Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile AD APRILE LE ILLAZIONI SONO SERVITE PER CRIMINALIZZARE LE ONG E SANTIFICARE I BOIA… DOPO 10 MESI IMBARAZZO DELLA PROCURA E PROVE ZERO… HANNO SOLO CAUSATO UN TAGLIO DELLE DONAZIONI ALLE ONG DEL 20%… IL SERVIZIO DEI SERVIZI
Un interessante e coraggioso servizio del TgLa7 diretto da Enrico Mentana ha poche ore
fa sollevato uno dei casi più vergognosi della politica italiana e dei suoi risvolti giudiziari: l’inchiesta della procura di Trapani che ad aprile 2017 aveva sollevato “la possibilità , anche se non si tratta di reati giuridicamente perseguibili” che alcune Ong agiscano d’intesa con i trafficanti libici di esseri umani.
Affermazioni che scatenarono i Di Maio e i Salvini in uan caccia alle Ong, con relativo supporto sui social della fogna razzista. Vi fu persino una serie di audizioni alla Camera con tante smentite della nostra Guardia Costiera e la retromarcia del procuratore capo di Trapani.
Quelle accuse non suffragate da uno straccio di prova portarono a tre conseguenze:
1) diedero a Minniti l’alibi per allontare di trenta miglia i soccorsi delle Ong dopo la farsa del “codice di condotta” da sottoscrivere, causando l’abbandono da parte di molte di loro.
Con la conseguenza di centinaia di morti sulla coscienza di chi l’ha voluto.
2) Si permise ai trafficanti della Guardia costiera libica di autoproclamare la propria sovranità su un tratto di acque internazionali, in violazione delle norme vigenti (tanto è vero che la Libia ha poi rinunciato a formalizzare la richiesta nelle sedi competenti, come forse molti non sanno).
3) L’Italia permise perfino a una nave razzista di disturbare la navigazione di una nave Ong in zona controllata dalla nostra Guardia costiera senza sequestrarla e arrestare l’equipaggio.
4) come sottolineato dal servizio di Mentana, la diffamazione delle Ong ha causato un calo delle donazioni dal 5% al 20%, a seconda delle varie sigle, diminuendone di fatto l’attività a favore dei profughi.
Mentana quindi ha chiesto al magistrato della procura di Trapani assegnatario delle indagini a che punto siano a distanza di 10 mesi.
La risposa “imbarazzata” del magistrato è stata quella di chiedere al procuratore capo, in quanto lui non era in grado di rispondere.
Procuratore capo che “si è negato al telefono”.
Mentana ha fatto capire che i dubbi sull’inchiesta diventano sempre più pesanti, in mancanza di riscontri.
Suggeriamo a Mentana di approfondire un aspetto dell’inchiesta che è peraltro ben nota a chi l’ha seguita attentamente come noi: l’inchiesta nasce da una “informativa” caso strano di due agenti dei servizi segreti sotto copertura che il governo italiano ha infiltrato su una nave Ong con un mandato ben preciso.
Ma se non esistevano già ad aprile 2017 elementi “giuridicamente rilevanti” nelle loro segnalazioni, per quale ragione è stato dato loro credito?
Uno dei due agenti ha ammesso di essere in contatto con la segreteria di Salvini ( che prima ha negato e poi ha dovuto ammettere).
A chi è giovata l’esternazione “priva di prove”?
Perchè i due agenti sono stati definiti inizialmente “ex poliziotti” salvo poi dover ammettere che erano agenti dei servizi in missione?
Minniti non ne sapeva nulla?
Proprio lui che notoriamente è ritenuto “uomo vicino ai servizi”?
Quali interessi e quale strategia si celano dietro questa torbida operazione?
E’ fin troppo chiaro.
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile HANNO ANCHE DECISO CHE SARA’ RAMPELLI A PERDERE IN LAZIO… SGARBI HA AVUTO IL SEGGIO SICURO, “NOI PER L’ITALIA” ANCORA NO
Il programma firmato era “ampiamente condiviso”, ha spiegato Berlusconi intervistato da Paolo Del Debbio a Quinta Colonna.
Il leader di Forza Italia non ha risparmiato critiche al Movimento 5 Stelle e il suo candidato premier Luigi Di Maio: “E’ assolutamente inaccettabile e impresentabile che un ragazzo dal bel faccino ed eloquio pronto possa avere in mano il governo della nazione, essendo giovanissimo, avendo 31 anni, non essendosi mai laureato e non avendo mai fatto seriamente un lavoro”.
Sul tavolo dell’incontro, oltre al programma elettorale di governo anche la candidatura alla Regione Lazio che, secondo quanto viene riferito, vedrà la coalizione appoggiare il candidato unico Fabio Rampelli.
Resta però da sciogliere il nodo su chi sarà il candidato premier della coalizione: il Cavaliere (in caso di una sentenza a suo favore da parte di Strasburgo) è pronto a rimettersi in gioco in prima persona, ma anche in caso di esito negativo il candidato premier da lui desiderato non sarebbe Matteo Salvini, che Berlusconi preferirebbe per il ruolo di ministro dell’Interno.
Il leader del Carroccio in caso di una percentuale eclatante di voti per la Lega aveva però detto di voler dettare le regole.
Intanto Berlusconi incassa la candidatura tra le file di Forza Italia di Vittorio Sgarbi che, intervistato da La Zanzara ha detto di rinunciare alla propria lista: “Mi ha offerto un seggio sicuro al Senato”.
All’ordine del giorno c’era la messa a punto del programma e, soprattutto, le candidature nei collegi uninominali. Berlusconi, in precedenza, aveva incontrato la delegazione della cosiddetta ‘quarta gamba’, composta da Raffaele Fitto e Lorenzo Cesa, che hanno definitivo l’incontro “non positivo”, con riferimento in particolare allo spazio nelle candidature per gli esponenti della loro formazione.
Sarà “difficile” aggiungono fonti vicine ai vertici di ‘Noi con l’Italia-Udc’ “trovare un’intesa a queste condizioni”. Non è però rottura, il dialogo è ancora aperto e possibilista, a patto che “anche noi entriamo nella trattativa con pari dignità “.
Berlusconi avrebbe assicurato a Cesa e Fitto che avrebbe portato agli alleati le loro istanze nel vertice di questa sera a palazzo Grazioli. ‘Noi con l’Italia-Udc’ attende il responso e molto probabilmente rivedranno il leader azzurro domani.
(da agenzie)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile VENERDI LA CONSEGNA DEL SIMBOLO, POI A PESCARA
Quattro giorni per smantellare le cordate e passare a setaccio i vincitori provvisori delle
parlamentarie M5s, cioè della selezione online dei candidati grillini alla Camera e al Senato.
I vertici pentastellati, quindi Luigi Di Maio, Davide Casaleggio e Beppe Grillo, riuniti all’hotel Forum, si sono presi del tempo prima di comunicare le liste ufficiali, che saranno annunciate solo domenica sera al termine della tre giorni di Pescara dedicata al programma di governo.
Nonostante le rassicurazioni diffuse dal blog (“Il voto si è svolto con regolarità e in sicurezza”) qualcosa è andato storto e ai vertici in queste ore stanno arrivando segnalazioni di comportamenti non in linea con il codice etico pentastellato.
Il caso più eclatante riguarda l’audio pubblicato mercoledì mattina da Marco Canestrari e Nicola Biondo, autori del libro Supernova.
In questo messaggio whatsapp si sente una persona che si rivolge a un tale Enrico e gli chiede di bloccare “chi hai contattato per i click”. Tutto ciò nel linguaggio 5Stelle è sinonimo di cordata, assolutamente vietata dal regolamento.
“L’autore del messaggio vocale — riferisce una fonte M5s di alto livello — sarebbe stato individuato, si tratta di una persona delle provincia di Catania, e lo abbiamo segnalato ai vertici”.
Anche la cordata sarebbe ben chiara e con essa le motivazioni. Ora i vertici stanno decidendo come procedere per evitare anche il rischio di ritrovarsi infiltrati nelle liste per le quali hanno concorso diecimila persone, come ha detto Di Maio.
Infatti, a parlamentarie concluse, sul blog si legge: “Era richiesto attenersi a criteri di lealtà e correttezza nei confronti degli altri iscritti, di mantenere comportamenti eticamente ineccepibili, anche a prescindere dalla rilevanza penale degli stessi”.
Il post mette in evidenza anche che le regole sono chiare e ricordano che l’ultima parola sulle candidature spetta al capo politico. Per questo si prevedono probabili nuove esclusioni anche perchè sono in corso verifiche sui documenti presentati e sulle fedine penali.
Prima di dare il via al “Villaggio Rousseau”, nei fatti si tratta di una scuola di formazione politica in cui gli iscritti vengono istruiti sul programma ma anche su come si scrive per esempio una proposta di legge, Luigi Di Maio, Beppe Grillo e Davide Casaleggio andranno al Viminale a depositare il simbolo per le prossime elezioni dopo essersi visti all’hotel Forum, anche per discutere delle parlamentarie.
La presenza del fondatore, che il 22 gennaio staccherà ufficialmente il suo blog dalla gestione della Casaleggio associati, balza all’occhio dopo che in tanti dal Movimento avevano parlato della sua voglia di farsi da parte.
Infatti fino a pochi giorni fa la partecipazione di Grillo a Pescara non era prevista, adesso invece c’è chi non esclude un suo blitz a sorpresa proprio per rassicurare e dare slancio alla campagna elettorale.
A tenere le lezioni saranno i parlamentari ma anche personalità con cui il Movimento è entrato in contatto.
Tra queste il sociologo Derrick de Kerchove, allievo di McLuhan, che parlerà di “Datocrazia”, ovvero di partecipazione all’epoca dei big data, il professore Massimo Di Felice dell’Università di San Paolo e Mario Pireddu, docente dell’Università della Tuscia.
Per ognuna delle tre giornate sono previste 1400 persone ma devono essere rigorosamente iscritte ai panel. Molte di loro sono concorrenti delle parlamentarie, in attesa del responso, che arriverà domenica tra delusioni e proteste.
Le stesse che si sono registrate negli ultimi tre giorni.
(da “Huffingtonnpost”)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile DOPO LA POLITICA DI CRIMINALIZZAZIONE DELLE ONG, ORA IL GOVERNO TEME LE ACCUSE PER I MORTI CHE HA SULLA COSCIENZA
SOS servono più navi sulla rotta del Mediterraneo. Quelle impiegate nell’opera di soccorso non bastano.
Da sola, nonostante un impegno straordinario, la Guardia costiera italiana non ce la può fare. Il sostegno dall’Europa non arriva, e allora ecco la pressione “sotterranea” rivolta alle Ong che, per ragioni di sicurezza o perchè non in sintonia con le regole di condotta delineate la scorsa estate dall’Italia, avevano annullato o drasticamente ridotto il proprio impegno.
L’allarme è scattato. I trafficanti di esseri umani stanno diversificando i punti di partenza e le rotte da seguire. I tratti di mare da controllare si fanno sempre più ampi e a rendere ancora più problematica la situazione sono le pessime condizioni atmosferiche che rendono più difficoltose le operazioni di salvataggio.
Nessuna richiesta ufficiale, ma a quanto risulta ad HuffPost, un rinnovato impegno è stato chiesto ad alcune delle Ong che più hanno battuto il Mediterraneo: Medici senza Frontiere, anzitutto, e poi la spagnola Proactiva Open Arms e SOS Mediterranee. “Salvare vite umane è sempre stato il nostro unico obiettivo e se oggi ci viene chiesto di moltiplicare i nostri sforzi senza doversi scontrare con codici non accettabili, il nostro impegno è assicurato”, dice ad HuffPost un dirigente di Proactive Open Arms impegnato nelle operazioni di salvataggio in corso.
La Ong spagnola è tra quelle che alla fine hanno firmato il codice di condotta messo a punto dall’Italia, ma non per questo vengono meno le critiche a certe intese.
Per Oscar Camps, direttore dell’organizzazione umanitaria spagnola, “siamo di fronte a una situazione limite, sono stati utilizzati tutti i tipi di accuse senza prove per attaccare le Ong”.
“Quando – continua Camps alludendo a un reportage della Ap in cui si parla di fondi destinati alla formazione della guardia costiera finiti ai ‘passeurs’ – si parla di 6 milioni di dollari pagati per non far partire barche da Sabrata, noi siamo stati accusati di tutto ma chi negozia e paga i trafficanti è l’Italia”.
“E’ da un mese che non escono barche da Sabrata”, spiega ancora Camps, “questo è un elemento che può far dire all’Italia che funziona il sistema messo in piedi, ma in realtà si stanno accumulando centinaia di migliaia di persone in Libia, la zona della costa è ormai piena e le stanno lasciando nel deserto, a morire”.
Attualmente, sono 5 le Ong rimaste nel Mediterraneo, 5 e dispongono di un paio di grandi navi più 5 imbarcazioni più piccole, tipo pescherecci.
Medici senza Frontiere non c’è più, è l’unica Ong a non aver firmato il “Codice Minniti” e già da tempo ha ritirato la sua nave Prudence: resta uno staff di 11 persone a bordo della nave Aquarius di proprietà dei colleghi di SOS Mediterranee.
Operano a terra però, precisano dall’ufficio centrale. In terra libica: “I nostri medici lavorano a tempo pieno in Libia e prestano servizio in alcuni centri di detenzione tra cui quelli di Tripoli e Misurata”.
Secondo MsF il problema vero sta nei numeri delle imbarcazioni che fanno search and rescue, che rimangono ancora troppo poche, rendendo così problematico anche l’eventuale trasporto delle persone salvate nei porti francesi e spagnoli, qualora i governi di questi Paesi dovessero aprirli, come richiesto dalla Commissione europea.
Intanto l’Acquarius è arrivata a Catania con 513 migranti. L’imbarcazione è una delle poche che si è avventurata in queste ore di tempesta nel Mar Mediterraneo, dove si sta consumando l’ennesima tragedia.
Già due giorni fa, la nave spagnola Proactiva Open Arms aveva lanciato un segnale di allarme e la richiesta di un trasbordo urgente.
La nave umanitaria, che a causa delle proibitive condizioni meteo è stata costretta a navigare nella zona più al riparo dal vento tra le coste tunisine e quelle libiche con centinaia di persone, aveva a bordo un bimbo di tre mesi morente.
Era necessario portare a terra quanto prima il piccolo, che non riusciva ad alimentarsi, e una donna con un parto prematuro.
L’assenza di navi in zona per un possibile soccorso ha però segnato il destino del piccolo, che è morto questa mattina nell’attesa di un trasporto sanitario urgente.
Sullo stesso barcone di Proactiva Open Arms sono stati trovati altri due corpi e la nave fa sapere di non essere in grado di raggiungere nessun porto almeno fino a sabato.
Sono ore davvero concitate per la Guardia costiera, che sta ricevendo numerose chiamate con richieste di aiuto, ma le imbarcazioni da destinare alle emergenze non ci sono. Secondo i dati del Viminale, dall’inizio dell’anno sono sbarcati in Italia circa mille migranti; a questo dato vanno aggiunti gli oltre 1400 salvati ieri.
Il che porterebbe a un numero complessivo di 2470 persone, leggermente superiore a quello del gennaio di un anno fa (furono 2393).
Nel Mediterraneo la rotta più pericolosa è di gran lunga quella del Mediterraneo centrale, che dalla Libia porta alle rive della Sicilia.
Il numero maggiore di morti è stato toccato nel 2016: 5.143 secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim).
Nel corso del terzo quadrimestre del 2017, è fortemente aumentato il numero di migranti arrivati sulle coste italiane partendo dalla Tunisia, dalla Turchia e dall’Algeria. La maggior parte degli arrivi in Europa lungo la rotta del Mediterraneo, spiega un rapporto dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono costituti da persone di nazionalità siriana, marocchina e nigeriana.
“Nei mesi scorsi la rotta via mare verso la Grecia ha guadagnato popolarità , gli arrivi via mare in Italia sono diminuiti e abbiamo assistito ad una crescente diversificazione dei viaggi intrapresi da migranti e rifugiati per raggiungere l’Europa”, rimarca Pascale Moreau, direttrice dell’Ufficio per l’Europa dell’Unhcr.
Circa l’80% degli arrivi via mare in Grecia sono costituiti da siriani, iracheni e afghani, di questi due terzi sono donne e bambini.
Parallelamente, la Spagna ha visto un aumento del 90% degli arrivi via terra e via mare nel terzo quadrimestre del 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La maggior parte di questi — 7.700 persone – arriva da Marocco, Costa d’Avorio e Guinea, ma gli arrivi via terra sono costituiti per la maggior parte da siriani.
Il rapporto evidenzia inoltre la ripresa, nel corso dell’estate, degli arrivi in Romania dalla Turchia, attraverso il Mar Nero (per la prima volta dal febbraio del 2015) così come un massiccio incremento degli arrivi a Cipro dall’inizio dell’anno.
“Nonostante la riduzione degli arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, migliaia di persone continuano ad intraprendere viaggi disperati verso l’Europa”, spiega ancora Moreau.
E questa diversificazione delle rotte, unita al peggioramento delle condizioni atmosferiche, spiegano la necessità di un potenziamento della “Flotta della speranza”.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile EUROMEDIA E PIEPOLI CONCORDI: IL GOVERNATORE USCENTE IN NETTO VANTAGGIO
Oggi sono stati resi noti due sondaggi sulle regionali in Lazio, che confermano la linea di
tendenza in atto.
Il primo sondaggio è quello di Euromedia Research (sondaggista di fiducia di Berlusconi) che pone in netto vantaggio il governatore uscente Zingaretti con il valore medio del 44%, seguito da Gasparri al 26%, Lombardi al 19,4%, Pirozzi all’8% e Antonini di CasaPound al 2,6%.
Il secondo sondaggio è più “neutro” ed è di Piepoli, ma per almeno due candidati conferma il primo.
In testa è sempre Zingaretti con il 42%, Gasparri e la Lombardi sono appaiati al 20%, Pirozzi è dato al 16%
Quindi analoghi risultati per il governatore uscente e la Lombardi, calo di Gasparri a vantaggio di Pirozzi nel sondaggio di Piepoli, ma la sostanza cambia di poco.
Emergono quattro elementi:
1) Neanche la somma teorica dei voti di Gasparri e Pirozzi porterebbe il centrodestra alla vittoria su Zingaretti, in quanto si fermerebbe intorno al 35%
2) La Lombardi non sfonda, anzi prende una percentuale inferiore a quella nazionale del M5S
3) Nonostante la crisi del Pd, l’immagine di Zingaretti resta molto popolare e raccoglie consensi molto più elevati della coalizione che lo sostiene.
4) Casapound viene ridimensionata in una Regione dove ha pur radici da molti anni
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile VISTE LE SUE DICHIARAZIONI DEI REDDITI, NON E’ CHE QUESTO RAGAZZO HA LE MANI BUCATE?
Ieri Matteo Renzi da Nicola Porro a Matrix ha mostrato il suo conto corrente in un bell’intervento nel quale ha sostenuto che per un politico è necessaria la trasparenza: «Il 30 giugno 2014 avevo 21.895€ e oggi ho 15.859€. Chi fa politica non lo deve fare con lo scopo di arricchirsi», ha detto.
Ora, però, c’è qualcosa che non quadra.
Il 30 giugno 2014 Matteo Renzi era presidente del Consiglio da quattro mesi.
Da sindaco di Firenze, nel 2012, ha guadagnato 145.272 euro. Renzi è stato presidente del Consiglio fino al 12 dicembre 2016.
Per il 2014 (periodo d’imposta 2013) Renzi ha dichiarato redditi da lavoro per euro 100mila (lo dice la presidenza del Consiglio dei ministri).
Nel 2015 (periodo d’imposta 2014) ha dichiarato redditi da lavoro per euro 90mila e un reddito complessivo di euro 110mila.
Nel 2016 (periodo d’imposta 2015) Renzi ha dichiarato redditi da lavoro per 104mila euro e un reddito complessivo di 105mila euro.
Nella pagina dedicata a lui sul sito della presidenza del consiglio non sono disponibili altri dati, ma ci bastano questi.
Senza star lì a fare le somme perchè non sarebbe carino e lasciando perdere i redditi 2016 e 2017, come ha fatto Matteo Renzi a trovarsi sul conto corrente solo 15mila euro?
Ma questo ragazzo ha le mani bucate?
Chi scrive è ben consapevole del fatto che se Renzi avesse invece impiegato quei soldi per acquistare — ad esempio — immobili, oppure li avesse — ad esempio messi su un dossier titoli, mostrare il saldo di c/c non avrebbe alcuna valenza informativa (servirebbe un’anagrafe patrimoniale).
E, tecnicamente, nel caso di acquisto di immobili, si sarebbe arricchito.
Ma Renzi ne è consapevole?
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile IL PIROZZI PENSIERO NON PREVEDE IL CONGEDO PARENTALE MASCHILE, POI COME FA AD ANDARE ALLO STADIO?
Devo dire che questa volta Sergio Pirozzi ha davvero fatto bingo. 
In una sola affermazione è stato capace di fare l’en plein mettendo insieme due concetti uno peggio dell’altro: il primo è il razzismo, il secondo è la misoginia.
Non che le due cose non vadano spesso di pari passo, ma questa volta l’ha veramente teorizzata grossa nel dire che poichè non abbiamo bisogno di tate straniere perchè “Non insegnano i valori fondanti di questa nazione” allora e anche per questo “Le mamme devono tornare a fare le mamme“.
Ma c’è di più, per rafforzare questa sua teoria così restauratrice, Pirozzi trova il modo di accattivarsi le giovani italiche promettendo loro un compenso per stare a casa con i figli. Eppure, a pensarci bene, forse non è semplicemente un’idea anacronistica buttata lì per caso ma una visione quanto mai attuale, nel suo razzismo e nella sua idea di confinare nuovamente la donna al solo focolare domestico.
Una visione ricca non solo di stereotipi ma condita dalla volontà di fare mille passi indietro sul terreno dei diritti e dell’emancipazione.
Una visione dettata dalla volontà di mettere la parola fine a ogni reale sostegno alle politiche di genere: donna a casa, problema risolto.
Pirozzi, infatti, non è il primo a rilanciare il tentativo di comprare ogni libertà , conquista e autodeterminazione femminile, con la promessa di pochi spicci.
Qualche anno fa fu il responsabile generale della comunità papa Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, a trovare la nuova ricetta per far crescere i figli sani, promettendo un reddito alle neomamme a patto che decidessero di rinunciare al lavoro e al nido per i primi tre anni di vita del bambino.
Senza poi preoccuparsi di cosa sarebbe stato della donna dopo dopo i tre anni, una volta rimasta tagliata fuori dal lavoro.
Questa cosa non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza, nè tanto meno con la crescita “sana” dei figli.
E i motivi sono tanti: la crescita sana non è esclusivo appannaggio materno, nè è garantita con una madre iper-presente.
È garantita dall’equilibrio tra lavoro e famiglia, dalla realizzazione personale che è responsabile di tante cose, è garantita anche dalla figura del padre.
E allora perchè, ad esempio, non parlare anche del congedo parentale maschile? E perchè insistere sul concetto di rinuncia, che posto così esula da quello di scelta?
Ma soprattutto, perchè non dare alle donne la possibilità di scegliere se essere mamme, lavoratrici o (addirittura) entrambe, senza per questo restare scoperte?
C’è un tema vero, che si chiama conciliazione ed è lì andrebbero trovate le risposte.
Caro Pirozzi, la coperta è troppo corta e tira solo dalla parte tua.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile USATO PER SPEDIRVI I DISSIDENTI, ERA UNO DEI PIU’ TERRIBILI D’EUROPA… LE STORIE DEI SUPERSTITI E DEI LORO DISCENDENTI
«La stiva della nave Punat si aprì all’alba. «Dall’esterno sentivo grida confuse: “Uaaaaa bandaaa”, abbasso i banditi. “Doleee izdainiciiii”, abbasso i traditori. A un tratto, arrivò sulla nave un gruppo di persone che iniziò a picchiarci all’impazzata, e si scatenò una fuga generale verso la scaletta che portava fuori. Davanti a noi si presentava una scena impressionante: due lunghissime file di individui che si snodavano dalla riva dell’isola verso una serie di baracche. Era lo “stroj”, il sentiero: il saluto di benvenuto sull’isola dei dannati. Noi dovevamo passare tra le due file di uomini, che ci colpivano forte con calci e pugni, sfigurando i nostri volti fino a farli diventare irriconoscibili. Nessuno riusciva ad attraversarlo tutto: dopo qualche decina di metri, si rovinava a terra, sfiancati dalle botte. La cosa che mi lasciò sbalordito è che non erano i militari a picchiarci, ma gli stessi detenuti del campo: stavano dando prova alle guardie della loro avvenuta “rieducazione”. Prigionieri trasformati in aguzzini degli altri prigionieri. Gli agenti dell’Udba erano posizionati lungo il percorso, e controllavano attentamente che tutti picchiassero con la dovuta violenza. Pena? Unirsi alla “nova banda”, ed essere pestati a loro volta. Ogni volta che un nuovo gruppo di detenuti arrivava sull’isola, i militari organizzavano lo “stroj”. Anch’io, come tutti gli altri, ne presi parte picchiando forte i nuovi sventurati, per non dover subire ancora quel supplizio».
Ci sono luoghi che non hanno bisogno di targhe alla memoria, dove qualcosa è successo tanto tempo fa, muri che non possono fare a meno di tacere. Luoghi dove i sassi, se avessero una voce, sarebbero capaci di raccontare la loro storia.
Una storia che ti si attacca addosso come salsedine e che ti resta dentro come un nodo alla gola che non si scioglie. E anche se dopo tanti anni la pioggia ha lavato via il sangue dalle pietre, rimangono parole mute inchiodate alle pareti, che attendono di essere raccolte.
Uno di questi luoghi si trova al largo della Dalmazia settentrionale, e si erge in mezzo all’Adriatico come una roccaforte naturale di una bellezza terrificante: si chiama Goli Otok (isola calva), e tra il 1949 e il 1956 è stata una delle più terribili prigioni in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Per sette lunghissimi anni, il dittatore comunista jugoslavo Josip Broz Tito fece rinchiudere su questa arida pietraia in mezzo al mare non solo tutti i suoi avversari politici, ma anche chi fosse minimamente sospettato di esserlo: tra questi, un gran numero dei suoi combattenti, ufficiali, generali, ex partigiani.
E il 90 per cento dell’intellighenzia di un’intera nazione: studenti, intellettuali, giornalisti, professori, scrittori.
Tutto iniziò nel giugno del 1948, quando vi fu la “rottura” tra la Jugoslavia di Tito e l’Unione Sovietica di Stalin.
Dopo la scomunica di Mosca al governo di Belgrado (accusato di “deviazionismo nazionalista”), in Jugoslavia vennero delineandosi due schieramenti contrapposti: da una parte i comunisti solidali con Tito; dall’altra, quelli che scelsero di restare fedeli alla linea politica del Cremlino.
Per questi ultimi la repressione arrivò all’improvviso, devastando vite e famiglie da un giorno all’altro.
Era l’Udba – la polizia segreta jugoslava – ad avere il compito di individuare e colpire i non-allineati al regime, incriminandoli come “nemici del popolo”, anche solo per aver detto una parola di troppo – il cosiddetto “delitto verbale” – o per aver espresso una minima perplessità in pubblico.
Molti altri non seppero mai il motivo della propria condanna. Dopo la delazione di un compagno e un processo farsa, per tutti i “cominformisti traditori” si aprivano le porte dei campi di rieducazione, come venivano chiamati.
Ancora oggi nel campo di Goli Otok, di cui fino a pochi anni fa si ignorava l’esistenza, il soffio incessante della bora solleva polvere di sale che impedisce all’erba di crescere tra le rovine delle prigioni e i bunker che ospitarono circa 30 mila detenuti, quasi tutti comunisti torturati da altri comunisti.
Grazie a un’accurata ricerca compiuta da una commissione dell’associazione croata degli ex deportati “Ante Zemljar”, oggi sappiamo che oltre 16 mila subirono le più sadiche sevizie e 446 persone morirono a seguito della “rieducazione”.
Racconta il sopravvissuto rovignese Sergio Borme: «Sull’isola c’erano ventiquattro baracche. In ognuna, duecento prigionieri. Dormivamo su tavolacci a tre piani, stipati come sardine, e potevamo coricarci soltanto di fianco. E di fianco ci risvegliavamo la mattina seguente. Sull’isola eravamo obbligati a trasportare pesanti massi di pietra da un luogo all’altro, senza alcuna ragione o utilità : era solo una tecnica per stremarci. Passavamo 8-10 ore al giorno, sotto il sole o la pioggia, immersi fino al collo nell’acqua del mare, a spalare sabbia. Ma il peggiore supplizio era la fame. Una fame nera che non dava tregua, e che ti faceva perdere il lume della ragione, portandoti al degrado umano più totale: senza più coscienza, senza più inibizioni, senza più rispetto per te stesso».
Sull’isola il sadismo era la normalità , e più gli aguzzini punivano i compagni, più diventavano potenti e rispettabili. I responsabili di quelle torture non vennero mai puniti per i loro soprusi.
Racconta Ratko Radosevic, figlio del sopravvissuto Petar: «Un’altra delle torture consisteva nello stare dritti come pali sotto il sole cocente d’estate a fare da ombra ai pini appena piantati, girando tutto intorno per seguire il movimento del sole».
A causa della carenza vitaminica, le gambe dei prigionieri nel tempo si gonfiavano come travi e le falangi delle dita andavano in cancrena. Molti morivano per fame o dissenteria, altri stroncati da tifo, epatite, distrofia o insolazione. In diversi casi i cadaveri non venivano sepolti, ma gettati direttamente in mare.
Come accadde a Mario Quarantotto, originario di Rovigno, che venne ucciso durante un feroce pestaggio, dopo essere tornato per la seconda volta sull’isola-lager.
Nei ricordi dei suoi compagni di prigionia, Mario urlava rifiutandosi di indossare la camicia nera, marchio riservato agli “irriducibili”. La sua famiglia non ebbe mai notizie del cadavere, nè del luogo della sua sepoltura: solo un documento attestante «morte per insolazione».
A volte, per aver contravvenuto a qualche regola o semplicemente per la delazione dei propri compagni, si subiva il “boikot”: il boicottaggio.
Ed era quanto di peggio potesse capitare, visto che al boicottato venivano affidati i lavori più pesanti. Bisognava lavorare in coppia con un altro prigioniero, che a sua volta era costretto a fare da aguzzino, tutto di corsa, senza un attimo di tregua, con i piedi protetti solamente da un copertone di gomma legato con un filo di ferro.
Ogni sera i boicottati dovevano attraversare lo “stroj” formato dai detenuti della sua baracca e ricevere la dose quotidiana di botte. Prima di andare a dormire, l’aguzzino di guardia spingeva la testa dei boicottati nel kibla, l’orinatoio della baracca. E questo strano tipo di inferno poteva durare anche qualche mese. Pochi sopravvivevano.
«A Goli Otok ho subito tanti boikot, non ricordo neanche quanti. Soprattutto all’inizio. E non capivo perchè. Con i miei compaesani arrivati prima di me, mi sfogavo raccontando il mio tormento, la mia disperazione. Loro mi ascoltavano, dandomi consigli sulle regole del campo e su come comportarsi. A distanza di poco però, venivo sempre condannato al boikot. Mi sembrava impossibile che compagni di sventura, potessero andare dalle guardie a riferire tutto. Poi, con il tempo e con l’esperienza, mi resi conto che invece erano proprio loro a fare la spia. Se non mi avessero denunciato alle guardie, a loro volta avrebbero subito il boikot. Eravamo obbligati periodicamente a fare rapporto al funzionario dell’Udba, riferendo tutte le confidenze e le espressioni di sconforto sentite dai compagni. Se non si era sentito nulla, allora non restava che inventarsi qualcosa e denunciare qualcuno a caso, meglio se parenti o amici ancora in libertà . Ci avevano trasformati in un esercito di delatori, messi gli uni contro gli altri, in modo da non poterci fidare di nessuno. Eravamo completamente soli, soli contro tutti. Dopo qualche mese e i primi boikot, ero arrivato a pesare 43 chili. Uno scheletro, l’ombra di me stesso. La stessa ombra umana che tante volte avete visto in televisione quando raccontano le atrocità di Auschwitz. Eravamo degli zombi, denutriti, distrutti nel fisico e nell’animo. Diventava un tormento anche lo stare seduti, perchè le ossa erano ricoperte soltanto da pelle. Ma la cosa che rendeva peculiare quel campo, non era tanto l’annientamento fisico, quanto quello morale. Tutti, me compreso, abbiamo pensato al suicidio come possibile via d’uscita a quell’inferno. Un atto estremo di liberazione. Ma a Goli Otok, persino morire era un sogno irrealizzabile, visto che la sorveglianza era strettissima. Ci tenevano in vita quel tanto che bastava per costringerci a subire quell’incubo, solo per il gusto di tormentarci».
Costretti in una buca
Spiega Darko Bavoljak, attuale Presidente dell’Associazione “Ante Zemljar” e autore di un documentario su Goli Otok: «Le dinamiche dei gulag sovietici, la violenza fisica e psicologica dei lager nazisti, un perverso metodo di rieducazione e l’asprezza della natura: sono questi i fattori che rendono l’isola un’inquietante anomalia tra i campi di detenzione, una fabbrica del terrore dove la dignità della persona veniva calpestata, palcoscenico spettrale e disumano di crimini che tuttora pesano come un macigno sul corso della Storia».
Tra le altre cose, Darko ci mostra ciò che resta del famigerato “R-101”: il temutissimo campo all’interno dell’isola – una sorta di prigione nella prigione – riservato ai detenuti più resistenti alla rieducazione, che meritavano un trattamento particolarmente violento.
È una buca profonda otto metri e mezzo, larga 25, e poteva contenere circa 20 detenuti in isolamento totale, dove tra torture e lavori forzati difficilmente riuscivano a sopravvivere, o a evitare l’impazzimento.
Su questa vergogna venne posta scientemente una pietra tombale. E un silenzio durato decenni, finito soltanto negli anni Novanta del secolo scorso. Con la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, e il crollo del muro di Berlino, alcuni testimoni cominciarono a raccontare l’orrore vissuto sull’isola dei dannati.
Giacomo Scotti, giornalista e scrittore che vive a Fiume dal 1947, fu il primo a raccogliere le loro testimonianze, a renderle pubbliche dalle pagine de “La Voce del Popolo”, e poi nel suo libro-inchiesta “Ritorno all’Isola Calva”, pubblicato in Italia nel 1991, che all’epoca destò un enorme scalpore e molto interesse.
Dalle memorie di Sergio Borme: «Eravamo negli anni Cinquanta, quando l’Europa aveva già voltato pagina dagli orrori della Seconda guerra mondiale: noi vivevamo ancora le stesse condizioni dei lager nazisti. La mia scarcerazione arrivò un giorno qualsiasi. Uno come tanti trascorsi a Goli Otok in tre anni e tre mesi di reclusione. All’immediata felicità , subentrò un’infinita tristezza per l’abisso morale nel quale ero precipitato».
Ritorno alla libertà
I figli degli internati conservano oggi vecchie fotografie in bianco e nero, frammenti di lettere, manoscritti e qualche articolo di giornale: cimeli che mostrano durante le interviste, mentre cercano le parole giuste che possano raccontare il dramma delle loro famiglie segnate per sempre. Da Buie a Zagabria, da Pola a Fiume, la stessa espressione malinconica negli occhi, lo stesso strazio nel ricordare le tristi vicende dei loro padri.
Racconta Irene Mestrovich, figlia di Gino Kmet, che anche una volta rientrato a Fiume, il dramma di suo padre proseguì: i familiari e i vecchi amici lo evitavano come un appestato, poi arrivarono lo sfratto da casa, la miseria, la ricerca disperata di un impiego che gli permettesse di mantenere la famiglia.
Ma su Goli Otok non diceva una parola: prima di tornare in libertà , i detenuti erano costretti a firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non rivelare mai a nessuno ciò che avevano vissuto.
Sicchè Gino non ne parlò mai nemmeno coi propri figli: si limitava a raccontare che, essendo un bravo meccanico, era stato messo a lavorare in un’officina, evitando così le torture riservate agli altri. Solo dopo la morte di Tito, Gino cominciò a rintracciare gli ex compagni, impegnandosi in prima persona per divulgare questa storia, anche se per tutta la sua vita non parlò mai più di politica per il terrore di essere spiato.
Paura non senza fondamento: racconta Jasmina Bavolcav, figlia di un ex internato croato, che quando nel 1995 fu aperto l’archivio dell’Udba trovò il fascicolo di suo padre e casualmente anche un altro che portava il suo nome: «Fu uno choc terribile scoprire di essere stata pedinata e spiata fino al 1970».
Cos’è rimasto oggi
Dice Dolores Barnaba, di Buie: «Mio padre, Emilio Tomaz, raccontava spesso l’episodio di uno sloveno legato al palo mentre tutti gli altri in fila dovevano passargli davanti e sputargli addosso: alla fine non si vedeva più il colore della pelle. Una volta tornato a Montona, gli informatori dell’Udba si presentavano spesso in casa e facevano domande: fu costantemente controllato, fino agli anni Sessanta. Oggi, quando mi capita di passare in auto sulla litoranea, guardo quell’isola e ogni volta sento un nodo alla gola, anche perchè noi figli abbiamo vissuto le conseguenze di quel calvario: ricordo, da bambina, che mio padre aveva incubi notturni, urlava e graffiava il muro con le unghie».
Biancastella, figlia di Licio Zanini – ex detenuto e autore del bellissimo libro “Martin Muma” – ha lavorato alla Radio Rai di Trieste per 40 anni, dedicando molte delle sue trasmissioni alla memoria di Goli Otok e intervistando i sopravvissuti come suo padre. «Papà dopo la mia nascita disse: “Mia figlia si chiamerà Stella Bianca, perchè dopo quello che ho passato, alla stella rossa non credo più”. I nostri genitori per anni furono esclusi ed emarginati persino dagli amici di una vita. A volte mi chiedo qual è il testamento che lascia una vicenda del genere. Oltre a svelare cosa poteva succedere in quegli anni, penso che possa servire a ricordare che cosa vuol dire essere liberi e quanto dolore è costato a quegli uomini quell’anelito di libertà ».
Nel periodo estivo, oggi, l’isola calva è meta di migliaia di imbarcazioni e turisti attratti dalla sua ruvida bellezza; ed è forse per questo che qualcuno ha pensato di trasformare l’ex lager in un resort di lusso. Idea che non piace a chi su quell’isola si è visto strappare un pezzo di vita, ai figli di chi è sopravvissuto, e a chi ha preso a cuore la tutela del ricordo di Goli Otok. Come Furio Radin, che rappresenta la minoranza italiana nel Parlamento croato: «Cosa troviamo oggi a Goli Otok? Solo baracche semidiroccate, edifici sgretolati e pericolanti, mangiati dalla polvere di sale. La natura e l’incuria dell’uomo hanno trasformato quello che dovrebbe essere un luogo della memoria in un cimitero abbandonato di detriti di ferro, legno, cemento. Dieci anni fa la Commissione per i diritti umani del Parlamento croato ha iniziato a occuparsi di un Memoriale sull’isola, voluto fortemente dall’associazione degli ex-deportati. Ma non se n’è fatto nulla: purtroppo, ancora oggi la politica croata preferisce evitare di parlarne. Io penso invece che la memoria di ciò che è successo deve essere mantenuta».
(da “L’Espresso”)
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Gennaio 18th, 2018 Riccardo Fucile SEI MINORI DENUNCIATI, MIGLIAIA DI EURO DI DANNI, LINEA INTERROTTA… SONO TUTTI RISORSE PADANE DI BUONA FAMIGLIA
Cinque minorenni che prendono a calci e pugni gli arredi della metropolitana a Milano,
prima nella banchina, poi a bordo di un vagone.
Un gruppo di trentacinque coetanei, che li incita o semplicemente fa finta di nulla. È l’immagine registratata dalle telecamere di Atm nella notte di Natale, sulla linea verde della metropolitana di Milano.
Il gruppo è salito a bordo alla stazione Porta Genova. Il blitz vandalico – replicato poi il 7 gennaio, dallo stesso gruppo di giovani – ha prodotto “migliaia di euro di danni e 70 minuti di sospensione del servizio”, come riferito da Federico Zamboni, responsabile Sicurezza di Atm.
L’indagine dell’Ufficio prevenzione generale della polizia, comandato da Maria Josè Falcicchia, ha portato all’iscrizione come indagati di tre ragazzi, fra cui un maggiorenne, e di una ragazzina di 15 anni. I reati per cui si procede sono danneggiamento aggravato e interruzione di pubblico servizio. A coordinare l’inchiesta è la procura presso il tribunale per i minorenni, guidata dal procuratore capo Ciro Cascone.
Falcicchia ha detto: “I giovani si muovevano come un branco. Hanno infastidito altri passeggeri, manomesso a pugni l’armadio delle dotazioni di sicurezza in banchina, devastato il grande vagone unico che compone il treno. Per danneggiare alcuni arredi, si sono serviti di un estintore”.
Il gruppo è sceso alla fermata Centrale, dove alcuni giovani hanno attraversafo ripetutamente i binari, rischiando la vita. Quindi, sono saliti su un secondo convoglio, proseguendo negli atti vandalici e scendendo poi alla stazione di Vimodrone.
“L’episodio si è ripetuto quasi identico il 7 gennaio, sempre sulla linea verde. Da qui il nome dell’operaione condotta dagli uomini della Polmetro: ‘green line'”, ha detto Falcicchia, che spiega: “I giovani, 39 dei quali identificati, sono tutti incensurati. Vanno a scuola. Uno solo, il maggiorenne, ha genitori con precedenti di polizia, ma anche loro incensurati. I ragazzi abitano per lo più nell’hinterland. Non è chiaro se fossero amici già prima, o se si siano trovati solo per danneggiare i vagoni. Di sicuro, interagivano fra loro tramite social network. Non sono una gang, non hanno segni di appartenenza a bande. Nel gruppo ci sono sono anche 5 ragazze”.
(da agenzie)
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