Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
PREOCCUPATO PER LA SVOLTA NEL PD CHE DICE NO ALL’INTESA, CRESCE IL RISCHIO DI ANDARE A SBATTERE
Chiuso nel suo ufficio tutto il pomeriggio a seguire il flusso delle agenzie di stampa, ad osservare
con attenzione il dibattito interno agli altri partiti, a programmare nel dettaglio i prossimi passaggi.
Luigi Di Maio studia da premier, ma la sua è una lunga attesa, a tratti anche ansiosa con una voglia sempre più forte di entrare a Palazzo Chigi. “Siamo pronti a parlare con tutti, anche con la Lega. Con chi vorrà sedersi al tavolo con noi e discutere di programma”, trapela a tarda sera da chi ha trascorso la giornata, e l’intera campagna elettorale, con il candidato premier.
In una parola sola, i pentastellati adesso sono pronti a “trattare”. A trattare per far sì che Di Maio diventi presidente del Consiglio, unico punto su cui non esistono passi indietro, nel rispetto ovviamente del programma grillino, ma aperti ad ascoltare le proposte che arriveranno dagli altri partiti.
Il candidato premier vuole essere nelle Istituzioni, vuole farne parte a tal punto che in occasione della festa della donna parteciperà alle celebrazioni al Quirinale, insieme agli altri leader dei partiti, nel luogo chiave dove sarà affidato l’incarico per formare il nuovo governo.
Quando su Facebook, Andrea Orlando scrive che “il 90% del gruppo dirigente del Pd è contrario ad un’alleanza con il M5S” tra i grillini cresce la preoccupazione di ritrovarsi davanti una strada sbarrata. “Sarà vero? Non sarà vero?”, ci si chiede nelle stanze del primo piano di questo palazzo nel cuore di Roma dove è riunito lo stato maggiore.
Si ragiona quindi su tutti i possibili scenari. A un certo punto entra Riccardo Fraccaro, braccio destro di Di Maio e candidato al dicastero per i Rapporti con il Parlamento: “Fino a lunedì non succederà nulla. Bisogna aspettare”.
Lunedì è infatti il giorno in cui si riunirà la Direzione Pd e “se Matteo Renzi si dimetterà davvero — è la convinzione degli M5s — inizierà tutta un’altra partita. Per noi l’importante è che non ci sia lui”.
Ma le parole di Andrea Orlando hanno un forte peso, ecco quindi che si torna a pensare alla Lega, che poco prima a sua volta si è detta pronta al dialogo con tutti. Il problema però, sotto gli occhi dei 5Stelle, è che sia Di Maio sia Salvini si candidato ad essere premier.
Uno stallo, dunque, ma M5s rivendica di avere più parlamentari oltrechè a più consenso nel Paese. Tra i grillini c’è chi si spinge a dire che si possono anche concedere agli alleati alcuni dicasteri o addirittura, ipotesi estrema, anche la vicepresidenza del consiglio con un accordo di programma.
Mentre, viene precisato, l’elezione dei presidenti di Camera e Senato “non è detto che venga fatta in ottica governo”.
Si ragiona su tutto e non si esclude alcuna strada. “È ovvio però che per noi la soluzione migliore resta un appoggio esterno”, viene sottolineato da più fonti grilline. Qualcuno ricorda anche il caso del governo Andreotti del ’76 chiamato della “non fiducia”. Era un governo di solidarietà nazionale, durato due anni e nato grazie all’astensione del Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer durante la votazione in Parlamento.
E se è vero che più volte Di Maio è stato paragonato a un politico della prima Repubblica e ora si muove con passo tattico, è anche vero che quella era tutta un’altra storia.
Il comitato M5s è un via vai di persone, parlamentari riconfermati e nuovi, collaboratori, sale le scale anche il potenziale ministro all’Interno Paola Giannetakis. Si vede Nicola Morra confermato senatore in Calabria dove i 5Stelle hanno raggiunto percentuali da capogiro.
Era considerato, insieme a Roberto Fico, anima critica del Movimento ma adesso, Di Maio lo sa bene, i gruppi vanno blindati, devono essere compatti e anche su questo il capo politico si muove con cura.
Si vede Giulia Grillo, poi arriva Danilo Toninelli, da molti dato come possibile presidente del Senato. Ci sono anche la senatrice Laura Bitocci, e i neoeletti Emilio Carelli e Primo Di Nicola. La scelta dei capigruppo di Camera e Senato spetterà al capo politico e sarà ratificata dai gruppi parlamentari.
Si discute anche di questo nelle stanze del comitato, dove Di Maio ha il suo ufficio da cui osserva i movimenti degli altri stando attento a un creare scossoni interni e far digerire un’eventuale alleanza che lo porti a Palazzo Chigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
ORFINI HA LA MISSIVA, SARA’ PORTATA IN DIREZIONE PD LUNEDI’… MARTINA SARA’ IL TRAGHETTATORE FINO ALL’ASSEMBLEA DI APRILE… POI O SI ELEGGE IL NUOVO SEGRETARIO O CONGRESSO CON PRIMARIE
Il dado ormai è tratto. Senza se e senza ma, senza finte e senza indugi.
Lunedì la direzione del Pd prenderà atto delle dimissioni di Matteo Renzi da segretario e aprirà il percorso verso l’assemblea nazionale straordinaria di aprile, tendenzialmente dopo le consultazioni sul governo da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il passo indietro formale, spiegano dal quartier generale del segretario, è già stato presentato: c’è una lettera scritta lunedì scorso in cui Renzi si dimette, all’indomani della debacle elettorale.
In direzione la leggerà il presidente Matteo Orfini. “Lunedì le mie dimissioni saranno esecutive”, dice Renzi ai suoi.
Non era sembrato così chiaro nella conferenza stampa di lunedì scorso al Nazareno. Tanto che ancora oggi il capogruppo uscente al Senato Luigi Zanda, insieme all’area di maggioranza che si ritrova nelle sue posizioni — a cominciare dal premier Paolo Gentiloni — più le minoranze, chiedevano un passo formale da parte di Renzi.
Ad ogni modo, lunedì ci sarà .
Il pressing ha avuto effetto sul segretario dimissionario, che oggi è rimasto nella sua Firenze, visita a Palazzo Vecchio, la sua antica ‘casa politica’ di quando era sindaco. Ci è andato per un saluto con l’attuale primo cittadino Dario Nardella, un confronto sul da-farsi.
Sarà Maurizio Martina, il vicesegretario, il traghettatore del partito fino all’assemblea di aprile.
Ordine del giorno dell’assemblea: le dimissioni del segretario e provvedimenti conseguenti.
Vale a dire: sarà l’assemblea a decidere se andare a congresso, con la decadenza di tutti gli organi del partito e primarie per la nuova leadership; oppure se eleggere in quella stessa sede un nuovo segretario, come avvenne nel 2009 per Franceschini, dopo Veltroni, e nel 2013 per Epifani, dopo Bersani. In questo caso, cambierebbe solo la segreteria nazionale, ma l’assemblea e la direzione rimarrebbero nella stessa composizione attuale. E anche il tesoriere resterebbe il renziano Francesco Bonifazi.
Troppo presto per sapere come andrà in assemblea.
Prima si gestiranno i passaggi cruciali di inizio legislatura: l’elezione dei capigruppo, cioè coloro che con Martina saliranno al Colle per le consultazioni.
Quindi l’elezione dei presidenti delle due Camere, terreno fertile di abboccamenti tra minoranze Dem e cinquestelle, secondo i renziani che restano sospettosi su tutta la fila di dirigenti Dem che in queste ore sta giurando di voler mantenere il Pd all’opposizione di un eventuale governo del M5s. Da Franceschini a Zanda agli stessi orlandiani.
Ufficialmente solo l’area Emiliano e Sergio Chiamparino hanno aperto al dialogo con i pentastellati. Ettore Rosato, capogruppo uscente alla Camera, parla aperta del tentativo del M5s di dividere il Pd, parlando con i “singoli parlamentari: i cinquestelle dimostrano tutta la loro povertà politica”.
Andrà come andrà , ma da lunedì si chiude una fase e se ne apre un’altra in un Pd uscito con le ossa rotte dal voto.
In queste ore, lo stesso Martina insieme a Lorenzo Guerini e Graziano Delrio hanno lavorato per cercare di salvare il salvabile: calmare i toni ed evitare la conta in direzione.
Lo stesso Andrea Orlando, che oggi ha riunito i suoi alla Camera, ha preparato un documento che chiedeva le dimissioni formali di Renzi e una gestione collegiale ma l’avrebbe portato in direzione qualora non si fosse trovato un accordo.
Un mezzo accordo ora c’è. Renzi va via. Anche se questo non implica lo scioglimento della sua area nel Pd. Resta da capire il peso che avrà tra i nuovi eletti che in gran parte si è scelto da solo e che voteranno i nuovi capigruppo.
Come giurano i suoi, quelli che gli sono rimasti fedeli: “Renzi se ne va, ma questo non significa che non conterà più nulla nel Pd”.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
SI PONE AL CENTRO DELLA SCENA E RACCOGLIE QUELLO CHE ARRIVA
“Un po’ democristiani, un po’ di destra e un po’ di sinistra”. ![](http://i68.tinypic.com/vpg8js.jpg)
La rappresentazione data da Beppe Grillo del movimento è perfetta, il suo dna è interclassista: si pone al centro della scena e raccoglie le istanze più sentite dei diversi ceti sociali. Non ideologia ma programma. Non bla bla ma cose concrete da fare.
È l’ora giusta di interrogarci su quel “po’”, il troncamento della parola poco.
Esistono diverse idee di società , e sono legate alla natura degli uomini e ai loro propositi. Ed esistono diverse idee di governo, che subiscono il condizionamento di quelle scelte.
Non ce n’è una che sia neutra.
Se diciamo che siamo contro il governo delle èlite, dei pochi, è perchè riteniamo che le loro scelte sia state a favore dei pochi e a danno dei molti. È un giudizio di valore, quindi.
È probabile, per fare un altro esempio, che la politica di Trump non danneggi i ricchi. È meno probabile che aiuti i poveri se non nella misura del ricasco generale ma indeterminato nel tempo, di una ricchezza che si espande a tal punto che come la pioggia finirà per bagnare tutti.
Se io sono a favore della tassazione progressiva, chi più ha più dà , perchè ritengo che la distribuzione della ricchezza debba favorire i ceti più svantaggiati, aumentare loro le tutele.
Ma se aumento le tutele ai più deboli, le riduco a coloro che stanno meglio nella convinzione che essi hanno sostanza economica per difendere il proprio status.
Se invece sono a favore della flat tax, percentuale lineare fissa, aiuto maggiormente chi più ha. Elementare Watson.
E se sono dei Cinquestelle? Qui ci viene in aiuto Beppe Grillo col suo po’, troncamento di poco.
Con una mano aiuto i più poveri, a cui concedo il reddito di cittadinanza, con l’altra però agevolo anche coloro che stanno meglio, riducendo le tasse più ingiuste, “tartassando” di meno.
E un po’ aiuto coloro che vanno in pensione, riformando la legge Fornero, un po’ aiuto i giovani a trovare lavoro, riducendo gli sprechi.
La teoria del po’ è infinita ma cozza, ahimè, contro il principio di realtà .
Lo spreco non è solo ruberia, corruzione. Quella è illegalità .
Lo spreco è anche lavoro improduttivo, finanziamenti senza coperture, tasse inevase.
Siamo certi che tutti i tartassati siano degli angioletti? Secondo me, no.
Siamo certi che tutti gli evasori siano con l’acqua alla gola? Secondo me, no.
Siamo certi infine che tutti i lavoratori lavorino, producano? Anche in questo caso avrei dei dubbi.
Dunque essere un partito un po’ di tutti, che distribuisce un po’ a tutti, che tiene un po’ per il ricco e un po’ per il povero, che aiuta un po’ il pensionato e un po’ il disoccupato rischia, malgrado le ottime intenzioni, di dare un po’ a chi merita e un po’ a chi no, di trasformare il furbo in bisognoso, e di giustificare anche le nostre cattive pratiche, ritenendole figlie del bisogno quando non lo sono e fondando così — magari senza volerlo — la categoria del privilegio, che è il cardine della società diseguale contro cui si era deciso di lottare.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
PER EVITARE FUGHE DI NOTIZIE MEGLIO STARE ZITTI
Un ritorno alle origini. Venerdì più di trecento tra deputati e senatori convergeranno a Roma, e si riuniranno in un hotel della zona Parioli. E si assisterà a un amarcord. Troupe all’assalto degli onorevoli, cronisti che proveranno a intrufolarsi in stanze proibite, comunicazione che proverà a tappare falle e buchi.
La giornata del Movimento 5 stelle sarà un amarcord delle prime, lunghe settimane della scorsa legislatura, partita nel 2013.
Ma lo scopo della riunione del gruppo parlamentare al gran completo è esattamente quello: disinnescare sul nascere tutti quei meccanismi che cinque anni fa non hanno funzionato (“i paradossi”, vengono prudentemente definiti, che hanno sovente creato ilarità ) e rodare la macchina prima che parta.
Con il sacrificio di quello che si spera sarà un unico giorno di vero delirio.
I funzionari del gruppo parlamentare stanno smaltendo un’enorme mole di lavoro. Uscenti e neoeletti vengono contattati uno a uno, ricevono istruzioni sul dove e quando, le prime consegne di massima.
A differenza del passato, i 5 stelle possono contare su uno zoccolo duro che è stato riconfermato e ha vissuto sulla propria pelle le storture del passato.
Gli uomini più vicini a Luigi Di Maio stanno coordinando il lavoro. Sono Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro ma soprattutto Danilo Toninelli a interfacciarsi con gli uffici. Non è strano, soprattutto quest’ultimo è un profondo conoscitore dei meccanismi del Palazzo.
Tutto verrà preparato al millimetro. Almeno nelle intenzioni.
E non è escluso che per tamponare caos e fuga di notizie vengano organizzati punti stampa per aggiornare la stampa. L’incontro sarà organizzativo. “Un tutorial”, viene definito.
Si parlerà della burocrazia d’ingresso, dei regolamenti parlamentari, si inizierà a fare un primo censimento sulle Commissioni.
E verranno date regole d’ingaggio per rapportarsi con i giornalisti, che prevedono, nella prima fase, un suggerimento di evitare qualunque contatto per non incappare nella più classica delle bucce di banana.
I temi politici più scottanti faranno parte dei conciliaboli, sia del vertice sia dei soldati semplici, ma non rientrano nell’ordine del giorno.
Perchè non è ancora il momento di dare in pasto agli oltre duecento deputati nuovi — e che in definitiva non si possono conoscere uno ad uno — informazioni sensibili. Vedersele bruciate da giornali e televisioni sarebbe un attimo.
Certo è che il nuovo frame in cui si è innestato il Movimento, sempre più partito che combriccola di “splendidi ragazzi” (cit.) con il mandato di aprire la scatoletta di tonno, non lascerà le cose inalterate.
A partire dall’elezione dei capigruppo e dalla designazione delle cariche più importanti. I candidati alle presidenze delle Camere, ma anche i vicepresidenti, i questori e coloro che potrebbero guidare le Commissioni, in virtù dei rapporti di forza in Parlamento.
Il metodo assembleare non verrà abbandonato, ma viene messo in soffitta l’antico (eppure eravamo appena un lustro fa) metodo della graticola, secondo il quale le autocandidature dei singoli venivano votate dopo in botta e risposta atto a verificarne competenze e adeguatezza del ruolo.
Oggi c’è un capo politico che guida, che si è presentato al paese come leader e candidato premier, da cui passano tutte le decisioni e gli snodi cruciali del Movimento.
Sarà lui a indirizzare le scelte del gruppo parlamentare.
2013 addio.
(da “la Repubblica”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
CI SONO ILLUSTRI ESEMPI IN EUROPA: BELGIO, SPAGNA, GERMANIA
La domanda che tutti si fanno è: l’Italia avrà un governo? Al momento la risposta sembra essere
negativa. Almeno nell’immediato.
Perchè le urne ci hanno regalato, in maniera non del tutto dissimile da cinque anni fa, una situazione dalla quale non è emersa alcuna maggioranza.
L’unica differenza sembra essere per il momento il fatto che il Partito Democratico non ha intenzione di andare al governo con il MoVimento 5 Stelle (qualsiasi cosa significhi)
Ma avere un governo è davvero necessario?
Del resto è giusto che siano il primo partito e la coalizione che ha preso più voti a farsi carico dell’onore e dell’onere di trovare una soluzione.
Altre soluzioni finirebbero per farci rivivere l’incubo di una legislatura accompagnata dal coro greco del “governo non eletto dal Popolo”.
Non sarà facile, ma “per il bene del Paese” c’è già chi è disposto ad immolarsi e ad andare a governare.
Ma è davvero una buona idea? Intendiamoci: l’eventualità che prima o poi venga nominato un Presidente del Consiglio e che si formi un governo è contemplata addirittura dalla nostra Costituzione.
Si tratta, verrebbe da dire, di un male necessario per tutte le forze politiche in campo che invece preferirebbero in questo frangente stare all’opposizione e lasciare “gli altri” a sporcarsi le mani.
Ecco quindi l’atroce dilemma.
È meglio governare una situazione che tutti sanno essere ingovernabile o godersi il delicato equilibrio dello status quo?
La domanda non è peregrina, soprattutto per il M5S che sogna fantomatici appoggi esterni che non vadano a modificare la lista dei supercompetenti (bastonati alle urne) e che è senza dubbio quello meno avvezzo e propenso a “inciuci” e alleanze.
Un governo del resto, c’è già . O meglio: c’è ancora.
È l’esecutivo di Paolo Gentiloni che rimarrà in carica per disbrigare gli affari correnti e nulla più.
Non potrà varare leggi per ridurre la pressione fiscale, abolire la Legge Fornero, ripristinare l’Articolo 18 o introdurre il reddito di cittadinanza ma in fondo non potrebbe farlo nemmeno un governo votato dall’attuale Parlamento dove non c’è nessuna maggioranza per poter fare tutte queste cose (e lasciamo perdere il fatto che siano quasi antitetiche).
Non serve invocare la teoria della mano invisibile e sperare invano che il mercato si regoli da sè.
Ma c’è da dire che su quel versante un governo nazionale ha poche possibilità di operare in maniera incisiva. Di regole e leggi ce ne sono abbastanza, è sufficiente applicarle e farle applicare. E quello non è compito del Presidente del Consiglio. Semplicemente è possibile per un Paese sopravvivere senza un governo. È già successo anche ai nostri vicini della casa comune europea.
Quello del Belgio è il caso più famoso visto che il Paese si è trovato “senza governo” per 523 giorni (18 mesi).
Qualcuno ha addirittura sostenuto che il Belgio abbia prosperato in assenza di un esecutivo. Non è così. Il Belgio ha attraversato la sua lunga crisi politica tra il 2010 e il 2011 (ma l’instabilità si è protratta sostanzialmente fino al 2014). Non proprio un periodo economicamente felice per l’Eurozona, con conseguente calo dei rendimenti dei titoli di stato che come sappiamo è un indicatore di una situazione di sfiducia dei mercati.
Senza contare che — come scriveva Mario Seminerio su Phastidio — “l’economia belga è pesantemente dipendente dal commercio estero; segnatamente dall’economia europea e, ancora più segnatamente, da quella tedesca”.
Chi invece è estremamente fiducioso nella capacità taumaturgiche dell’assenza di un esecutivo preferirà senz’altro citare il caso della Germania.
I tedeschi sono in attesa della formazione del nuovo governo Merkel (che sarà in coalizione con i socialdemocratici) dal 24 settembre 2017. Non senza provarle tutte, a partire dall’ipotesi di coalizione “Giamaica”.
Ma al di là del fatto che poi in Germania un governo è saltato fuori e che non durerà il tempo di “rifare una legge elettorale” come prospettano alcuni qui in Italia davvero vogliamo paragonare la situazione tedesca a quella Italiana?
La Germania non ha subito alcun contraccolpo dall’assenza di un governo perchè il lavoro era già stato impostato dal precedente.
C’è poi l’Olanda, 208 giorni senza un governo, ma eravamo già nel 2017 e in tutta Europa spiravano i venti della ripresa. E per inciso l’incertezza olandese era mitigata dal fatto che se non altro si sapeva che il VVD di Mark Rutte avrebbe avuto il compito di trovare la quadra, garantendo una certa continuità visto che Rutte era il premier uscente (proprio come in Germania).
Chi volesse cercare un popolo e una nazione più “vicini” culturalmente agli italiani e all’Italia parlerà allora di Spagna.
Anche i nostri cugini iberici sono rimasti — tra il 2015 e il 2016 — a lungo senza un governo: ben dieci mesi.
La Spagna però, vi diranno, va a gonfie vele con un PIL in vigorosa crescita. Al solito non c’è alcuna correlazione tra l’assenza di un governo e la crescita economica.
Non solo perchè la ripresa spagnola è iniziata prima della crisi di governo, sostanzialmente grazie alle riforme del mercato del lavoro varate nel 2012 dall’attuale
La ripresa spagnola, che pure c’è e c’è stata, è dovuta ad altri fattori.
Uno su tutti il fatto che si era “seminato bene” e che la congiuntura economica era favorevole.
In soldoni, si può anche stare senza governo per un po’ a patto però di non essere sull’orlo di una crisi. Il fatto che ci sia qualcuno oggi che propone una situazione del genere come “la soluzione” ai problemi del Paese è quasi più preoccupante del fatto che le due principali formazioni politiche (M5S e Centrodestra) non abbiano alcuna intenzione di fare quello per cui gli italiani li hanno mandati in Parlamento: governare. Perchè uno Stato può anche stare senza governo ma i partiti politici non dovrebbero avere la possibilità di non governare, quando possono farlo.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
BASTA RACCONTARE CHE IL M5S NON HA LA MAGGIORANZA PER COLPA DELLA LEGGE ELETTORALE, MA NON SI CAPISCE PERCHE’ DOVREBBE GOVERNARE CHI RAPPRESENTA SOL UN TERZO DEL PAESE
Sono giorni difficili per il MoVimento 5 Stelle. Il partito che per anni ha ripetuto ossessivamente “mai con il PD” e “mai con Forza Italia” e che si è sempre rifiutato di fare alleanze con qualsiasi partito o lista civica si trova nella spiacevole condizione (per loro) di doversi alleare con qualcuno per andare al governo.
Che il MoVimento 5 Stelle voglia governare anche se non ha la maggioranza è chiaro: lo ha detto il Capo Politico Luigi Di Maio.
Curiosamente però mentre il M5S cerca alleati con cui coalizzarsi continua a demonizzare l’idea di coalizione politica, disegnando un’Italia dove esiste solo il M5S.
È necessario quindi giustificare questa decisione. Non basta dire che lo si fa “per il bene del Paese”.
Perchè è lo stesso argomento utilizzato da Bersani nel 2013 durante il famoso streaming con Vito Crimi e Roberta Lombardi.
Dopo anni spesi a dire che il PD e Forza Italia sono il male assoluto il MoVimento 5 Stelle deve trovare una soluzione per far mandare giù la pillola ai suoi elettori. Il MoVimento 5 Stelle deve trasformarsi da partito a vocazione maggioritaria, che non è in grado di governare se non da solo (come avviene in tutti i comuni d’Italia dove c’è un sindaco del 5 Stelle) a partito di governo.
E in Italia, nonostante tutti i buoni propositi dei pentastellati, si governa assieme agli altri.
Le coalizioni le alleanze post elettorali volgarmente chiamati “inciuci” non sono il male assoluto. Sono il sale della democrazia.
Perchè chi governa lo fa a nome di tutti i cittadini, e non solo di chi lo ha votato. Certo, si può continuare ad andare a votare nella speranza che emerga una maggioranza chiara e che i cittadini (per esasperazione?) consegnino il potere ad un solo partito.
Non è quindi poi così strano che Luigi Di Maio utilizzi per i suoi post cartine elettorali prese dalle pagine “non ufficiali” del MoVimento 5 Stelle.
Cartine che servono a dimostrare che se non ci fossero le coalizioni il MoVimento 5 Stelle avrebbe vinto ovunque. Le coalizioni non sono una cosa brutta o sporca, sono sì un modo per raccogliere consensi in maniera trasversale ma anche un sistema per consentire che chi va al governo rappresenti meglio tutte le componenti del corpo elettorale. E soprattutto non sono incostituzionali.
Secondo queste carine, che vengono condivise anche da eletti del M5S come Tiziana Ciprini per spiegare che in buona sostanza gli elettori sono stati fregati dalla legge elettorale.
L’Italia raccontata dai 5 Stelle, quelli ufficiali e quelli non ufficiali, è la stessa: è tutta gialla.
Ma la storia non si fa con i “se” e probabilmente “se non ci fossero state le coalizioni” il centrodestra si sarebbe presentato con un raggruppamento compatto — immaginiamo con un nome tipo “Popolo delle Libertà ” oppure “Lega delle Libertà ”.
Secondo la narrazione del 5 Stelle se non ci fossero le coalizioni il M5S avrebbe la maggioranza assoluta. Ma non è così, perchè gli elettori di centrodestra avrebbero continuato a votare per l’eventuale formazione di Salvini-Berlusconi-Meloni. L’assenza delle coalizioni non dà “matematicamente” la vittoria al MoVimento 5 Stelle.
Ma possiamo già individuare uno dei leit motiv della nuova legislatura. Quella di Salvini che vuole governare l’Italia con “metà dei voti del MoVimento 5 Stelle”.
La coalizione di centrodestra però ha preso (senza premi di maggioranza visto che non ha raggiunto il 40%) 12.147.611 di voti pari al 37% del totale.
E del resto perchè 10milioni di voti dovrebbero consentire al MoVimento di governare quando rappresentano meno di un terzo dei 32.825.399 elettori che hanno votato il 4 marzo?
Per la cronaca la cartina dell’Italia post-elettorale è completamente diversa dall’immagine che ne dà il MoVimento 5 Stelle.
L’elaborazione grafica di Repubblica alla Camera (ma al Senato è sostanzialmente la stessa) mostra chiaramente come la ripartizione dei collegi plurinominali e uninominali data da Luigi Di Maio non corrisponda al vero.
Senza dubbio al Sud il M5S ha vinto ovunque (anche se rimangono alcune “sacche di resistenza” del centrodestra in Calabria) ma al Nord il MoVimento 5 Stelle ha ceduto ovunque il passo alla Lega e a Forza Italia.
Luigi Di Maio riesce a fare di meglio. Spiega che la cartina rappresenta “le regioni in cui il MoVimento 5 Stelle è la prima forza politica”.
Ma se fosse così il M5S non avrebbe bisogno di cercare voti in Parlamento per varare il suo governo.
Perchè si è andati a votare con una legge che consentiva ai partiti di coalizzarsi e quindi quella cartina non racconta la verità .
Racconta solo la verità che il M5S vuole raccontare agli elettori nel tentativo di far credere che essendo la maggioranza nel Paese è naturale che governino.
Ma se davvero sono maggioranza del Paese non avrebbero bisogno di cercare alleanze, “collaborazioni” o “convergenze programmatiche” (tutti eufemismi per evitare di usare la parola inciucio) con altri partiti. Allora perchè Di Maio non va a governare da solo?
Perchè è disposto a non tenere conto della volontà di quel 37% di elettori che ha deciso di mandare al governo Salvini e il centrodestra?
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
IL PD PRIMO TRA GLI OVER 65 E PENSIONATI
L’origine del mondo nuovo è scritta nel suo dna: l’età degli elettori, nel loro lavoro, nel loro
curriculum dentro la cabina.
La specie che sopravvive, dice Beppe Grillo, non è quella più forte ma quella che si adatta meglio: “Un po’ democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra”.
Di quale materia è fatto, allora, quel 32 per cento?
C’è un pezzo di Pd, come dicono tutti gli istituti di analisi. Ma non basta. Dentro ci sono cittadini che nel 2013 non si erano nemmeno presentati alle urne, ci sono ex elettori di Vendola, ma ci sono anche ex elettori di Berlusconi e soprattutto di Mario Monti. Cioè i sostenitori del governo del Professore, che nell’enciclopedia dei grillini è alla voce “grande inciucio” e che ha dato l’ultima spinta per il primo boom dei Cinquestelle, quello di cinque anni fa.
E’ in questa radiografia dell’istituto Ixè, diretto da Roberto Weber, la forza attrattiva che ha ingrossato settimana dopo settimana il bacino elettorale del M5s.
Il primo schema racconta che di quei 10 milioni e 700mila che hanno votato il M5s, il 57 per cento l’aveva già fatto cinque anni fa. Il resto sono tutti elettori “nuovi”, almeno alle Politiche.
La fetta più importante arriva dall’astensione (13 per cento), ma a seguire ci sono gli ex votanti di Scelta Civica (12) che sono molti di più degli ex Pd (7).
I Cinquestelle hanno anche perso qualcosa, è successo per i motivi più diversi ed è successo, spiega Weber, verso il centrosinistra e soprattutto verso il centrodestra (in testa la Lega).
Ma sono falle quasi ininfluenti rispetto a quanto il M5s è riuscito a rubare alle altre aree politiche, in particolare quelle definite “moderate” come — appunto — quella di Monti, un fenomeno emerso — in parte inferiore — già alle Europee 2014.
Poi c’è l’altro vincitore, la Lega, che in cinque anni ha più che quadruplicano i propri voti (dal 4 al 17), un fenomeno ancora più sorprendente dell’aumento dei Cinquestelle che ora sono al 32 ma partivano dal 25.
Guardando alla composizione del Carroccio che elabora Ixè, salta all’occhio subito che la maggioranza relativa degli attuali elettori leghisti nel 2013 aveva votato il Popolo della Libertà , cioè Berlusconi.
E’ una sorta di “sostituzione” dell’elettorato: solo il 19 per cento dei 5 milioni e 700mila voti della Lega era già del partito allora guidato da Roberto Maroni.
Il 31, invece, arriva dal Pdl: Weber spiega che l’elettorato della Lega ha un altissimo tasso di fedeltà alla coalizione (87 per cento).
E’ come se la base del centrodestra subisse una metamorfosi, cambiasse pelle. Anche la Lega recupera parecchio dai vecchi astenuti (22 per cento), ma in questo “esame del sangue” dell’elettorato della Lega c’è la conferma che il voto al Carroccio e ai Cinquestelle in molte parti del Paese sono le facce della stessa medaglia: di protesta, di voto “anti”, di volontà di cambiamento.
E infatti un decimo degli elettori attuali della Lega nel 2013 aveva votato M5s. Fino all’impensabile, che probabilmente riguarda soprattutto le Regioni rosse: il 7 per cento dei “nuovi leghisti”, nel 2013, votarono il Pd di Bersani. Evidentemente l’ultima speranza, l’ultima opportunità data al centrosinistra.
Se il ragionamento si estende a tutti i partiti, da Ixè spiegano che solo in un elettore su due ha fatto la croce di nuovo sul Pd.
Tutti gli altri se ne sono andati: verso il M5s soprattutto, verso la Lega (molto di più che verso Forza Italia), ma soprattutto verso il non voto (uno su 5).
Metà degli elettori di Scelta Civica ha scelto i Cinquestelle.
I veri disorientati, in ogni caso, sono gli ex elettori di Vendola, convinti proprio pochino dal progetto di Liberi e Uguali: uno su 3 si è astenuto, uno su 4 ha scelto Grasso, ma parecchi si sono sbriciolati tra Pd, Bonino e M5s.
Il lavoro sui dati di Ixè sconfessa un pregiudizio sui Cinquestelle: il loro 32 per cento, infatti, diventa 43 tra i dipendenti a tempo indeterminato.
Di un pelo dietro arrivano, certo, i disoccupati e gli studenti. Bassissima la quota, invece, tra pensionati e lavoratori autonomi.
Proprio i disoccupati puniscono il Partito Democratico (il quasi 19 per cento totale si riduce all’8), mentre a spingere — invano — Renzi sono stati soprattutto i pensionati, tra i quali il Pd è il primo partito.
Gli studenti sono il bacino principale di Liberi e Uguali, PiùEuropa e Potere al Popolo, ma non disdegnano affatto la Lega. Chi dà più forza a Forza Italia e Lega sono le casalinghe e gli autonomi. I disoccupati sono un bel pezzo dell’elettorato dei Fratelli d’Italia.
Se i Cinquestelle restano il primo partito in tutte le fasce d’età (e in particolare tra gli elettori di mezza età , tra i 35 e i 44), estendendo il proprio consenso — rispetto agli anni precedenti — anche nelle fasce dei più anziani. Weber qui sottolinea “la conquistata capacità di sfondare il muro dei 55 anni, oltre il quale, solo pochi mesi fa, registravamo un tracollo di consensi al movimento”.
Il Pd primeggia invece solo tra gli anziani, cioè coloro che hanno più di 65 anni, a conferma del fallimento anche del tentativo di Renzi di rendere più giovanile il partito.
Tra le altre cose si può notare che la Lega ha i suoi picchi tra i 45 e i 64, mentre Forza Italia va forte tra gli ultra 65enni. Liberi e Uguali e Potere al Popolo hanno costruito buona parte del loro piccolissimo patrimonio soprattutto sui giovani.
Da lì forse una parte della sinistra, svuotata e senz’anima, potrebbe cominciare a raccogliere qualche coccio.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
“CON FLAT TAX E REDDITO DI CITTADINANZA SAREBBE UNA STRAGE DEGLI INNOCENTI”
Introdotte insieme, la flat tax e il reddito di cittadinanza aprirebbero la porta a «una strage degli innocenti» e disegnerebbero un mondo in cui «gli italiani di domani farebbero meglio a non nascere».
Mario Monti lo dice con cautela, ben consapevole della gravità della sua profezia. Presi da soli, i due provvedimenti che il centrodestra e i grillini hanno utilizzato per vincere le elezioni, suggeriscono parecchi dubbi al professore ed ex premier.
Non è una missione impossibile, lascia intendere, però il rischio è di «essere stroncati dal debito».
Servirebbero dei correttivi, cose che qualunque governo dovrebbe fare. Come creare un mercato che funzioni, tagliare le tasse, battere l’evasione fiscale e ridurre le diseguaglianze.
Professore, siamo il primo Paese europeo candidato ad essere guidato da un governo anti-establishment. Non è sorpreso, vero?
«In fondo, la campagna elettorale è stata una lotta tra populisti. Due populisti venuti dal basso, Di Maio e Salvini, apparsi più freschi e genuini, hanno sconfitto due populisti più consolidati nel sistema, un po’ logori e meno credibili: il padre storico di tutti i populisti, Berlusconi; e Renzi, che perfino da Palazzo Chigi aveva praticato un suo populismo contro l’Europa».
Era un processo inevitabile?
«Dando spesso all’Europa la colpa dei loro insuccessi (uno di loro sostiene addirittura che abbia complottato per porre fine a un suo governo), sono stati proprio Berlusconi e Renzi a spianare la strada a Salvini e Di Maio, instillando per anni nella mente degli italiani un riflesso anti-Europa sul quale il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno capitalizzato alla grande. Per questo è parso un po’ goffo che Berlusconi abbia cercato di accreditarsi in Europa come il bastione contro gli euroscettici italiani».
Un Paese è sempre quello che vota. Il nostro sta migliorando o peggiorando?
«La politica italiana è riuscita a screditarsi oltre ogni limite. Basta pensare al tourbillon di passaggi da uno schieramento all’altro, da un partito all’altro. Il capitalismo italiano, la classe dirigente dell’economia, le organizzazioni imprenditoriali, non hanno mostrato grande capacità nè volontà di riformarsi».
Cos’è successo?
«Tutti tendono a considerare lo Stato come bestia da fustigare e da mungere al tempo stesso. Sarebbe stato sorprendente che proprio l’Italia restasse immune da quella miscela di risentimento verso la politica, verso tutte le istituzioni, verso l’establishment che in questi anni ha percorso l’Europa e gli Stati Uniti».
Cosa vogliono i populisti?
«Colpire due obiettivi: l’establishment e l’Europa».
Come andrà a finire?
«Mi auguro che riescano a imporre all’establishment una drastica cura per renderlo più moderno, più responsabile, più rispettoso delle leggi e dell’interesse generale».
E l’Europa?
«L’auspicio è che i populisti non compiano un grave errore di prospettiva storica. L’Europa deve essere riformata e migliorata in tanti aspetti. Ma non va depotenziata rispetto agli Stati nazionali, nè bisogna uscirne. In un Paese come l’Italia, il “sogno” di un’Europa espulsa dalla vita italiana, o di un’Italia ritornata alla totale sovranità nazionale, avrebbe conseguenze su cui Di Maio e Salvini, nell’interesse soprattutto dei loro elettori, dovrebbero riflettere».
Faccia un esempio.
«E’ stata l’Europa, per dirne una, a limitare lo strapotere delle caste, a cominciare dalle partecipazioni statali. Ha poi liberato i risparmiatori dall’obbligo, di fatto, di comprare solo titoli dello Stato italiano, per vederseli tosati da ondate di inflazione. Guai se puntassimo tutto su “Prima l’Italia”. Se mai, la traduzione geopolitica di “America First” dovrebbe essere “Prima l’Europa”, con il rafforzamento complessivo del nostro continente nella competizione mondiale. Di ciò necessita un Paese come il nostro, importante ma non molto potente. La Germania ha meno bisogno dell’Ue. L’economia tedesca la farebbe più da padrona in Italia, se l’Unione venisse meno o l’Italia uscisse».
Se andassero al governo, grillini e centrodestra si troverebbero ad attuare politiche che sembrano nel migliore dei casi difficili. È un vicolo cieco?
«Guardiamo anzitutto al contesto. Abbiamo vissuto tempi in cui i mercati finanziari grandinavano sui Paesi che praticavano politiche non ortodosse o si lasciavano andare a promesse non ponderate. Era eccessivo. Ma è altrettanto eccessivo – e più pericoloso perchè può condurre a scelte poco responsabili che i cittadini pagheranno caro in futuro – vivere nel Nirvana finanziario creato da un “quantitative easing” della Bce, a mio parere troppo generoso e che dura da troppo».
E allora?
«Non credo che i partiti, tutti, avrebbero dato tanta prova di irresponsabilità nelle promesse elettorali, se non ci trovassimo con tassi di interesse così bassi da rimuovere psicologicamente il vincolo di bilancio, malgrado le prediche della Ue e dei banchieri centrali. E non credo che i mercati avrebbero mostrato encefalogrammi così piatti, in termini di spread, di fronte a risultati elettorali che in altri tempi li avrebbero fatti rabbrividire. Meglio così, finchè durerà ».
Le promesse sono state chiare. M5s ha vinto col reddito di cittadinanza. Berlusconi e Salvini con la Flat Tax. Sono ricette ardue per un Paese indebitato.
«Ho qualche dubbio sull’uno e sull’altra, presi individualmente. E dubbi ancora maggiori se dovessero arrivare congiuntamente. Resto convinto che un’economia sociale di mercato che funzioni e crei lavoro deve avere grande attenzione sia all’aspetto produttivistico, sia a quello della riduzione delle disuguaglianze».
Qual è la giusta medicina?
«In ogni caso in Italia occorre una politica durissima contro l’evasione fiscale, oltre che il taglio della pressione complessiva, usando lo strumento fiscale contro le eccessive disuguaglianze. Probabilmente, le due visioni di Renzi e Berlusconi, piuttosto simili, avrebbero reso improbabile una tale strategia. Con Di Maio e/o Salvini potrebbe rivelarsi più facile combinare un’impostazione produttivistica “di destra” con un’impostazione distributiva “di sinistra”. Certo, se si introducessero il reddito di cittadinanza e la flat tax, nessuno protesterebbe. Ma sarebbe la “strage degli innocenti”: gli italiani di domani farebbero bene a non nascere, per non essere stroncati dal debito pubblico che scaricheremmo su di loro».
Il suo governo e la legge Fornero vengono spesso indicati fra le cause del populismo in Italia. Si sente colpevole?
«Allora, nel 2012, non era proprio possibile fare diversamente. Tant’è vero che tutti i provvedimenti presentati dal governo sono stati approvati in Parlamento con i voti sia del Pdl di Berlusconi che del Pd di Bersani. Questi due grandi partiti hanno contribuito al successo del M5s alle elezioni del 2013 non perchè abbiano adottato misure impopolari, ma perchè, avendo avuto per una volta una condotta molto responsabile, invece di rivendicare il merito di avere salvato l’Italia, in campagna elettorale hanno preferito dare la “colpa” al mio governo e all’Europa».
(da “La Stampa”)
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Marzo 7th, 2018 Riccardo Fucile
HANNO PIU’ DIGNITA’ DI QUALCHE LORO MASSIMO ESPONENTE: “FATELO SENZA DI ME”
È diventato subito trending topic, cioè l’argomento più virale su Twitter nelle ultime ore, ed è un
hashtag senza sfumature: #senzadime.
“Senza di me” sarà fatta una coalizione fra Pd e Movimento 5 stelle, scrivono alcuni elettori dem. Il senso dei cinguettii è univoco, il suono potente. “Chi non volesse un accordo tra Pd e Cinque Stelle scriva #senzadime” chiede Carrara_67.
E ad unirsi al coro sono centinaia di utenti.
L’hashtag #senzadime è il primo ‘urlo collettivo’ di quella parte di elettori, base del partito, contraria all’accordo. Al momento impossibile capire se sia maggioritaria o no, ma è preludio evidente a uno scontro che nelle prossime settimane non potrà che esplodere
Insieme ricalcano e danno eco alle parole di Matteo Renzi. “Cinque Stelle e Destre ci hanno insultato per anni e rappresentano l’opposto dei nostri valori. Sono anti europeisti, anti politici, hanno usato un linguaggio di odio. Ci hanno detto che siamo corrotti, mafiosi, collusi e che abbiamo le mani sporche di sangue per l’immigrazione: non credo che abbiano cambiato idea all’improvviso. Facciano loro il Governo se ci riescono, noi stiamo fuori”, ribadisce l’ex segretario del Pd.
“Per me il Pd deve stare all’opposizione. Se qualcuno del nostro partito la pensa diversamente, lo dica in direzione lunedì prossimo o nei gruppi parlamentari. Senza astio, senza insulti, senza polemiche: chi vuole portare il Pd a sostenere le destre o il Cinque Stelle lo dica. Personalmente penso che sarebbe un clamoroso e tragico errore”, aggiunge. “Ma quei dirigenti che chiedono collegialità hanno i luoghi e gli spazi per discutere democraticamente di tutto”. E la rete lo appoggia.
I commenti sono moltissimi, sono quelli dei delusi, di chi da queste elezioni è uscito senza peso ma che un peso, seppure di coerenza, vuole mantenere.
E mentre gli altri partiti invocano un ‘niente inciuci’, i #senzadime chiedono di accettare una sconfitta senza compromessi
Se M5s e Lega non trovassero un accordo politico, il Pd diventerebbe necessario. Infatti nessun’altra combinazione potrebbe garantire una maggioranza.
Due le ipotesi sul campo.
La prima, il M5s con il Pd (ed eventualmente i suoi compagni di centrosinistra, +Europa, Insieme, Civica Popolare, Svp più l’eletto della coalizione in Val d’Aosta al Senato) 356 deputati e 174 senatori. Maggioranza non ampissima. L
a seconda, questa stessa alleanza rafforzata da Leu con i suoi 14 deputati e 4 senatori.
Chi ha votato sa perdere, oggi chiede solo di poterne prendere atto e di essere, di diventare, una fiera opposizione. Non è una scelta da poco ma qualcosa che forse andrebbe, almeno stavolta, ascoltato.
(da agenzie)
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