Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
E’ LA MATERIA PRIMA CON LA QUALE 150 AZIENDE ITALIANE REALIZZANO I SACCHETTI AL CENTRO DELLA POLEMICA
Chi accusa il governo italiano di aver favorito Catia Bastioli, amministratrice delegata del gruppo Novamont, nella promulgazione della norma sull’uso obbligatorio dei sacchetti bio per l’ortofrutta, ha ragione o ha torto?
Sgomberiamo il campo dal primo equivoco: non è vero che l’Italia è stata costretta a farlo da una direttiva europea del 2015, perchè basta leggerne il testo originale per capire che non dice quello che vorrebbero farci credere.
E’ stato il governo italiano a “interpretarlo” a modo suo, imponendo l’obbligo di utilizzare per ogni gruppo di prodotti ortofrutticoli disponibili sui banchi dei supermercati un apposito sacchetto bio a spese del cliente.
Ne deriva che è stato favorito di fatto un settore preciso di produttori merceologici.
Si obietta: ma Novamont non è l’unica azienda che produce i sacchetti, ce ne sono circa 150, quindi il favore semmai va ripartito tra più soggetti.
Non è cosi: Novamont realizza il cosiddetto Mater-Bi, la materia prima con la quale i produttori, circa 150 aziende in tutta Italia, realizzano sacchetti biodegradabili ultraleggeri. Novamont quindi è a monte della filiera della bioplastica.
Nessuno discute la capacità aziendale e i successi della ricerca del gruppo che ha creato un compost con l’organico in grado di concimare i terreni senza disperderlo nelle discariche. Ma non può negare di aver ricevuto di fatto un vantaggio da un governo che ha promulgato una legge che “forza” la direttiva europea (che dice altro).
E la partecipazione alla Leopolda, la nomina a presidente di Terna e la visita in azienda di Renzi non ha certo contribuito a dissipare i sospetti.
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
E AL GALATA MUSEO DEL MARE NOMINANO LA FIGLIA DEL PIU’ NOTO COSTRUTTORE DELLA CITTA’, SPONSOR DEL SINDACO E DI TOTI
Nicoletta Viziano, figlia del costruttore Davide, sarà presidente del Muma, Museo del
Mare e delle Migrazioni, su indicazione del sindaco Bucci che ha provveduto alla nomina. La classica marchetta politica per contraccambiare con un incarico di prestigio la più nota famiglia genovese di costruttori che in campagna elettorale aveva appoggiato il centrodestra.
Il Galata Museo del Mare è un fiore all’occhiello della città : situato a 100 metri dall’Acquario è arrivato, con una progressione sorprendente, a contare oltre 230.000 visitatori l’anno nel suo splendido allestimento in cui una parte rilevante è quella destinata a documentare, in maniera originale, l’emigrazione degli italiani nelle Americhe a cavallo del secolo scorso.
Evidentemente il centrodestra era privo di esperti in campo marittimo e storico e ha ripiegato su una persona che non ha competenze specifiche, nel mero stile Bucciano.
Ma andiamo oltre.
Nel Patto per la Città , sottoscritto nel novembre 2016 tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Comune di Genova (allora il sindaco era Doria), sono stati assegnati due milioni di euro per la realizzazione della struttura del nuovo Museo della Emigrazione Italiana.
Altri 3 milioni sono stati stanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo nell’ambito del piano strategico “Grandi progetti beni culturali — programmazione 2017-2018”.
La Compagnia di San Paolo inoltre ha manifestato la volontà di contribuire alla progettazione del nuovo MEI per un totale di 300 mila euro.
Nessun merito della Giunta Bucci quindi, nella destinazione genovese di questa prestigiosa location che dovrebbe “ricostruire” l’esodo di milioni di “migranti economici” italiani (molti anche liguri) verso il sogno americano.
Fa sorridere il patetico tentativo del centrodestra a trazione leghista locale di “mettere il cappello” su una iniziativa dove non ha avuto alcuna voce in capitolo e che adesso dovrebbe gestire: significativo che finora non sia riuscito neanche a decidere “dove farlo”, figuriamoci a delinearne i contenuti.
Eppure sembra che sia tutto merito loro e, abili come sono negli spottoni, magari troveranno qualche sprovveduto disposto a crederci.
Arriviamo così al paradosso che chi ora festeggia il “Museo dell’Emigrazione italiana” siano gli stessi che oggi vogliono respingere altri emigranti (non solo economici) che affogano nel Mediterraneo o addirittura che postulano blocchi navali al largo della Libia per “fermare gli invasori”.
Chissà che un giorno non sorga anche un “museo per non dimenticare” tutti gli infami che hanno costruito le loro carriere politiche discriminando i disperati del mondo, compresi donne e bambini, esponendoli a violenze e fame.
Perchè la ruota gira e prima o poi toccherà anche a loro.
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
BRUNETTA PARLA DI 15-20%, IL GIORNALE DEL 25%… PER L’ECONOMISTA DAVERI UNA ALIQUOTA AL 20% CAUSERA’ UN BUCO FISCALE DI 95,4 MILIARDI… E SILVIO CITA IL BELIZE, IL KAZAKHISTAN E UN ATOLLO POLINESIANO
Si potrebbe derubricarla alla voce guerra di cifre da campagna elettorale.
Se non fosse che a non riuscire a mettersi d’accordo sono gli esponenti di un unico partito, Forza Italia.
E se non fosse che tra una proposta e l’altra ballano non qualche milione di euro, ma decine di miliardi.
Oggetto del contendere è una delle principali promesse elettorali del partito di Silvio Berlusconi: la flat tax.
Un’aliquota unica per persone fisiche e imprese al posto di Irpef e Ires (stando ad alcune proposte sostituirebbe anche l’Iva). La proposta è al centro del dibattito in vista del voto, ma a che livello sarà fissata la tassa “tutto compreso” prospettata agli italiani non è dato sapere.
Per il fondatore di FI, a seconda dei giorni, sarà “poco superiore al 20%” o “del 20-22-25%“.
Il capogruppo alla Camera Renato Brunetta ostenta sicurezza: “L’obiettivo è di arrivare ad una aliquota unica, nell’arco della legislatura, tra il 15 e il 20%“.
Nel frattempo il Giornale della famiglia Berlusconi contesta il conto fatto il 2 gennaio dal Sole 24 Ore sulla perdita di gettito che deriverebbe dalla svolta fiscale: “La flat tax berlusconiana ha una aliquota base del 25% e non del 20″, assicura. Per ora gli elettori devono accontentarsi delle storie di successo raccolte da FI in giro per il mondo: la flat tax al 25% funziona benissimo, per dire, in Belize e nel paradiso fiscale di Trinidad e Tobago. Mentre i contribuenti dell’arcipelago polinesiano di Tuvalu devono accontentarsi del 30 per cento.
L’idea è del 1994. Ma i calcoli sono ancora da fare
Sul valore dell’aliquota che dovrebbe sostituire i cinque scaglioni Irpef si stanno ancora “facendo i calcoli”, ha ammesso l’ex Cavaliere il 29 dicembre in un’intervista al Corriere. E dire che per farli c’è stato parecchio tempo, considerato che la prima volta che Berlusconi ha tirato fuori dal cilindro il coniglio flat tax correva l’anno 1994.
Quando fu inserita nel programma elettorale di Forza Italia da Antonio Martino, allora eminenza grigia del berlusconismo sui temi economici in quanto “allievo” del premio Nobel Milton Friedman.
“Ma è sempre stata ostacolata”, attaccava nel dicembre 2014 la deputata Fi Mariastella Gelmini, ex coordinatrice del partito in Lombardia, annunciando il rilancio di quella che avrebbe rappresentato una “vera e propria rampa di lancio per la ripresa della nostra economia”.
Negli ultimi tre anni, però, l’idea è stata archiviata. Nel frattempo la Lega ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia, nella versione super light al 15% sostenuta da Armando Siri, ex giornalista dei tg Mediaset diventato guru economico di Matteo Salvini.
E nel 2017 l’idea è riemersa come un fiume carsico: perfetto antidoto, nello storytelling berlusconiano, allo Stato vampiro che “quando ci fa pagare il 50% ci sembra un furto” (da un’intervista a Mattino 5, 21 dicembre).
“Si finanzia da sola”. “No, buco da 95 miliardi”
Mancano solo i numeri. Non un dettaglio: va da sè che tra un’aliquota del 20 e una del 25% da applicare su tutti i redditi personali e gli utili aziendali ballano miliardi.
Ma poco importa. “Vi sarà un sensibile vantaggio per i contribuenti. La flat tax si finanzia da sola e fa bene ai conti pubblici“, ha garantito Berlusconi a fine anno.
Su entrambi i punti, i calcoli fatti da economisti indipendenti lo smentiscono.
Anche se una valutazione precisa è decisamente complicata, visto che l’aliquota è un mistero.
Francesco Daveri, economista che insegna alla Cattolica e alla Sda Bocconi, già nel 2014 insieme a Luca Danielli aveva però calcolato su lavoce.info il potenziale impatto della flat tax sulle entrate erariali.
Ipotizzando un’aliquota al 20%, l’esenzione da imposte di tutti i redditi sotto i 13mila euro contro gli 8mila della no tax area attuale e l’azzeramento di detrazioni e altre deduzioni, il risultato era che l’imposta unica avrebbe prodotto 76,6 miliardi di gettito a valere sui redditi delle persone fisiche e 31 miliardi sugli utili societari.
Totale, 107,6 miliardi. Contro i 203 miliardi di introiti fiscali lordi registrati nel 2012. Risultato: “Verrebbero a mancare 95,4 miliardi di entrate”.
Il Sole 24 Ore, senza citare la fonte, il 2 gennaio 2018 ha invece quantificato l’ammanco in 30 miliardi.
“Libertà di spendere senza l’inquinamento di questioni fiscali”
Sul Giornale del 3 gennaio Francesco Forte — negli anni 80 responsabile economico del Partito socialista, poi ministro dei governi Fanfani e Craxi e oggi professore emerito a La Sapienza e docente a contratto all’Università Mediterranea di Reggio Calabria — smentisce, sostenendo che l’aliquota sarà non del 20 bensì del 25% e che in ogni caso “si otterrà l’aumento degli imponibili causato dalla moderazione delle aliquote”, il cosiddetto effetto Laffer, dal nome dell’economista che convinse l’allora candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a ridurre le imposte dirette.
Si eliminerebbe infatti il presunto “disincentivo a lavorare di più” legato a aliquote Irpef troppo alte sui redditi elevati.
Secondo FI, inoltre, l’aliquota unica di per sè sarebbe sufficiente per ridurre elusione ed evasione.
“Coperture incerte”, commenterebbero i tecnici parlamentari. L’impressione è che gran parte del minor gettito finirebbe per essere finanziato in deficit.
La proposta curata dal Gruppo parlamentare di Forza Italia alla Camera cita tra gli altri vantaggi la “riduzione delle distorsioni dovute a fenomeni di arbitraggio fiscale, riassegnando al contribuente la piena libertà di scelta sul come spendere i propri soldi, senza che questa sia inquinata da questioni fiscali“.
I “casi di successo”: dal Kazakhistan al Sud Sudan passando per i paradisi fiscali
Segue, presumibilmente a dimostrazione della bontà della proposta, un elenco di “Paesi che hanno adottato la flat tax nel mondo”.
La lista consta di 38 Stati. Otto sono membri dell’Unione europea, quelli di più recente adesione: dalla Bulgaria all’Ungheria, passando per Romania e Slovacchia.
Gli altri? Oltre alla Russia, ci sono paradisi fiscali come l’Isola di Jersey, quella di Guernsey, le Seychelles e Trinidad e Tobago, regimi autoritari come il Kazakistan, repubbliche ex sovietiche come Turkmenistan e Kirghizistan, gli Stati non riconosciuti della Transnistria e del Nagorno Karabakh, il Sud Sudan reduce da un devastante conflitto etnico. Non mancano l’Iraq e l’Abkhazia.
Ciliegina sulla torta la nazione polinesiana di Tuvalu, 10mila abitanti disseminati su nove isolette per 26 chilometri quadrati complessivi.
Lì però la flat tax è al 30%, come a Grenada: troppo per i gusti dell’uomo di Arcore.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
30.000 EURO PER FORZA ITALIA, 20.000 EURO PER LA LEGA, 5.000 PER FRATELLI D’ITALIA
Trentamila euro per il partito grande, ventimila per quello medio, cinquemila per il
piccolo.
Sono state fissate e rese pubbliche le tariffe per aspirare ad essere candidato e così aspirare ad essere un eletto al Parlamento per il centrodestra.
Forza Italia chiede, come base d’asta, trentamila euro. Chi offre di più? Salvini si ferma a ventimila, ma certo sarebbe il minimo indispensabile.
La Meloni accoglie aspiranti al prezzo di cinquemila euro
Mettiamo che x abbia in tasca solo tremila di euro, e sia volenteroso e capace, dal curriculum eccellente e dalla competenza indiscutibile.
Mettiamo poi che y abbia un curriculum sfregiato dall’incompetenza ma un portafogli ricco abbastanza da superare, e di molto, la soglia dei trentamila euro.
In questo caso Forza Italia chi sceglierà
Il quadro delle ipotesi neanche fa cenno a chi di soldi in banca non ne abbia. Magari è disoccupato e per di più giovane
In questo caso la politica non lo abbandona: gli dà la possibilità di andare alle urne e di votare, per il candidato più anziano, forse più incompetente, ma sicuramente più ricco. Penserà a tutto lui.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
ARRESTATO NEL 2013, UN PATTEGGIAMENTO PER TRUFFA E AGGIOTAGGIO, MAXIMULTA DALLA CONSOB
Il finanziere Alessandro Proto, passato agli onori della cronaca per aver racimolato a suo tempo quasi il 3% di Rcs Mediagroup grazie ai capitali di alcuni investitori stranieri e poi arrestato con l’accusa di manipolazione del mercato e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, annuncia di volersi candidare con il M5S.
“Ho preso questa decisione dopo aver appreso che si possono candidare anche persone indagate. Sono da sempre un estimatore della mentalità del Movimento e purtroppo negli ultimi mesi, sto vedendo una caduta verso il basso della prima linea, a partire da Di Maio, che di leader ha davvero poco” dice il finanziere che nel 2012 si candidò anche per le primarie del Pdl.
Oggi Proto è sicuro di farcela: “Con la popolarità acquisita negli anni e radicata sui social sono sicuro di poter vincere senza grandi problemi” dice di sè lanciando la sfida al candidato premier: “Quanto da me previsto nel 2013, poi bloccato a causa del mio arresto, e cioè diventare Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana potrebbe avverarsi nel giro di pochi mesi”.
Proto svela la sua ambizione in una nota inviata in qualità di “Chairman, CEO & Founder” della Proto Group Ltd, con sede londinese nella prestigiosa Berkeley Square. Oltre al suo movimentato passato di finanziere, che va dall’arresto del 2013, al patteggiamento per truffa e aggiotaggio, alle mega-multe della Consob, Proto è passato agli onori della cronaca anche per aver tentato l’acquisto del Parma Calcio e per aver intermediato l’acquisto di alcune isole per conto di alcuni “Paperoni”.
L’ultima sarebbe la star internazionale degli investitori, Warren Buffet ma a servirsi della mediazione della Proto Enterprises per acquistare isole in Grecia ci sarebbe anche l’attore statunitense Johnny Depp.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
L’EX SEGRETARIO DEI RADICALI HA ADERITO A “ENERGIE PER L’ITALIA”
“Elezioni politiche? Non è affatto vero che non vincerà nessuno”. Così a Omnibus (La7)
esordisce nella sua disamina Giovanni Negri, ex segretario del Partito Radicale, poi entrato in duro contrasto con i compagni di viaggio.
Fondatore del movimento La Marianna, Negri oggi aderisce al progetto politico Energie per l’Italia di Stefano Parisi.
E nel talk show politico mattutino condotto da Gaia Tortora fa la sua previsione: “Il M5S ha risposto a una crisi epocale. La mia angoscia e la mia paura riguarda quello che ci sarà dopo il M5S, perchè sarà chiaro che i soldi per il reddito di cittadinanza non ci sono. E il mio terrore è che si riproponga una storia già vista, perchè siamo un popolo tanto buono, ma a volte anche un po’ crudele. La domanda dell’”uomo forte” può arrivare. Voglio comunque spezzare una lancia a favore dell’intelligenza di Beppe Grillo” — continua — “Non credo affatto che sia stupido e che faccia ministri questa gente del collettivo M5S o lo steward dello Stadio San Paolo, Di Maio. Alla fine, i ministri di Grillo, quando il M5S sarà partito di governo e metterà il doppiopetto, saranno giudici, uomini forti, tecnocrati, persone che sapranno gestire le masse, a loro volta deluse dall’assenza del reddito di cittadinanza”.
Gaia Tortora ricorda gli esordi di un Negri giovanissimo alla dirigenza del Partito Radicale e obietta che la mancanza di esperienza non sia necessariamente un handicap. “C’era un partito che selezionava” — risponde Negri — “e non sceglieva come sono stati selezionati costoro, basti pensare al sindaco Raggi. Qua siamo al post-tutto. Però io dico che il M5S vince. Ha già detto che, se non arriva al 40%, è disponibile a governare con altri e che il presidente Grasso, ex giudice, è il suo interlocutore. In più, nel Pd la crisi mi pare evidentissima, tra i sondaggi unanimi e la richiesta odierna di Repubblica perchè la Boschi si dimetta. Figuratevi cosa succederà a Renzi la mattina del 5 marzo, quando il Pd sarà passato dal 40% al 20%. Renzi verrà fatto fuori in una settimana e sarà sostituito da un Orlando, da un Franceschini, da un non so chi”.
E aggiunge: “Mattarella affiderà doverosamente l’incarico di formare il governo al primo partito, cioè a Di Maio, che non ci riuscirà . Quindi, potrebbe dare l’incarico a Grasso, che cucirà una maggioranza M5S — Liberi e Uguali — Pd con Renzi fatto fuori. Questa è una maggioranza che può governare e sarà tenuta insieme da un governo di giudici, da una politica etica, da un buonismo valoriale, dal Davigo, dal Di Matteo, già candidato al Viminale. Altro che Dibba e questa gente qua. Il vero candidato è il pm Nino Di Matteo“. Poi chiosa: “Questa è la maggioranza che avanza, qualcuno sta per vincere. E’ l’unica maggioranza possibile, anche perchè la larga intesa tra Renzi e Berlusconi non arrivano al 42% secondo i sondaggi”
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
INSIEME CENTRO DEMOCRATICO E RADICALI… BONINO: “SAREMO L’UNICA LISTA PIENAMENTE EUROPEISTA”
I centristi di ispirazione cattolica salvano i rivali radicali.
La lista +Europa patrocinata da Emma Bonino non dovrà raccogliere le firme e parteciperà alle politiche del 4 marzo sotto il simbolo di Centro democratico guidato da Bruno Tabacci.
La decisione è stata ufficializzata in una conferenza stampa a Roma.
Riassunto delle puntate precedenti: in base al Rosatellum non essendo rappresentata in Parlamento, la lista promossa dall’ex ministro degli Esteri dovrebbe raccogliere 25mila firme ma sostiene che non c’è abbastanza tempo e di essere discriminata dalla nuova legge elettorale. Ha chiesto aiuto agli alleati in pectore del Pd, che tuttavia non garantiscono altro che un aiuto nella raccolta. Così ora a venire in aiuto della storica esponente del Partito Radicale è l’ex democristiano.
“Stamattina ho riunito gli organismi dirigenti di Centro democratico: metto a disposizione il simbolo per la sfida di Emma Bonino, per recuperare una condizione di libertà , consideriamola una scelta di servizio alla democrazia”, ha annunciato Tabacci intervenendo alla conferenza stampa di +Europa sulle firme.
“Ringrazio Bruno Tabacci che ci sta dando una grande mano in questo momento. Abbiamo raccolto più di 11mila firme solo in questi giorni”, la risposta della Bonino. “Grazie alla tua scelta hai reso possibile un’opzione democratica per noi e il Paese: +Europa sarà l’unica lista al voto pienamente europeista”, ha detto ancora Bonino.
Un’assemblea il prossimo 13 gennaio sancirà la nascita della nuova lista frutto dell’intesa.
Nel simbolo, oltre alla scritta “+Europa con Emma Bonino” ci sarà anche l’indicazione “Centro Democratico”. Quanto alla sua collocazione, verrà decisa dall’assemblea: “Certamente — ha annunciato Tabacci — staremo nel centrosinistra, sulle modalità decideremo”.
(da agenzie)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
PER ANNI ERA UNA “PROVA TECNICA DI DITTATURA”, ORA “VA VOTATA OGNI QUALVOLTA SARA’ RICHIESTA”
Il MoVimento 5 Stelle è finito, evviva il MoVimento 5 Stelle. Il M5S non è in picchiata nei
sondaggi e Di Maio, Grillo e Casaleggio (quest’ultimo non si sa bene a che titolo) sono ancora saldamente in sella.
Ma il MoVimento di oggi è sempre più partito e meno movimento. Per poter andare a governare il M5S si è ormai spogliato definitivamente di tutte quelle caratteristiche che — nel bene e nel male — avevano convinto molti a votarlo negli ultimi anni. Il M5S ora è un partito come tutti gli altri, dove la Democrazia Diretta non esiste e dove i vertici guardano agli eletti come dei bravi soldatini che devono ubbidire punto e basta.
All’articolo 3 del codice etico del M5S vengono esposti gli obblighi per i portavoce eletti sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle troviamo alcune interessanti novità .
Ciascun portavoce eletto all’esito di una competizione elettorale nella quale si sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle è tenuto ad esempio «a votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle».
Questo significa che qualora alle prossime elezioni Luigi Di Maio ricevesse l’incarico di formare il nuovo governo i parlamentari eletti nel M5S sono obbligati a votare la fiducia all’esecutivo ogni qualvolta il governo deciderà di porre la questione di fiducia il deputato/senatore a 5 Stelle sarà obbligato a votarla. Inoltre i deputati e senatori pentastellati saranno obbligati a dimettersi dalla carica in caso di espulsione dal MoVimento 5 Stelle.
Il codice etico suscita più di qualche perplessità e non solo per il modo in cui è stato discusso (non è stato discusso dall’Assemblea degli iscritti) votato (non è stato votato) e approvato.
Il problema principale è che il partito che più di ogni altri si è speso (a parole) in questa legislatura per difendere la Costituzione e la democrazia ha deciso di dotarsi di una serie di norme e regole palesemente anticostituzionali.
Non c’è alcun dubbio che la pretesa che gli eletti votino obbligatoriamente la fiducia non ha alcun fondamento costituzionale. Ma è molto più interessante che quando a votare la fiducia erano gli altri allora erano tutti servi, ora invece no.
Ma in fondo il MoVimento 5 Stelle è quel partito che da anni si batte per l’abolizione dell’articolo 67 della Costituzione, quello che sancisce che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza alcun vincolo di mandato.
Nel marzo 2013 Grillo definì l’articolo 67 “circonvenzione di elettore” spiegando che “l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno”.
Appena tre anni prima però Grillo ci ricordava che «chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito». A quanto pare il ragionamento aveva senso fino a che Grillo non si è trovato ad avere un partito e un centinaio di eletti in Parlamento da tenere sotto controllo.
Le nuove regole rispondono alle nuove esigenze di Grillo e del M5S di esercitare quanto più potere possibile sugli eletti. Il MoVimento 5 Stelle si è accorto così che anche il voto di fiducia, una modalità prevista dai regolamenti parlamentari, non è assolutamente anticostituzionale.
Dopo 5 anni spesi a spiegare che il voto di fiducia significa “commissariare il Parlamento” e che il ricorso alla fiducia da parte di Renzi era il sintomo “della deriva autoritaria delle istituzioni” (parole del componente del Collegio dei Probiviri Riccardo Fraccaro) ora il M5S scopre che non solo la fiducia può essere chiesta ma che addirittura deve essere obbligatoriamente votata dai parlamentari del M5S.
Perchè se da un lato è giusto che il M5S pretenda (lo fanno tutti i partiti) che gli eletti rispettino gli impegni presi dall’altro non può non stupire il radicale mutamento cui è andato incontro il M5S.
Da partito che sosteneva che il ricorso alla fiducia fosse sostanzialmente illegale a partito che contempla l’obbligo di votare tutte le questioni di fiducia (pena una ridicola multa da 100 mila euro che nessuno pagherà mai) il passo è decisamente lungo.
Alcuni provano a giustificarsi dicendo che «per poterci presentare alle elezioni ci siamo dovuti dotare di un nuovo Statuto» lasciando intendere che i cambiamenti radicali siano dovuti alla nuova legge elettorale.
Ma non è così, il nuovo Statuto, il nuovo regolamento e il nuovo codice etico servono solo a giustificare la necessità dei vertici di esercitare un controllo sugli eletti. Ma al di là degli obblighi morali non c’è alcun obbligo giuridico per rispettare quanto stabilito dal Grillo e Di Maio.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 4th, 2018 Riccardo Fucile
OGNI SERA OSPITATI 300 STRANIERI: “LA PAURA E’ RECIPROCA, POI PASSA”
«Qui c’è un materasso da due e là c’è il divano letto. Potete scegliere dove mettervi». Stephanie Marques dos Santos vive poco fuori Bruxelles e per una notte ospita due ragazzi della Guinea.
Trentanove anni, un figlio di dieci e un marito italiano, diverse volte alla settimana ospita qualcuno.
Migranti, perlopiù arrivati in Belgio attraverso la rotta della Libia e dell’Italia, in buona parte intenzionati a proseguire per il Regno Unito attraverso Calais.
Il punto di raccolta è al Parc Maximilien, un fazzoletto di verde a due passi dalla Gare du Nord. Qui tutte le sere si concentrano circa 300 migranti.
«Non ho mai avuto problemi. Paura sì. La prima notte non ho dormito, ero da sola con mio figlio», racconta.
«Poi però – spiega – pensi che loro rischiano molto di più. Vanno a casa di sconosciuti e ufficialmente non esistono. Possono sparire e nessuno lo sa, nessuno si preoccupa. Il loro rischio è molto più alto del nostro. Se uno pensa a questo la vede già in modo diverso».
«Anche noi abbiamo un po’ paura di andare a casa di qualcuno che non conosciamo», conferma Soumah, uno dei suoi ospiti: «La paura è reciproca, noi abbiamo paura di loro e loro di noi».
Tutto avviene attraverso la pagina Facebook Hèbergement Plateforme Citoyenne («Alloggio piattaforma cittadina»), che in tre mesi è esplosa e conta ormai oltre 29 mila iscritti.
Tutte famiglie che hanno deciso di contribuire. Una decina di volontari si alterna al parco la sera e incrocia le disponibilità con le richieste.
Oggi ha piovuto e il terreno si è trasformato in fango. Di mano in mano, tra i volontari, gira un termos di caffè. Calzettoni e scarponcini, passano da un capannello all’altro. «Si, lo so che state aspettando. Stanno arrivando altre famiglie», dice Thomas Tibbaut, rispondendo a un gruppo di sudanesi infreddoliti.
Ventinove anni, capelli corti e passo svelto, cerca di rassicurarli. «Aspettiamo da ore», protestano. «Un po’ di pazienza», ribatte. Accanto a lui un’altra giovane. «Il mio nome è Virginie Den Blauwen ma ci sono troppe Virginie qui, mi chiamano tutti Vi Niette», sorride. «Abbiamo due liste – spiega -. Qui ci sono quelli che hanno dato la propria disponibilità a ospitare i rifugiati, in quest’altra quelli che hanno l’auto e possono accompagnarli».
Le famiglie
«Abbiamo una casa grande, i nostri quattro figli sono grandi e hanno lasciato il nido», racconta Valeria Segantini, italiana da anni residente a Bruxelles. Mostra un paio di letti a castello. «Ne senti parlare in televisione, ma quando ti entrano in casa fanno un’altra impressione. Prima di tutto per l’età . Spesso sono giovanissimi. Ne abbiamo avuti anche di 15 anni. Quando ti dicono “siamo via da un anno” pensi a quanti pericoli hanno superato. Il loro percorso ti lascia senza parole».
La maggior parte delle famiglie che ospita ha figli piccoli. «Abbiamo discusso tanto – racconta Stephanie -. Per me la dimensione educativa era importante. Mio figlio ha l’età per essere consapevole delle difficoltà . Questa iniziativa ti dà un potere piccolo, ma combinato a quello di altre migliaia di persone è importante. E’ un bel messaggio da far passare ai bambini».
«Gli amici mi dicono che sono matta», racconta Joanne Detourbe, 37 anni. «”E se succede qualcosa?”, mi dicono. Ma io ho fiducia». D’altra parte, qualche precauzione si prende. «Io ogni sera sono al parco e quando ci sono persone che bevono alcolici ci parlo».
Capelli corti, l’aria sicura, Diallo Bobo viene dalla Guinea Bissau. E’ l’unico del giro che ha già ottenuto l’asilo. Vive stabilmente ormai dai Segantini ma continua a dare una mano al gruppo. «Sono che io confermo se uno può andare con una famiglia», spiega.
«Qui la gente è ammirevole», commenta Kitos. E’ scappato dal regime in Eritrea, dove ha lasciato due bambine di 3 e 5 anni. «Soprattutto i primi – sottolinea – che hanno avuto il coraggio di portare a casa degli sconosciuti. Questo viene dal cuore».
Com’è iniziata
Com’è iniziato tutto questo? «La prima volta lo abbiamo fatto due anni fa, quando c’era la crisi dell’Afghanistan», racconta Adriana Costa Santos. Ventitre anni, è l’anima del gruppo di volontari, perlopiù studenti.
«All’epoca ospitavamo delle persone, ma era una iniziativa molto più piccola. Quest’anno, a fine agosto, abbiamo ricominciato. Volevamo trovare un posto per tutte le donne che erano al parco. Una notte ci siamo resi conto che le donne erano sistemate e c’erano ancora delle famiglie che non avevano preso nessuno.
Così abbiamo deciso di provare a trovare un posto a tutti. La prima sera abbiamo ospitato 8 persone. Una settimana dopo 87. Ora tutti i giorni il parco la sera è vuoto».
«Uno dei primi weekend – racconta Mehdi Kassou, giovane belga di origine marocchina, altra figura chiave dell’iniziativa – la polizia ha circondato l’area e ha controllato tutti». Ma non ci sono state conseguenze perchè «la legge prevede l’ospitalità per motivi umanitari. Possiamo accompagnarli in auto e portarli in casa, senza correre rischi legali».
Sarebbe legale anche in Italia? «Sì», risponde l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «Se uno agisce a fini umanitari non è perseguibile, non commette reati».
I coordinamenti di quartiere
In questi mesi a Bruxelles sono sorti diversi coordinamenti di quartiere. «A volte ci sono persone che arrivano senza neanche le scarpe – racconta Stephanie – e ti serve recuperare delle calzature taglia 43 in serata. Lanci un appello e qualcuno te le porta. In questo modo si ricostruiscono anche delle relazioni di quartiere».
«Anni sprecati»
Ogni tanto arriva la notizia che qualcuno ce l’ha fatta, ha superato la frontiera raggiungendo il Regno unito, e le famiglie festeggiano.
«Ho speso 2.200 euro dollari per raggiungere l’Europa», racconta Mohammed, eritreo, 23 anni. Ha passato tre mesi nelle mani dei trafficanti libici. Da quasi due anni è in clandestinità e cerca di raggiungere il Regno unito.
Obiettivo: «Voglio finire la scuola di informatica, l’avevo iniziata in Arabia Saudita», per poi fare il programmatore. Kitos, per arrivare qui, di dollari ne ha spesi oltre 5000, passando dalla Turchia, e anche lui non può fare altro che nascondersi. Ma vorrebbe lavorare in un ristorante.
Se avessero avuto un permesso, sottolineano, non avrebbero sprecato questi anni. Li avrebbero messi a frutto e ora potrebbero mantenersi invece di doversi affidare all’aiuto di persone generose.
In estate, centinaia di persone dormivano nel parco, la questione dominava le pagine dei giornali. Theo Francken, ministro belga dell’immigrazione, a settembre aveva deciso un giro di vite dicendo che non voleva vedere un’altra Calais a Bruxelles. «In realtà stiamo stati noi a evitare che ci fosse un’altra Calais a Bruxelles, ospitando queste persone», sottolinea Mehdi.
La nuova struttura
Ora la Plateforme Citoyenne vuole andare oltre. Ha ottenuto dalla città una struttura che può ospitare fino a un centinaio di migranti.
«Ma – racconta Mehdi – la struttura era vuota. Abbiamo dovuto trovare tutto, mancavano persino le docce. Abbiamo lanciato un appello attraverso il gruppo Facebook a contribuire per pagarne l’installazione. L’obiettivo era raccogliere 9.500 euro. Meno di cinque ore dopo, li avevamo già raggiunti. Ho scritto subito di smettere di inviare denaro, ma hanno continuato a farlo e abbiamo superato i 23 mila».
Nella gestione è impegnata una cinquantina di volontari, che si occupano di tutto: cucina, pulizia, ingressi e uscite. Il centro ha aperto a inizio dicembre. Si chiama «la Porta di Ulisse».
(da “La Stampa”)
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