Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
SI AVVICINA LA ROTTURA POLITICA DEL CENTRODESTRA… FORZA ITALIA STACCA LA SPINA
Tutto racconta di un salto di qualità nel livello dello scontro. Non solo quello “politico” annunciato nel centrodestra, a meno di tanto clamorose quanto improbabili novità . Ma di una crisi dai contorni non definiti.
Col consiglio di amministrazione della Rai che vota Marcello Foa pur sapendo che i numeri in commissione Vigilanza non ci sono.
Il che prefigura uno scenario inedito. Di contrapposizione tra cda e Vigilanza, ovvero tra l’organo di autogoverno del servizio pubblico e l’organo di garanzia e controllo.
Ecco, la rottura nel centrodestra tracima nel circuito “istituzionale”.
Non è un incidente frutto di una situazione sfuggita di mano. È la pagina finale di una storia o, se preferite, la fine dell’ipocrisia di un centrodestra che, neanche alle elezioni, si è presentato come una credibile coalizione politiche ma come una coalizione dei separati in casa.
La foto di giornata dice tutto.
Matteo Salvini, è a Milano Marittima, in vacanza col figlio, tra un calcio al pallone, un bagno e una birra ghiacciata, con l’atteggiamento di chi “se ne frega” delle convulsioni degli alleati, vecchi e nuovi e delle mediazioni possibili.
Non tratta, neanche dopo l’intervista in cui Silvio Berlusconi dichiara che non voterà mai Marcello Foa, perchè è una scelta non condivisa.
La risposta è la forzatura del voto in cda Rai. Il Cavaliere, ancora al San Raffaele per qualche controllo, resta fermo sulle sue posizioni, per orgoglio, convinzione, ma anche per logica politica perchè a questo punto tornare indietro equivale a dichiarare la propria irrilevanza.
Per tutto il giorno si rincorrono voci di una possibile telefonata di Matteo Salvini, nella convinzione che, in fondo, possa bastare il gesto di “riconoscimento” politico nei confronti del Cavaliere per ammorbidirlo e farlo passare dalla posizione della contrarietà senza se e senza ma a una “astensione” che consentirebbe a Foa di passare e al Cavaliere di distinguersi, tenendo al tempo stesso aperta una trattativa “sostanziale” sulle future nomine Rai.
In serata trapela che la telefonata ci sarebbe stata, ma che è servita non ad aprire una negoziato ma a certificarne l’impossibilità .
E, con essa, la fine della coalizione.
Perchè questo è il punto: “Il no di Berlusconi — racconta chi è riuscito a parlare col leader leghista — equivale alla fine del centrodestra”.
Un processo che sembra essere già in atto. Da entrambe le parti. Con Salvini che, proprio sul dossier televisivo, mette fine alla prassi delle “consultazioni” con Berlusconi e forza su un nome “sovranista”.
E Forza Italia che, dopo aver porto l’altra guancia in una infinità di occasioni sin dall’inizio della legislatura, ha iniziato per la prima volta a fare opposizione sul serio. Bastava ascoltare in Aula gli interventi sul decreto dignità , di insolita durezza, per capire che qualcosa è cambiato.
Al momento la decisione, sul voto in Vigilanza previsto per mercoledì mattina, è di non entrare in commissione per votare il presidente, per evitare, in tal modo, di esporsi alla critica dell'”avete votato assieme al Pd”.
Una tattica politio-parlamentare che non muta la sostanza, perchè senza Forza Italia a Foa mancano tre voti per essere eletto. È un’incidente che crea una situazione davvero inedita e complicata.
Tecnicamente, dopo la bocciatura, le strade sono due: o Foa si dimette e spetta al Tesoro la nomina di un nuovo presidente che deve sempre avere i due terzi della Vigilanza; oppure non si dimette e si sceglie il presidente tra gli altri componenti del cda.
È molto circolata nei Palazzi l’ipotesi di Giampaolo Rossi, il consigliere in quota Fratelli d’Italia, un altro turbo-sovranista perchè per Salvini sarebbe complicato dire di no dopo che la Meloni ha votato Foa.
Ipotesi, suggestioni, ragionamenti probabilmente destinati a essere travolti dal voto della Vigilanza.
Perchè se il punto è la scelta di un presidente di “garanzia” è complicato per Berlusconi accettare uno dei nomi dell’attuale cda, peraltro con lo stesso tasso di sovranismo.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
MARINA CASTELLANETA, ORDINARIO DI DIRITTO COSTITUZIONALE A BARI, E’ UNA DEI MASSIMI ESPERTI DEL SETTORE… LA LIBIA NON E’ UN PORTO SICURO E QUELLO DI ASSO E’ STATO UN RESPINGIMENTO COLLETTIVO, IN VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI
La Libia non è considerata porto sicuro e la Corte europea nel 2009 ha condannato l’Italia per aver riportato indietro migranti a bordo di navi militari.
Per Marina Castellaneta, ordinario di diritto costituzionale a Bari, l’Italia rischia una condanna: «la nave è italiana, quindi lo Stato è responsabile come se fosse il suo territorio».
Non è un caso se Salvini nelle ultime settimane ha chiesto più volte, ma invano, di riconoscere la Libia come porto sicuro.
L’Unhcr vuole vederci chiaro: «stiamo raccogliendo tutte le informazioni necessarie sul caso. La Libia non è un porto sicuro e questo atto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale».
Anche la Commissione europea ricorda che «la Libia non può essere considerata porto sicuro, viste le »diffuse e gravi violazioni dei diritti dei migranti, regolarmente sollevate dalle organizzazioni dei diritti umani, nazionali e internazionali”.
Protesta il mondo delle ong, mentre il Garante dei detenuti esprime »forte preoccupazione« e chiede alle autorità competenti »ulteriori, ufficiali informazioni”
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
GLI IMPRENDITORI HANNO BISOGNO DI MANODOPERA E LA POLITICA ANTI-IMMIGRATI STA CREANDO PROBLEMI… CRITICHE AL GOVERNO ANCHE PER IL BLOCCO DELLE INFRASTRUTTURE
Ieri ho parlato per alcune ore con un imprenditore veneto. Nei feudi leghisti il malessere contro la Lega di Salvini e le recenti misure politiche adottate dal governo sta montando come una maionese impazzita.
L’ossatura dell’imprenditoria del Nord Est che e’ uscita dalla crisi inizia ad avere problemi nel trovare manodopera a causa delle poltiche ostili agli immigrati (per quanto in misura minore e’ lo stesso fenomeno riscontrabile in America e che spinge in alto il costo del lavoro).
Senza contare che il reddito di cittadinanza come concepito dal Movimento 5 Stelle viene criticato come l’ennesima misura assistenzialistica in stile anni 80 che cementando la dipendenza dalla spesa pubblica contribuisce a perpetuare la trappola della stagnazione in tutto il Meridione.
Infine, la nazionalizzazione di Alitalia, la melina sulla vendita dell’ILVA ad Arcelor-Mittal e il probabile blocco del TAV Torino-Lione (nonchè di altre infrastrutture come la terza corsia dell’autostrada Milano-Genova, o il gasdotto TAP) stanno erodendo il consenso tra i ceti produttivi.
Chi credeva di di aver trovato una rappresentanza politica forte delle proprie istanze assiste sconcertato a una tragica deriva. Le aspettative di un elettorato che già sente diffondersi un penetrante olezzo di tradimento, rischiano di infrangersi irrimediabilmente a settembre con le mille pantomime sulla Legge di Stabilità .
(da “NextQuotidiano”)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
CONTINUA A INDIRE RIUNIONI PER NON DECIDERE MAI NULLA PERCHE’ NON SA CHE PESCI PIGLIARE
Luigi Di Maio non ha fretta di trovare una soluzione per ILVA e ieri ha detto che il piano ambientale proposto da Arcelor-Mittal non basta.
In sintesi, AM si impegna a ridurre del 15% le emissioni di anidride carbonica per tonnellata di acciaio liquido prodotto, abbattendo rispettivamente del 30% e del 50% (rispetto alle bat europee) le polveri e le diossine derivanti dalla sinterizzazione, grazie a filtri ibridi di ultima generazione.
La multinazionale assicura che a Taranto, dal 2020 in poi, non ci saranno più wind days: le conclusioni dei lavori per la copertura dei parchi, carbone e minerali, sono anticipate rispettivamente a giugno e gennaio 2020.
Si tratta comunque di scadenze già previste dal protocollo Mise-enti locali di maggio: alcuni obiettivi, precisa Mittal nel documento, sono già in discussione con il Comune di Taranto. Spazio anche alle tecnologie low carbon, previo studio di fattibilità , a piano concluso e per le tonnellate eccedenti i limiti produttivi ambientali.
Il Sole 24 Ore però registra che per la prima volta i rappresentanti di ArcelorMittal avrebbero iniziato a mostrare un po’ di insofferenza per il pressing governativo.
In conferenza stampa, a una domanda esplicita su che cosa intenda fare nel caso di annullamento della gara in autotutela, se ripartire con una nuova procedura o chiudere l’impianto e abbandonare l’acciaio, il ministro ha risposto fornendo solo elementi sull’iter giuridico.
Perchè è evidente che dopo la fuga in avanti del commissariamento protratto per altri tre mesi Di Maio non ha un’idea precisa di come portare a compimento la vicenda.
Di più: ogni scelta rischia di fare molti scontenti, soprattutto tra ambientalisti e sindacalisti, i quali ieri auspicavano che ILVA usasse tutta la sua forza-lavoro per portare a compimento un piano ambientale così ambizioso.
Ciascuno porta acqua al proprio mulino. Ma se l’Avvocatura e gli altri dovessero sconsigliare l’annullamento della gara sarebbe Di Maio a trovarsi con il cerino acceso in mano.
(da “NextQuotidiano”)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
LA RICERCA ANTIGONE: IL TASSO DI DETENZIONE DEGLI STRANIERI E’ SCESO DALLO 0,71% ALLO 0,33%
Sono 117 le carceri che abbiamo visitato negli ultimi 18 mesi, 30 negli ultimi 6.
È stato presentato ieri a Roma il rapporto di metà anno sulle carceri italiane dell’associazione Antigone, alla presenza dei vertici dell’amministrazione penitenziaria.
Se si vuole fare una seria ecologia della comunicazione bisogna partire da qui: dai dati di fatto, dalla realtà , da quanto si conosce perchè lo si è visto con i propri occhi, lo si è studiato, si sono analizzati i dati, i numeri, le storie.
Le scelte politiche, legislative, amministrative vanno fatte sulla base di quanto accade, non di quanto una generica e male informata opinione pubblica percepisce — scorrettamente — che accada.
E cosa accade? Accade ad esempio che il tasso di detenzione degli stranieri, vale a dire il numero dei detenuti stranieri sul numero degli stranieri residenti in Italia, sia in calo. Se dieci anni fa era dello 0,71% oggi è invece dello 0,33%. Non c’è dunque un’emergenza criminalità legata agli immigrati. E accade che il patto di inclusione sociale paga in termini di correttezza e rispetto delle norme. Se si dà fiducia a qualcuno, questo qualcuno tende a ripagare la fiducia accordata. Regolarizzare la posizione degli stranieri e integrarli nella società riduce di fatto i tassi di criminalità . E lo fa in maniera drastica. Basti guardare alla comunità rumena, la cui presenza in carcere è diminuita di oltre mille unità in soli cinque anni, mentre la sua presenza in Italia andava invece aumentando.
Un’altra cosa che accade è che non è affatto vero che “tanto chi va in galera ne esce subito” e “esiste la certezza della pena”.
Innanzitutto la pena non è solo quella carceraria, come i nostri costituenti ben avevano indicato parlando, all’articolo 27, di pene al plurale, le quali non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Ma comunque anche la stessa pena carceraria è certissima e spesso implacabile. Tanti detenuti non vanno mai in misura alternativa
Dei 38.700 che hanno una condanna definitiva, oltre 10.000 sono condannati a una pena tra 5 e 10 anni, oltre 6.500 a una pena tra 10 e 20 anni, 2.300 a oltre 20 anni e 1.700 all’ergastolo.
Posto che per essere affidati ai servizi sociali fuori dal carcere non bisogna avere più di quattro anni di pena ancora da scontare, ben si comprende come tante persone vivano in carcere per lunghi anni.
Sono inoltre circa 24.000 i detenuti che hanno a oggi davanti meno di quattro anni di pena residua. Alcuni di essi ne hanno meno di tre, altri meno di due, altri ancora meno di uno. Potrebbero essere fuori. Se i magistrati fossero di manica larga nella concessione delle misure alternative, così come si sente spesso dire, e se fosse scontato che nessuno finisce la propria pena in carcere sarebbero già usciti. Invece sono ancora lì.
Qualcuno esce, è vero. Ma se andiamo a vedere per bene come stanno le cose, e non come sono percepite da chi non conosce i dati di fatto, vediamo che le misure alternative hanno una durata media di poco superiore ai nove mesi.
Quindi anche per chi a un certo punto varca il cancello del carcere la gran parte della pena è stata scontata dentro. E in quei mesi che esce cosa succede? Che smette di scontare la pena? Niente affatto. Succede che la sconta diversamente. Succede che vivrà sotto il rigido controllo dei servizi sociali e del magistrato di sorveglianza, seguendo un rigido programma che altri hanno stabilito per lui. Un altro modo di scontare la pena. Ma ancora pena. Un modo più utile alla nostra sicurezza (le misure alternative abbassano di molto il tasso di recidiva) e assai meno costoso per le nostre tasche.
Già , perchè il carcere costa. Anche questo accade, come Antigone ha ben raccontato ieri.
Ciascun detenuto costa a tutti noi 136 euro al giorno. Le misure alternative sono enormemente più economiche. Chi vorrebbe invocare la costruzione di nuove carceri, si faccia due conti prima di farlo. Costruire un carcere da 200 posti — dunque un carcere piuttosto piccolino — costa 25 milioni di euro. Davvero vogliamo spenderli per puro senso di vendetta, per comminare pene meno utili di altre che potremmo avere a disposizione?
Costruire carceri ci costa 125.000 euro a posto letto. Ecco perchè in passato nessuno c’è riuscito tra tutti coloro che avevano promesso sbarre su sbarre. Non c’è riuscito Silvio Berlusconi, con un sontuoso piano di edilizia carceraria annunciato in pompa magna e finito nel niente. Prima di lui non c’era riuscito l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, che creò allo scopo la società Dike Aedifica s.p.a. la quale si rivelò in seguito una società fantasma e servì solo a sprecare circa 1.400.000 euro e a farsi tirare le orecchie dalla Corte dei Conti.
Torniamo ai dati di fatto. Abbandoniamo i luoghi comuni. Questo è il lavoro che Antigone tenta di portare avanti da quasi trent’anni. I luoghi comuni fanno comodo. Ma non certo a noi.
Associazione Antigone
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
IL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA HA SUPPORTATO LE MULTINAZIONALI E INDEBOLITO I GOVERNI AFRICANI
Due flussi importanti scorrono dall’Africa all’Europa, da Sud a Nord.
Il primo flusso porta persone a decine di migliaia, almeno un milione di migranti provenienti dall’Africa subsahariana a partire dal 2010, il secondo flusso porta idrocarburi, sia gas che petrolio per il valore di circa 50mld di dollari al mese (cifre del 2017).
Le sinistre neoliberiste europee (tipo Pd) e le destre sovraniste (tipo Lega) hanno opinioni molto diverse sulla gestione del flusso dei migranti e sull’accoglienza, ma hanno lo stesso approccio sul flusso di petrolio (così come sul flusso di altre risorse naturali).
Neoliberisti e sovranisti hanno in comune una sostanziale indifferenza rispetto all’interazione tra flussi di materie prime e movimenti migratori.
La storia suggerisce invece che i popoli africani hanno tratto alterni benefici dal flusso delle risorse naturali del continente africano, con ricadute importanti anche sui movimenti migratori.
I movimenti nazionalisti prevalenti in tutti gli stati postcoloniali africani fino agli anni 70 sono riusciti ad imporre alle società straniere il controllo statale sulle risorse naturali.
La produzione di petrolio, per esempio, è stata nazionalizzata per la prima volta in Algeria nel 1971 e poi nel resto dell’Africa (così come nel resto del mondo). Il controllo sull’industria petrolifera, combinato con l’aumento dei prezzi delle materie prima negli anni 70 ha giovato alle entrate statali e all’occupazione.
A sua volta ciò ha favorito una stabilizzazione dei flussi migratori dall’Africa (la maggior parte dei movimenti migratori dopo il 1973 prese la forma di ricongiungimento familiare).
Flussi migratori non controllati sono invece ripresi dalla seconda metà anni 80 insieme all’esplosione del debito pubblico, alla diminuzione repentina dei prezzi del petrolio (il “controshock”) e all’imposizione di politiche di “aggiustamento strutturale” che hanno indebolito la capacità degli Stati africani di sostenere una popolazione in crescita.
Il legame esistente tra flussi di petrolio e flussi migratori è stato riconfermato anche di recente.
Il flusso dei migranti da un Paese esportatore di petrolio come la Nigeria verso l’Europa si è impennato a partire dal 2014, insieme alla dimezzamento al contemporaneo dimezzamento dei prezzi del petrolio.
In generale, il processo di globalizzazione neoliberista a partire dagli anni 80 ha generato due tipologie di effetti negativi sul flusso di idrocarburi, e di riflesso sui movimenti migratori.
Il primo è stato un’inversione del rapporti di forza tra Stati e capitalismo internazionale che ha aiutato le società multinazionali a corrompere, aggirare regole, approfittare della debolezza e dell’impreparazione delle burocrazie statale, facendosi scudo di un diritto internazionale strutturalmente favorevole agli investitori privati.
Nel caso dell’Italia questo è dimostrato dagli episodi di corruzione di Eni in Algeria e in Congo, fino al caso clamoroso delle “madre di tutte le tangenti” di 1,2 miliardi di euro per il giacimento Opl 245 in Nigeria.
Queste tangenti monumentali servono ad ottenere condizioni, non solo fiscali, a tutto vantaggio delle imprese multinazionali e a discapito degli interessi di breve e lungo periodo delle popolazioni locali.
L’altro effetto deleterio è stato l’instabilità dei prezzi internazionali delle materie prime, in particolare del petrolio.
Dagli anni 80 le oscillazioni di prezzo sono state molto più repentine che in passato. Il prezzo del petrolio, una volta monopolizzato dalle multinazionali e poi dall’Opec, non ha più avuto punti di riferimento (è scomparsa una “struttura del prezzo”).
Queste oscillazioni distruggono la capacità degli Stati produttori di pianificare e di investire, e hanno come conseguenza cicli di arricchimento rapido, seguiti da fasi devastanti di immiserimento.
Qualsiasi politica dei flussi migratori che non prenda di petto anche la regolazione del flusso delle risorse naturali poggia su fondamenta fragili.
Alcune soluzioni, in parte già pensate dalla stessa Comunità europea (oggi Ue) negli anni 70, opportunamente ripensate, potrebbero tornare utili. La prima soluzione è che l’Ue promuova accordi statali di lungo periodo per la fornitura di materie prime, non solo di idrocarburi.
Per fare questo i Paesi Ue dovrebbero creare delle società totalmente pubbliche (quelle private non si fanno dettare i termini commerciali) che firmino contratti di lungo periodo per la fornitura di varie risorse naturali.
In alternativa l’Ue potrebbe favorire la creazione di un meccanismo che stabilizzi i redditi dalle esportazioni di risorse naturali e minerarie dei paesi africani (come aveva già fatto, sia pur in modo incompleto, negli anni 70 con l’introduzione dello Stabex e del Sysmin).
L’idea sarebbe quella di convertire gli aiuti allo sviluppo (che hanno condizionalità politica, e dunque sono meno allettanti degli aiuti cinesi) con misure strutturali che garantiscano continuità di reddito ai Paesi africani e capacità di pianificare il proprio sviluppo.
Per regolare i flussi di risorse naturali tra i due continenti servirebbe anche un quadro di regole che scoraggi l’arbitrio delle società multinazionali.
Ue e Unione africana potrebbero stabilire un “codice di condotta per gli investimenti” che tra l’altro impedisca il controllo da parte di società straniere di quote maggioritarie dei giacimenti, che imponga studi fattibilità ambientale e blocchi il “rimpatrio” dei profitti ottenuti in Africa.
Se non superiamo il dogma europeo del libero commercio e della protezioni degli investimenti privati come unica soluzione alle questioni dello sviluppo una cooperazione di lungo periodo non ci sarà mai.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
LA PALLAVOLISTA ITALIANA DI PADRE SENEGALESE: “LA DISINFORMAZIONE STA AVENDO UN RUOLO FONDAMENTALE”
Scioccante. Ormai avere la pelle nera può diventare un rischio: “Qui c’è un caso al giorno, invece di andare avanti l’Italia va indietro, sta tornando al medioevo e non se ne rende conto”.
Valentina Diouf, per anni simbolo della Nazionale di pallavolo femminile, papà senegalese, è rimasta “toccata particolarmente” da quando successo alla discobola azzurra Daisy Osakue, “alla quale voglio fare un applauso – dice – per aver mantenuto lucidità nelle dichiarazioni che ha fatto, e che sono tanta roba”
La Diouf è turbata, non riesce a capire come mai nel 2018 ancora si verifichino fatti del genere, e per questo ripete il concetto che “stiamo tornando al medioevo”.
“Posso solo sperare che questi episodi siano finiti qui – dice -, altrimenti veramente si torna indietro. Il problema è che, come ho detto, l’Italia non lo capisce e credo che a questo proposito la disinformazione giochi un ruolo fondamentale”
Valentina vuole anche dire una cosa a coloro, giovani, che hanno commesso quell’atto che non riesce a comprendere: “è un gesto senza senso, la trasgressione è altro. Non riesco proprio a capire”. “O forse sì – aggiunge – perchè c’è poca voglia di scavare sotto la superficialità che regna sovrana. Qui siamo messi male”.
(da Globalist)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
I DUE RAZZISTI SI CHIAMANO FRANCO BONO E LORENZO RIGANO, DEVONO RISPONDERE DI LESIONI PERSONALI AGGRAVATE DALL’ODIO RAZZIALE… SI LAVORA PER IDENTIFICARE GLI ALTRI QUATTRO
E’ stato identificato il secondo uomo che avrebbe aggredito il ragazzo senegalese di 19 anni insultato e picchiato giovedì scorso a Partinico.
Si tratta di Lorenzo Rigano, 37 anni, operaio edile.
L’uomo è cugino del primo uomo coinvolto nel pestaggio dell’africano, Franco Bono. I due sono indagati per lesioni personali aggravate.
Decisive per risalire sarebbero state le immagini delle videocamere che si trovavano nella piazza in cui è avvenuto l’episodio.
Sarebbe stato Bono a insultare e picchiare il ragazzo. Il senegalese era fermo in bici davanti a un bar
La vittima, che ha presentato denuncia, è stata sentita dal pm Gery Ferrara ieri. Al magistrato ha confermato il racconto fatto agli inquirenti: le parolacce, gli insulti e poi le botte.
Ai due indagati è contestato il reato di lesioni personali aggravate dall’oddio razziale. Le indagini, però, non sono concluse perchè all’aggressione hanno partecipato almeno 4 persone ancora non identificate.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2018 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE USA OTTIENE QUELLO CHE VOLEVA, IL PREMIER ITALIANO VAGHE PROMESSE
Ok alle sanzioni alla Russia, ok al TAP, ok al programma sugli F-35.
Il colloquio tra il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è andato molto bene, soprattutto per gli USA e per i loro interessi.
Talmente bene che ora sarà difficile per il premier tornare in Italia a spiegare alla sua maggioranza che tante promesse fatte negli anni non sarà possibile onorarle.
Racconta Tommaso Ciriaco su Repubblica che nella tana del populismo mondiale l’avvocato degli italiani sembra come quel fortunato che scopre di aver vinto la lotteria.
All’inizio timido, quasi fuori posto. Poi spregiudicato, con la passione dichiarata per il tycoon che si è preso il mondo. «Caro Donald, sei un negoziatore terribile!».
Ma i punti della negoziazione sono quelli che interessano all’uomo oggi a Washington, e le risposte di Conte sono molto chiare:
La verità è che intende proporsi come un avversario dell’establishment, un mini Trump disposto anche a rinnegare le battaglie dei suoi vicepremier per ottenere questo riconoscimento. E quindi via libera al Tap. Nessuna trincea sul progetto degli F35, sebbene i grillini avessero promesso il contrario. Addirittura un plauso agli Stati Uniti che vogliono tagliare il budget da riservare alla Nato, sfidando l’Unione europea. E consenso pieno alle sanzioni a Mosca, ignorando le posizioni di Salvini. In cambio, porta a casa un patto antifrancese sulla Libia — ancora un po’ fumoso, a dire il vero — e una pacca sulle spalle di Trump.
Trump è stato avvertito del fatto che Salvini è l’astro nascente della politica italiana e vede Conte come un argine all’approdo a Palazzo Chigi dell’alleato più stretto di Putin, che oggi in America sta facendo rischiare l’impeachment proprio al presidente. Conte però ha voglia di chiedere all’alleato un piano anti-Macron e Merkel, per una partita che interessa di più all’Italia:
«Ho spiegato a Trump che se davvero vuole una sponda in Europa — confida a sera — se davvero vuole ribaltare gli equilibri dell’Unione, noi ci siamo».
Vuole offrirgli l’Italia, anche a costo di far infuriare gli alleati europei e gli azionisti di maggioranza del governo. Anche a costo di destabilizzare ancora Angela Merkel e dare battaglia a Emmanuel Macron. «Se davvero volete indebolirlo, noi siamo pronti. Aiutateci a contenerlo».
Prima che il pranzo ufficiale abbia inizio, il segretario di Stato ed ex capo della Cia Mike Pompeo si affaccia in sala e controlla il menù. Mangeranno insalata di asparagi, parmigiano reggiano e sogliola.
Il menù politico, invece, è sempre lo stesso: cosa può ottenere Roma in cambio della destrutturazione soft dell’Europa perseguita da Trump? Visibilità politica, riconoscimento della sua “leadership”. Ma a che prezzo? Scontentare soprattutto i cinquestelle, inimicarsi mezzo continente.
Lo scambio tra i due leader è chiaro e parte da un punto diplomatico di grande importanza: la Libia. Conte vuole e ottiene il riconoscimento politico del ruolo di «leadership» in Libia, nell’opera di stabilizzazione, che secondo Palazzo Chigi non può passare da una accelerazione verso le elezioni fissate il 10 dicembre da Emmanuel Macron nel summit di Parigi, in primavera, nel pieno del vuoto politico a Roma.
Spiega Ilario Lombardo sulla Stampa
L’asse con Washington si sostanzierà attraverso una cabina di regia permanente sul Mediterraneo che è ancora tutta da costruire. Trump si limita a parlare di «iniziative congiunte» sulla sicurezza e sulla lotta al terrorismo. Conte festeggia la prova d’amicizia di The Donald: «L’Italia sarà l’interlocutore privilegiato degli Usa in Europa». Ma aggiunge poco sui dettagli: «Saranno definiti in incontri tra i rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa».
Il patto sulla Libia però peserà anche su altre promesse tradite in nome della fedeltà all’alleato Usa.
Sugli F35 Conte non si espone apertamente, annuncia che rivaluterà il dossier del programma, firmato nel 2002, ma sa che i margini per un no sono veramente pochi. E glielo fa intuire subito, il tycoon, quando nello Studio Ovale ricorda che l’Italia «sta comprando un sacco di aerei» dagli Stati Uniti.
Allo stesso modo il presidente del Consiglio dice di trovare «logiche» le pretese americane sui fondi alla Nato e comprende che portar via le truppe italiane dall’Afghanistan potrebbe non essere così facile, come pensava Alessandro Di Battista, a meno di non voler creare una frattura con Trump
La questione quindi non è tanto cosa ha Conte in comune con Trump, ma cosa ha in comune la linea politica del presidente USA con i sogni e le promesse dei governi italiani.
Che oggi si trovano con un avvocato (del popolo) che non ha tanta voglia di rappresentarli.
(da “NextQuotidiano”)
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