Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
NEL MIRINO LA SCENEGGIATA ANTI-EUROPEISTA DI SALVINI A BRUXELLES E LE TRATTATIVE SOTTO BANCO CON I GRILLINI… CHE ABBIA CAPITO CHE A SALVINI INTERESSA SOLO IL PARTITO E NON IL CENTRODESTRA?
Le parole di Salvini a Strasburgo hanno l’effetto di una miccia. Che fa divampare l’incendio della
rabbia a palazzo Grazioli, a poche ore dal vertice con i tre leader del centrodestra.
Una rabbia a stento controllata nei giorni scorsi verso l’alleato che pare “fregarsene” di ogni minimo vincolo di coalizione. E tratta con i Cinque stelle sulle presidenze della Camere.
Le antenne azzurre hanno registrato che il lavoro degli sherpa leghisti e pentastellati è in fase molto avanzata. E prevede una camera ai Cinque Stelle, l’altra alla Lega.
Due gli schemi possibili: Giancarlo Giorgetti sullo scranno più alto di Montecitorio e Danilo Toninelli a palazzo Madama. Oppure Riccardo Fraccaro alla Camera e un leghista al Senato.
Ma Salvini preferisce la prima opzione perchè vuole evitare di indicare Roberto Calderoli, unica figura in grado di ricoprire il ruolo al Senato. Sebbene sia una figura storica della Lega e di indubbia competenza, riconosciuta anche dagli uffici tecnici del Senato, non è considerato fedele espressione del nuovo corso della Lega.
È una manovra che la dice lunga sulle reali intenzioni di Salvini.
Di fatto certifica che non vuole provare a fare un governo che “parta dal centrodestra” tentando di allargare ad altre forze.
Un’impressione rafforzata dalla esplosiva conferenza stampa a Bruxelles. Trapelano giudizi di fuoco dall’inner circle di Berlusconi sulla “sceneggiata” che sembra fatta apposta per spaventare i mercati, e non solo: “Ma che diavolo è andato a fare? Campagna elettorale per ribaltare il tavolo?”.
Invece di presentarsi come volto di una coalizione che vuole governare, è andato a scandire il suo “me ne frego” sulla governance europea e sul tema del bilancio post Brexit, annunciando lo sforamento del tre per cento e ventilando anche allarmistici “piani b”: “L’euro era, è e rimane una moneta sbagliata, ma i nostri esperti lavorano a un piano B se da Bruxelles arrivassero solo dei no”.
Cosa significhi nel merito questo piano B non l’ha capito nessuno, ma politicamente il segnale è chiaro: colui che si propone come candidato premier del centrodestra sta continuando la sua campagna elettorale su un programma che non è neanche quel minimo comun denominatore contenuto nei famosi dieci punti.
È chiaro che, su questi presupposti, serve un chiarimento, come si sarebbe detto una volta, franco e schietto.
I due, Berlusconi e Salvini, sono tornati separati in casa in un clima di sospetto e difficile coabitazione. Il primo si è convinto che l’alleato in fondo non voglia governare, ma stare all’opposizione di un governo Pd-Cinque stelle, anzi di un qualunque governo, si chiami del presidente o di scopo, per tornare al voto lanciando
Il secondo registra con crescente diffidenza i segnali lanciati dal Cavaliere a Mattarella e al Pd, in nome di un governo che dia stabilità all’Italia.
Avanti così si annunciano giorni assai complicati. E un duro braccio di ferro dall’esito imprevedibile, tra due partiti che hanno quasi lo stesso numero di eletti: tra Camera e Senato 170 gli azzurri, 182 la Lega.
E sulle presidenze si rischia davvero una rottura: “Se si accorda con i Cinque stelle — dicono nell’inner circle di Berlusconi — salta tutto, e saremo costretti a non votare neanche Giorgetti alla Camera”.
E domani, a pranzo è convocato tutto lo stato maggiore di Forza Italia, a conferma della delicatezza del momento.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
DAVANTI ALLA STAMPA ESTERA IL CANDIDATO PREMIER RASSICURA BRUXELLES
Ormai l’argine è stato travolto. E Luigi Di Maio in conferenza stampa davanti ai giornalisti stranieri evoca la parola “urne”.
Il giorno dopo la Direzione Pd, che ha chiuso a un appoggio ai grillini, e nel giorno in cui gli altri partiti parlano di un governissimo, non c’è più l’imbarazzo da parte dei vertici M5s nel dire: “Nessun esecutivo istituzionale, o Luigi Di Maio premier o torniamo al voto”. Le urne sono quindi lo spauracchio agitato dal capo politico, che ci mette la faccia mandando segnali all’Europa e anche al Quirinale a poco più di una settimana dal voto.
Settimana durante la quale una reale trattativa per formare il nuovo governo non è iniziata e i telefoni su questo fronte sono rimasti perlopiù in silenzio: “Nessuno si è fatto avanti”, ammette in fondo lo stesso Di Maio davanti alla stampa estera. Nel senso che nessun partito, leggasi Pd, ha risposto all’appello lanciato dal capo politico grillino.
Ed è per questo che, parlando con i giornalisti stranieri, Di Maio fa un ultimo tentativo accorato: “Io dico mettiamoci al lavoro sull’Italia. Qui non si parla di Pd, Lega o Forza Italia. Noi diciamo agli altri di venire avanti con proposte. Dire ‘metti un tuo uomo e togli un tuo uomo’ non sono dinamiche che ci appartengono”.
Tuttavia la voglia di arrivare a Palazzo Chigi è tanta, così come sale la rabbia e la preoccupazione nel vedere il traguardo, almeno per ora, sempre più lontano.
Dunque il mantra è che su Di Maio premier non si tratta ma, al di là delle dichiarazioni ufficiali, si è invece disposti a ragionare sulla squadra, cambiando pedine se è il caso, e sui temi pur di governare.
Lo sguardo è sempre rivolto al Pd, partito uscito indebolito dalle elezioni e su cui gli M5s hanno lanciato l’opa.
Nello stesso tempo l’aspirante premier dice non essere spaventato da un ritorno alle urne. Il ragionamento che ha preso forma nelle ultime ore nelle stanze del comitato elettorale grillino, dove nei fatti lo stato maggiore pentastellato è in riunione permanente, è il seguente: “Se torniamo al voto sarà come dire agli italiani ‘scegliete tra noi e la Lega’. A quel punto è come se ci fosse un ballottaggio”.
Ed ecco che i grillini hanno contattato analisti e sondaggisti.
Dati alla mano viene riferito che la figura Di Maio sarebbe in crescita rispetto al 4 marzo e avrebbe superato Paolo Gentiloni.
I due leader all’apice del successo sarebbero quindi lui e Matteo Salvini. E in fondo sono coloro che premono per diventare sì presidenti del consiglio ma sotto sotto aspirano a un ritorno al voto convinti di avere questa volta una vittoria piena.
Per i 5Stelle si può tornare al voto anche con l’attuale legge elettorale. “Non possiamo perdere tempo e se ci sedessimo al tavolo con gli altri non ne usciremmo più”, spiega chi ha a lungo parlato con Di Maio.
Se la settimana scorsa era trapelata l’idea di un asse con Matteo Salvini per riscrivere il Rosatellum, adesso quest’idea è venuta meno: “Sarebbe impossibile, rischieremmo di logorarci. Noi invece siamo in crescita”.
In sostanza M5s, nel guardare i sondaggi degli ultimi giorni, vede un consenso a favore del Pd sempre più ristretto e punta sul fatto che questi siano voti tutti a loro favore, mentre dall’altra parte del campo ci sarà semplicemente un travaso dei voti di Forza Italia verso la Lega.
Almeno secondo i calcoli dello stato maggiore grillino.
Poi ancora, sempre nella misura di un estremo tentativo per arrivare al governo, Di Maio rassicura l’Europa e Angela Merkel nel giorno in cui Salvini twitta invece una sua foto assieme a Nigel Farage, ex leader dell’Ukip, il partito per l’Indipendenza del Regno Unito.
“Le nostre misure economiche — dice il capo grillino – saranno sempre ispirate alla stabilità del paese e alla qualità della vita degli italiani. Non vogliamo trascinare l’economia dell’Italia nelle diatribe politiche. Credo che oggi il ministro Padoan sia molto irresponsabile a trascinare le questioni tra Italia e Bruxelles rispondendo ‘non so’ a proposito del futuro dell’Italia”. E poi il candidato premier aggiunge: “Il mio primo viaggio da presidente del Consiglio sarà a Bruxelles”.
Il messaggio è rivolto all’establishment europeo ma non solo. Guarda anche a Sergio Mattarella, pur sapendo ormai che senza numeri certi il capo dello Stato non manderà un governo a chiedere la fiducia al Parlamento.
È possibile invece che il presidente della Repubblica dia un mandato esplorativo ai presidenti delle Camere. E una di queste andrà con ogni probabilità ai 5Stelle in accordo con la Lega (“non in ottica governo”, precisa Di Maio).
“Puntiamo allo scranno più alto di Montecitorio”, trapela dalle stanze 5Stelle. E l’uomo indicato dovrebbe essere Riccardo Fraccaro, uno dei due luogotenenti di Di Maio, insomma uno dei fedelissimi. Proprio perchè nulla in questa fase viene lasciato al caso.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
LAVORATORI IN RIVOLTA… SOTTO ACCUSA ANCHE I PAROLAI DELLA REGIONE LIGURIA
Centoquattordici lavoratori Piaggio Aerospace, di cui ottanta genovesi e 34 di Villanova, hanno
ricevuto questa mattina le lettere di licenziamento.
Si tratta di lavoratori che sono al momento tutti in cassa integrazione che scadrà il prossimo luglio.
La conferma, dopo l’anticipazione del Secolo XIX online, arriva da fonti sindacali. «Piaggio Aerospace ha avviato questa mattina la procedura di licenziamento collettivo nonostante avesse detto che non ci sarebbero stati esuberi e se si sente autorizzata a farlo è perchè il governo ha nei fatti dato l’ok al nuovo piano industriale» attacca Antonio Caminito della Fiom Cgil di Genova. I sindacati hanno chiesto un immediato incontro con l’azienda: «Vogliamo capire quali sono le reali intenzioni – spiega il sindacalista – e se la convocazione non arriverà immediatamente siamo pronti a scendere in piazza».
Rabbia ma soprattutto l’amarezza nei confronti dell’esecutivo che il 15 febbraio aveva di fatto avallato il piano industriale dell’azienda allo scopo di evitarne il fallimento: «È evidente che il governo ha grandissime responsabilità perchè li ha riempiti di soldi – accusa ancora la Fiom – e non è riuscito nè a pretendere un piano industriale serio nè a evitare gli esuberi».
Fim Cisl e Uilm: «Governo e Regione corresponsabili»
«Ancora una volta le dichiarazioni rassicuranti dell’amministratore delegato non hanno nei fatti nessun riscontro, anzi si fa il contrario di ciò che si afferma. L’Azienda si sente legittimata nel portare avanti il proprio Piano Industriale dalle dichiarazioni di accoglimento dello stesso, fatte dal Governo nell’ultimo incontro del 15 febbraio 2018 presso il Ministero dello Sviluppo Economico. La cessione della proprietà intellettuale del P180 e la sua evoluzione ad una sconosciuta Società Cinese, che dovrebbe garantire commesse e quindi il lavoro, nei fatti farà uscire Piaggio dall’essere una società velivolistica civile.
Lo scrivono in un comunicato i rappresentati di Fim Cisl e Uilm – L’Azienda costruirà i velivoli civili sino a quando allo stesso converrà . Non ci risulta che esistano ad oggi accordi a tutela delle tante affermazioni generiche sentite. L’Azienda sostiene che non esiste lo spacchettamento ma contraddicendosi conferma che i motori sono in vendita, ad azienda italiana della quale anche in questo caso non si conosce l’identità dettagliata, ma si sa già che manterrà la sede a Villanova, i lavoratori italiani conoscono migliaia di Aziende che cedono e promettono garanzie che restano ovviamente a carico di chi compra. L’azienda straccia tutti gli accordi sottoscritti a garanzia del ridimensionamento della presenza su Genova, compreso gli impegni ad utilizzare le aree di Sestri Ponente per ricollocare i lavoratori, ma quel che è più grave cancella l’impegno sottoscritto nelle sedi Governative dell’assenza di esuberi. L’attivazione della procedura è un atto grave che chiama alla corresponsabilità diversi soggetti, primo tra tutti il Governo che ha continuato ad elargire milioni di euro a Piaggio senza pretendere in cambio un impegno minimo di garanzia occupazionale senza nessun licenziamento. La Regione in quanto firmatario dell’Accordo Ministeriale non è uno spettatore la violazione degli accordi sottoscritti la coinvolge direttamente» concludono dai sindacati».
(da “Il Secolo XIX”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
UN FUTURO DA BRIVIDI A CAUSA DEL RITARDO NELL’INGRESSO NEL MONDO DEL LAVORO, DELLA DISCONTINUITA’ CONTRIBUTIVA, DELLA DIMANICA DELLE RETRIBUZIONI
Precari, neet, working poor e “lavoro gabbia”. Un esercito di 5,7 milioni di lavoratori che, se questa tendenza non dovesse essere invertita, rischiano di alimentare le fila dei poveri in Italia entro il 2050.
Il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, la discontinuità contributiva, la debole dinamica retributiva che caratterizza molte attività lavorative rappresentano un pericoloso mix di fattori che proietta uno scenario preoccupante sul futuro previdenziale e la tenuta sociale del Paese, dove le condizioni di nuove povertà , determinate da pensioni basse, saranno aggravate, inoltre, dall’impossibilità , per molti lavoratori, di contare sulla previdenza complementare come secondo pilastro pensionistico.
È l’allame lanciato dal focus Censis-Confcooperative “Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?”.
Assistiamo, infatti, a una discriminazione tra generazioni. Già oggi, il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio segnala una decisa divaricazione del 14,6%.
Il sistema previdenziale obbligatorio attuale garantisce a un ex dipendente con carriera continuativa, 38 anni di contributi versati e uscita dal lavoro nel 2010 a 65 anni, una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione.
A un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2012 a 29 anni, per il quale si prefigura una carriera continuativa come dipendente, 38 anni di contribuzione e uscita dal lavoro nel 2050 a 67 anni, il rapporto fra pensione futura e ultima retribuzione si dovrebbe fermare al 69,7%, quasi quindici punti percentuali in meno.
Questo nella migliore delle ipotesi.
Rischia di andare molto peggio a 5,7 milioni di persone.
Infatti sono oltre 3 milioni i Neet (18-35 anni) che hanno rinunciato a ogni tipo di prospettiva a causa della mancanza di lavoro. A questi si aggiungono 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia” confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscirne e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita professionale.
A tutto ciò si aggiunge un problema di adeguatezza del “rendimento economico” del lavoro che espone al rischio della povertà .
Lavorare, quindi, può non bastare. Per i giovani, in particolare, lo slittamento verso il basso delle remunerazioni, in assenza in Italia di minimi salariali, segnala in maniera ancora più marcata la separazione che sta avvenendo fra i destini dei lavoratori e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi di welfare.
Questo effetto di “sfrangiamento” del lavoro rispetto al passato è poi messo in evidenza dalle tipologie di lavoro a “bassa qualità ” e a “bassa intensità ” che si stanno via via diffondendo.
Sono, infatti, 171.000 i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate.
La scelta obbligata di lavorare meno ore rispetto alla propria volontà evidenzia una situazione di inadeguatezza del lavoro svolto come fonte di reddito, tanto da diventare causa di marginalità rispetto alla potenziale disponibilità del lavoratore.
Il dettaglio regionale fa emergere la forte differenza socio economica tra Nord e Sud. Anche solo guardando al fenomeno dei Neet, nella fascia 25-34 anni (totale 2 milioni), i giovani che non lavorano e non studiano che vivono nelle sei regioni del Sud sono oltre la metà , ben 1,1 milioni, di cui 700mila circa concentrati in sole due regioni: Sicilia (317mila) e Campania (361mila).
“Queste condizioni hanno attivato una bomba sociale che va disinnescata. Lavoro e povertà – dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative – sono due emergenze sulle quali chiediamo al futuro governo di impegnarsi con determinazione per un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del Paese. Sul fronte della povertà il Rei con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020 fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di Neet e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione”.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
A PROCESSO PER SIMULAZIONE DI REATO LA 33ENNE DI VARESE… MA PER SETTIMANE E’ STATA UTILE ALLA GRANCASSA RAZZISTA E PER CRIMINALIZZARE CHI AIUTA I MIGRANTI
Aveva raccontato di essere stata violentata da un migrante, un giovane senegalese. Arricchendo la
sua denuncia di numerosi dettagli, anche scabrosi. Ma si era inventata tutto. È per l’accusa di simulazione di reato che ieri mattina si è aperto il processo nei confronti di una donna di 33 anni, V. B., originaria della provincia di Varese, difesa dall’avvocato Mariangela Cozzani.
La giovane si era unita al presidio dei No Border che nell’estate 2015 si era stabilito a Ponte San Ludovico per sostenere la battaglia dei profughi, “bloccati” dalla polizia francese.
Seppure non avesse esperienza come attivista, la volontaria aveva cercato di guadagnarsi un suo spazio all’interno del presidio.
Fino a quando, il 23 settembre, aveva denunciato alla polizia di essere stata vittima di uno stupro. Agli agenti del commissariato di Ventimiglia aveva in particolare raccontato di essere stata raggiunta da un profugo senegalese mentre stava facendo la doccia e che l’uomo, dopo averla inizialmente «baciata con tenerezza», prima l’aveva stretta con forza, per poi spingerla contro la parete della doccia a abusare sessualmente di lei.
Un racconto che aveva ribadito ad una investigatrice una decina di giorni dopo, aggiungendo anche un particolare: per sottolineare la «forza» dell’azione sessuale, aveva usato una frase perlomeno singolare per descrivere il presunto stupratore: «Posso dire che era uno come Rocco Siffredi», facendo riferimento al noto ex pornodivo italiano.
La denuncia della violenza sessuale aveva suscitato reazioni sdegnate, e messo in difficoltà gli stessi No Border, che avevano fin da subito sollevato molti dubbi sulla veridicità del racconto della volontaria.
Dalle successive indagini, quindi, non erano emersi riscontri alla versione della giovane. Alla fine, lo stupro si era rivelato un’invenzione.
In aula, lunedì 12 marzo, hanno testimoniato proprio le poliziotte che avevano raccolto la prima denuncia e la successiva deposizione, confermando di avere fin da subito sospettato che l’imputata non avesse detto la verità .
Evidenziando come fosse «troppo tranquilla» per essere una vittima di violenza sessuale. Il processo è stato rinviato al 10 dicembre per sentire altri testi e per la probabile sentenza. La giovane, in aula, non c’era.
(da “il Secolo XIX”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
IL VIMINALE DECIDE LA SUA CHIUSURA “TEMPORANEA”…SPORCIZIA E DEGRADO, SETTORI INAGIBILI PER RICHIEDENTI ASILO CHE DOVREBBERO RIMANERE POCHI GIORNI E INVECE SONO BLOCCATI PER MESI
Vivono dentro i padiglioni bruciati. Camminano nei corridoi imbrattati di sporcizia. Dormono su pezze di gommapiuma lercia senza lenzuola.
Usano bagni sgangherati che di rado vengono puliti. Questa volta a documentare le condizioni pietose in cui è ridotto l’hotspot di Lampedusa non è qualche migrante esagitato. Sono le immagini.
Fotografie fatte con il cellulare da chi ieri mattina è potuto entrare nei tre dormitori resi inagibili dall’incendio dell’8 marzo scorso. Inagibili, ma lo stesso abitati.
In particolare gli scatti si riferiscono al padiglione A2, che i tre vigili del fuoco in servizio nel centro di identificazione Lampedusa hanno isolato perchè danneggiato dalle fiamme.
Le stanze dovrebbero rimanere vuote, ma in mancanza di altri posti dove riparare, i quasi cento ospiti dell’hotspot (in gran parte tunisini) si sono di nuovo sistemati lì. Dove non sono più garantiti i minimi criteri di igiene e sicurezza, perchè gli operatori del centro non ci entrano
Costantino Saporito, rappresentante Usb dei Vigili del Fuoco, per motivi sindacali ha avuto il permesso di accedere ai locali.
“Una situazione di degrado totale”, racconta a Repubblica. “I migranti dormono lì perchè non sanno dove appoggiarsi. L’altro bivacco di fortuna, composto di materassi sistemati all’aperto sotto una specie di palafitta in ferro chiusa anch’essa a causa di un rogo, è saturo. L’odore è nauseabondo. Qualcuno deve intervenire in fretta, non ci sono più le condizioni di sicurezza”.
Il centro di Lampedusa per il fotosegnalamento e la prima identificazione è gestito dalla Misericordia e dalla Croce Rossa Italiana. Nei giorni scorsi una delegazione di avvocati, ricercatori e mediatori culturali della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e di Indiwatch ha fatto un sopralluogo sull’isola.+
“Nell’hotspot non esiste una mensa e il cibo che gli ospiti consumano in stanza o all’aperto è di scarsissima qualità ”, hanno raccontato Gennaro Santoro di Cild e Giulia Crescini di Asgi.
“I bagni non hanno le porte e i materassi sono sporchi. Ai richiedenti asilo non viene rilasciato alcun titolo di soggiorno. Sono costretti a rimanere nell’hotspot per diversi mesi, nonostante sia una struttura pensata per fotosegnalarli entro pochi giorni, così da poter essere spostati altrove”.
Gli stessi identici problemi erano stati segnalati dal Garante delle persone detenute e private della libertà personale, Mauro Palma, nelle settimane scorse.
Gli avvocati di Asgi si sono anche rivolti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, per denunciare le lesioni che avrebbe subito una bambina durante i tafferugli con gli agenti di polizia lo scorso 8 marzo, prima dell’incendio appiccato dagli stessi migranti per protesta.
Gli ospiti hanno parlato di percosse e di manganellate, soprattutto da parte di uno dei poliziotti. Ad essere danneggiata è stata la stessa area del rogo del 2009. Anche il servizio anticendio pare essere precario come il resto della struttura.
“E’ inaccettabile che nell’hotspot ci siano solo tre pompieri in servizio — dichiara ancora Costantino Saporito – ed è ancor più scandaloso che per motivi a noi oscuri i tre non vengano regolarmente pagati. Coprono turni di dodici ore ma stanno lavorando gratis”.
Nel pomeriggio si è intanto tenuto al Viminale un incontro tra il capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, il direttore centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del dipartimento di pubblica sicurezza ed il sindaco di Lampedusa.
Nel corso del vertice è stata analizzata la situazione del centro, anche alla luce del recente incendio doloso che ha reso inagibile una ulteriore sezione alloggiativa, già compromessa da analoghi precedenti episodi.
A conclusione dell’incontro, si è convenuto di procedere al progressivo e veloce svuotamento della struttura con chiusura temporanea della stessa, per consentire l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione, a partire da quelli già programmati, riguardanti la recinzione, i locali mensa e la videosorveglianza. In caso di emergenza saranno assicurate le esclusive operazioni di primissimo soccorso ed identificazione, in vista della conseguente distribuzione territoriale dei migranti.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
E DISEGNA UNA NUOVA EUROPA NON DELL’ECONOMIA MA DELLA COESIONE SOCIALE
Per una serie di motivi, interni ed esterni, rispetto al passato oggi la scena internazionale è molto
meno frequentata da parte delle grandi potenze.
Gli Stati Uniti di Trump sono in piena fase di ripiego, impegnati a minare quei ponti che loro stessi avevano costruito con Asia, America Latina ed Europa.
La Russia di Putin è fin troppo concentrata sul grande gioco della Siria e sul controllo dei confini con la Nato nell’Europa dell’Est. La Germania è ancora paralizzata dalla lunga trattativa per la formazione di un nuovo governo, il Regno Unito si sta leccando le ferite autoprovocate con la Brexit.
Solo la Cina dell’ormai presidente a vita Xi Jiping e la Francia di Emmanuel Macron sono attive in politica estera. Soprattutto Parigi sta approfittando del vuoto lasciato dai suoi principali competitor inglesi e tedeschi, e dell’insignificanza eterna dell’Italia, per rilanciare con forza la sua presenza in diversi scenari internazionali.
Partendo dalla Cina, dove nella sua recente visita Macron ha fatto capire che si candida a essere alleato del gigante asiatico nella costruzione di una globalizzazione controllata, basata sulla reciprocità soprattutto in materia di delocalizzazione produttiva e di perdita di posti di lavoro.
Il tema è già stato affrontato dall’inquilino dell’Eliseo nei confronti dei Paesi dell’Est europeo: cooperazione sì, dumping sociale sul costo del lavoro no.
Ma l’Asia non è solo Cina, in India Macron ha firmato accordi commerciali per 13 miliardi di euro con il governo Modi portando il livello di relazione tra i due stati a quello di “partnership strategica”. In buona sostanza, la Francia diventa l’alleato europeo chiave per New Delhi.
L’altro fronte che vede attiva Parigi è un “classico” della storia della Francia, progressivamente abbandonato nel tempo: il Medio Oriente. Il punto più alto dell’impegno di Macron è stata la mediazione tra Iran e Arabia Saudita che ha messo in sicurezza il Libano, strappando ai sauditi il premier libanese Saad Hariri, che era praticamente sequestrato a Riad ed è tornato a Beirut nel pieno dei suoi poteri.
Ultimo fronte di visibilità è l’Africa saheliana, il cortile di casa per i francesi, che sono impegnati in prima linea a tutela della stabilità dei regimi amici aggrediti dai gruppi jihadisti. Un grande impegno militare in condizioni difficili, ma che ha permesso la riconquista del Mali settentrionale e la tenuta del Niger, crocevia regionale.
Fa parte del buon momento della diplomazia francese anche l’avere convinto l’Italia a impegnarsi militarmente in quella zona con la promessa di incidere sul controllo dei flussi dei migranti, tema che in realtà non interessa minimamente alla Francia.
Il punto centrale dell’offensiva di Macron resta però il processo di integrazione europea.
Dopo la rottura con il Regno Unito, che a Parigi hanno più festeggiato che rimpianto, la Francia si considera la locomotiva che dovrebbe guidare l’Europa nel grande passo verso la costruzione di un’entità politica unica.
Un passo da fare insieme all’alleato di ferro, la Germania, ma senza disdegnare la solidarietà dei Paesi mediterranei, soprattutto Spagna e Italia, per riuscire a strappare meno vincoli di bilancio al rigore di stampo teutonico.
La Francia sta proponendo un modello di integrazione percorribile, con la creazione di un Ministero delle Finanze europeo, con un suo budget e con competenze per affrontare le crisi economiche anche sul fronte dell’occupazione.
Non solo economia quindi, ma anche coesione sociale.
E questo senza andare a toccare il parametro del 3% di deficit come massimo tollerato, per non urtare la sensibilità della cancelliera Merkel.
Emmanuel Macron ha davanti a sè una grande opportunità , quella di restituire alla Francia un ruolo da potenza globale. Oltre alle sue capacità personali, che il tempo confermerà o smentirà , è il contesto internazionale che sembra quasi congiurare per far tornare a splendere la stella di Parigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
CINQUE ANNI DI PONTIFICATO CON NEMICI NEL COLLEGIO DEI CARDINALI E PARROCI CHE DISATTENDONO LE SUE INDICAZIONI QUANDO VANNO A TOCCARE I LORO INTERESSI
A Papa Francesco questi primi cinque anni di pontificato hanno donato sicuramente tanti amici, ma soprattutto molti e accaniti nemici.
Per Jorge Mario Bergoglio gli oppositori sono arrivati subito, a fumata bianca appena levatasi nel cielo, quando l’ormai ex arcivescovo di Buenos Aires, entrato in conclave a 76 anni compiuti, ovvero in età da dimissioni canoniche, ha rifiutato i segni della regalità pontificia: croce d’oro, mozzetta e scarpe rosse, rocchetto ricamato di pizzo e il trono per ricevere l’atto di obbedienza dei cardinali elettori.
Vederlo uscire vestito di bianco dalla cosiddetta “Stanza delle lacrime” per molti dei porporati che lo avevano appena votato è stato un vero e proprio choc. Soprattutto perchè il pontificato di Benedetto XVI, che si era concluso da appena due settimane, aveva rispolverato dal museo i paramenti di Pio IX e il trono di Pio XII.
Bergoglio divenuto Francesco non dimentica fin dal primo momento che la sua elezione è stata resa possibile dalle dimissioni del suo predecessore.
È proprio dal Papa emerito, le cui infondate voci di un aggravamento di salute si susseguono di settimana in settimana, che è arrivato il regalo più bello e inaspettato per questo quinto anniversario di pontificato.
Una lettera nella quale Benedetto XVI, da Bergoglio definito spesso “il nonno saggio a casa”, invita a “opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi”.
La risposta più eloquente ai nemici di Francesco che gli oppongono Benedetto XVI.
Nemici che in questi cinque anni si sono decisamente moltiplicati, soprattutto all’interno della Curia romana dove ci sono cardinali che non nascondono che se tornassero sotto le volte della Cappella Sistina non darebbero più il loro voto a Bergoglio.
Desacralizzante, comunista, marxista, peronista, eretico, scismatico e populista: le accuse non sono mancate e sono diventate di anno in anno, di riforma in riforma pesantissime. Alimentando il sogno sedevacantista di archiviare questo pontificato e di poter tornare presto ai fasti anacronistici del papato risorgimentale.
Nemici Francesco li ha avuti fin da subito nel collegio cardinalizio: da Raymond Leo Burke che ha più volte manifestato la sua volontà di “resistere alle decisioni papali”; a Carlo Caffarra, Walter Brandmà¼ller e Joachim Meisner che insieme a Burke si sono opposti alle aperture ai divorziati risposati; a Gerhard Ludwig Mà¼ller reo di aver ostacolato l’opera di tolleranza zero nel contrasto alla pedofilia del clero; fino ad Angelo Bagnasco che ha incarnato una Cei che non ha saputo per nulla sintonizzarsi sulla rivoluzione chiesta da Francesco di una “Chiesa in uscita, accidentata, sporca e ferita”.
Oppositori dichiarati come l’arcivescovo ciellino Luigi Negri che non ha mai risparmiato violentissimi attacchi contro Bergoglio e le sue aperture ai divorziati risposati.
Ma nemici sono anche quei vescovi e parroci che disattendono completamente le indicazioni pastorali di Francesco, soprattutto quando toccano i loro interessi.
E allora non di rado aumentano critiche, contestazioni e mal di pancia quando il Papa ribadisce con forza che le “messe sono gratis” e che non devono esistere tariffari per i sacramenti.
Così come quando attacca il lusso di cardinali, vescovi, preti e suore che vivono da faraoni, usano l’auto ultimo modello, amano il lusso e la vita agiata.
I nemici di Bergoglio sono anche i politici corrotti, chi sfrutta le persone con il lavoro in nero, chi ama le tangenti e i soldi sporchi, spesso macchiati di sangue.
Corruzione che, come Francesco ricorda spesso suscitando forti critiche curiali, è presente anche in Vaticano.
È qui che si gioca la credibilità di Bergoglio, amatissimo più fuori che dentro la stretta geografia cattolica. Un Papa che non predica bene e razzola male, come insegna un famoso detto della saggezza popolare, ma che vive per primo ciò che chiede alle gerarchie della sua Chiesa.
Rifiuta il lusso vivendo in un modesto bilocale di appena 70 metri quadrati in un semplice albergo come Casa Santa Marta e preferisce girare con un’utilitaria.
Nessuno dei capi dicastero della Curia romana in questi cinque anni di pontificato ha abbandonato il suo appartamento, in media di 400 metri quadrati, per seguire l’esempio di Francesco. Già questo è indicativo di quanto questo stile di vita decisamente controcorrente sia mal digerito da cardinali e vescovi arroccati sui privilegi secolari della casta clericale.
Eppure Bergoglio non ha paura di restare isolato, come del resto è chiamato a essere ogni Papa. E anche di avere chi rema contro le sue riforme soprattutto quando cerca di bonificare lo Ior, da sempre il luogo privilegiato dove in Vaticano si riciclano i soldi sporchi.
O di contrastare decisamente la piaga aberrante della pedofilia del clero.
Francesco non ha sicuramente paura della solitudine, nè dei nemici che anno dopo anno sembrano aumentare e diventare sempre più aggressivi nascondendosi dietro fake news, manifesti irridenti affissi per le strade di Roma o un falso Osservatore Romano che attacca la presunta poca misericordia di Bergoglio verso gli oppositori. Tra gli attacchi dei suoi nemici e la finta ammirazione dei carrieristi Francesco non ha dubbi: “Io ho allergia degli adulatori. Mi viene naturale, non è virtù. Perchè adulare un altro è usare una persona per uno scopo, nascosto o che si veda, ma per ottenere qualcosa per se stesso. È indegno. I detrattori parlano male di me e io me lo merito perchè sono un peccatore. Quello non mi preoccupa”.
(da “Il Fatto Quotodiano”)
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Marzo 13th, 2018 Riccardo Fucile
NON HA AVVERSARI, CHI POTEVA INQUIETARLO VIENE NEUTRALIZZATO DALLA MAGISTRATURA… UN PAESE IN MANO A EX FUNZIONARI DEL KGB CHE FINANZIANO I PEGGIORI PARTITI RAZZISTI PER DESTABILIZZARE L’EUROPA
Un un recente grottesco romanzo, Gli ultimi giorni di Vladimir P. (Michael Honig, ed. Frassinelli),
si racconta la lenta fine di un Putin vecchio, malandato e demente; siamo nel 2032, Volodja, l’ex presidente, ha ottant’anni, è sempre più incattivito, paranoico, ossessionato dai fantasmi del suo passato; è imbottito di farmaci, soffre di allucinazioni.
Spesso parla a poltrone vuote sulle quali solo lui vede seduto l’odiato ministro delle Finanze che è diventato presidente. Vladimir è confinato in una dacia poco lontano da Mosca, a Novo-Ogarevo. Poco è cambiato, dai giorni nostri: il contesto del futuro prossimo è infatti purtroppo familiare: corruzione, dissidenti incarcerati, oligarchi avidi, ministri che rubano, giornalisti ammazzati, cineasti in galera, il popolo che stringe la cinghia.
Nello staff che lo cura c’è Stepanin, il cuoco ubriacone. Che un giorno dice: “Vivere in Russia è vivere all’inferno. Se non fosse stato Vladimir a rovinarci, sarebbe stato qualcun altro”. La rassegnazione, quintessenza della tragedia russa.
E quintessenza del voto russo di domenica 18 marzo, quando verrà eletto presidente per la quarta volta il vero e niente affatto demente Vladimir Putin.
Un dèja-vu. Ormai, il Cremlino e Putin sono un tutt’uno. Un uomo solo al comando. Senza avversari. E chi poteva inquietarlo, come l’avvocato blogger Aleksej Navalny, è stato neutralizzato dalla magistratura.
Così, il candidato Putin si è presentato come “indipendente”, affrancandosi da Russia Unita, il suo partito. Campagna soft, pochissimi comizi, nessun confronto in tv — come in altre occasioni — ma tanta promozione e spazio ai successi oggettivi in politica estera.
Per avversari sette nani politici, a cominciare dalla famosa star televisiva Ksenija Sobcak, figlia di Anatolij, primo sindaco di San Pietroburgo eletto dopo il crollo dell’Urss, soprattutto mentore politico di Putin.
L’improbabile Ksenija si batte “contro tutti”, ma ha criticato Navalny perchè “sostenitore di una linea politica che danneggerebbe gli interessi della Russia”, e la destabilizzerebbe.
Guarda caso, quel che dice il Cremlino (in cambio, si dice, la bionda Sobcak otterrebbe la direzione di un canale tv).
Navalny, dal canto suo, ha rivolto un appello per disertare le urne, ma è un’arma spuntata. Nè hanno migliori prospettive il candidato del Partito Comunista Russo, l’agronomo Pavel Grudinin, o il liberal-conservatore Grigory Yavlinskiy che si presenta per la quarta volta con Yabloko: vuole superare lo “stalinismo mascherato” e il “capitalismo selvaggio al confine col feudalesimo”.
Predica rispetto della proprietà privata da parte dello Stato, concentrazione limitata dei beni, economia in sintonia con le imprese. L’esatto opposto dell’economia “diretta dall’alto”, cioè dal Cremlino.
Tutto rose e fiori per Putin? Mica tanto.
Nelle grandi città , i giovani, la nuova borghesia e i ceti intellettuali (salvo quelli di regime) non lo voteranno: a Mosca, gli ultimi sondaggi fissano Putin al 57 per cento.
Sono segnali. Che i putinologi pensano siano sintomi di una fragilità del “putinismo”: il complesso intreccio di affari, potere e controllo dei gangli vitali della Russia messa in piedi da Putin e dai suoi si starebbe, insomma, sfilacciando.
Per questo, Putin ha rilanciato l’immagine del “presidente forte” per una “Russia forte”. Si accredita come un autocrate muscoloso, in piena forma, l’uomo capace di raddrizzare la Russia con ogni mezzo.
Infatti la gestisce come il presidente di una multinazionale che delega le sue funzioni ai dirigenti delle filiali. Nel discorso alla nazione del primo marzo, Putin aveva dinanzi a sè la classe dirigente russa, ma in realtà si rivolgeva alla Casa Bianca quando ha svelato le nuove armi nucleari che “l’America non può intercettare” e che “nessun altro paese al mondo ha o potrà realizzare in breve tempo”.
Toni alla Krusciov. Rilancio dell’orgoglio russo: “Negli ultimi trent’anni abbiamo fatto progressi che ad altri Paesi sarebbero costati secoli”. Il futuro (naturalmente con lui alla guida del Cremlino per altri sei anni, come stabilisce l’opportuna riforma elettorale) riserveranno “fulgide vittorie”, se “saremo coraggiosi nelle aspirazioni, negli obiettivi, nelle azioni”.
Tre giorni dopo, primo vero bagno di folla. In diretta tv dallo stadio. Con 90mila spettatori: manco fosse la cerimonia inaugurale del prossimo Mondiale di calcio. Schierato in campo il “Putin team”, galassia di personaggi famosi: dal regista Nikita Mikhalkov al direttore artistico del Mariinsky, Valerij Gergiev, cantanti, campioni olimpici, attori, star tv. Consacrazione del Putin “padre della patria”. L’unico.
“Solo lui è il nostro presidente”, asserisce Mikhalkov. Un’icona pop, secondo i corrispondenti stranieri, che smorza i toni bellici e si trasforma in guru dei russi: “Vogliamo che il nostro Paese sia prospero e guardi al futuro, ai nostri figli e nipoti. Faremo di tutto per renderli felici”.
Parola d’ordine, gridata al microfono: “Siamo una squadra, vero?”. E come una squadra di football, i 90mila intonano il solenne inno russo prima della finale.
In verità , serpeggia insofferenza verso la piramide verticale del potere in cui spadroneggiano (nella misura del 70 per cento) ex funzionari ed agenti del Kgb e dell’Fsb (l’intelligence post sovietica).
A cominciare da Putin: tenente colonnello nel Kgb e direttore dell’Fsb, prima di diventare capo del governo nel 1999 e capo del Cremlino nel marzo del 2000, dopo Boris Eltsin. Una carriera lampo, misteriosa, enigmatica.
Di Putin continuiamo a sapere poco. A chi voleva approfondire, è stata tappata la bocca. Anche per sempre.
Vlad rispecchia il Paese? Ognuno, soprattutto nella sterminata periferia dell’impero, si identifica in questo uomo grigio e dall’apparenza ordinaria, vedendoci quello che ci volevano vedere.
Nei diciotto anni al Cremlino e dintorni ha domato l’economia, imbrigliato gli oligarchi, e messo il guinzaglio ai media. Guerre. Sanzioni. La questione ucraina, il ritorno ad una nuova guerra fredda, la crisi siriana, il cyberterrorismo, l’avvento di Donald Trump hanno spinto Putin ai vertici dell’attenzione e dei timori globali.
Il Cremlino è il rubinetto strategico del gas da cui dipende gran parte delle necessità energetiche Ue. Che Putin desidera meno compatta e meno solidale.
Con l’annessione della Crimea, Putin ha ferito l’Europa e i suoi principii. La Nato circonda la Russia? Replica con i viaggi a Kaliningrad, l’enclave tra Polonia e Lituania, per ammonire che Mosca i missili li ha dentro l’Unione Europea… Esercita ed esporta miliardi coi quali compra la lealtà della burocrazia europea. Crea il trend del sovranismo e del populismo, foraggia le “piccole patrie”, i movimenti estremi: la democratura fondata non sull’aritmetica della democrazia ma sull’esercizio della “verticale del potere”.
Fervente ammiratore dei kompromat (dossier compromettenti, marchio di fabbrica del Kgb), se ne serve per interferire nei processi democratici di chi gli vuol tenere testa. Ormai Putin è più di Putin.
Crede di essere il burattinaio del mondo. Ma, forse, è prigioniero del suo stesso enigmatico ed opaco labirinto.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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