotto il cielo, piatti di grano.
Oggi l’umore generazionale è cambiato, per Francesco De Gregori e per tanti altri.
«Posso indicare un’abbondante decina di colleghi che sono dispostissimi a parlare di tutto e su tutto. Io no, grazie. Ma non per reticenza: davvero non saprei cosa dire», ha risposto il Principe dei cantautori in tour negli Stati Uniti a Repubblica (10 novembre) che gli chiedeva di parlare di politica.
«Sul mio futuro personale e professionale sono molto ottimista. Per il resto, non passo la mia vita a pensare al futuro del mondo».
E all’obiezione che un tempo lo faceva, e molto, De Gregori ha risposto: «Eh, una volta leggevo anche la favola di Cappuccetto Rosso».
Cappuccetto Rosso non c’è più, come tutto quello che è dello stesso colore. Le bandiere rosse, i palchi rossi, i leader rossi. La sinistra, da cui passava la Storia, quella che «dà  torto e dà  ragione», rispetto alla quale non potevi rifiutarti di scegliere da che parte stare. La forza inesorabile, come nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, nonostante reazioni e cadute nessuno avrebbe potuto fermare la marcia silenziosa del progresso.
Oggi Cappuccetto Rosso è stato divorato dal lupo cattivo. E nel disincanto dichiarato, ai limiti del cinismo, De Gregori sembra ancora una volta essere più rappresentativo di molti altri intellettuali.
La sinistra è parola caduta in disuso, in tutto l’Occidente, in gran parte dell’Europa che ne è stata la culla, in Italia.
Nel 2017 la gauche è sparita in Francia, è sprofondata in Germania, assiste irrilevante allo scontro tra nazionalismi tra Madrid e Barcellona in Spagna.
In Italia, alla vigilia del voto 2018, c’è lo spettacolo non inedito di divisioni, scissioni, tentativi di riappacificazione subito frustrati.
E poi vanità  personali mascherate da ideologismi insopportabili, leadership vecchie e nuove che si combattono per occupare il palcoscenico, negli ultimi giorni è spuntata perfino la Mossa del cavallo, neo-formazione messa in piedi, si apprende, da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa, desiderosi di saltellare in una scacchiera già  fin troppo affollata.
Niente di nuovo, in questa triste storia.
La novità  è che di fronte a tutto questo l’elettorato che ancora ama definirsi di sinistra, il «pubblico pagante» per citare ancora De Gregori, si prepara a restare a casa.
Tra le molte offerte disponibili sul mercato elettorale si prepara a non indicarne neppure una. E non sembra allarmato più di tanto dai fantasmi e dalle paure che vengono agitate per convincerlo ad andare a votare in primavera: il ritorno di Silvio Berlusconi, il populismo della Lega di Matteo Salvini, l’ascesa del Movimento 5 Stelle, l’ingovernabilità .
Il potenziale Astenuto di sinistra, il nuovo personaggio che avanza in vista della campagna elettorale, non passa più il tempo a pensare al futuro del mondo e dell’Italia. Ha deciso che basta così. Si prepara a disertare le urne. Disgustato, indignato, o semplicemente indifferente.
È la fase dell’impolitica, l’ha definita l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky sulla Stampa, «la fase suprema dell’antipolitica, quando non si crede più neppure al populismo»: «L’antipolitica è un’energia che può essere mobilitata “contro”: i partiti, i politici di professione, la democrazia parlamentare, è un atteggiamento in un certo senso attivo. L’impolitica è l’esatto contrario: è un atteggiamento passivo, di ritrazione, di stanchezza. Un modo di dire: lasciatemi in pace».
Un intellettuale lontano da Zagrebelsky come Ernesto Galli della Loggia è arrivato alle stesse conclusioni: «Certo, dietro l’astensione ci sarà  in molti casi il torpore, l’eco tuttora viva di un antico qualunquismo. Ma sempre più spesso sembra di percepire in essa un sentimento ben diverso: qualcosa che assomiglia a una rassegnata disperazione. O forse meglio una disperata rassegnazione. La rassegnazione al vuoto politico», ha scritto sul Corriere della Sera (11 novembre).
Un senso di stanchezza e di rabbia, o mancanza di fiducia nella politica e nella sua utilità , rilevato in tutte le ultime consultazioni elettorali: in Sicilia alle elezioni regionali del 5 novembre ha votato il 46 per cento degli aventi diritto; nel decimo municipio di Roma, a Ostia, addirittura il 36 per cento.
Certo, si votava per il presidente e per il parlamentino di quelle che fino a qualche anno fa si chiamavano circoscrizioni. Ma tre anni fa, quando andò al voto la regione rossa per eccellenza, l’Emilia Romagna, il risultato non fu molto diverso: appena il 37 per cento dei votanti, nella terra dove la partecipazione politica è considerata un pezzo dell’identità  individuale, non solo collettiva.
Eppure in pochi, a sinistra, colsero il segnale di allarme. Anche perchè i politici di ogni colore preferiscono contare i voti di chi va alle urne, non si interessano a chi resta a casa. Sbagliando, quasi sempre, ancora di più se a commettere l’errore sono gli strateghi delle varie formazioni di sinistra o di centro-sinistra.
Perchè è sempre più evidente che è lì, nel cuore dell’elettorato impegnato o post-impegnato, che si muove la tentazione del non-voto o comunque del disimpegno.
Il Neo-disimpegnato di sinistra, oggi potenziale astenuto, nei decenni passati si è mobilitato per tutte le cause possibili: è stato via via operaista, ambientalista, femminista, pacifista, girotondino.
Ha sfilato con la Cgil di Sergio Cofferati e con il movimento di Nanni Moretti, è stato anti-berlusconiano, prima ancora anti-craxiano e nella notte dei tempi, ormai, anti-democristiano, e ovviamente è stato comunista.
Ha portato la lotta come una moda, ma in realtà  è sempre stato moderato.
Per una certa generazione il tempo si è fermato, forse, il giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984, come è successo al personaggio del romanzo di Walter Veltroni “Quando”, che entra in coma durante le esequie di massa, l’ultima manifestazione autenticamente popolare del Pci, e si risveglierà  trentatrè anni dopo in un mondo mutato e irriconoscibile.
«Era finito il partito, non quella voglia di cambiare il mondo, vero?», domanda inquieto nel romanzo Giovanni (in una precedente opera narrativa veltroniana di undici anni fa, “La scoperta dell’alba”, il protagonista si chiamava profeticamente Giovanni Astengo).
In un’altra pagina Giovanni incontra il food, «ristoranti cinesi, indiani, giapponesi, thailandesi. Cibi prodotti nel rispetto dell’ambiente e degli animali. Per il suo sistema di valori, almeno nel mangiare, il socialismo, in questi trentatrè anni, sembrava davvero essersi realizzato». Almeno a tavola, dove, si sa, finiscono le rivoluzioni.
Il Neo-disimpegnato ha celebrato con riluttanza i quarant’anni del Settantasette e altrettanto si prepara a fare con i cinquant’anni del Sessantotto.
Appagato di sè e del suo presente e futuro personale e professionale, come De Gregori, non ha più tempo e voglia di occuparsi del mondo che nel frattempo è sempre grande e terribile, ancor più di prima.
Di fronte a questa impossibilità  di capire e di provare coinvolgimento per quello che un tempo era la sfera delle passioni più forti, la politica, il Neo-disimpegnato preferisce ritirarsi nel suo lavoro, nella coltivazione di soddisfazioni minori e strettamente personali. E rifiuta di continuare a essere quello che è stato per molti anni: un punto di riferimento, una bussola di orientamento, qualcuno che aveva qualcosa da dire.
Quel qualcosa oggi non c’è, non c’è più, e quel che c’è forse imbarazza dirlo: ecco perchè molti intellettuali negli ultimi anni hanno scelto la strada del silenzio, dell’afasia che nasconde in alcuni casi una difficoltà  di capire e il pudore di intervenire su questioni che non si comprendono più, in altri un adagiamento definitivo sulle comodità  del tempo presente, le loro, sia chiaro, e sull’impossibilità  di cambiarlo.
C’è poi l’astenuto di sinistra per così dire militante.
Il contrario del disimpegnato o del qualunquista. Quello che non va a votare per scelta, per segnalare la sua presenza, per partecipazione viscerale, la reazione ai tormenti esistenziali cui lo stanno sottoponendo da anni i massimi leader e i piccoli capetti della sinistra italiana.
E che trova nelle cronache di questi giorni e di queste settimane nuovi motivi per stare lontano dalle urne.
Il balletto delle alleanze, tra il Pd e quel pezzo di partito che a febbraio è uscito guidato dall’ex segretario Pier Luigi Bersani. L’incarico di esplorare le possibilità  di un’intesa assegnato a un politico serio e tenace come Piero Fassino, che però rischia di finire nella classica giungla dei veti incrociati.
I due presidenti delle Camere, due figure rispettabili e stimate come Pietro Grasso e Laura Boldrini, che nel vuoto di leadership sono spinti da una dinamica inesorabile a schierarsi, e finiscono contrapposti sul piano mediatico, nella babele senza regista di assemblee e contro-assemblee.
Il contrordine compagni del duo Tomaso Montanari e Anna Falcone, che disdicono l’invito per la loro manifestazione e tuonano contro i politici che hanno tradito i civici.
Su tutto, l’ombra di Massimo D’Alema, così presente nell’immaginario da spingere Oliviero Toscani a proporre chissà  quanto inconsciamente di mettere la parola Max nel simbolo del futuro partito.
I tentennamenti di Giuliano Pisapia che reprime a fatica la voglia a sua volta di mandare tutti al diavolo. E le manovre di Matteo Renzi, che dopo una legislatura tutta giocata su una strategia di raccolta di voti centristi, moderati, post-berlusconiani, a poche settimane dal voto si riconverte alle alleanze a sinistra.
Intanto, il potenziale astenuto, per rabbia o per disperazione, accumula nuove motivazioni.
C’è poi l’astenuto che rappresenta il corpo centrale della società  italiana.
«Un tempo si diceva che le elezioni si vincevano al centro: ora è cambiato, gli estremismi fanno il pieno di voti e il centro è diventato più piccolo, è spaventato, non va più a votare», analizza il prodiano ex ministro Giulio Santagata.
Il centro della società , ovvero i lavoratori dipendenti, gli insegnanti, il pubblico impiego, i pensionati, rappresentano il blocco sociale residuo del centro-sinistra e del Pd. È lì che si combatterà  la battaglia elettorale.
Questo elettorato era stato inizialmente gratificato da Renzi con gli 80 euro, una misura che doveva servire a rafforzare il blocco antico e a porre le premesse per uno nuovo.
Una coalizione renziana da costruire nella società  prima che nella politica, su modello di quelle americane (la coalizione rooseveltiana), destinata nelle intenzioni a durare anni. Invece la magia è svanita subito, lasciando posto alla delusione.
Che si è manifestata fragorosamente nelle urne un anno fa, nel voto per il referendum costituzionale del 4 dicembre.
Un anno fa l’affluenza fu del 65, 4 per cento, elevatissima se paragonata a elezioni amministrative, regionali e ai referendum abrogativi.
Segno che la maggioranza silenziosa degli elettori, invocata da Renzi nel 2016 alla vigilia del voto, non si è consegnata all’area del non-voto in modo definitivo, una volta per tutte. Decide semmai caso per caso.
È il dato che più interessa in vista dello scontro elettorale del 2018, anche se non è scontato che l’appello a non astenersi porterà  al risultato sperato.
C’è infine l’astenuto suo malgrado. Quello che vorrebbe votare, ma non può.
Come succede domenica 19 novembre a Ostia, dove si è verificato quello che per poco è stato evitato un anno e mezzo fa alle elezioni comunali di Roma: un ballottaggio tra una candidata del Movimento 5 Stelle e una di Fratelli d’Italia, con il Pd che non si schiera al secondo turno e gli elettori di sinistra che restano a guardare.
Non solo il giorno del voto: alla manifestazione antimafia della settimana scorsa iscritti e militanti del Pd, tra loro molti giovani, hanno deciso di sfilare contro il clan degli Spada nonostante l’indicazione contraria del partito.
Hanno deciso che non si poteva restare a casa. Perchè la storia (non) siamo (più) noi, non passa più dalla sinistra. Ma che non finisce la voglia di identificarsi con le sue bandiere: «Sono rimasto “di sinistra” perchè mi risulta tuttora impossibile credere che l’umanità  non rassomigli alle sue parole migliori, non si adegui alla loro esemplare eloquenza, alla loro disciplina e al loro stile, che tutti gli esseri umani non diventino “libertà , fraternità , uguaglianza” al semplice suono di quelle tre parole», scrive Michele Serra in “La Sinistra e altre parole”, in uscita per Feltrinelli.
Da ripetere, oggi che De Gregori non crede più a Cappuccetto Rosso.
E che, di sinistra o no, siamo stati privati perfino della possibilità  di cantare “Viva l’Italia”.

(da “L’Espresso”)

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L’AMBASCIATORE ITALIANO A TRIPOLI SFIORA IL RIDICOLO: “LA GUARDIA COSTIERA LIBICA MERITA RISPETTO”

Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile

PUR DI DIFENDERE MINNITI, TESSE LE LODI DI UNA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE, COLLUSA COI TRAFFICANTI, COME CERTIFICATO DALL’ONU E DALLA PROCURA DI TRAPANI

La nostra collaborazione con la cosiddetta Guardia Costiera libica è al centro dell’accordo sui migranti siglato tra il governo italiano e quello di Tripoli lo scorso 2 febbraio e della missione navale approvata dal Parlamento il 2 agosto.
Ma anche delle accuse di coinvolgimento nei traffici di esseri umani. “
Abd al-Rahman Milad è coinvolto nel traffico di uomini”, si legge in un report del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il diretto interessato risulta a capo della Guardia Costiera di Zawiya, città  lungo la costa della Tripolitania a 40 chilometri da Sabrata.
E di “grave collusione tra singole unità  della Guardia Costiera ed i trafficanti di esseri umani”, scrive la magistratura italiana nel provvedimento di sequestro della Iuventa, la nave della ong Jugend Rettet accusata dalla Procura di Trapani di connivenze con gli scafisti.
Poi, nelle ultime settimane, il dibattito è stato riacceso da un video di Sea Watch, ong tuttora operante nel mediterraneo.
Le immagini mostrano il comportamento dell’equipaggio di una motovedetta libica nel corso di un’operazione di salvataggio, comportamento costato la vita a una cinquantina di migranti.
“Rivendichiamo i risultati in termini di rafforzamento della capacità  della Guardia costiera libica di controllare i confini marittimi”, risponde sul tema l’ambasciatore italiano in Libia Giuseppe Perrone, a Milano in occasione di un convegno organizzato dall’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.
Perrone chiede rispetto per i guardacoste libici: “E’ molto facile guardare dall’Italia e dare lezioni, ma quel lavoro lo fanno anche subendo minacce e ripercussioni personali”, dichiara.
E spiega: “Vero, c’è un problema di addestramento e noi cerchiamo di stare attenti a chi addestriamo, con l’obiettivo di elevare ulteriormente gli standard anche sul fronte del rispetto dei diritti umani. Ovviamente non è tutto limpido nella Guardia Costiera, ma qual è l’alternativa? Lasciarla destrutturata? Non è per noi una strada percorribile”.
Quanto alla situazione del governo di Tripoli, quello di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, l’ambasciatore italiano dichiara che, pur con tutti i limiti del caso, vanno riconosciuti i passi avanti anche dal lato della sicurezza e del controllo del territorio.
Considerazioni curiose per un diplomatico che di fronte a una domanda dal pubblico ammette: “Stiamo chiusi in ambasciata, sette giorni su sette: questione di sicurezza”

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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