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IN LAZIO CONTINUA LA LITE TRA MELONI E SALVINI: “NIENTE VETI, IL CANDIDATO E’ RAMPELLI”

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

“LA LEGA PRIMA INCASSA I SUOI CANDIDATI AL NORD E POI CERCA DI FAR SALTARE IL TAVOLO AL CENTROSUD E SI PERMETTE DI PORRE VETI A CASA NOSTRA”… “NO A RAMPELLI, E’ UN ANTILEGHISTA”… E LA FARSA CONTINUA CON PIROZZI CHE PRESENTA LA SUA LISTA PURE AL SENATO (IMBECCATO DA CHI?)

Giorgia Meloni ha puntato i piedi. A costo di mandare all’aria i rapporti con Matteo Salvini. Ha deciso che il candidato governatore della Regione Lazio sarà  Fabio Rampelli. Punto e fine di ogni discussione.
A scatenare la leader dei Fratelli d’Italia è stata la lite che si è innescata qualche sera fa a Palazzo Grazioli durante l’incontro per firmare il programma elettorale insieme a Forza Italia e Lega e confermata da Gasparri.
Il punto di accordo era stato individuato, il nome era quello di Rampelli. Ma la Lega non vuole Fabio Rampelli come possibile candidato alla Regione Lazio.
E durante la riunione con gli alleati è arrivata al punto di mettere un veto sul suo nome, scatenando la durissima reazione di Fratelli d’Italia.
Secondo le indiscrezioni raccolte dall’agenzia Dire,   Rampelli è stato definito “un anti-leghista storico“.
L’atteggiamento del Carroccio ha causato una fortissima irritazione negli ambienti di Fdi.
L’accusa contro Salvini è di calare nelle Regioni centro-meridionali per cercare di far saltare il tavolo, dopo aver sistemato i suoi candidati al Nord in accordo con la coalizione.
In effetti dopo aver incassato l’appoggio di Fdi e Fi sul nome di Attilio Fontana in Lombardia (a Roma molti esponenti della destra non lo ritengono proprio un grande nome), la Lega è tornata prepotentemente sul sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi e ora, spiegano fonti della destra romana alla Dire, «si permettono di mettere veti a casa nostra».
Ma questa volta, dopo che una dinamica piu’ o meno simile si era verificata alle scorse elezioni comunali, la misura sarebbe colma.
Il giochino del Carroccio non sembra più piacere a Giorgia Meloni.
Berlusconi ha preso tempo, ordinando nuovi sondaggi.
Avanti così, verso il dirupo.

(da agenzie)

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IL PRIMO GIORNO DA CANDIDATO PREMIER

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

A PESCARA DI MAIO MOSTRA LUCI E OMBRE

“Presidente, presidente, presidente”. L’arrivo di Luigi Di Maio a Pescara, dove i suoi sono riuniti da tre giorni in lunghe sessioni di seminari e approfondimenti, è trionfale. Lo staff e la comunicazione hanno studiato tutto nel dettaglio.
La sua totale assenza nelle 72 ore che precedono il gran momento crea un’attesa spasmodica. Era stata presentata come una conferenza stampa, ma quella che va in scena al centro congressi dell’Aurum è una cavalcata trionfale dove le domande lasciano il posto a una lunga e fragorosa teoria di applausi (se ne sono contati più di cinquanta in un’ora e mezza).
La sala ad anfiteatro che porta il nome del vate D’Annunzio è stracolma. Gli aspiranti candidati si mescolano ai semplici attivisti, i deputati ai giornalisti.
Manlio Di Stefano e la moglie, insieme alla deputata Maria Edera Spadoni, finiscono addirittura dietro la batteria di telecamere che punta al nuovo capo politico del Movimento.
In prima fila e ai lati del palco lo stato maggiore al gran completo. C’è Davide Casaleggio, un muro con la stampa per tutti e tre i giorni dell’evento fatto salvo una scarna dichiarazione precompilata. Ci sono Rocco Casalino, vera e propria ombra di Di Maio, e Ilaria Loquenzi, a capo dello staff della Camera che ha curato nel minimo dettaglio la kermesse. In piedi Pietro Dettori, anima di Rousseau, poi il fedelissimo Max Bugani, la cui intelligenza politica è riconosciuta nell’inner circle che circonda Di Maio. E dietro ancora un lungo cordone di deputati a cornice della consigliera comunale Enrica Sabatini, vera padrona di casa.
Non c’è Beppe Grillo. Fatta salva una foto nel foyer che funge da sala stampa, il co-fondatore del Movimento è una sorta di convitato di pietra.
Non si è visto, non si è sentito, anche fosse per un collegamento video nel momento dell’incoronazione del capo politico. Di Maio lo cita. Ma lo fa in modo obliquo. Dice che è “fondamentale”.
Parla di lui al passato: “C’è stato un tempo in cui un solo uomo poteva riunire un numero così grande di persone. Adesso siamo in tanti”. Un solo sostantivo ad accompagnare l’omaggio un po’ sghembo. Non è fondatore, non è capo politico, non è garante, non è guida. “Megafono”. Solo e soltanto megafono.
L’età  della maturazione del Movimento avanza galoppando. Un’epoca nuova, che vive sul crinale del rischio di scivolare in una personalizzazione potabile fino alle urne, ma che l’istante dopo potrebbe avere esiti imprevedibili.
Di Maio illustra i 20 punti del programma stellato.
Rapidità , sintesi, sull’eloquio – fin troppo metodico – si potrebbe lavorare.
C’è studio, la mimica del corpo calibrata, sempre in piedi davanti le slide che scorrono. In basso, sulla destra dello schermo, il dettaglio che rivela un mondo nuovo: il logo “Di Maio Presidente” a siglare tutte le slide. Simbolo di una personalizzazione come mai si era vista nella sia pur breve storia 5 stelle.
Sui 20 punti Di Maio ribalta il tavolo e lancia la sfida agli altri partiti: “Perchè non siete d’accordo con le nostre proposte? Dovrete spiegarcelo”. Lo sguardo è fisso al 5 marzo, nella speranza spasmodica che il centrodestra imploda su se stesso e gli si presenti la grande occasione del governo.
Gli accenti che il frontman pone nel suo discorso sono tutti piegati a questo obiettivo. La bussola del 2013 (ambiente, energia, acqua pubblica ecc…) è relegata in secondo piano.
Sono l’economia e il fisco a fare la parte del leone. Reddito e pensioni di cittadinanza, abbattere le aliquote Irpef e dell’Irap, niente tasse ai redditi più bassi, investimenti nell’occupazione, 17 miliardi in aiuti alle famiglie, la creazione di una banca pubblica per gli investimenti.
Un immaginifico piano che poco si preoccupa delle coperture, ma che tocca i tasti giusti per bucare in campagna elettorale.
È di fatto il primo vero giorno da candidato premier del vicepresidente della Camera. Quello della sua incoronazione. Una cavalcata trionfale che pur non può mascherare del tutto qualche stonatura.
A partire dalla difficoltà  di arruolare nomi di peso per i collegi uninominali. Gli unici che presenta sono quelli di cui si è saputo negli scorsi giorni. Salgono accanto a lui Emilio Carelli, Gregorio De Falco, Elio Lannutti e Vincenzo Zoccano, si collega telefonicamente Gianluigi Paragone. Un po’ poco per non essere solo un contorno quando invece doveva essere la novità  per sparigliare il campo.
Ciò nasconde l’altra inaspettata novità  negativa: un problema di genere. Della difficoltà  a compilare le liste su questo versante si è detto. Ma anche i volti nuovi sono tutti declinati al maschile, tanto che Di Maio è costretto a chiamare accanto a sè anche tre parlamentari uscenti, Laura Castelli, Paola Taverna e Giulia Grillo (in rappresentanza di nord, centro e sud del paese) per cercare di tamponare l’idea di un Movimento “troppo maschile” e suscitando non poche invidie e qualche veleno tra le colleghe.
Il candidato premier spiega che presenterà  “persone che faranno tremare le vene ai polsi dei partiti”. Ma che su questo versante le aspettative siano state disattese, almeno in parte, è una convinzione che serpeggia anche in buona parte del gruppo parlamentare uscente.
Dettagli. Perchè l’amore fideistico che il loro popolo riversa nei confronti dei suoi frontrunner è la vera forza e la vera differenza qualitativa dei 5 stelle, il vero punto di cesura con gli altri partiti. Un popolo definito fino a oggi, con un po’ di ironia, come “grillino”.
Chissà  se dovremo abituarci a chiamarlo “dimaiano”.

(da “Huffingtonpost”)

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POPOLARE VICENZA, COSI’ GLI INDAGATI SI DISFAVANO DEI BENI: DALLE DONAZIONI ALLE MOGLI AI TRUST E AI LINGOTTI D’ORO

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

LA PROCURA HA OTTENUTO I PRIMI CONGELAMENTI DI BENI, TITOLI E CONTI CORRENTI DI CINQUE IMPUTATI

Associazioni di risparmiatori e avvocati chiedevano i sequestri da qualche anno, non fosse altro per il rischio che i beni personali degli ex vertici della Banca Popolare di Vicenza si volatilizzassero.
Adesso che la Procura della Repubblica ha ottenuto dal Tribunale i primi congelamenti di beni, titoli e conti correnti di cinque imputati del procedimento che sono nella fase dell’udienza preliminare, si scopre che certe preoccupazioni erano fondate.
Gli indagati avrebbero infatti cercato di trasferire le risorse alla moglie o ai figli, in qualche caso a persone di cui si fidano o attraverso conti esteri.
Uno di loro stava per acquistare lingotti d’oro, facilmente reperibili a Vicenza che è una della capitali italiane del commercio del metallo prezioso. Se li sarebbe portati via con uno zainetto.
L’ex presidente della Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, imprenditore vitivinicolo, è uno dei più bersagliati dai risparmiatori visto che nella banca faceva il bello e il cattivo tempo, anche se ora si dice essere stato all’oscuro delle decisioni operative.
Il giudice scrive: “La grande parte del patrimonio dell’imputato è stato ceduto ai familiari nell’arco di un biennio, e tale attività  dismissiva (…) concretizza il pericolo che, in caso di futura condanna, l’imputato non disponga delle garanzie sufficienti a coprire il credito vantato dall’erario per le spese di procedimento”.
Zonin ha scelto la strada della donazione del patrimonio immobiliare (in due occasioni nel 2016) a favore di un figlio e della moglie.
I finanzieri hanno scoperto la cessione alla consorte del 2 per cento di Tenuta Rocca di Montemassi Srl (il restante 98% è già  della signora), e ai figli del 5,38 per cento di Casa Vinicola Zonin spa, nonchè e delle partecipazioni in due società  del gruppo, la Zonin Giovanni sas e la Gianni Zonin Vineyards.
Non si tratta di bruscolini, ma di partecipazioni dal valore che si aggira sui 10 milioni di euro. Cosa rimane nella disponibilità  dell’ex presidente dell’istituto vicentino?
Un terreno a Gambellara, azioni della Popolare con cui al massimo può comperarsi una pizza e qualche quota di società  minori.
Anche l’ex direttore generale dell’istituto Samuele Sorato ha ceduto alla moglie la metà  di due immobili (ma ha tenuto per sè il diritto d’uso). E’ ugualmente possessore di tre case.
Il Nucleo di polizia economico-finanziaria di Vicenza ha però scoperto che nel 2016 ha trasferito titoli per 2 milioni di euro a un mandato fiduciario intestato ai figli minorenni, che ha poi avuto come destinatario finale un intermediario in Svizzera.
Un altro milione di euro è stato infine versato, attraverso tracciabilissimi bonifici, alla moglie.
Anche l’ex presidente degli Industriali vicentini ed ex componente del consiglio di amministrazione di PopVicenza, Giuseppe Zigliotto, ha giocato d’anticipo nel 2016 quando la proprietà  di una villa e alcuni terreni sono stati donati a una persona di sua conoscenza. Anche nel suo caso un punto di riferimento è la moglie, che ha ricevuto in regalo due unità  immobiliari a Ravenna.
Contemporaneamente 1,3 milioni di euro hanno preso la via della Svizzera, in una banca del Canton Ticino. Nel 2017 ha invece acquistato le quote di una società  immobiliare per 600mila euro.
Il più previdente però è stato il quarto indagato, l’ex vicedirettore generale della banca, Andrea Piazzetta. Le sue operazioni sono avvenute addirittura nel 2015 attraverso la donazioni di immobili che si trovano in provincia di Treviso a un trust con sede ad Auckland in Nuova Zelanda, il cui rappresentante legale è Mario Gesuè.
Si tratta di un finanziere piuttosto noto che opera a Londra e che tra l’altro gestisce gli affari di calciatori di serie A. Anche qui spunta la moglie, che ha ricevuto tutte le quote di una società  di consulenza del marito.
Chiude la lista Massimiliano Pellegrini, il dirigente della banca che si occupava dei documenti contabili.
Appena un mese fa ha ceduto una partecipazione societaria per circa 700mila euro. I finanzieri sono intervenuti quando hanno scoperto che si era rivolto a un compro oro per acquistare lingotti per un valore di circa 400mila euro. Il ritiro sarebbe avvenuto “con uno zainetto”.
Il che faceva pensare all’intenzione di un trasporto immediato all’estero.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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DOVE SI CANDIDANO I MINISTRI

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

BOSCHI, MINNITI E PADOAN SOLO NEL PROPORZIONALE, LOTTI RISCHIEREBBE SENZA PARACADUTE IN TOSCANA

Ieri Paolo Gentiloni ha annunciato la sua candidatura nel collegio Roma 1 Centro, considerato “quasi sicuro” insieme a quello del Trionfale a Roma.
Il Corriere della Sera riepiloga oggi i collegi dove si candideranno i suoi ministri, e vi diciamo subito che a differenza dei precedenti annunci per Maria Elena Boschi è pronta la corsa nel proporzionale e non nel maggioritario, più precisamente in Toscana.
In precedenza, MEB era stata data in corsa in Campania, al Nord-Est e a Roma, dove aveva corso alle primarie del Partito Democratico.
Si era anche parlato di Arezzo, e sembrava una strategia provocatoria nei confronti degli elettori.
Tra gli altri, il quotidiano sostiene che Luca Lotti correrà  a Empoli senza l’airbag del proporzionale.
Il collegio è dato per sicuro, ma se il braccio destro di Matteo Renzi non dovesse farcela allora per lui si tratterebbe di rimanere fuori dal parlamento. Un bel colpo di scena.
Marco Minniti vuole la candidatura nel proporzionale nelle Marche o nel Lazio, probabilmente da capolista e quindi con la rielezione in tasca.
Graziano Delrio raddoppia e va a Reggio Emilia e in Trentino (proporzionale), mentre Dario Franceschini sceglie Ferrara ed Emilia Romagna.
Anche per Andrea Orlando zero problemi: La Spezia, suo feudo elettorale, e Campania.
Pier Carlo Padoan, come Minniti, correrà  solo nel proporzionale nel Lazio.

(da “NextQuotidiano”)

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INTERVISTA ALL’ARCHISTAR FUKSAS: “M5S FA DEL RISENTIMENTO UN SISTEMA”

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

“SILVIO? E’ FINITO. RENZI? O SI ODIA O SI AMA”

Da un momento all’altro, il terreno su cui è poggiato potrebbe franare: “La creatività  è come l’orgasmo: va costruita. E non è mai per sempre. A volte appare, poi scompare: è una corrente che ti attraversa e ti abbandona. Un momento incerto, che va nutrito e atteso”.
Roma, palazzo rinascimentale del cinquecento, nei pressi di Campo de’ Fiori.
Sulla porta di vetro che ha dietro le spalle, il suo cognome — FUKSAS — è stampato in caratteri rossi. Il logo dell’archistar allude all’eternità  commerciale, ma è una garanzia che il fondo pericolante della sua architettura non può assicurare: “In ogni momento della mia vita ho sentito il rischio dell’impotenza, la minaccia di ridurmi alla masturbazione, progettando sempre la stessa cosa. Disegno di continuo cose che non devo costruire. E così mi proteggo. È come se alimentassi una fiamma che all’improvviso avvampa, e, dentro, riesco a scorgere un’idea”.
Massimiliano Fuksas ha costruito le Twin Towers di Vienna, il Peace Center di Jaffa, la sede della Ferrari a Maranello, gli Europark di Salisburgo, la nuova Fiera di Milano, la torre di Armani a Tokyo.
Eppure, all’inizio degli anni ottanta, nessuno in Italia era disposto ad assegnargli un lavoro: “Partivo di notte in auto per arrivare al mattino in un cantiere della Marche. Avevo provato a lavorare a Roma, ma non ci ero riuscito. Così mi dissi: ‘Farò come Mao Tse Tung, prenderò la città  dalla campagna’”.
Per tutti gli anni settanta, trovai dei sindaci irregolari — strani democristiani ribaldi, vecchi comunisti in conflitto con le federazioni — che mi fecero lavorare. Poi, i partiti accentrarono di nuovo ogni decisione e lo spazio che mi ero ricavato si richiuse di colpo. È grave non avere soldi. Ma, per un architetto, non avere un progetto è mostruoso.
Come ne uscì?
Un giorno, ricevetti la telefonata del direttore della rivista “Architecture d’Aujourd’Hui”. Aveva visto le fotografie — scattate da Franà§ois Berger — della palestra di Paliano. L’avevo costruita su un piano inclinato, seguendo il percorso della mia generazione, passata dalla rivolta del sessantotto, alla droga, alla violenza politica, ai morti ammazzati. Mi disse: “Se vengo domani a Roma, la trovo?”.
Cosa voleva?
Coinvolgermi. In Francia, avevano appena eletto Franà§ois Mitterand. Il neo presidente intendeva rianimare la grandeur francese attraverso il teatro, l’arte, la musica, la ricerca, le opere pubbliche. Il direttore mi chiese di partecipare a un esposizione. Con scetticismo, dissi di sì. Ma quando arrivò il momento, non presentai la domanda. Qualche mese dopo, ricevetti un’altra telefonata: “Lei è tra i vincitori del concorso, aspettiamo i suoi lavori al palazzo delle belle arti di Parigi”. Qualcuno nella commissione aveva fatto l’iscrizione al mio posto.
Le servì?
Cambiò la mia vita e la mia carriera. Dopo la mostra, a cui parteciparono quelli della mia generazione che oggi firmano i progetti più importanti del mondo, cominciai a lavorare in Francia. Fu la svolta.
Conobbe anche Mitterand?
Venne a inaugurare alcune delle mie opere. Un uomo colto, sottile. Incontrandolo, percepii l’importanza che ha lo studio e la conoscenza nella formazione di un vero uomo politico.
Lei come si formò?
A sedici anni, volevo fare il pittore. Riuscii ad andare a lavorare nella bottega di Giorgio De Chirico. Cercavo di imparare guardandolo. Quando dissi a mia madre che volevo seguire quella strada, mi rispose: “Sarai un fallito”. Mi scoraggiò così tanto che mi convinsi a studiare architettura.
Erano gli anni sessanta?
Sì, avevo letto gli scrittori e i poeti della beat generation tradotti da Fernanda Pivano. Viaggiavo in Europa in autostop. Ascoltavo la musica che arrivava dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. C’era nell’aria una vitalità  che urtava con i limiti imposti dalla società . Eravamo obbligati ad andare a scuola in giacca e cravatta, le donne con le calze lunghe sopra il ginocchio. Io e altri sfidavamo le regole indossando un pullover. Il preside ci inseguiva lungo il corridoio per punirci. Anche da quell’attrito nacque il sessantotto.
Era a Valle Giulia quel giorno degli scontri con la polizia.
Per la prima volta, resistemmo alla violenza. L’Italia respirò. Si aprì. Tuttavia, il sessantotto non era l’inizio di qualcosa di nuovo: era la fine dell’Italia del benessere economico.
Falliste?
Lo scontro cambiò presto di segno, entrarono in scena gli operai, divenne duro. Molti di noi, invece, erano figli di sottosegretari socialdemocratici, ministri democristiani, repubblicani. (C’era anche il figlio di Bernabei, il direttore della Rai: lo chiamavamo il figlio della televisione). Non eravamo dei veri rivoluzionari. Volevamo solo che l’Italia assomigliasse quanto più possibile alla Svezia. È questo che era — ed è — rivoluzionario.
Cosa le è rimasto di quel tempo?
Ricordo che, per essere convincenti nelle assemblee, dovevamo essere in grado di passare da un registro all’altro della noia. Leggevamo Lenin, Bucharin, Althusser, ovviamente Marx. Benchè io — avrei scoperto più tardi — avrei dovuto definirmi più propriamente situazionista. Mescolavo Che Guevara e una strana letteratura inglese. E non mi sentivo a mio agio nei gruppi organizzati.
Quando se ne accorse?
Il sessantotto si concluse l’anno successivo, con le bombe di Piazza Fontana. La stagione che si aprì dopo, invece, terminò con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Ero nel mio studio, da poco laureato. Ascoltai la notizia alla radio. Capii che la nostra giovinezza era finita.
Qualcun altro ha tentato di cambiare l’Italia dopo di voi?
Le persone che hanno tentato di farlo, malamente, commettendo degli errori, sbagliando, sono state tre: Craxi, Berlusconi e Renzi. Non ce l’hanno fatta e sono stati martoriati.
Dei due vivi, è Berlusconi quello più in forma?

La sua forza è sopravvalutata. È un uomo ineleggibile. E, rispetto ai tempi d’oro, il consenso al suo partito è precipitato. Cos’altro può fare? Il mondo è cambiato completamente. Lui tenta di riprodurre se stesso. Ma è finito
E Renzi?
È del capricorno, come me. Può essere amato, oppure odiato. Perchè dice esattamente ciò che pensa. Magari è inopportuno. E solo fra molto tempo, forse, qualcuno gli riconoscerà  che aveva qualche ragione.
Su cosa, per esempio?
Sul fatto che fuori dall’Italia tutto corre a una velocità  vertiginosa. Noi, invece, perdiamo tempo ingannandoci con il mito della lentezza, facendo il minor sforzo possibile per connetterci al ritmo con cui viaggiano gli altri paesi.
A cosa si riferisce?
Sto tornando da Giacarta, una città  di venti milioni di abitanti che è costruita lungo un’unica strada. Per andare e tornare da un appuntamento, sono stato in macchina sette ore. Guardavo dal finestrino il formicolio della vita, l’energia che possiede le persone. Si riversano per strada la mattina e la sera spariscono tutti dentro le case. È una città , ma sembra un polmone che inspira ed espira. Viva, veramente viva.
Cosa le ha fatto pensare?
Che il caos non è disordine, è solo un ordine che non riusciamo ancora a comprendere.
Come il mondo della globalizzazione?
Ma no, c’è un equivoco: la globalizzazione è sempre esistita. I romani costruivano lo stesso teatro a Sabrata, a Parigi, a Londra, a Bucarest. Uno dei più grandi scrittori latini, Apuleio, era nato a Madaura, oggi Algeria. Poi, si trasferì nel centro dell’Impero. Nessuno, in nessuna epoca, è mai riuscito a fermare la circolazione dei capitali, degli uomini, delle idee.
In quale tempo le sarebbe piaciuto vivere?
In quello che verrà . Non si può vivere nel passato, benchè faccia molto intellettuale italiano dire che noi siamo ciò che ci ha preceduto, eccetera eccetera. Non è vero. L’uomo vive quando immagina il futuro. Quando scopre il mondo. Quando lascia ciò che lo rassicura e va incontro all’ignoto.
Perchè lei è nato a Roma e a Roma è tornato?
Mio padre era figlio di un ebreo lituano fuggito in Germania per andare all’università . Nell’impero russo, gli ebrei non ne avevano diritto. Come lui, mio padre lasciò la Germania e venne a studiare medicina a Roma. Stava per andare negli Stati Uniti quando incontrò mia madre.
Cosa faceva lei?
Studiava filosofia, poi sarebbe diventata professoressa. Al tempo in cui mio padre morì, guadagnava ventiquattro mila lire al mese. Tirammo avanti come potemmo. Non eravamo benestanti. Però, non provavamo rancore o rabbia. Roma profumava di rose, avevamo dei laghi limpidissimi a pochi chilometri dalla città . Ci sentivamo grati, in qualche modo allegri, credevamo nel riscatto.
Oggi, invece?
Il movimento 5 stelle vuole fare del risentimento un sistema. Non importa se il livore è motivato, se è legittimo: la politica dovrebbe offrirgli una cura, non coltivarlo.
Come?
Una volta, l’emancipazione passava per il sapere. Un mio amico delle elementari era figlio di un custode e di una donna che faceva le pulizie. Era il più povero dell’istituto. Oggi è un professore di italianissima a Berlino.
Allora la promozione sociale funzionava.
Sì, ma la si cercava. Oggi, senza aver studiato, senza aver mai fatto politica, senza aver mai lavorato, puoi diventare vice presidente della camera. Io tremerei dall’ansia di avere sessanta milioni di persone che dipendono dalle leggi che scrivo. Loro si improvvisano serenamente governanti. Non sopporto più l’incompetenza nella politica.
Non mi ha ancora detto perchè è tornato a Roma.
Vivevo a Parigi da dieci anni, quando dissi a mia moglie Doriana: “Riportami a Roma”. Senza crederci, partecipammo al concorso per il nuovo centro congressi dell’Eur. Si credeva l’avrebbe vinto Rogers. Invece, fu scelto il nostro progetto (dico nostro perchè Fuksas non sono io, siamo io e Doriana). E così nacque la Nuvola.
Quante polemiche ha suscitato…
Certe mattine, quando m’incontrava nel tragitto per venire a lavorare, uno simpatico operatore dell’Ama mi chiedeva: “Archite’, ma ‘sta nuvola quanno ‘a finimo?”.
Come rispondeva?
Se dipendesse da me.
E da chi dipendeva?
Da un dettaglio: si erano dimenticati di finanziare il progetto. Se oggi, quell’opera è conclusa, mi creda, è un miracolo.
Voterà ?
Fino a poco tempo fa, avevo qualche dubbio. Ora non più.
Le hanno fatto cambiare idea le promesse che ha ascoltato?
No, quando intuisco che stanno per assicurare qualcosa, abbasso il volume della televisione.
Anche quando lo fa la sinistra?
Con il nuovo anno, ho scoperto che le tasse societarie si sono abbassate. Ci era riuscito già  Prodi, ma sia lui, sia Renzi, sia Gentiloni, si sono dimenticati di farlo sapere agli italiani.
Da soli, non sanno giudicare?
Noi italiani siamo dei bambini che giocano a farsi del male, spesso conservatori, arroccati, paurosi anche solo di guardare oltre l’uscio. Abbiamo detto di no alla riforma di Renzi per tornare indietro di trent’anni. Addirittura, alla legge proporzionale. Credo sia arrivata l’ora di diventare adulti.

(da “Huffingtonpost”)

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PAGATI SENZA LAVORARE GLI EX DELLE PROVINCE: FINISCONO DALLO PSICANALISTA

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

IN PUGLIA MOLTI DEGLI 85 POLIZIOTTI SONO CHIUSI IN UFFICIO SENZA FARE NULLA

Da più di due anni vengono pagati per non lavorare a l’inattività  li ha stressati talmente tanto da costringere alcuni di loro a ricorrere a cure mediche.
Sono malati di “non lavoro” molti degli 85 ex poliziotti provinciali transitati nel 2015 nella polizia regionale.
Sembra il film di Checco Zalone “Quo vado” che si occupava proprio dei dipendenti delle ex Province. E invece è così.
Chiusi in uffici senza alcuna attività  da svolgere, per sei o nove ore al giorno, cinque giorni a settimana. Con uno stipendio da 1.200 euro al mese, che non vogliono più guadagnare senza muovere un dito, come denuncia la Funzione Pubblica della Cgil, che ha fatto la ricognizione della situazione in tutte le province della Puglia, esclusa Bari, che ha salvato la polizia provinciale grazie all’istituzione della città  metropolitana.
La storia paradossale è conseguenza del caos creatosi in molti settori dopo la riforma Delrio e la complicata dismissione di settori e compiti prima affidati alle Province. Trentaquattro sono i dipendenti in queste condizioni a Taranto, 5 nella Bat, 14 a Brindisi, 16 a Lecce e Foggia.
Proprio nella provincia più a nord della Puglia, qualche mese fa si era pensato di utilizzare gli ex agenti provinciali per la vigilanza di Borgo Mezzanone, uno dei più grandi ghetti della regione, ma, dopo pochi giorni di ronde senza divisa e senza pistola, i lavoratori sono tornati in ufficio. A timbrare cartellini e fissare i muri.
A Lecce addirittura, per otto mesi, tutti e sedici sono stati costretti a stare seduti nella sala conferenze della sede regionale di via Aldo Moro in assenza di uffici in cui sistemarli, come testimonia il segretario della Fp Cgil, Paolo Taurino.
“Si tratta di lavoratori competenti – spiega – che hanno maturato esperienza soprattutto in campo ambientale e potrebbero essere molto utili a una terra che punta tutto sul turismo e sul suo territorio”.
Non tanto, però, da trovare una soluzione rapida al rebus sull’utilizzo della polizia regionale. Deciso lo spostamento dalle province alla Regione nel 2015, infatti, c’è voluto un anno e mezzo perchè fosse approvato il Regolamento che chiarisse quali sono le sue funzioni e attività . Ora che esiste il Regolamento, non lo si può applicare perchè mancano le dotazioni: armi, divise, auto.
La rassicurazione della presidenza della Giunta è che le gare sono state bandite e l’inizio delle attività  è solo questione di mesi.
I dubbi sull’utilizzo di quel personale, però, persistono nei sindacalisti. Perchè un esercito di 85 unità  diviso in cinque province è davvero troppo piccolo per svolgere qualunque attività  in un territorio vasto e complicato qual è quello pugliese.

(da “La Stampa”)

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MACRON, IL RIFORMATORE CHE VUOLE ESSERE LA LOCOMOTIVA POLITICA DELLA UE

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

IN SVIZZERA SI PREPARA A SFIDARE LE DERIVE PROTEZIONISTE

Il Macron che si prepara a sbarcare a Davos è il più giovane leader globale francese della modernità  dai tempi di Napoleone.
È un convinto europeista che declina il senso dell’integrazione continentale con tre parole: sovranità , unità  e democrazia. Proprio la determinata difesa della sovranità  nazionale in un’Unione più efficiente gli ha consentito di ampliare la base elettorale e rivoluzionare la scena politica transalpina.
È stata questione di ampie visioni e di attenzione ai dettagli, cosa che in queste ore si manifesta in due mosse formidabili: ha invitato a Versailles i Signori dell’economia e della finanza per convincerli a investire nell’Esagono e ha sollecitato l’Onu perchè renda la baguette un bene tutelato di interesse planetario. Sebbene la stagione sia la più intensa, rapida, effimera e volatile che si ricordi, Macron si presenta come il francese più rilevante (relativamente) da Waterloo ai giorni nostri. Non solo.
Quando mercoledì parlerà  al popolo globalista riunito sulle nevi elvetiche dal World Economic Forum – nel 2016 ci andò come ministro delle Finanze -, potrà  guardare i potenti del mondo con gli occhi dell’unico governante stabile della vecchia Europa.
È il terzo imperatore francese, metaforicamente, sempre che tutto continui a girargli bene come capita ora che il destino lo porta in Svizzera con la Germania della Merkel azzoppata, il Regno Unito in fase Brexit di una May con l’acqua alla gola, e l’Italia di Gentiloni distratta dalle baruffe elettorali.
È l’unico con la poltrona che non brucia, perfetto candidato a condurre – meglio se d’intesa con Berlino – il coro dei capi di Stato e di governo dell’Unione sulla via delle riforme necessarie per salvare il sogno dei padri fondatori.
Macron ha studiato Hegel e in un’intervista ha ammesso di sapere bene che il filosofo tedesco definì Bonaparte come il «Weltgeist (lo spirito del Mondo) a cavallo».
Nella formula leggeva la volontà  di affermare che i grandi uomini possono essere al servizio di qualcosa ancora più grande. Però non era convinto che nella pratica le cose fossero così. Si può, disse, impegnarsi a capire lo «Zeitgeist» (lo spirito del Tempo) e «cercare di progredire con senso di responsabilità ». Questo gli stava bene come modello utile a cambiare la Francia e l’Ue con rinnovato impeto di crescita collettiva.
Così ha fatto da che è stato eletto, correndo solitario sull’autostrada politica tracciata fra i dolori della fragile Unione. S’è dimostrato maledettamente francese e insperatamente europeista.
Ha ostentato le dodici stelle dietro il podio del primo discorso, ma era al Louvre, residenza dei re, sulla Cour Napolèon. Ha spinto per accelerare l’integrazione, alternando l’approccio intergovernativo al comunitario.
Una formula aperta a tutti per trascinare l’Ue fuori dalle secche dell’indecisionismo bruxellese? O il disegno d’una Europa franco-tedesca con la quale dirigere in due tutti quanti?
Certo non ha mai dimenticato gli interessi del suo Paese, la nazione prima, e l’Europa di cui ha bisogno per diretta derivazione. Un multilateralista con lo spirito della Grandeur incorporato, profeta di un accentramento giacobino più che federalista. Un francese moderno, insomma. Che sarebbe interessante vedere alla prova con il sovranista Donald Trump, atteso a Davos giovedì, ma in forse causa “shutdown”.
Macron avrebbe carte da giocare col mogol dell’«America First» dopo aver annunciato «due pesanti accordi tecnologici» nella giornata del «Scegliete la Francia» a Versailles (domani) e firmato con la Germania il patto che pone le basi per uno spazio economico a due (sempre domani). Saranno passati appena 14 giorni dalla trionfale visita in Cina, svoltasi in linea con la definizione di «jupitèrien» (come fosse di Giove) che ha dato alla sua presidenza.
«La Francia è il Paese dell’anno», ha sentenziato The Economist e a dicembre potrebbe aver avuto ragione.
Si capisce che Trump, oltre allo stimolo della sfida coi globalisti, abbia trovato irresistibile accettare una missione che lo porterebbe a duellare col Nuovo Imperatore, mentre gli altri stanno a guardare, cercando di capire come far loro la chiave francese allo «Zeitgeist». Le soluzioni sono molteplici, ma scimmiottarle sarebbe un suicidio.
Chiaro è che non c’è bisogno di essere necessariamente «macronisti» per fare come Macron.

(da “La Stampa”)

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GERMANIA, LA SPD DICE SI’ AL GOVERNO CON LA CDU DELLA MERKEL

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

CON 362 SI SU 642 DELEGATI, IL CONGRESSO A BONN HA APPROVATO L’AVVIO DEI NEGOZIATI

Il congresso straordinario della Spd di Bonn ha approvato l’avvio dei negoziati con Angela Merkel per una terza Grande coalizione con 362 “sì” dei 642 delegati e big del partito presenti.
Dopo una giornata sofferta, di applauditissimi interventi anti-accordo e scarso entusiasmo per le pragmatiche e, qua e là , rassegnate relazioni a favore della Grande coalizione da parte dei ‘big’ – a partire da quella di Martin Schulz, accolta da un minuto scarso di battimani – non è esagerato dire che i 600 delegati hanno votato anche per il futuro dell’Europa.
Nella sua relazione, Schulz ha finalmente rivendicato proprio questo suo tema d’elezione, rimosso per l’intera campagna elettorale, per sottolineare che il pre-accordo con Merkel è già  “un manifesto per una Germania europea”.
E la rinuncia all’opportunità  di stare al governo e di riformare l’Europa insieme a Emmanuel Macron, ha scandito davanti ai 600 delegati, “sarebbe un errore”.
Ad un certo punto Schulz ha alzato lo sguardo dal foglio, ha sussurrato “ieri mi ha telefonato Macron”, è sembrato perdere il filo, ma lo ha ripreso immediatamente.
L’ex presidente del Parlamento europeo ha ricordato che già  nella fase preliminare con Cdu e Csu sono stati concordati una pensione minima più alta, la parità  dei contributi sanitari tra datori di lavoro e lavoratori e l’abolizione del contributo di solidarietà  per i meno abbienti.
Schulz ha promesso un ulteriore impegno per una stretta sui contratti a termine, per una sanità  più equa e per una maggiore solidarietà  con i migranti e ha puntualizzato che “con noi non ci sarà  mai un tetto ai profughi”.
Rispondendo ai timori dei suoi oppositori, Schulz ha detto che “governare e innovare non sono in contraddizione” e ha promesso anzitutto un percorso di rinnovamento per i socialdemocratici. Il segretario generale Lars Klingbeil preparerà  una proposta entro marzo, su questo. Schulz ha anche messo in guardia dall”unica aleternativa” alla Grande coalizione: “nuove elezioni”. E ha buttato di nuovo lì la proposta di una verifica tra due anni, un tagliando a metà  legislatura.
Ai delegati che temono che la Spd continui ad annacquare la propria identità  convivendo con Merkel, tutti i maggiorenti del partito hanno ricordato che i risultati raggiunti finora, nel pre-accordo, non sono così terribili: “certo che lavoreremo per migliorarli”, in fase della definizione del contratto di coalizione, ha sintetizzato la governatrice della Renania-Palatinato, Malu Dreyer, aggiungendo che “non possiamo promettere nulla”.
E proprio l’ex scettica della Grande coalizione è stata forse una delle grandi delusioni, per gli oppositori della GroKo: ha votato sì. Così come il leader dell’ala sinistra, Ralf Stegner, che ha letteralmente gridato “con noi, col partito del profugo Willi Brandt, non ci sarà  mai un tetto ai profughi!”.
La superstar del momento, il grande nemico della Grande coalizione, il leader dei Giovani, Kevin Kuehnert, ha accusato il partito di aver fatto troppo da “portavoce della GroKo, in questi quattro anni” e ha parlato di “una crisi di fiducia nel partito” dopo che Schulz aveva prima annunciato che la Spd sarebbe stata all’opposizione, per poi rimangiarsi la parola dopo il fallimento di Giamaica.
“Comunque vada oggi – ha chiosato – ci faremo del male”. Tuttavia Kuehnert ha anche detto che il risultato della conta dei delegati di oggi andrà  accettato, qualsiasi esso sia. Un modo per allontanare lo spettro della scissione, evocato da qualcuno nei giorni scorsi.
Kuehnert ha anche risposto per le rime al leader della Csu, Alexander Dobrindt, che aveva parlato con disprezzo di una “rivolta dei nani”, a proposito del “no” dei Giovani della Spd alla riedizione dell’alleanza con Merkel. “Oggi siamo nani per essere giganti, un giorno”. E molti delegati si sono presentati con un cappello rosso a punta, da nano. Gli unici di cui si potesse essere sicuri che avrebbero votato “no”.
Senza dubbio l’intervento più passionale dei fronte del ‘sì’ è stato invece quello di Andea Nahles. La ‘pasionarià  della Spd, la brillante ex ministro del Lavoro che, pur essendo la più gettonata successora di Schulz, si è schierata dal primo istante a suo fianco per una riedizione della Groko, ha ricordato che non ci sono i numeri per un’alternativa, ad esempio per un governo di centrosinistra.
E ha letteralmente urlato, sbattendo le mani sul podio, “se torniamo al voto, gli elettori ci diranno, ma siete matti?”. Per fortuna, il pericolo è sventato. Per ora. Il prossimo giogo, per Martin Schulz, si chiama referendum tra gli iscritti. Ma quello arriverà  dopo i negoziati per il contratto di coalizione. E la Spd dovrà  cercare di ottenere qualcosa di più, stavolta.

(da agenzie)

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SONDAGGIO IXE’: M5S STABILE, CALA PD, SALGONO FORZA ITALIA E LIBERI E UGUALI, CROLLA LEGA E SCENDE FDI

Gennaio 21st, 2018 Riccardo Fucile

M5S 27,8%, PD 22,3%, FORZA ITALIA 17,4%, LEGA 11,3%, LIBERI E UGUALI 7,4%, FDI 4,5%, NOI CON ITALIA-UDC 2,5%, BONINO 1,9%, LORENZIN 1,2%, INSIEME 0,6%… CENTRODESTRA 35,7%, M5S 27,8%, CENTROSINISTRA 26% … POSSIBILE SORPRESA DI “POTERE AL POPOLO”

I sondaggi del mese di gennaio non sembrano mutare in modo sostanziale i rapporti di forza registrati fra le coalizioni nell’ultimo mese.
Dinamiche interessanti si individuano invece all’interno delle singole aree politiche, fuori da esse e per quanto riguarda l’affluenza al voto.
Un primo dato di sintesi consente di rilevare: una distanza pressochè immutata fra centro-destra, M5S, Pd e alleati e Liberi e Uguali; un ulteriore allargamento del gap fra Forza Italia e Lega Nord; un sensibile ‘sussulto’ dal punto di vista della potenziale affluenza elettorale, con un 3% di crescita; e un’interessante emersione di consensi, rivolti ad altre liste (il dato quasi raddoppia anche rispetto all’ultimo sondaggio).
In questo quadro, di relativa stabilità , vi sono tuttavia alcune tendenze che trovano una ulteriore significativa conferma: Forza Italia continua a crescere (per la settima volta di fila da ottobre), viceversa la Lega Nord progressivamente si stacca dal principale alleato; il Pd torna a riscendere avvicinandosi a quota 22%; Liberi e Uguali tende a collocarsi stabilmente sopra il 7%; M5S infine rimane fermo leggermente al di sotto del 28%.
Guardando a quelli che sono i principali temi che definiscono l’agenda dell’opinione pubblica, troviamo una nettissima conferma ‘qualitativa’ del primato odierno del centro-destra: sulla gran parte delle tematiche che costituiscono il dibattito pubblico, il centro-destra evidenzia un netto primato di ‘credibilità ‘; che si tratti di tasse, sviluppo, sicurezza o immigrazione il centro-destra sembra godere di una affidabilità  nettamente superiore alle coalizioni avversarie, spesso con margini che vanno parecchio oltre ai consensi raccolti; solo sul ‘sostegno al reddito delle persone’, prevale il M5S; da non trascurare la percezione suscitata da Liberi e Uguali, curiosamente su tutte le issues vanno di 3 o 4 punti al di sopra del loro attuale bacino elettorale.
La proiezione in collegi Camera e Senato.
Anche in questo caso abbiamo una conferma rispetto al precedente dato rilevato in dicembre: il centro-destra, pur in presenza di una lievissima erosione percentuale, guadagna una ulteriore manciata di collegi, mostrando una uniformità  territoriale che gli consente di competere al Nord, al Sud e in quelle che furono le regioni cosiddette Rosse.
Negli uninominali il Pd e alleati reggono solo nelle suddette regioni e sembrano scomparire al Sud.
L’M5S è fragilissimo al Nord, mostra segni di competitività  al centro, insidia talvolta la coalizione di centro-destra al Sud in particolari regioni.
Rimane alto il numero di collegi cosiddetti contendibili (oltre il 35% dei totali), quelli cioè in cui la distanza fra il primo e il secondo candidato e inferiore ai 5 punti percentuali.
Per raggiungere la maggioranza assoluta il centro-destra ha bisogno di crescere ancora. Curiosamente tuttavia, il desiderio di chi auspica un governo del Presidente, una situazione di instabilità  marcata o un governo di coalizione, deve augurarsi che il Movimento 5 Stelle cresca ancora di un paio di punti.
Se infatti — nel mezzogiorno — dovesse verificarsi un non improbabile ‘smottamento’ del Pd a favore del M5S, come è accaduto alle recenti elezioni siciliane, si aprirebbe probabilmente la strada ad un recupero forte dei grillini e a un arretramento del centro-destra.
Dunque la speranza di un governo che possa piacere a Moscovici — si fa per dire — passa per i ‘populisti di Grillo’.
Ultima nota: fra chi vota ‘altri’, sembra emergere con una certa consistenza Potere al Popolo. Ne daremo nota qualora superasse il 2 per cento.

(da “Huffingtonpost”)

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