Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
TROPPO RISCHIOSO ESPORRE IL COLLE A UNA SFIDUCIA A UN GOVERNO DEL PRESIDENTE… IL FALLIMENTO DEI PARTITI CHE SONO SOLO AUTOREFERENZIALI, OGNUNO PENSA PER SE’
In questa lunga crisi, inedita e confusa, ogni giorno si consuma una scenario.
E deve essere apparso chiaro al Quirinale, a dire il vero non da oggi, che le condizioni per un “governo del presidente”, inteso in modo classico non ci sono già più.
Certo, saranno ascoltati i partiti nell’auspicio che questa ennesima concessione di tempo, di qui a lunedì, faccia maturare nuove consapevolezze. Ma questo auspicio rientra più nella categoria degli atti dovuti che in quella delle ragionevoli speranze.
Già si registra, con una certa preoccupazione, un dibattito permeato dall’ebrezza da piazza e da richiami, più o meno espliciti alle urne.
In particolare la virata dei Cinque Stelle, che in pochi giorni hanno dismesso la grisaglia ministeriale, affidabile ed europeista per indossare abiti più consoni ai comizi, lascia intendere che il tempo, e con esso le illusioni di una composizione ordinata del quadro, è scaduto.
E, specularmente, il no di Salvini a ogni governo “tecnico”, del “presidente”, “di tutti” suona come una sentenza definitiva e tombale per la diciottesima legislatura.
Che cosa può fare Mattarella per arrestare questo repentino e inesorabile precipitare degli eventi?
Tra i frequentatori del Colle, la risposta che viene data è che non può che prenderne atto, pur comprendendo la gravità della situazione.
Se ci fossero le condizioni, l’ipotesi più razionale da offrire ai partiti, sarebbe quella di un governo, diciamo così, di “tregua”, con una mission definita sia in termini di obiettivi che di tempo: un esecutivo fino a dicembre per varare la delicata manovra finanziaria, evitando che scattino le clausole di salvaguardia e, con esse, l’aumento dell’Iva.
Un governo del genere presuppone, appunto, una “tregua” tra i partiti, ovvero un minimo di condivisione programmatica e un sussulto di “responsabilità nazionale” nel sostenerlo.
È chiaro che non sarebbe composto dalle personalità più esposte dei partiti, perchè sennò si tratterebbe di un governo politico in senso stretto, ma evidentemente vi farebbero parte i famosi “tecnici di area” o “personalità di altro profilo”, comunque espressione delle varie sensibilità politiche e culturali, presenti in Parlamento.
Per un’operazione del genere, comunque ambiziosa, già sembrano essere crollati i presupposti, anche se non la necessità , con partiti incapaci di indicare uno sbocco possibile e imprigionati in una sorta di eccitazione autoreferenziale, a costo di trascinare le istituzioni, persino la principale come la presidenza della Repubblica, dentro le proprie contraddizioni.
E rendendo, per prima volta nella storia repubblicana, un’impresa impossibile avviare un governo e, con esso la legislatura.
La questione è, come potete immaginare, al centro delle riflessioni con i consiglieri e dei discreti contatti informali con le forze politiche.
Ve lo immaginate un governo comunque impegnativo e di altro profilo, che nasce su iniziativa del Quirinale, che va in Aula e non riceve la fiducia?
Equivarebbe a dire che il capo dello Stato viene bocciato dal Parlamento. La certificazione, di fronte al mondo, di una clamorosa crisi istituzionale.
Ecco. È questo il punto. In questa partita senza assi da calare all’ultima mano, in parecchi, anche tra i consiglieri, suggeriscono di non esporre il Quirinale a rischi e di prendere atto che andare a votare a settembre o qualche settimana prima a luglio, sciogliendo le Camere immediatamente non fa poi una gran differenza, in termini politici.
Anzi, proprio questa drammatizzazione, dopo un solenne appello ai partiti nel nome della responsabilità nazionale e un vibrante messaggio al paese sui rischi di un ritorno al voto, renderebbe comprensibile, di fronte a un ennesimo no, di chi sono le colpe per l’incertezza che verrà : una nuova ordalia elettorale, con quello stesso Rosatellum che assicura nuova ingovernabilità ; l’impossibilità , in questo contesto, a fare una manovra; l’esercizio provvisorio.
L’ipotesi viene considerata davvero estrema, proprio nel caso i partiti si imputassero, perchè c’è un motivo se a luglio non si è mai votato.
Fa caldo, le scuole sono chiuse, milioni di italiani sono già in vacanza e davvero, per dirla con una battuta, si rischia di vedere bagnini inferociti ed albergatori sull’orlo di una crisi di nervi sotto il Quirinale.
Comunque è il Mattarella pensiero, un governo che porti in modo ordinato al voto serve. E al centro della riflessione di queste ore c’è il vecchio classico di un “governo elettorale”: un governo che, appunto, nasce col semplice obiettivo di guidare il paese alle urne, guidato da un Cincinnato della Repubblica che, dopo qualche settimana, torna nelle sue terre senza avere tentazioni di restare nell’agone politico.
Sembra una questione da addetti ai lavori, ma fa una bella differenza: un conto è bocciare alle Camere un “governo del presidente” , che comunque è una operazione politica quirinalizia e sostenuta dai partiti, altro è che viene sfiduciato un governo che praticamente nasce solo per l’ordinaria amministrazione.
E che rappresenta già la presa d’atto di un fallimento dei partiti.
In questo c’è l’estremo rigore costituzionale di Sergio Mattarella. Il quale è consapevole che non sarebbe corretto tornare al voto con Gentiloni.
Nonostante sia diventato il governo degli editorialisti che ne invocano una “proroga”, considerandolo un governo quasi nel pieno delle sue funzioni, il capo dello Stato è consapevole che è sgrammaticato, e non poco, far tornare al voto un esecutivo espressione della scorsa legislatura.
Non verrebbe vissuto come “neutrale” e la sua stessa presenza in campo sarebbe un elemento polemico della prossima campagna elettorale, i cui veleni sono già sparsi ovunque.
Sia come sia, è evidente che, per quanto al Quirinale l’eventualità di questo scenario venga considerata la peggiore che si potesse immaginare, sbaglia chi pensa che la minaccia delle urne a settembre o quando sarà sia una messinscena per spaventare i partiti costringendoli a fare un governo, a dispetto della loro volontà , perchè in realtà il capo dello Stato è pronto ad immolarsi pur di scongiurarle.
È chiaro che le eviterebbe volentieri ma non possiede la bacchetta magica.
E, a giudicare dagli indici di fiducia raggiunti, è evidente che questo approccio ha creato un rapporto molto positivo col paese.
Non a caso i partiti, col loro furor polemico, almeno per ora, hanno evitato di attaccare il capo dello Stato, nella consapevolezza che, prima o poi parlerà . Magari non è un novello Pertini, ma insomma quando spiegherà che si sono buttati 60 giorni nell’inconcludenza e che si viaggia a fari spenti nella notte, qualche emozione nel paese la susciterà .
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
AL SUO POSTO ROSANNA RAGUSA, CONDIRETTORE DI VIDEONEWS… SEGUE IL DIVORZIO TRA MEDIASET E BELPIETRO, IL CUI PROGRAMMA ERA SOTTO LA RESPONSABILITA’ DI GIORDANO
Mario Giordano lascia la direzione del Tg4. Il prossimo sarà l’ultimo week end alla guida del telegiornale di Mediaset. Il suo posto, come anticipato da Ilfattoquotidiano.it, sarà preso da Rosanna Ragusa, attuale condirettore di Videonews, la testata giornalistica del Biscione che si occupa dei programmi di approfondimento: una figura certamente meno “politicizzata” del suo predecessore.
Giordano aveva iniziato la sua direzione nel gennaio 2014, dopo l’addio dell’attuale governatore della Liguria Giovanni Toti.
Ufficialmente non un divorzio, quindi, come quello da Paolo Del Debbio e Maurizio Belpietro, che conduceva un programma di Rete 4 del quale si occupava proprio Giordano. Proprio l’ormai ex direttore del Tg4 nei giorni seguenti all’addio dei due volti dell’access prime-time della rete era stato a sua volta sollevato dalla responsabilità di Stasera Italia, la trasmissione che aveva preso il posto di Dalla vostra parte.
All’interno di questo contesto di “sfiducia” sono maturate le dimissioni.
Alla direzione informazione, infatti, non era piaciuto l’avvio di Stasera Italia, perchè nelle intenzioni di Mediaset avrebbe dovuto essere meno urlato rispetto al programma condotto da Belpietro.
Invece la linea editoriale era rimasta simile, assai ammiccante a quel populismo che all’azienda non piace più da tempo. Un’ipotesi, quest’ultima, che il direttore generale dell’informazione Mauro Crippa aveva rigettato: “Si tratta di aggiustamenti editoriali. Parlare di rivoluzione antipopulista o di scenari complottisti è una fake interpretazione“.
Oggi lo stesso Crippa, ufficializzando l’addio di Giordano al Tg4 lo definisce “un capitano di lungo corso” che nel nuovo ruolo “avrà modo di mettere a frutto questa eccezionale esperienza per aiutarci a rinnovare la nostra informazione, ideando nuovi format di approfondimento al passo coi tempi, valorizzando sempre più le risorse interne dell’azienda”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
NEL 2013 LA RAGGI VOLEVA FERMARLA A SAN GIOVANNI, OGGI ANNUNCIA CHE PROSEGUIRA’ FINO A PIAZZALE CLODIO
L’onesta e la trasparenza devono ancora diventare di moda. Nel frattempo i 5 Stelle si aggrappano ad un’altra virtù teologale della politica: la coerenza.
Sono questi i giorni in cui Luigi Di Maio scopre che Salvini “non è coerente” perchè sei anni fa aveva promesso che non si sarebbe mai più alleato con Berlusconi. Incidentalmente sono gli stessi in cui il MoVimento 5 Stelle di Roma, nell’annunciare l’imminente e attesissima apertura della stazione della Metro C a San Giovanni smentisce la linea tenuta dal M5S sul prolungamento della terza linea della metropolitana della Capitale.
Ieri in conferenza stampa la sindaca Virginia Raggi ha detto che dopo l’inaugurazione della stazione San Giovanni «l’opera continuerà , andrà avanti e non si fermerà ».
Il presidente della commissione Mobilità di Roma Capitale Enrico Stefà no è stato ancora più preciso: «L’obiettivo è proseguire oltre il Colosseo e i Fori Imperiali, con una stazione a piazza Venezia, con una fermata su corso Vittorio Emanuele, tra piazza Navona e Campo de’ Fiori, poi a San Pietro-Ottaviano, a piazzale Clodio e fino, perchè no, a Farnesina, con una grossa area di scambio».
Secondo Stefà no «Non devono passare altri trenta anni per completare quest’opera». Lo studio preliminare elaborato da Roma Metropolitane, spiega una nota del Campidoglio, indica due possibili modelli: un primo con quattro stazioni (San Pietro, Chiesa Nuova, Argentina e piazza Venezia) e un secondo con tre stazioni (San Pietro, Navona e Venezia).
Lo studio, elaborato da Roma metropolitane, per la tratta T2 (Fori Imperiali-Clodio Mazzini) individuerà nuove soluzioni progettuali attraverso l’elaborazione di un progetto di fattibilità .
Dal momento dell’affidamento delle attività , i tempi stimati per la stesura e approvazione sono di circa 24 mesi. I costi stimati per le attività preliminari di progettazione e di indagine archeologica ammontano a circa 1,6 milioni.
L’adozione di scelte progettuali definitive non potrà prescindere dall’esecuzione di indagini archeologiche, che interesseranno i luoghi dove saranno costruite le stazioni e le gallerie della tratta.
Un’ulteriore ipotesi di lavoro è quella di estendere il tracciato del prolungamento per portare il capolinea definitivo a ridosso dell’Ospedale Sant’Andrea.
Il MoVimento 5 Stelle di Roma però non l’ha pensata sempre così.
C’è stato un tempo, durante il mandato di Ignazio Marino, in cui i consiglieri pentastellati erano addirittura contrari al prolungamento della Metro C.
Nel settembre del 2013 i consiglieri pentastellati Raggi, Frongia, De Vito e Stefà no presentarono una mozione — poi bocciata dal Consiglio Comunale — per chiedere di interrompere la tratta della Metro C alla stazione di San Giovanni.
Stefà no, che oggi parla di direzione futuro ha sottoscritto una mozione dove chiedeva di «interrompere i lavori della tratta San Giovanni-Colosseo e Colosseo-Piazza Venezia».
Il M5S proponeva anche un’alternativa alla metropolitana, il tram. Nella mozione infatti si parlava di «valutare alternative sostenibili, efficienti, ed economicamente accettabili […] quali ad esempio il prolungamento della linea 8».
La musica ha iniziato a cambiare nel 2016, con l’arrivo della Raggi a Palazzo Senatorio. Non senza qualche difficoltà .
Se la sindaca e Stefà no si erano detti fin da subito possibilisti sul prolungamento — anche perchè gli appalti erano stati già conferiti e i soldi già stanziati — della linea oltre San Giovanni (la Raggi disse «Il Comune intende continuare la realizzazione della linea C fino alla stazione Colosseo-Fori Imperiali») l’allora assessore all’Urbanistica Paolo Berdini era di tutt’altro avviso.
Nel giugno del 2016 Berdini propose di non far proseguire la linea fino al Colosseo. A Novembre del 2016 invece ebbe l’idea di deviare il tracciato della Metro C da San Giovanni a Piramide fino a Corviale e saltare la fermata Colosseo, chiudendo il tutto in 4 anni.
Una volta defenestrato Berdini le cose divennero più chiare al punto che nel marzo dell’anno scorso Stefà no poteva sbilanciarsi dicendo «Il futuro della metro C dopo San Giovanni? Io personalmente mi sono fatto la mia idea, ma non sono solo io a decidere. Credo che bisognerà fare sforzi per farla proseguire oltre Colosseo nel tracciato originario».
Ovvero esattamente il contrario di quello che aveva sostenuto nella mozione del 2013. Con buona pace della Sindaca che ieri in conferenza stampa ha detto trionfante: «Roma inizia a dimostrare che le cose si possono fare. Stiamo sbloccando questa città ». In fondo c’è voluto davvero poco: è bastato passare dall’opposizione al governo per capire che quello che volevano fare le precedenti amministrazioni non era poi così male.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
DIMISSIONI DAL NOTAIO, IMPUT DA BONAFEDE CHE DICE CHE NON E’ STATO CAPITO BENE, GRILLINI ESPULSI: PER LA SERIE “NON FACCIAMOCI MANCARE NULLA”
Ieri le dimissioni dal notaio di quattro consiglieri del MoVimento 5 Stelle insieme ad altri nove dell’opposizione hanno provocato la caduta del sindaco di Nettuno Angelo Casto, che era da mesi in lite con la sua maggioranza e aveva varato un clamoroso rimpasto di giunta cacciando cinque assessori per la sfiducia comminata a loro dagli altri dieci consiglieri grillini.
E la storia ha un risvolto di discreta comicità : i quattro consiglieri dimissionari — Daniela De Luca, Marco Montani, Giuseppe Nigro e Simonetta Petroni — hanno dichiarato in una nota stampa di aver scelto la strada del notaio su consiglio di Alfonso Bonafede, responsabile enti locali del M5S nel Lazio oltre che onorevole grillino e fedelissimo di Di Maio.
Ma questa ricostruzione è stata contestata dallo stesso Bonafede in un comunicato uscito in serata: “Noto con grande dispiacere che qualcuno ha voluto usare il mio nome per giustificare un comportamento che non condivido e che non potrei mai assecondare. Non sono mai entrato nel merito dei fatti di Nettuno, come del resto non faccio mai con alcun Comune amministrato dal MoVimento”, ha affermato il deputato M5S in merito alla caduta del Comune di Nettuno.
“Occupandomi di enti locali spesso mi trovo a dare vicinanza politica nei momenti di crisi e il dialogo è sempre il mio approccio principe — aggiunge — In particolare, nel caso di Nettuno, dopo aver invitato i quattro consiglieri a fare un incontro, dietro esplicita domanda ho risposto che non direi mai a nessun consigliere cosa deve o non deve fare, perchè non entro in queste dinamiche e perchè non è nelle mie facoltà . Sicuramente ho sostenuto che quando un portavoce non si sente più di rappresentare quel progetto allora è preferibile si dimetta per consentire al primo dei non eletti di prendere il suo posto, invece di aderire ad altri gruppi consiliari. Mi pare sia ben diverso da quanto hanno compiuto i quattro consiglieri”.
Insomma, Bonafede avrebbe detto ai consiglieri di dimettersi senza trovare accordi con l’opposizione per far cadere il sindaco, e questi avrebbero “capito male” quanto comunicato dal responsabile enti locali M5S.
Un risvolto comico di alto livello, amplificato dal comunicato del M5S che mette i quattro fuori dal gruppo e li deferisce ai probiviri, sostenendo che non saranno più ricandidati con i grillini.
E mentre Casto dovrebbe lasciar perdere con la ricandidatura, un retroscena del Messaggero ci spiega che la decisione dei consiglieri arriva in conseguenza dell’azzeramento in giunta deciso prima di Pasqua dall’allora sindaco quando ha cambiato il vice Daniele Mancini e gran parte degli assessori.
«Mancini — racconta l’ormai ex primo cittadino- è persona di fiducia di Roberta Lombardi, che lo indicò anche come assessore regionale in caso di vittoria, e del senatore Emanuele Dessì. Dietro ai quattro c’è lui e quindi Lombardi e Dessì».
E i quattro consiglieri hanno anche parlato di inchieste giudiziarie che coinvolgerebbero il sindaco, anche riguardo una manifestazione in città a cui parteciparono Beppe Grillo e Alessandro Di Battista.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
SFRUTTAMENTO DEGLI IMMIGRATI: 41 LAVORATORI IN NERO, 15 ORE DI LAVORO AL GIORNO PER 500 EURO AL MESE, MINACCE E RITIRO DEI DOCUMENTI
I finanzieri della Tenenza di Egna (Bolzano) hanno recentemente concluso, su delega della Procura della Repubblica di Vicenza, un’indagine di polizia giudiziaria che ha portato alla luce un preoccupante fenomeno d’illecita intermediazione e sfruttamento del lavoro posto in essere mediante comportamenti di prevaricazione nei confronti di numerosi lavoratori, nonchè violazioni alle norme di sicurezza e fattispecie di evasione fiscale.
Le Fiamme Gialle altoatesine, dopo approfondite indagini, hanno accertato l’impiego di 41 lavoratori “in nero” e denunciato sette persone (residenti a Vicenza) per i reati di associazione per delinquere e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (“Caporalato”).
Attraverso società aventi sede nelle province di Vicenza, Trento, Verona e Milano, i soggetti denunciati reclutavano lavoratori, soprattutto stranieri (pakistani, indiani e algerini), i quali venivano impiegati, prevalentemente nella zona sud della provincia di Bolzano, per la consegna di volantini pubblicitari “porta a porta”, utilizzando biciclette messe a disposizione dai datori di lavoro.
I lavoratori, costretti a vivere in situazioni degradanti, venivano trasportati, mediante dei furgoni fatiscenti e insicuri, sui luoghi di lavoro, ubicati in tutto il territorio della provincia bolzanina ed erano continuamente sorvegliati, anche tramite sistemi GPS.
Gli stessi venivano impiegati per più di 15 ore al giorno (per sei giorni alla settimana), percependo uno stipendio compreso tra i 500 e i 700 euro al mese. Tra i denunciati vi è anche un finto consulente fiscale.
L’OPERAZIONE
L’attività di controllo ha preso le mosse dal monitoraggio di alcuni lavoratori, soprattutto stranieri, domiciliati sia nella bassa atesina che in altre zone della provincia di Bolzano e di Trento, i quali venivano impiegati, prevalentemente nella zona sud della provincia bolzanina, per la consegna di volantini pubblicitari “porta a porta”. Per gli spostamenti e le consegne, i lavoratori utilizzavano biciclette messe a disposizione dai datori di lavoro.
I preliminari accertamenti effettuati, sia con riferimento agli orari di lavoro che alle anomale modalità di svolgimento del “rapporto” d’impiego, hanno condotto i militari ad eseguire più approfondite indagini, che hanno consentito d’individuare una società (con sede a Vicenza) la quale aveva reclutato un numero elevato di lavoratori, di nazionalità pakistana, indiana e algerina.
I responsabili di tale società , come hanno dimostrato le successive investigazioni, avevano creato un sistema ad hoc, costituito da ulteriori 4 ditte individuali e da 4 società (riconducibili sempre agli stessi soggetti), il cui principale scopo era quello di allargare il proprio giro d’affari mediante l’impiego di manodopera completamente “in nero”.
Queste società e ditte individuali, tutte operanti nel settore della pianificazione e promozione pubblicitaria, hanno sede nelle province di Vicenza, Trento, Verona e Milano.
I lavoratori, privi di mezzi di sussistenza alternativi e costretti a vivere in condizioni igienico-sanitarie precarie, venivano reclutati, principalmente, nella zona di Rosà (VI) e trasportati, mediante dei furgoni fatiscenti e insicuri (sovente anche causa di gravi incidenti stradali), sui luoghi di lavoro ubicati in tutto il territorio provinciale.
Gli addetti, in sella alle biciclette che venivano loro fornite, erano costretti a lavorare in condizioni indecorose e sotto continua sorveglianza (dal momento che seguivano tragitti prestabiliti), erano “affidati” al controllo di un capo squadra, venivano monitorati tramite sistemi GPS, erano impiegati anche per più di 15 ore al giorno (per sei giorni alla settimana) e percepivano uno stipendio compreso tra i 500 e i 700 euro al mese.
Come se non bastasse, i lavoratori erano sottoposti a continue minacce di licenziamento ovvero di percosse, soprattutto in caso di rivelazione, alle forze dell’ordine, delle reali condizioni di lavoro.
Ai lavoratori in tal modo sfruttati, in alcune circostanze venivano trattenuti i documenti, quali la carta d’identità o il permesso di soggiorno, al fine di mantenere saldo il rapporto di patologica subordinazione e condizionamento psicologico.
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
IN UNA SCUOLA SUPERIORE DI ZOGNO VA IN SCENA LA “DIFESA DEI VALORI” PADAGNI
Due studenti sedicenni sono stati arrestati dai carabinieri a Zogno (Bergamo) con le accuse di lesioni e minacce aggravate e in concorso, nei confronti di un loro coetaneo e compagno di classe.
Gli episodi di bullismo si sarebbero ripetuti nel corso di un anno tra dicembre 2016 e dicembre 2017 in una scuola superiore di Zogno.
I due ragazzini, uno bergamasco e l’altro originario di Milano, già noto alle forze dell’ordine, sono stati arrestati sulla base di un’ordinanza emessa dal tribunale dei minori di Brescia.
Avrebbero vessato il compagno di classe, spintonandolo, costringendolo a dare loro dei soldi e danneggiando le sue cose.
L’indagine dei carabinieri è partita dalla denuncia presentata dai genitori della vittima: sono così emersi tutti gli episodi, che il ragazzino non aveva riferito per timore.
I due sedicenni sono stati collocati in una comunità per minori della zona.
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
IERI L’APPELLO DELLA DONNA: “HO BISOGNO DI LAVORARE, NON VOGLIO LA CARITA'”
Fatima Sy, la donna senegalese che ha denunciato di essere stata licenziata da una casa di riposo a Senigallia, in provincia di Ancona, a causa del colore della sua pelle, “se vorrà venire a Firenze sarò ben lieto di prenderla con me a lavorare. E fin da ora mi metto in contatto con la prefettura di Ancona per dare a lei un’opportunità “.
La proposta arriva da Massimo Mattei, imprenditore di Firenze impegnato nel settore dell’assistenza agli anziani-
In un post sul suo profilo Facebook Mattei ha avanzato la proposta di lavoro, ribadendo che “al razzismo si dice no. Sempre”.
“Fatima è una donna senegalese di 40 anni con due figli – ha ricordato Mattei nel post – Entra a lavorare in prova in una casa di riposo a Senigallia. Alcuni anziani la trattano male apostrofondola con epiteti razzisti. L’azienda non la conferma al lavoro”. Che un anziano, aggiunge Mattei, “possa offendere un’operatrice non mi stupisce. Capita. Che un’azienda si pieghi al razzismo sì, mi stupisce e mi indigna. Mi fa anche rabbia e schifo”.
“Mi sono indignato quando ho letto la storia di Fatima”, ribadisce l’impenditore raggiunto al telefono da Repubblica.
“Non può esistere una cosa del genere. Vorrei dire a Fatima, e alle persone che come lei hanno avuto queste difficoltà , che c’è un’Italia diversa”. “Sono consapevole che un eventuale trasferimento a Firenze vorrebe dire cambiare radicalmente vita. E farlo da un momento all’altro non è sicuramente semplice – continua Mattei – ma la mia proposta resta valida”.
La donna, 40 anni, era in prova presso una casa di riposo di Senigallia, ma il colore della sua pelle non è piaciuto agli anziani ospiti: “Non ci piaci, sei nera”.
O ancora: “Ecco un’altra nera”. Queste le frasi denigratorie, che insieme a molte altre, le avevano fatto perdere il lavoro.
Fatima, madre di due bambini rimasti in Senegal, aveva lavorato nella casa di riposo per alcuni giorni e la prova stava andando bene. Erano piaciuti sia il suo modo di lavorare che il rapporto che aveva instaurato con gli anziani. Riscontri positivi inutili, che non le hanno impedito di perdere il contratto.
“Ho bisogno di un lavoro, non voglio la carità “, aveva detto ieri Fatyma che vive in provincia di Ancora dal 2003 e che – ha ribadito – non ha nessuna intenzione di andarsene da Senigallia, nonostante gli insulti: “Qui ho incontrato razzisti ma anche gente di grande cuore. Quello che trovo inammissibile è perdere due posti di lavoro perchè, a quanto mi hanno spiegato, la mia pelle nera dà fastidio”.
Dopo il suo appello oggi è arrivata la prima offerta di lavoro. In un’altra città , in un’altra regione.
(da “La Repubblica”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
PIERCARLO FABBIO, EX SINDACO DI ALESSANDRIA, E’ STATO CONDANNATO IN VIA DEFINITIVA A 3 ANNI PER FALSO IDEOLOGICO
Per l’ex sindaco di Alessandria Piercarlo Fabbio il 19 giugno sarà una data cruciale: è stata fissata a Torino l’udienza davanti al Tribunale di sorveglianza.
È l’organismo che deve decidere se accogliere l’istanza, avanzata dai difensori, di ammettere il condannato a espiare la pena (in via definitiva a tre anni per falso ideologico) non in carcere, bensì con «affidamento in prova ai servizi sociali».
La richiesta è correlata, ovviamente, alla proposta che i difensori Claudio Simonelli e Roberto Cavallone andranno a discutere: spiegheranno, cioè, in che modo Fabbio chiede di scontare la condanna pagando il debito con la giustizia attraverso mansioni che siano utili per la collettività .
È stato stilato un programma preciso, su cui l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) dovrà prima esprimere un parere per l’approvazione e poi vigilare sullo svolgimento.
Nella stessa udienza verrà discussa un’analoga istanza di messa in prova ai servizi sociali anche per Carlo Alberto Ravazzano, ex capo contabile del Comune coinvolto nella stessa vicenda, difeso da Luca Gastini.
Fabbio ha proposto di svolgere attività di volontariato (che ha già cominciato a svolgere) sia al Museo della Gambarina sia nella parrocchia di San Michele per tutta la durata della pena.
Inoltre, si è impegnato a pagare metà della provvisionale (cioè 25 mila euro) riconosciuta dai giudici al Comune, costituito parte civile con l’avvocato Giulia Boccassi.
Anche Ravazzano, che ha già iniziato a fare volontariato alla parrocchia di San Giovannino, è intenzionato a risarcire il danno al Comune.
Non è scontato che sia accordata l’ammissione alla messa in prova, anche se l’incensuratezza di Fabbio e di Ravazzano precedente a questa vicenda e il collaborativo comportamento processuale rendono molto probabile l’assenso da parte del Tribunale di sorveglianza.
Il 19 giugno si discuterà , ma la decisione di solito non è immediata, potrebbe trascorrere qualche giorno: entro la fine di giugno dovrebbe esserci il responso.
Fabbio era stato accusato, in concorso con il suo assessore al Bilancio Luciano Vandone e il capo contabile dell’ultima ora Carlo Alberto Ravazzano, di aver «aggiustato» artificiosamente il bilancio consuntivo del 2010 per far figurare (contrariamente al vero, come poi rilevato e confermato nei tre gradi di giudizio) che si era raggiunto il Patto di stabilità .
Le accuse iniziali furono truffa, abuso d’ufficio e falso ideologico.
Fabbio e Ravazzano, per i quali la Cassazione, a ottobre scorso, ha reso definitivo il verdetto, sono stati riconosciuti colpevoli del solo reato di falso e condannati, rispettivamente, a 3 anni e a 2 anni e mezzo.
Per Vandone, invece, il processo in primo grado era stato sospeso, a causa di gravi motivi di salute.
Il procedimento a suo carico, dopo varie verifiche sulla capacità di stare in giudizio, ora è quasi concluso: il pm Riccardo Ghio ha chiesto la condanna a 4 anni e mezzo, le parti civili (Giulia Boccassi per il Comune, Antonio Ciccia per il Cissaca) hanno insistito sul riconoscimento di responsabilità , i difensori Marco Conti e Marco Paneri hanno invocato l’assoluzione. La sentenza di primo grado per l’ex assessore comunale al Bilancio è attesa l’11 luglio.
(da “La Stampa”)
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Maggio 4th, 2018 Riccardo Fucile
INSULTI IN RETE E TRICOLORI RUBATI: “QUELLA DATA RAPPRESENTA UNA SOFFERENZA PER NOI”… ORA I SOVRANISTI DA CHE PARTE STARANNO?
Prima dell’Adunata degli Alpini la sfilata per il dolore dei Tirolesi.
L’appuntamento è per sabato cinque maggio a Rovereto, provincia di Trento. Sei giorni dopo, l’undici maggio, a entrare nel vivo a ventitrè chilometri di distanza, con l’accensione della «fiaccola della pace», è la 91a adunata degli Alpini. Ospitata proprio dal capoluogo trentino.
Due date ravvicinate che rivelano come da queste parti, ancora oggi, non tutti vedano di buon occhio una città colma di tricolori e soprattutto siano concordi con la data scelta per celebrare il raduno alpino: i cento anni della Grande guerra.
Una ricorrenza che coincide con l’entrata del Trentino nel Regno d’Italia.
Una «sofferenza», come recita il volantino che promuove l’appuntamento, che ha spinto i Tirolesi a scendere in piazza in corteo assieme alla «corona della sofferenza» (un’opera d’arte di quattro metri di diametro, con le spine in alluminio) per ricordare le tribolazioni causate dalla Prima guerra mondiale.
«Per rappresentare il dolore del nostro popolo – si legge – delle nostre donne, del nostro territorio, dell’essere dimenticati e dello strappo subito dal nostro amato Tirolo di quanti si rifiutarono di combattere».
L’associazione aveva chiesto di manifestare a Trento ma l’organizzazione dell’adunata, già in fase avanzata (con le tribune e il palco già installati), ha imposto di scegliere un’altra location.
I due eventi oltre ad essere distanti nel tempo si terranno anche in due luoghi diversi. L’associazione «noi Tirolesi» mette le mani avanti e nel volantino specifica che è vietata la partecipazione in tracht (il costume tipico) proprio per evitare strumentalizzazioni.
Insomma, c’è tutta la buona volontà per tenere a bada vecchi dissapori che tuttavia non smettono di covare più o meno sottotraccia. Se rimangono senza autori o rivendicazioni le sparizioni di alcune bandiere tricolori e di alcuni striscioni di benvenuto agli Alpini, altrettanto non si può dire per le parole al vetriolo che rimbalzano in rete da più di un anno, proprio contro l’appuntamento che chiama a raccolta le penne nere da ogni latitudine.
«Il nostro dolore è forte – spiega Paolo Primon, artigiano, appassionato di storia e comandante della Schà¼tzenkompanie Trient Major Giuseppe de Betta – siamo tirolesi e abbiamo subito una guerra che il popolo non voleva. Quella guerra per i nazionalisti non è ancora finita. Devono continuare con qualsiasi mezzo a far sentire ed imporre le loro manie di conquista. Tra un po’ ci troviamo la bandiera italiana anche nei krapfen. La sparizione delle bandiere è forse una tattica per farsi pubblicità , in politica lo fanno da sempre».
Loro, del resto, avevano chiesto di rimandare l’incontro alpino così da evitare la coincidenza con il passaggio del Tirolo al Regno d’Italia: «Gli Alpini mi hanno chiesto un segno di pace – ha raccontato Primon in un video cliccatissimo in rete – ma scegliere questa data è stato come mettere il dito nella piaga. Stranamente di fianco alle bandiere tricolori non si sono neppure preoccupati di mettere quella della provincia di Trento».
Così i vessilli del Tirolo si è messo a distribuirli lui e ne ha già consegnati centinaia. La sfida con i tricolori è comunque impari.
Gli Alpini ne hanno distribuiti già mille ed ora saranno disponibili anche nelle Comunità di valle.
(da “La Stampa”)
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