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ORA SI SCOPRE CHE LO STAFF DELLA APPENDINO COSTA 1,5 MILIONI IN PIU’ DI QUELLO DI FASSINO

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

AVEVA PROMESSO IL TAGLIO DEI PORTABORSE, HA ASSUNTO UN ESERCITO DI 300 PERSONE

Non è solo questione di promesse elettorali mancate, come l’istituzione di un fondo di 5 milioni di euro per i giovani disoccupati alimentato con i risparmi da un ipotetico taglio del 30 per cento degli staff rispetto alla giunta Fassino, cavallo di battaglia di Appendino nel 2016.
Ma di piccoli eserciti di staff, tra segreterie e portaborse, che occupano le stanze accanto a quella della sindaca e degli undici assessori.
Quasi 300 persone, secondo i calcoli fatti dal capogruppo della Lista Civica, Francesco Tresso, sulla base di un accesso agli atti e del paragone con gli anni di amministrazione di Piero Fassino.
Nel primo anno di amministrazione Appendino il numero di occupati nelle segreterie della sindaca e degli assessori è stato di 286, di cui 21 staffisti esterni.
Se si considerano gli anni di Fassino, la media del numero di collaboratori occupati nelle segreterie era di 210, di cui 30 esterni.
La differenza è di una settantina di persone in più nell’era pentastellata. “Com’è possibile che dodici persone, tra cui la sindaca, ne debbano avere come contorno 300   per gestire l’attività  amministrativa ed essere di raccordo tra la parte politica e quella amministrativa?” ripete Tresso.
I Cinque Stelle hanno in effetti rispettato l’impegno di ridurre gli ingressi esterni di staffisti, preferendo l’utilizzo di personale interno.
Questo però non ha ridotto i costi, anzi: i dipendenti ricevono un’indennità  di ruolo e alla fine, facendo le somme, Appendino ha speso un milione e mezzo in più per le segreterie rispetto all’amministrazione di centrosinistra.
La sindaca di Torino, insomma, non ha potuto rispettare la promessa di creare il fondo per i giovani disoccupati non perchè i soldi siano finiti nel bilancio generale per coprire i buchi ereditati dal passato, ma perchè i risparmi annunciati nella campagna elettorale non si sono realizzati.
Anche prendendo l’anno in cui la precedente amministrazione ha assunto più collaboratori, il 2015, con un totale tra interni ed esterni di 214 persone, la spesa è sempre stata inferiore di oltre un milione rispetto all’era Appendino. Nonostante le polemiche per gli stipendi d’oro, in particolare del portavoce di Fassino, Gianni Giovannetti.
Per Tresso, che ha presentato un’interpellanza firmata da tutta l’opposizione per chiedere conto della questione alla prima cittadina e dibattere della promessa mancata in Consiglio, non è solo una questione di soldi e di promesse mancate. “Stiamo parlando di circa 25 persone in media per ogni assessorato. Troppe. Un’organizzazione mastodontica e inconcepibile considerando che il numero dei dipendenti del Comune continua a diminuire e che alcuni servizi sono al collasso, come l’anagrafe”.
L’anagrafe, appunto. A Torino c’è una lista di attesa lunga mesi per riuscire a fare la carta di identità  elettronica e c’è gente che aspetta da luglio per un cambio di residenza.
Per ora tutti i correttivi messi in campo dall’amministrazione non hanno prodotto effetti. Il Comune non è riuscito nemmeno a garantire l’annunciato trasferimento di 22 persone agli sportelli: si è fermato a 7.
L’assessora Paola Pisano è stata messa sotto accusa non solo dalle opposizioni, ma anche da un gruppo di consiglieri Cinque Stelle che hanno firmato, insieme con la minoranza, un’interpellanza generale proposta dal capogruppo Pd Stefano Lo Russo.
Forse, sottolinea Tresso, “si potrebbe spostare qualcuno dalle segreterie degli assessori a Cinque Stelle e della sindaca per riuscire a fare qualche carta di identità  e qualche cambio di residenzain più. Anche i servizi sociali e le Circoscrizioni sono in sofferenza. Invece il personale sta nelle segreterie degli assessori.
È la vittoria della burocrazia: incredibile che questo accada con la sindaca Appendino, che si era presentata come l’alternativa, come il cambiamento”.

(da “La Repubblica“)

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IL DEF: COME INDEBITARE ULTERIORMENTE UNA FAMIGLIA CHE NON RIESCE A LIBERARSI DEI DEBITI

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

UNA SBRUFFONATA INACCETTABILE PER IL PORTAFOGLIO DEGLI ITALIANI DIETRO LA QUALE SI CELA IL PIANO B DI SAVONA: USCIRE DALL’EUROPA

Il Def, presentato ieri da Luigi Di Maio (con tutti i mezzucci comunicativi di un partito che della comunicazione ha fatto il suo unico Dio), e definito come l’abolizione della povertà , è solo una povera misura elettorale.
L’asticella del deficit al 2.4, per i prossimi tre anni, non è infatti una manovra e nemmeno una proposta di manovra.
E’ solo una sbruffonata, inaccettabile non tanto dall’Europa e dai mercati quanto, e innanzitutto, dai portafogli degli Italiani.
E’ la bizzarra proposta di indebitare ulteriormente una famiglia che non riesce a liberarsi dei debiti. Difficilmente il modo per combattere la povertà .
Sono tutte cose queste di cui gli economisti discutono da tempo, e che lo stesso Di Maio conosce bene.
Il suo Def è in realtà  un mezzo per intraprendere un altro percorso, in base al quale l’Italia starà  meglio solo se viene esposta oggi a un grande scontro: lo scontro frontale con l’Europa per ottenerne o le proprie condizioni (il 2.4) o lasciarla.
E’ il piano B, appunto, che era in quella prima versione del contratto di governo, che, scoperto, fu cancellato.
L’idea dello scontro per liberarsi dai lacci europei venne attribuita allora soprattutto all’anima sovranista della Lega. Lo scossa che si avvertì mise in dubbio persino la formazione del governo, e il professor Savona non divenne Ministro del Tesoro.
Di Maio in quelle ore si presentò invece come il paladino della continuità , l’interlocutore delle istituzioni, il contro bilanciamento di Salvini.
E siccome tutti crediamo solo alle cose in cui vogliamo credere, tutti gli credemmo, dimenticando l’originaria piattaforma dei Pentastellati a favore dell’uscita dall’Euro.
L’obiettivo, invece, è rimasto lì — la rottura con la Ue come elemento palingenetico di una sovranità  nazionale, di una nuova economia, e di un nuovo popolo.
Il Def presentato, con i suoi numeri gonfiati, è l’avvio di questa rottura, anzi il mezzo scelto per “creare” in vitro il Cigno nero, l’evento imprevisto con cui giustificare l’avvio del conflitto.
Il discorso di ieri di Luigi di Maio davanti a Palazzo Chigi è dunque una dichiarazione di guerra, nemmeno tanto mascherata. Che apre per il paese due scenari.
Il primo punta sull’effetto too big to fail : l’Italia è un paese troppo grande per potere essere davvero punita.
In particolare da una Unione Europea molto indebolita ridotta a una collezione di Stati mai così disuniti.
Il cosiddetto motore dell’Europa è imballato; Macron e Merkel per diverse ragioni avvitati in una spirale discendente, l’Inghilterra fuori, e buona parte dell’Europa dell’Est in ribellione. La disaffezione e il sovranismo sono galoppanti.
Insomma l’Europa è in condizioni tali da poter essere sfidata, con una possibilità  di vittoria — e in questo caso forse lo sfondamento del livello di deficit potrebbe accontentarsi di una messa a cuccia dei poteri deboli europei.
Il secondo scenario ci porta invece alla esposizione “senza se e senza ma” alla reazione dura dell’Europa, e dei mercati che, a differenza della politica, vivono e ingrassano nelle crisi.
Nel qual caso, si tratterà  di una “vera guerra” come avrebbe detto oggi il Professor Savona a un think tank, “ll nodo di Gordio”.
In entrambi i casi siamo entrati ieri in una nuova fase in cui nessuna opzione sarà  indolore.
Il valore dei nostri risparmi, delle nostre case e delle nostre pensioni si abbasseranno. La manovra di Luigi di Maio si rivelerà  una specie di commedia dell’arte con un Pantalone che con una mano dà  e con l’altra toglie.
Ma c’è terzo scenario, peggiore.
Qualcun infatti dovrebbe ricordare a Palazzo Chigi che il discorso sulla debolezza dell’Europa ha fatto il suo tempo.
Nelle istituzioni europee da tempo la fragilità  del sistema ha convinto molti leader a cominciare a pensare a un modello nuovo, fondato sulla accettazione della fine di una Europa unita e paritaria.
C’è già  al lavoro nei fatti lo sviluppo di doppie e triple velocità  istituzionali, e persino abbandoni.
Basta osservare la Brexit e alle delusioni di quella Gran Bretagna che ha guardato con sufficienza alla debolezza europea e ha sopravvalutato la propria forza negoziale. Salvo trovarsi poi davanti a un conto miliardario da pagare presentatogli dalla Ue che si è impuntata contro ogni mediazione, ribaltando la sua crisi in una crisi interna degli stessi Tory.
O pensa la coalizione gialloverde che alla fine della guerra saranno capaci anche di non pagare nessun prezzo all’addio dell’Europa?
Se dobbiamo misurare dai festeggiamenti in piazza ieri sera, Palazzo Chigi non ha nessuna paura. E perchè averla dopotutto? Nell’attesa della guerra, la decisione presa è per la coalizione comunque win- win.
Qualunque sarà  lo scenario Luigi di Maio potrà  tessere nei prossimi mesi la narrazione che già  da tempo è diventata la colla che tiene insieme questa fragile coalizione.
Potrà  sempre dire, “Vedete, noi siamo con voi, vi abbiamo dato tutto, vi abbiamo liberato dalla povertà . Ma i poteri forti, il grande capitale, quei burocrati dei ministeri, quei giornalisti venduti, quei giudici che si sono messi a servire la politica invece di affiancare il popolo, ci hanno fermato”.
Una narrativa perfetta per sostenere la prossima campagna per le europee, alimentando il risentimento del Popolo e fare il pieno di voti alle prossime europee. Una soluzione perfetta.
Sempre che Salvini, che per ora segue lo schema, non metta in campo i suoi, di interessi. E sempre ammesso che le fake news dei 5 stelle, le caleidoscopiche balle create per fomentare questa narrazione, non vengano erose dalla realtà .

(da “Huffingtonpost”)

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TRIA RESTA AL SUO POSTO, MA CI SARANNO LE SUE DIMISSIONI DOPO L’APPROVAZIONE DELLA MANOVRA

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

I PUTINIANI VOGLIONO FARE LA GUERRA ALL’EUROPA, IL MINISTRO DIMEZZATO RESTA SOLO PER PROVARE A LIMITARE I DANNI, POI LI LASCERA’   AL LORO DESTINO

Perchè ogni argine è caduto. E la crisi italiana, come in un drammatico gioco dell’oca, sembra essere tornata al punto di partenza. Quando, avvalendosi delle sue prerogative, il capo dello Stato si rifiutò di nominare Paolo Savona all’Economia, perchè quella scelta avrebbe incarnato la realizzazione del “piano B” di uscita dall’euro.
Terreno che, chissà  se è un caso, si ripropone proprio oggi nelle parole che proprio Savona consegna a Daniele Lazzeri, il direttore del think tank e rivistaIl nodo di Gordioe riportate, per primi, da Dagospia: “Abbiamo lanciato il guanto di sfida alla vecchia Europa, ora dobbiamo vincere la guerra, perchè guerra sarà “.
Il deficit, lo spread, la linea di conflitto con l’Europa dall’esito imprevedibile.
È questa preoccupazione che, al Quirinale, ha accompagnato il venerdì nero sui mercati, con lo spread che si è impennato a quota 280 e il crollo delle borse.
E la scelta del silenzio è un ulteriore indicatore della delicatezza del momento, perchè, non potendo spendere parole rassicuranti sui conti pubblici, ogni sillaba rischia di allarmare ancora di più mercati e partner europei.
La verità  è che ogni argine è caduto. E se, qualche mese fa, “il piano B”, al momento della formazione del governo, è stato contenuto grazie all’inserimento nella compagine di Tria e Moavero, è proprio la sconfitta bruciante subita dal Tesoro a suscitare inquietanti interrogativi su quel che potrà  succedere.
Perchè, sin da quando lunedì si presenterà  all’Eurogruppo, il ministro avrà  un evidente problema di credibilità , proprio di chi aveva garantito una irrinunciabile linea del Piave sui conti e si presenta invece come Cadorna a Caporetto.
È stato davvero un compleanno amaro per Tria, chiuso a via XX settembre al lavoro. Fonti ufficiali ripetono che la parola “dimissioni” non è all’ordine del giorno, come non lo è mai stata in questi giorni, proprio perchè avrebbero un effetto di moltiplicatore della crisi. E la tutela dell’interesse nazionale impone che, anche dopo una umiliazione, si pensi prima a ciò che è meglio per il paese.
Però chi al Tesoro è di casa racconta che l’uomo è provato, ed è il primo a avere la consapevolezza di essere un ministro dimezzato.
In tutti i paesi europei il titolare dell’Economia ha un suo peso, una sua autorevolezza, una certa autonomia di manovra, che consente di influenzare il governo di cui fa parte. In Italia, di fatto, non c’è più. Ed è provata, stordita la struttura, proprio quei tecnici bombardati come frenatori del cambiamento.
Questo il clima a via XX settembre. E l’uscita di scena del mite professore è argomento di discussione nelle stanze del governo, perchè è complicato che possa difendere una linea che ritiene dannosa per il paese.
È tutt’altro che lunare l’ipotesi che il momento possa essere quando giungerà  al termine il complesso iter della finanziaria, durante il quale, come si dice in gergo, proverà  a ridurre i danni.
Quando saranno compiuti, con la necessità  di procedere a una ricapitalizzazione delle banche e arriverà  il downgrading, allora probabilmente a gestirlo ci sarà  un altro ministro.
Gli argini sono caduti, perchè il Tesoro è un fortino espugnato, a palazzo Chigi c’è il notaio degli accordi tra Salvini e Di Maio, e i leader di maggioranza, per ora, danzano sullo spread. Questa la fotografia della situazione.
Ufficialmente la Commissione europea eviterà  di dare giudizi prima di ricevere la manovra, che sarà  spedita a Bruxelles il 15 ottobre. E in tal senso la permanenza di Tria rappresenta l’auspicio che ci possa essere qualche aggiustamento tra i paletti europei e le cifre italiane.
È evidente anche nelle parole di Moscovici la volontà  di non alimentare la campagna populista contro l’Europa matrigna pronta a bacchettare le volontà  dei governi.
Ma il problema sono i mercati. Nè le dichiarazioni di oggi hanno aiutato a rasserenarli. Nè le previsioni per lunedì, quando riapriranno, sono meno fosche.

(da “Huffingtonpost”)

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IN UN GIORNO BRUCIATI 22 MILIARDI IN BORSA, I TITOLI BANCARI VANNO A PICCO

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

LO SPREAD SALE DI 30 PUNTI RISPETTO A IERI

Piazza Affari trascinata giù dai titoli bancari e un costo – ipotetico – di 9 miliardi nel 2019 per spesa in interessi sul debito.
Il giorno dopo l’approvazione della nota di aggiornamento del Def che ha fissato un incremento del deficit al 2,4% del Pil per i prossimi tre anni, la reazione dei mercati è negativa, secondo le attese.
Lo spread, il differenziale tra i btp e i bund tedeschi, chiude a 267 punti, circa trenta punti in più rispetto a ieri, con i rendimenti dei decennali in area 3,1%.
La giornata a Piazza Affari è stata rovinosa.
La borsa di Milano ha lasciato sul terreno il 3,72% trascinata a picco dai titoli bancari: -9,4% Banco Bpm, -8,4% Intesa Sanpaolo, -8,3% Bper, -7,8% Ubi, -6,7% Unicredit.
Il Ftse All Share, l’indice che rappresenta tutte le azioni del listino milanese, ha perso il 3,51%, mandando in fumo oltre 22 miliardi di euro di capitalizzazione.
I titoli bancari hanno trascinato giù i listini europei (perso tra lo 0,8% di Parigi e l’1,5% di Francoforte).
Le variabili nel crollo in borsa sono diverse. Da un lato pesa il possibile – se non probabile – scontro che il Governo dovrà  ingaggiare a Bruxelles con la Commissione Europea.
Pesano, di più, i timori per un possibile taglio del rating italiano da parte delle agenzie, in primis Moody’s e S&P’s attese per ottobre a dare il loro giudizio sul merito di credito per l’Italia.
Un taglio del rating sovrano dell’Italia di due gradini, a ‘junk’, potrebbe scatenare uno “stop improvviso” all’afflusso di capitali verso l’Italia, che non avrebbe sufficiente domanda per finanziare il suo indebitamento, secondo Silvia Ardagna di Goldman Sachs.
A far crollare Piazza Affari è stata, in larga parte, la forte esposizione delle banche sul fronte dei btp: gli istituti italiani hanno in portafoglio titoli di Stato del nostro Paese per 373,4 miliardi di euro.
Gli acquisti delle banche hanno compensato la fuga degli investitori stranieri che durava da aprile e che ha subito un’inversione di tendenza solo a luglio, forse attratti dai rendimenti più alti.
Una stima dell’impatto dell’aumento dello spread sui bilanci degli istituto, secondo gli analisti, è difficile da realizzare prima dei bilanci consuntivi visto che vi sono troppo variabili e difformità  fra ciascuna situazione.
Certo è che l’impatto è negativo: la crescita del differenziale pesa in maniera diretta a causa dell’indebolimento del loro capitale (Cet1) per via delle perdite sul valore dei Btp in portafoglio.
Perchè? Con l’introduzione del nuovo standard contabile (IFrs 9) il conto economico delle banche deve inserire nella redditività  complessiva l’andamento del portafoglio finanziario.
Finchè i btp saranno tenuti in pancia dalle banche, essi saranno rilevati a stato patrimoniale. In pratica, l’aumento dello spread fa calare i coefficienti patrimoniali delle banche, indebolendole. In maniera indiretta, anche se per ora è solo un rischio, lo spread pesa poi anche a causa di condizioni di finanziamento più difficili che scontano quando cercano capitali sul mercato.
C’è poi anche un altro conto da fare, seppur più ipotetico. Nei mesi scorsi l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha prodotto una analisi delineando diversi scenari sulle esigenze di rifinanziamento del debito pubblico e una previsione della spesa per interessi.
Il primo scenario prevedeva uno spread in salita di 100 punti su tutta la curva dei rendimenti a partire da gennaio scorso e fino al 2020. In questo caso nel 2018 la spesa per interessi aumenterebbe di 1,8 miliardi, 4,5 miliardi l’anno prossimo e 6,6 miliardi nel 2020.
Sempre l’analisi dell’Upb indicava che uno shock da 200 punti base (dunque in area 300 punti) comporterebbe un impatto doppio. Quindi per il 2019 la spesa per interessi aumenterebbe di circa 9 miliardi (quasi un reddito di cittadinanza) per superare i 13 miliardi nel 2020.
Oggi, il giorno dopo l’approvazione del Def, ci troviamo in uno scenario intermedio tra il primo e il secondo. Presto per dire come i mercati reagiranno nelle prossime settimane alla legge di bilancio.

(da “Huffingtonpost“)

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“CON LA CONDUZIONE DELLA ISOARDI LA PROVA DEL CUOCO HA PERSO 600.000 TELESPETTATORI”

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

IN VIGILANZA RAI ANZALDI DENUNCIA IL CROLLO DEGLI ASCOLTI A TUTTO VANTAGGIO DELLA CONCORRENZA MEDIASET… FACEVA DA TRAINO AL TG1,ORA GLI FA PERDERE ASCOLTI

“Fino all’anno scorso La Prova del cuoco faceva da traino al Tg1 delle 13,30, ora invece è diventata la palla al piede”. Il deputato del Partito democratico e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, ha presentato un’interrogazione al presidente e all’amministratore delegato della Rai per denunciare il crollo degli ascolti della trasmissione condotta da quest’anno da Elisa Isoardi, che è la compagna del vicepremier Matteo Salvini.
“Intendo sapere se i vertici Rai e la direzione di Rai1 non ritengano opportuno prendere immediati provvedimenti, ed eventualmente quali, per rivedere l’attuale formula de La Prova del cuoco, i cui cambiamenti hanno causato un crollo di pubblico di 600mila telespettatori e 3 punti di share rispetto alla passata stagione, affinchè possano essere recuperati gli ascoltatori persi e si eviti un evidente danno all’edizione delle 13.30 del Tg1, che rappresenta il secondo notiziario più seguito di tutta l’informazione del servizio pubblico”, argomenta Anzaldi.
Nella passata stagione, con la conduzione di Antonella Clerici, la trasmissione aveva registrato una media di share del 15,9% e 1.891.000 telespettatori, in crescita sulla stagione precedente. Nelle prime tre settimane della nuova stagione invece gli ascolti sono passati dal 16% di share della prima puntata, andata in onda il 10 settembre, a una media del 13% nell’ultima settimana di settembre, con un picco negativo addirittura del 12,4% nella puntata del 25 settembre. Da 1.611.000 telespettatori dell’esordio, la trasmissione si è ora posizionata su una media di poco superiore a 1.200.000″, ha fatto i calcoli Anzaldi.
“Al calo di ascolti del programma su Rai1 ha fatto da contraltare una continua crescita della diretta concorrente Canale 5. Forum ha guadagnato in tre settimane circa 200mila telespettatori, con uno share del 17% e picchi del 18,4%, addirittura sei punti sopra Rai1”.
Il Tg1 è passato da una media di share del 22,9% senza La Prova del Cuoco (nel mese di agosto e inizi settembre) a una media del 20,7% con La Prova del cuoco, a partire dal 10 settembre.

(da agenzie)

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IL COMMISSARIO PER IL PONTE MORANDI E’ L’EX PAPABILE CANDIDATO LEGHISTA A SINDACO DI GENOVA

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

DI MAIO HA OTTENUTO DI ESTROMETTERE AUTOSTRADE, SALVINI DI NOMINARE UN AMICO SUO: LA SPARTIZIONE E’ FATTA… CLAUDIO GEMME E’ UN MANAGER FINCANTIERI, ESPERTO DI EFFICIENZA ENERGENICA: CON LA RICOSTRUZIONE DEL PONTE CHE CI AZZECCA?

Claudio Andrea Gemme è il commissario per la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova.
Gemme, 70 anni, è genovese ed è direttore della Divisione Systems & Components di Fincantieri dal 2016.
Fincantieri, secondo il M5S, dovrebbe essere tra le aziende che parteciperanno alla ricostruzione del Ponte Morandi.
Secondo l’Adn Kronos il nome di Gemme è stato sponsorizzato dalla Lega che ha fatto pressing affinchè venisse affidato a lui un ruolo al quale il decreto emergenze attribuisce ampi poteri.
Il M5S ha chiesto e ottenuto che Autostrade venisse tenuta fuori dalla ricostruzione, lasciando la ‘patata bollente’ della scelta del commissario per lo più in mano al socio di governo.
In un’intervista di qualche tempo fa a Omnibus, Gemme criticava il Decreto Dignità : «Non sono convinto che aiuti a combattere la precarietà ».
Il manager ha 70 anni ed è originario del capoluogo ligure. È entrato in Finmeccanica nel 1973 nell’ambito della Direzione approvvigionamenti, poi nella Gestione progetti di Ansaldo. Dal 1987 ha gestito il contenzioso tra industria e governo dopo la chiusura delle centrali nucleari a valle del referendum. Nel 2000 ha gestito la privatizzazione del ramo industriale del gruppo Ansaldo. Esperto di efficienza energetica, Gemme ha ricoperto numerose cariche nei principali enti e associazioni di settore a livello nazionale ed europeo.
Il suo nome era stato fatto dalla Lega come sindaco di Genova, prima di scegliere l’attuale sindaco Bucci.

(da agenzie)

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

CIOE’ UNO, NESSUNO E CENTOMILA

La manovra del popolo, la Costituzione del popolo, il movimento del popolo.
Se ogni decisione è presa nel nome del popolo, chi mai potrà  ritenerla sbagliata? Qualunque tipo di azzardo sarà  giustificato dall’esigenza di aver detto e scritto, finanziato o revocato un provvedimento per il bene del popolo, dunque di tutti.
Richiamarsi al popolo continuamente e anche a volte eccedendo con questa connessione sentimentale, può produrre effetti collaterali.
Innanzitutto la prima: la benemerita manovra si finanzia col debito pubblico.
Dunque potremo chiamarlo debito del popolo.
Dal quale popolo, qui sorge la domanda, vanno detratti gli evasori fiscali oppure no? Anche gli evasori sono nostri concittadini che usufruiscono dei servizi ai quali tutti accediamo. Dunque sono popolo.
Però essendo evasori al momento di pagare i debiti non sono popolo.
Secondo effetto collaterale: a nome degli italiani, dunque del popolo, parla anche il presidente della Repubblica che consiglia, indica, propone.
Il popolo che rappresenta Mattarella è lo stesso a cui fa riferimento continuamente Di Maio? Mettiamo caso che Mattarella, interpretando il popolo, esprima parere differente a quello del governo. Che si fa?
Terzo effetto collaterale: i giudici sentenziano in nome del popolo italiano. E proprio nel loro nome hanno inquisito il ministro dell’Interno Salvini.
Che però — ricordate? — ha risposto spiegando che lui rappresenta il popolo, ed in nome del popolo sta governando e i giudici — che attualmente giudicano in nome del popolo — si facciano eleggere dal popolo per giudicare un uomo del popolo.
Il popolo: cioè uno, nessuno e centomila.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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IL BALCONCINO DI PALAZZO CHIGI

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

DI MAIO CHE ACCLAMA I MINISTRI SALARIATI DEL GOVERNO CASALEGGIO… CON CASALINO CHE DISTRIBUISCE BANDIERE COME I BENGALESI VENDONO OMBRELLI AL PRIMO SENTORE DI PIOGGIA

La storia italiana sovente e volentieri si affaccia al balcone.
Il rimando a Mussolini è scontato, ma val la pena citarlo perchè Luigi Di Maio ha fatto molto meglio.
Se Palazzo Venezia era molto lontano dal centro del potere, il vice premier e i suoi, ossia la sua claque ministeriale, hanno fatto uso direttamente del balconcino di Palazzo Chigi, lo stesso che fino a oggi, salvo memoria contraria, aveva ospitato nient’altro che le aste delle bandiere.
Ieri sera, giù, in basso, c’era la manifestazione dei parlamentari, cui a breve si sono aggiunti, diligenti, anche i ministri salariati dello stato a guida Movimento 5 Stelle e, va da sè, della Casaleggio Associati.
Ce l’hanno fatta, la “manovra del popolo” è realtà , il 2,4 brilla ora al centro del tricolore, come già  un tempo lo stemma sabaudo, Leo Longanesi in verità  sosteneva che dovesse campeggiare il motto “Tengo famiglia”, ma anche così non siamo molto lontani dal vero, la fama di retorica sovranista dell’utente medio grillino è al momento soddisfatta, “Avete visto? Avete visto?”, sembra suggerire Di Maio, e in questa sua asserzione c’è soddisfazione ma anche un monito a chi riteneva che il suo partito fosse subalterno, messo all’angolo dall’alleato Salvini, se non condannato a un vero e proprio “facesitting” da parte della Lega colma di argomenti, autoritarismo convincente presso un popolo che non vede poi così male il fascismo nazionale endogeno.
Lì a piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi sembra anche di scorgere il fantoccio del ministro Tria, idealmente virtualmente, appeso in testa in giù, come in un’apoteosi del festa-farina e forca pentastellata.
La cerimonia del balcone segna dunque un punto di svolta anche nel linguaggio plastico del cerimoniale politico del governo odierno, Di Maio si riprende la scena, impalla Salvini momentaneamente, e compie un atto d’arroganza e insieme di propaganda.
Dai, un po’ di storia in questo caso non guasta: il Pci, implicitamente mostrandosi forza di governo, scendeva in piazza dopo che le Brigate Rosse assassinavano il sindacalista comunista Guido Rossa, oppure, tornando ai balconi, i suoi dirigenti si mostravano affacciati in via delle Botteghe Oscure giusto la notte di vittoria elettorale, e lo facevano con sobrietà , mai un Togliatti, neppure da primo ministro, si sarebbe sporto con sicumera a Palazzo Chigi.
E ancor meno lo avrebbero fatto le grisaglie davvero ministeriali democristiane, giusto Berlusconi dal suo Palazzo Grazioli, ma in quel caso si trattava di una variante spettacolare.
Ora i blazer di Di Maio e dei suoi ministri, in nome della “manovra del popolo” ( si sappia che nei social il suddetto Popolo ha subito vestita la maiuscola sovranista) si mostrano ed esultano, quasi catarticamente, la stessa apoteosi, metti, di quando a Napoli si compie il miracolo dello scudetto, tra V di vittoria e un pugno chiuso da ring pugilistico ben sollevato; pochi minuti prima, ordinata e ordinaria processione, come nella gita al santuario, i parlamentari, già  allertati e convocati, avanzano verso la piazza del 2,4 %, appunto riconsacrata per la circostanza, manifestazione, corteo, sfilata così spontanea da portarci a immaginare un Casalino lì dietro l’angolo a distribuire loro le bandiere del MoVimento, come prontamente farebbero i bengalesi con gli ombrelli in vendita al primo sentore di pioggia.
Adesso Di Maio è sceso, si è incarnato, si è fatto capopopolo tra i suoi deputati e senatori, e mostra soddisfazione evidente, un’implicita spettacolare risposta anche, perchè no, a Salvini che finora gli ha occupato la scena, lo ha sadicamente “impallato” con i suoi argomenti da   portatile rionale, e intanto rieccolo il fantoccio di Tria, sempre idealmente, virtualmente, deposto, anzi, sembra di vederlo trascinato dalle auto blu dei Toninelli, dei Fraccaro, dei Bonafede. Forse c’è anche il simulacro dell’ex ministra Fornero.
Avete visto, infami, che ve lo stiamo dando il reddito di cittadinanza? E voi che non ci credevate! Quelli della Ragioneria generale volevano inchiodarci sulla linea del bagnasciuga dell’1,9, e noi siamo invece avanzati fino al 2,4.
Adesso è chiaro chi comanda qui, adesso è chiara la volontà  del popolo, e non saranno quelli di Bruxelles a decidere come debba essere disposto il pallottoliere dei nostri conti.
Così, sia pure per sommi capi, il sottotesto dell’accaduto, demagogia 2.0 che si concede un proprio arengario, un proprio posto al sole, ed ecco anche la quarta sponda del “governo del cambiamento”.
Abbiamo navigato a vista, certo, ma alla fine avete visto dove vi ho portato, sembra ancora dire adesso esplicitamente Di Maio ai suoi deputati che gli stanno intorno e sorridono, se è vero, come abbiamo saputo, che il giorno prima, in una sorta di un Gran Consiglio segreto e insonorizzato, proprio il vicepremier, con tono degno di un celebre caporale d’onore, aveva detto ai suoi gallonati: non eravate niente, sono io che vi ho fatto diventare ministri, e dunque non rompete le scatole, e dunque sorridete e in alto la bandiera.
Quasi un ritorno ai grami primi giorni dei gazebo, che pretende ora una sorta di orgoglio da “antemarcia”.
Non occorre essere grandi semiologi come Roland Barthes, per fare caso a un Di Maio senza cravatta, idem i suoi, retorica iraniana, dove la cravatta è appunto segno di non appartenenza al Popolo.
“Per la prima volta nella storia c’è un governo che mantiene le promesse,” si concede Di Maio e chissà  se ci crede anche lui.
Infine un “Ciao, ragazzi!”. Dove quel “ragazzi” riassume in un unico blocco indistinto (“Famo er blocco?”, suggeriscono al mercato di Porta Portese per venderti tutto il banco) ministri, deputati, senatori e perfino gli inviati dei giornali guardati a vista ora con diffidenza ora con intento ruffiano, da possibil compari.
La sensazione finale è che quando lui e i suoi pronunciano l’acronimo Def non sappiano esattamente di ciò che stanno parlando, un ircocervo estraneo alla dialettica semplificata di un movimento che si nutre ora di analfabetismo istituzionale o di improvvisazione, s’intende con tono piccato, d’altronde il dittatore dello Stato libero di Bananas di Woody Allen insegna: il minuto dopo la presa del potere è doveroso imporre che la biancheria intima sia indossata a vista sugli abiti.
Così si fa nei sistemi plebiscitari, così si fa quando si concede un reddito di cittadinanza, e dunque, sempre implicitamente, ritorna il “vaffa”. Rivolto all’Europa. Altrimenti non sarebbe “la manovra del popolo”, di più, del Popolo.

(da “Huffingtonpost”)

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L’ECONOMISTA CAZZOLA: “TRIA HA COPERTO IL SEDERE A QUESTI, GIUSTO CHE ORA L’ITALIA BEVA LA SUA COPPA DI VELENO FINO ALLA FINE”

Settembre 28th, 2018 Riccardo Fucile

“L’UNICA SPERANZA DI LIBERARSI DI QUESTI INCAPACI E’ CHE FALLISCANO”… “LI VOGLIO VEDERE GLI ITALIANI IN FILA AL BANCOMAT A PRELEVARE 50 EURO”

Intemerata furibonda dell’economista Giuliano Cazzola contro il governo gialloverde, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, gli elettori della Lega e del M5s. Ospite de “L’Ialia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, Cazzola commenta, in primis, la scelta del titolare del Tesoro Giovanni Tria di accettare l’innalzamento del deficit fino al 2,4%: “Me lo aspettavo, perchè era molto improbabile che un ministro dell’Economia, che, peraltro, è come il papa di Stalin e non ha divisioni sul campo, potesse condizionare la politica di un governo che ha finalità  assolutamente devastanti. Conosco Tria da 30 anni. Sono deluso dal fatto che abbia accettato di coprire il sedere di questi qua. Poi, cosa volete farci? Lui non ha la personalità  che avevano Padoa Schioppa o Padoan e quindi non è che le sue dimissioni sortirebbero effetti importanti. Questo Tria non lo conosceva nessuno, non è Tremonti”.
E aggiunge: “Tutto sommato, è meglio così. L’Italia beva la sua coppa di veleno fino alla fine perchè l’unica speranza di liberarsi di questi è che falliscano sul piano economico. Gli italiani se lo meritano perchè li hanno votati. Come ha detto giustamente Macron, i valori di questi sono il nazionalismo, l’identitarismo, il razzismo, il sovranismo. Sui social, poi, ti massacrano e ti uccidono. E le minacce che stanno facendo ai funzionari, che devono eseguire quello che dicono loro? Sono degli arroganti, se ne fregano di tutto, hanno un atteggiamento sprezzante” — continua — “Chi è che si può fidare di questi? Questi vanno combattuti per quello che sono. Ma non sono il solo a vedere il pericolo con questi. Forse io sono stato uno dei primi a vederlo. Questi si sono presentati sulla scena internazionale mandando tutti a fare in culo. Ma io non me la prendo mica con loro, ce l’ho coi loro elettori. Voglio vedere gli italiani davanti al bancomat a prelevare 50 euro al giorno. Andate a cercarvi su youtube il video di Mussolini il 18 settembre 1939 a Trieste con la piazza stracolma e la folla acclamante, quando annunciava l’avvio delle leggi razziali”.
Poi accusa di “razzismo” l’atteggiamento del M5s nei confronti degli ex parlamentari per via del taglio dei vitalizi. E chiosa: “Se uno vota per un partito che dice ‘Fuori i negri’, non è colpa mia ma colpa sua. Io non mi sento responsabile di una plebe che è diventata razzista.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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