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SICUREZZA, IL GOVERNO PONE LA FIDUCIA FANTASMA, IL M5S AVVERTE: “DECRETO A RISCHIO SE NON PASSA LA PRESCRIZIONE”

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

NESSUN CDM HA AUTORIZZATO LA FIDUCIA, CHI HA DECISO?… SALVINI DEVE VEDERE LA PARTITA (ORA ANCHE FARE LA LAVATRICE) E DICE NO AL VERTICE… SIAMO LA REPUBBLICA DELLE BANANE

Braccio di ferro tra Cinquestelle e Lega. E sul decreto sicurezza in Senato si succedono i rinvii.
Fino a quando, a metà  pomeriggio, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro annuncia la fiducia su un maxiemendamento interamente sostitutivo del testo.
Dopo il vaglio di ammissibilità  della presidenza del Senato, come previsto dal nuovo regolamento di Palazzo Madama. Il voto è previsto domattina, a partire dalle 9.30.
Ma i Cinquestelle avvertono: “Lealtà  sulla prescrizione o il decreto è a rischio”. E fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che già  stasera è previsto il vertice tra Conte-Salvini-Di Maio. Il vicepremier leghista però li stoppa: “Quale vertice? Stasera vedo la Champions”. Intanto il Pd attacca: “Quale cdm ha autorizzato la fiducia?”
L’altolà  dei Cinquestelle
La scelta della fiducia ha due obiettivi, dal punto di vista dei Cinquestelle. Congelare la fronda dai parte dei dissidenti. Ed evitare che arrivino voti da destra, per autorizzare il provvedimento. Forza Italia infatti avverte: “D’accordo sul contenuto ma non voteremo”. D’altra parte il Movimento lancia un altolà  alla Lega. Se non ci sarà  lealtà  sulla prescrizione, non ci sarà  sul dl sicurezza, è la posizione dei vertici M5S riassunta da Stefano Patuanelli, capogruppo 5S in Senato. “La nostra lealtà  sul dl sicurezza – ha chiarito – non può prescindere da quella della Lega sul tema della prescrizione. Per il Movimento 5 Stelle pene più severe non hanno senso se non sono anche certe”. Il decreto sicurezza deve passare ancora al vaglio della Camera.
Salvini: “Quale vertice? Vedo la Champions”
L’irritazione del leader della Lega per l’altolà  grillino arriva a stretto giro di agenzie. “Ma quale vertice? Stasera vedo la Champions”. Una frase che ricorda il sarcasmo usato dal vicepremier del Carroccio nei confronti dei leghisti in un’altra circostanza: il vertice di maggioranza dopo il caso della presunta “manina” sul condono fiscale. In precedenza, dopo la richiesta di fiducia, Salvini aveva esultato: “Dopo mesi di lavoro, arriva il voto finale al Senato sul decreto sicurezza e immigrazione, con il quale vorrei regalare a questo Paese un po’ di regole e un po’ di ordine”. Quanto alla prescrizione: “Una cosa alla volta: fatemi dare il pacchetto sicurezza-immigrazione agli italiani e il secondo punto saranno i processi veloci, che bastonino corrotti e corruttori, però non voglio che 60 milioni di italiani abbiano un processo che non si sa quando finisce”.
Il caso del cdm fantasma
È una sorta di giallo, intanto, il caso del Consiglio dei ministri che ha autorizzato la fiducia all’emendamento sostitutivo del decreto sicurezza. Nell’arco della giornata si sono rincorse voci persino su una riunione ad hoc del Cdm. Voci poi smentite. “Abbiamo chiesto esplicitamente al ministro Fraccaro – ha detto il capogruppo Pd Andrea Marcucci – di dirci se e quando un Consiglio dei ministri ha autorizzato a porre la fiducia sul testo. Altrimenti dobbiamo pensare a un Cdm ‘fantasma’. E Fraccaro ha risposto semplicemente che non era tenuto a darci una risposta”. Fonti vicine al ministro per i Rapporti con il Parlamento replicano che le cose stanno esattamente in quei termini in quanto l’autorizzazione alla fiducia “è un atto endogovernativo”.
I due rinvii della mattinata
Il sottosegretario all’Interno Molteni, in mattinata, era sceso in campo annunciando un emendamento e chiedendo una sospensione fino alle 13. Poi è arrivata una nuova richiesta di slittamento fino alle 16.30. Il Pd si è subito dichiarato contrario allo stop. Ma in realtà  fonti M5S hanno fatto sapere che la partita della fiducia è ancora condizionata all’accordo sulla prescrizione, con il Carroccio sempre fermamente contrario allo stop della decorrenza dei termini dopo la sentenza di primo grado. Tanto che alla Camera – in commissione Affari costituzionali e giustizia – c’è stato uno slittamento dei lavori. Con tensione e urla tra Cinquestelle e Pd. E il voto resta congelato fino a domani alle 14.

(da agenzie)

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ELEZIONI MIDTERM, GLI STATI DOVE SI DECIDE IL DESTINO DI TRUMP

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

MOLTI STATI IN BILICO, AFFLUENZA RECORD

Le elezioni di midterm sono una sorta di incubo per i presidenti in carica, dal 1934 solo due presidenti hanno vinto l’appuntamento di metà  mandato: Franklin Delano Roosevelt e George W. Bush.
Secondo i sondaggi lo stesso destino potrebbe toccare a Donald Trump.
Quello dell’anatra zoppa, quando il presidente si ritrova senza la maggioranza del Congresso che lo sostiene e quindi, vede attenuata la sua forza legislativa nel secondo biennio del suo mandato.
Al di là  dei molteplici pronostici la cui attendibilità  è dimostrabile solo a posteriori, l’esito della lunga notte elettorale americana è profondamente incerto.
I sondaggi raccontano una sfida a portata di mano per i democratici, ai quali più che l’efficacia della loro strategia elettorale (in un voto profondamente connotato a livello locale) viene in soccorso la matematica: il Senato, dove hanno più seggi da difendere tra i 35 che saranno rinnovati, dovrebbe restare nelle mani dei repubblicani; per il ragionamento opposto, alla Camera i dem sono dati in discreto vantaggio, perchè qui il partito del presidente Donald Trump ha molti più collegi da difendere (o da perdere).
Tendenza fisiologica, visto che in media chi governa perde circa trenta seggi alle elezioni di Midterm, e ai dem ne bastano 23 per capovolgere gli equilibri e azzoppare Trump.
Ma dove si giocano le sfide decisive?
Dalla California al Texas passando per il Midwest che tanto contribuì alla vittoria di Trump alle presidenziali di due anni fa: sono circa venti i duelli dove la posta in gioco è più alta, quelli definite “tossup”.
Si inizia dal Kentucky, primo Stato di cui si conoscerà  l’esito elettorale: qui nel sesto distretto la sorpresa può arrivare dalla democratica Amy McGrath, nota per essere stata la prima donna pilota di un F18 in Iraq e Afghanistan, che si troverà  di fronte un volto noto della politica locale, il senatore Andy Barr.
Due anni fa Trump ha vinto in scioltezza contro Clinton ma ora, oltre all’appeal ormai offuscato di Barr, può certamente giocare un ruolo la guerra commerciale avviata da Trump che ha avuto ripercussioni sul prezzo del bourbon e sui costi di produzione d’auto della Toyota. Se vincesse McGrath, sarebbe già  un primo segnale dei dem a Trump.
Altro scontro importante è quello in Indiana, per il Senato: un seggio difficile ma non impossibile da difendere per i democratici guidati dal “conservatore” Joe Donnelly, contrapposto al repubblicano Mike Braun.
Qui il vicepresidente Usa Mike Pence è di casa, e alle presidenziali Trump distaccò la Clinton di 19 punti. Interessanti per il Senato le sfide, in bilico, per l’Arizona e Nevada, in cui è fortissimo il tema dell’immigrazione, ma nel 2016 nel primo vinse Trump, nel secondo Clinton.
Attenzione rivolta ovviamente alla Florida, per il Senato ma anche per la scelta del nuovo Governatore: il sindaco di Tallahassee, Andrew Gillum, se la gioca con il repubblicano Ron DeSantis, trumpista della prima ora.
Se i democratici riuscissero a spuntarla potrebbero dare allo stato dell’East Coast il primo governatore nero.
Gillum nei più recenti sondaggi ha un lieve vantaggio, all’interno però del margine di errore. Ma la Florida, insieme ad altri, è swing state per eccellenza, e i repubblicani sognano di sottrarre la poltrona di senatore all’uscente Bill Nelson, grazie a Rick Scott.
In bilico è anche il settimo distretto per la Camera in Virginia: repubblicano da decenni, questa volta è considerato a rischio per il partito di Donald Trump rappresentato da David Brat, al suo secondo mandato.
Contro di lui i dem hanno schierato una donna, ex agente della Cia, Abigail Spanberger, capace nelle settimane di campagna elettorale di risvegliare la base democratica con battaglie progressiste su immigrati e assistenza sanitaria.
Se nel 14esimo distretto di New York la partita pare già  vinta da colei che la stampa americana ha battezzato come il nuovo astro democratico, Alexandria Ocasio-Cortez, più incerto è lo scontro per il Senato in West Virginia.
Al senatore dem Joe Manchin l’arduo compito di difendere il seggio dal candidato repubblicano Patrick Morrissey, un nome forse debole in uno Stato, però, che ha visto la schiacciante vittoria di Trump solo due anni fa. §
In Michigan, nell’undicesimo distretto storicamente rosso, la sfida è tra due donne alla prima esperienza nell’agone politico, almeno da protagoniste: la dem Haley Stevens contro Lena Epstein, i sondaggi danno leggermente in vantaggio la prima.
Occhi naturalmente puntati sul Texas, Stato tradizionalmente ‘rosso’. Per la Camera, da osservare il settimo distretto, un tempo roccaforte Gop, vinto di un soffio da Hillary Clinton nel 2016: il repubblicano John Culberson se la vede con la democratica Lizzie Fletcher.
La corsa per il Senato vede a confronto un vecchio leone repubblicano, l’uscente Ted Cruz, nel passato anche candidato alla Casa Bianca, e il democratico Beto O’Rourke, astro nascente del Partito democratico che potrebbe diventare il primo senatore dem del Texas da decenni.
La corsa è molto ardua ma se per caso ce la facesse per i democratici vorrebbe indicare che è partita l’onda lunga.
In Georgia, dove si vota anche per il Governatore (la dem Stacey Abrams spera di diventare la prima governatrice afroamericana ma se la dovrà  vedere con il segretario di Stato della Georgia Brian Kemp) è interessante anche la corsa per il seggio alla Camera, dove la repubblicana Karen Handel, che l’aveva spuntata per un soffio in un’elezione speciale nel 2017, se la vede con una donna che lotta per una delle battaglie storiche dei progressisti americani, il maggiore controllo delle armi: Lucy McBath ha visto un figlio morire per una lite causata da musica troppo alta.
Nel settimo distretto alla Camera in New Jersey corrono il repubblicano Leonard Lance, che rappresenta l’area dal 2008, e il democratico Tom Malinowski.
E’ un duello importante per i democratici che ci sperano (Malinowski nei due sondaggi della scorsa settimana era in entrambi davanti) così come sperano anche in Pennsylvania: alla Camera, il repubblicano Brian Fitzpatrick se la vede con il democratico Scott Wallace, che ha speso ingenti somme per la sua campagna, in particolare con la sua fondazione filantropica, la Wallace Global Fund.
Una volta chiusi anche i seggi in Colorado, Louisiana, Nebraska, New Mexico e Wisconsin, se ancora non sarà  chiaro l’esito del Midterm si dovrà  guardare al Minnesota: alla Camera il repubblicano Erik Paulsen sfida il democratico Dean Phillips nel sobborgo di Twin Cities, dove Clinton vinse di nove punti.
A questo punto (alle 4.00 ora italiana) l’esito dello scontro dovrebbe essere chiaro.
Più tardi chiudono i seggi in Iowa e in Nevada, e poi la California, dove nel decimo distretto della Camera il navigato Jeff Denham si troverà  di fronte un giovane democratico, Josh Harder, che potrebbe dargli parecchio filo da torcere.
Alle sei chiuderanno gli ultimi seggi, quelli delle Hawaii e dell’Alaska. Ma a quel punto Donald Trump avrà  già  capito con quale passo, se spedito o claudicante, correrà  verso le presidenziali del 2020.

(da “Huffingtonpost”)

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L’UE COLPIRÀ IN PIENA CAMPAGNA PER LE EUROPEE: PROCEDURA PER DEBITO ECCESSIVO A INIZIO ANNO

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

TRIA LASCIA IN ANTICIPO L’ECOFIN, NON HA CONVINTO NESSUNO, COME AL SOLITO

A ottobre era ripartito per Roma subito dopo la riunione dell’Eurogruppo, saltando a piè pari la riunione dell’Ecofin, il consiglio dei ministri economici dell’Ue che segue sempre i vertici dei ministri della zona euro.
La giustificazione di allora erano state le discussioni a Roma sulla manovra economica.
Ma anche oggi Giovanni Tria è partito in anticipo per Roma. Il ministro dell’Economia lascia l’Ecofin oltre un’ora prima della fine dei lavori. Torna in Italia, per cercare di rimettere insieme (in un nuovo vertice di maggioranza) i cocci di una manovra economica che resta indigesta per l’Ue.
Tria non ha convinto i partner dell’Eurogruppo. E ora, se entro il 13 novembre Roma non cambia il documento programmatico di bilancio bocciato dalla Commissione Europea, Bruxelles è pronta ad aprire una procedura per disavanzo eccessivo relativo al debito nei confronti dell’Italia: non subito, ma nel pieno della campagna elettorale per le europee 2019. È questa la novità .
Al termine di due giorni di vertici, le carte in tavola restano invariate, malgrado gli sforzi di Tria di aprire un canale di dialogo con gli europei.
“Ieri per la prima volta abbiamo potuto ascoltare le sue ragioni”, dichiara con una certa enfasi il presidente di turno dell’Ecofin, il ministro austriaco Hartwig Loeger, nella conferenza stampa finale insieme al vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis.
“Ma poi abbiamo ascoltato tutte le opinioni degli altri ministri dell’Eurogruppo: tutti sostengono l’approccio scelto dalla Commissione”, continua.
E l’approccio della Commissione è semplice, lo spiega Dombrovkis: “L’Italia ha ancora diversi giorni per produrre una risposta”, entro il 13 novembre, “se non cambia il documento programmatico di bilancio, dobbiamo riconsiderare la decisione presa l’anno scorso di non aprire una procedura per disavanzo eccessivo, ai sensi dell’articolo 126 del trattato sul funzionamento dell’Ue”.
Il problema è sempre quel deficit al 2,4 per cento del pil, in rialzo rispetto alle promesse dell’anno scorso, sbagliato perchè “l’Ue – dice Dombrovskis – è al sesto anno di crescita consecutiva dopo la crisi e in questo ciclo economico sarebbe bene non aumentare il debito ma ridurlo”.
Ecco, però la novità  dei vertici di ieri e oggi a Bruxelles sta proprio nella decisione dei leader europei, in testa il commissario agli Affari Economici Pierre Moscovici, di rallentare la gestione del dossier Italia.
La procedura non scatterà  entro la fine dell’anno. Molto probabilmente, non verrà  chiesta il 21 novembre, quando la Commissione si esprimerà  su tutti i documenti di bilancio presentati dai paesi della zona euro.
Prenderà  altro tempo, probabilmente altre due settimane. Anche se a Palazzo Berlaymont, sede della Commissione, non sono nati ieri e hanno capito perfettamente che a Roma chi ha la golden share del governo – Luigi Di Maio e Matteo Salvini – non vuole cambiare quel 2,4 per cento che ha scandalizzato l’Europa e che serve per finanziare reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni.
Eppure, pur sapendolo, ci andranno piano, agiranno “passo dopo passo”, come diceva ieri Moscovici, per arrivare ad una conclusione che per ora sembra irrinunciabile: procedura d’infrazione l’anno prossimo.
Perchè così lenti? Innanzitutto perchè questa è materia che scotta anche a livello europeo.
Pur prevista dai trattati, una procedura per disavanzo eccessivo legata al debito non è mai stata aperta nei confronti di alcuno Stato della zona euro.
L’Italia, paese fondatore dell’Ue, sarebbe la prima, farebbe insomma da cavia. Le conseguenze sono incalcolabili, essendo la prima volta: non solo per l’Italia ma per tutta la zona euro. E la Commissione vuole evitare che gli schizzi di questa storia arrivino fuori dall’Italia.
Presa alla lettera, la procedura obbligherebbe Roma ad un piano di riduzione del debito del 5 per cento ogni anno, pari a 60 miliardi del pil, per tre anni consecutivi. Una bomba.
Probabilmente non verrà  applicata alla lettera, ma sarà  comunque una sanzione pesante. Pronta a scoppiare in campagna elettorale. Conviene pure qui a Bruxelles.
La procedura contro l’Italia, la punizione per una manovra che ha fatto scattare in piedi tutta l’Ue a sostegno della Commissione contro Roma, può essere argomento forte per la campagna elettorale non solo per i sovranisti italiani.
Loro, Salvini in testa, la userebbero contro l’Ue. I leader dei partiti tradizionali europei la sfrutterebbero in difesa, con la coscienza a posto o almeno con la consapevolezza di aver sfruttato tutto il tempo possibile prima di attivarla: arma politica contro i nazionalismi.
“Quello che abbiamo usato come fattore rilevante negli anni scorsi, quando l’Italia non ha assicurato questa riduzione del 5% ogni anno, è il rispetto complessivo del patto di stabilità . Attualmente non è più così, ma dobbiamo aspettare il 13 novembre per averne conferma: questo potrebbe servire come base per aprire una procedura per deficit eccessivo basata sul debito”, conclude Dombrovskis.
Ora la palla è a Roma. Sarà  il vertice di maggioranza a decidere.
Qui a Bruxelles si fanno pronostici: ci si aspetta un documento programmatico di bilancio rivisto al massimo nella destinazione delle spese in deficit o nella scelta di prorogare l’entrata in vigore delle misure più pesanti come il reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni.
Così non peserebbero sul deficit, che non schizzerebbe subito al 2,4 per cento previsto.
Ma, anche se così fosse, non basterà  ai partner europei, assetati di vendetta contro chi non rispetta le regole e disturba la campagna elettorale nei paesi rigoristi: proprio così.

(da “Huffingtonpost“)

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LE FREGNACCE DI DI MAIO SULLE ARANCE IN CINA

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

“DA OGGI LE ARANCE SICILIANE POTRANNO ESSERE ESPORTATE IN CINA VIA AEREA”… PECCATO CHE LO ABBIA GIA’ OTTENUTO LA REGIONE SICILIA DA GENNAIO 2018

Grandi notizie dalla nuova missione cinese del ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio. L’annuncio arriva direttamente dal China International Import Export di Shangai dove oltre al ministro sono presenti anche numerose aziende italiane.
Di Maio ha annunciato che da oggi le arance siciliane potranno essere esportate in Cina per via aerea: «una grande novità  per le imprese non solo siciliane, ma di tutto il Paese».
Alla faccia di tutti quelli che dicono che il governo non sta facendo nulla ecco la dimostrazione che Di Maio si sta davvero facendo in quattro.
Come spiega in un post pubblicato sul Blog delle Stelle «già  nella mia prima visita in Cina, la Sicilia era ed è nel mio cuore, perchè avevo chiesto all’ambasciata italiana qui in Cina, di sbloccare il problema delle esportazioni degli agrumi dall’Italia verso la Cina, che si potevano fare soltanto via nave».
Ed è vero, fino a non molto tempo fa le arance siciliane potevano essere esportate in Cina solo via nave.
Il primo via libera all’export degli agrumi siciliani era stato dato nel febbraio del 2017 dopo la chiusura del protocollo fitosanitario con Pechino che aveva aperto il mercato cinese alle arance siciliane.
Rimaneva però la limitazione relativa al fatto che i prodotti potessero essere esportati solo per via marittima.
È questo il successo di Di Maio? No.
Perchè a gennaio del 2018 la Regione Siciliana aveva concluso l’iter per l’apertura del canale di commercializzazione degli agrumi siciliani in Cina che aveva aperto alla possibilità  di esportare le arance anche per via aerea. Proprio quello che ha annunciato Di Maio ieri.
Da come la racconta il Capo Politico del M5S sembra quasi che prima non ci fosse alcun accordo e che nessuno avesse mai pensato di esportare le arance siciliane in Cina. Ma non è vero.
Non è certo la prima volta che il governo a 5 Stelle si appropria di decisioni avvenute prima del suo insediamento o presenta come clamorose vittorie leggi varata dai famigerati governi precedenti.
Era successo quando Di Maio aveva annunciato di aver “confermato” l’Opzione Donna per il pensionamento anticipato sostenendo di essere riuscito a mantenere l’ennesima promessa e denunciando l’immobilismo del governo precedente.
Peccato che quel provvedimento fosse stato introdotto proprio da un governo precedente.
Ma c’è di più, secondo il ministro dello Sviluppo Economico in Cina c’è una grande richiesta del nostro made in Italy, il che è senz’altro vero, e grazie a questo accordo le imprese «avranno un modo in più per portare all’estero questo genere di prelibatezze».
Il problema è che non stiamo parlando di prodotti che all’estero sono visti come un’eccellenza tipica italiana ad alto valore aggiunto e che quindi giustificano un ricarico notevole (come ad esempio può essere il caso di una bottiglia di Brunello di Montalcino o di Prosecco).
Stiamo parlando di arance e agrumi, prodotti che a causa del prezzo molto basso (parliamo mediamente di 40 centesimi al chilo pagati all’ingrosso) a volte gli agricoltori preferiscono lasciare sugli alberi perchè non c’è margine di guadagno.
È evidente che spedirle via aereo, con tutti i costi che comporta anche a livello logistico non è poi così conveniente. Anche perchè vanno aggiunte anche le tasse doganali.
Una volta arrivate sul mercato cinese poi le arance siciliane e italiane dovranno fare i conti con la concorrenza cinese. Eh sì, perchè la Cina oltre ad essere il paese di provenienza dell’arancia — il cui nome scientifico è infatti Citrus sinensis — è diventata anche uno dei principali produttori di arance, addirittura della varietà  siciliana Tarocco.
Certo, magari ci sarà  qualche ricco cinese disposto a comprare arance italiane, della stessa varietà  coltivata in Cina, a 15 euro al chilo, ma difficile che grazie a questa operazione si possa rilanciare la produzione agroalimentare italiana.
A meno di non rendere la produzione di agrumi nostrani molto più conveniente di quelli locali, il che significa abbassare i costi di produzione, ovvero dare meno soldi a chi le arance siciliane le coltiva o le raccoglie.
Il tutto mentre nei supermercati italiani si trovano più spesso prodotti provenienti dalla Spagna o dal Marocco.
Una geniale idea di sviluppo economico.

(da “NextQuotidiano”)

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ABUSIVISMO, PERCHE’ I COMUNI NON DEMOLISCONO

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

IN SICILIA ESEGUITA UN’ORDINANZA DI ABBATTIMENTO SU OTTO … IL SOTTERRANEO PATTO DI RESISTENZA ILLEGALE TRA ENTI LOCALI E CITTADINI

Nove morti dentro una villetta abusiva che avrebbe dovuto essere demolita dal 2011, data in cui il Tar di Palermo dichiarò chiuso il contenzioso nato dal ricorso presentato dai coniugi Antonino Pace e Concetta Scurria, proprietari dell’immobile poi affittato alla famiglia Giordano, cancellata dalla massa di acqua e fango.
Dai primi rilievi saltano fuori le prime responsabilità  omissive, in questo caso del Comune di Casteldaccia, guidato dal sindaco Giovanni Di Giacinto (Pd) che “a caldo” aveva tentato di scaricare ogni accusa sul Tar: “Sul ricorso non è intervenuto” — aveva detto accusando i giudici e costringendo l’ufficio stampa del Consiglio di Stato a una inusuale ma ferma smentita: “Nel 2011 il giudizio al Tar si è concluso e l’ordinanza di demolizione del sindaco non è stata annullata; nè il Comune si è mai costituito in giudizio. Quindi, in questi anni, l’ordinanza di demolizione poteva — e doveva — essere eseguita.
Non solo. Di Giacinto e il suo vice Fabio Spatafora sono stati citati in giudizio nell’agosto scorso per un danno erariale di 239mila euro dalla Procura della Corte dei Conti: negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, “avrebbero consentito agli autori degli illeciti di continuare a beneficiare degli immobili realizzati abusivamente, senza corrispondere alcuna indennità  di utilizzo, nè la tassa sui rifiuti e gli altri tributi previsti dall’ordinamento, con conseguente danno per le casse del Comune”.
È la foto della permissività  che ha tenuto in piedi la villetta della tragedia, a cui il sindaco di Casteldaccia, deputato regionale del Pd nella scorsa legislatura, non sembra estraneo anche quando si tratta di riscuotere le tasse dei contribuenti e che l’anno scorso si è trasformata in un’accusa di abuso di ufficio: Di Giacinto è tuttora processato a Termini Imerese per avere compiuto sgravi per oltre 120 mila euro sul portale Equitalia, “operando con una propria password” a favore di cittadini di Casteldaccia destinatari di cartelle esattoriali, dalla tassa sui rifiuti, all’Imu, alle multe per violazioni del Codice della strada.
E mentre i giudici incassano anche la solidarietà  dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi, la tragedia del Milicia appare come l’ennesimo dramma dell’abusivismo in una terra in cui demolire un immobile abusivo è un’impresa titanica.
In Sicilia pendono quasi ottomila ordinanze di abbattimento, ma solo poco più di 1.000 sono state messe in esecuzione.
Ora il presidente della Regione Musumeci minaccia l’invio di commissari ad acta visto che alla sua nota del maggio scorso (reiterata a settembre e inviata ai 390 Comuni dell’isola) hanno risposto in 39, appena il 10 per cento.
E tra questi non c’è il Comune di Casteldaccia, al centro del territorio siciliano più a rischio alluvioni, secondo il report Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), rischio puntualmente segnalato invano nella “relazione del marzo 2012 per la Revisione del Piano regolatore generale” che parlava di “aste torrentizie in fase di approfondimento e da aree esposte a possibili fenomeni di esondazione”.
Per la provincia di Palermo non è per nulla un’eccezione: secondo un monitoraggio del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, 75 Comuni su 82 non abbattono le case abusive. Lamentano mancanza di fondi, ma come ha denunciato Scarpinato nel marzo 2017, “ciò che è più grave è che al costruttore abusivo non viene irrogata la sanzione prevista dalla legge fino a 20 mila euro”.
“Se fosse stata applicata in tutti i casi in cui è stato ingiunto di demolire — ha concluso il pg — arriveremmo ad alcuni milioni di euro necessari a finanziare i Comuni per le demolizioni”.
Cittadini e amministratori spesso legati da un patto di resistenza illegale che ha partorito anche soluzioni bizzarre di “legalità  elastica”: a Triscina, capitale siciliana dell’abusivismo, dove le case sono costruite sulla spiaggia, hanno proposto di riempire il mare di sabbia per ripristinare il limite dei 150 metri imposto dalla legge.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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DALLA MANOVRA SPARISCE IL TAVOLO SUL CAPORALATO

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

“ISPETTORI? CONTROLLANO A SFRUTTAMENTO AVVENUTO, QUANDO INVECE DOVREBBERO PREVENIRLO”

Nella bozza del 29 ottobre c’era. In quella del 31 ottobre, poi trasformata nella versione ufficiale bollinata e approvata dal Quirinale per la trasmissione alle Camere, non c’era più.
Sono bastate 48 ore perchè l’annunciato tavolo sul caporalato sparisse dalla legge di bilancio.
A pagina 20 della bozza del 29 ottobre si legge che “Il Fondo nazionale per le politiche migratorie (…) è incrementato di 3 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2019”. L’aumento servirà  a finanziare la “spesa relativa agli oneri di funzionamento” del “Tavolo caporalato”, che viene istituito “presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.
Il comma 3 specifica poi che l’organismo è “presieduto dal Ministro del Lavoro“, è composto da non più di 15 rappresentanti dei dicasteri di Interno, Politiche agricole e Trasporti, dell’Anpal, dell’Ispettorato nazionale del lavoro, dell’Inps, dei Carabinieri, della Finanza e delle Regioni. Ma partecipano alle riunioni anche “datori di lavoro, lavoratori del settore e organizzazioni del terzo settore”. Un organismo articolato il cui scopo è quello “di promuovere la programmazione di una proficua strategia per il contrasto al fenomeno e del connesso sfruttamento lavorativo in agricoltura”.
Neanche due giorni dopo, però, il riferimento è scomparso.
All’articolo 25 della bozza del 31 ottobre è rimasto solo l’incremento del Fondo. Nessun “Tavolo caporalato”, nessuna collaborazione tra ministeri, nessuna programmazione di una strategia per contrastare un fenomeno che affligge l’agricoltura e che è emerso il tutta la propria violenza in estate, dopo i fatti di Vibo Valentia e la strage di braccianti sulle strade del foggiano.
Dall’entourage del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, sotto la cui responsabilità  sarebbe dovuto ricadere l’organismo ora dicono che “verrà  inserita con un emendamento nel primo provvedimento utile”.
Era stato proprio in occasione dell’uccisione di Soumaila Sacko a San Ferdinando in Calabria che il governo aveva fatto una promessa precisa: “Il caporalato è un fenomeno complesso che non si risolve solo con una legge, ma con la presenza dello Stato“, spiegava il 4 luglio Di Maio annunciando l’apertura di un tavolo interministeriale.
Di Maio ne faceva un problema di mancati controlli: “Le leggi ci sono già , ma lo Stato ancora non è attrezzato per controllare — spiegava il vicepremier — Il mio obiettivo è fare un concorso straordinario per gli ispettori del lavoro perchè servono più ispettori”.
Promessa, questa, mantenuta nella legge di bilancio, che all’articolo 35 autorizza l’Ispettorato nazionale ad assumere “un contingente di personale ispettivo pari a 300 unità  a decorrere dall’anno 2019, a 300 unità  a decorrere dal 2020 e a 400 unità  a decorrere dal 2021″. Mille ispettori in più da assumere in 3 anni.
“Mi sembra una risposta di basso profilo — spiega Marco Omizzolo, sociologo, responsabile scientifico della coop In Migrazione — Nella sola provincia di Latina il loro numero dovrebbe essere triplicato per riuscire a intervenire su 9mila aziende agricole. Poi ci sono quelle edili, i cantieri, la distribuzione… A prescindere dal fatto che gli ispettori del lavoro non si occupano soltanto della lotta al caporalato”.
Eppure l’iter per il tavolo nazionale era stato avviato
A cosa serve un tavolo sul caporalato? “E’ un impegno che la politica prendere per mettere a confronto i ministeri competenti con persone e associazioni che sono esperte del tema — prosegue Omizzolo, che è anche ricercatore Eurispes — In assenza del tavolo manca il raccordo tra chi sa ciò che avviene nelle campagna e il decisore politico. La risposta che il governo ha deciso di dare con l’assunzione di ispettori equivale a intervenire quando lo sfruttamento è già  avvenuto, mentre il tavolo serve per programmare politiche e interventi in grado di prevenirlo. Così manca uno strumento di indirizzo politico di cui il governo avrebbe potuto dotarsi per contrastare il fenomeno alla radice”.
“L’assenza di un impegno programmatico su questo tema — prosegue Omizzolo — si somma alle conseguenza del decreto Salvini, che colpisce la seconda accoglienza, ridimensionando il sistema Sprar, e rafforza la prima accoglienza, quella dei Centri straordinari. Quello che sta emergendo nei territori è un legame sempre più stretto tra caporalato e cattiva prima accoglienza, con i Cas che diventano di fatto centri in cui caporali e padroni vanno a reclutare persone da sfruttare nelle campagne. Questo avviene in Puglia, in Campania, in Calabria, nel Lazio, ma anche nel Nord Italia”.
Perchè il fenomeno riguarda l’intero territorio nazionale: “Gli ultimi dati parlano di 410mila persone che nel 2017 sono vittime di grave sfruttamento lavorativo, della presenza di 26 clan rilevata nel sistema agro-mafioso. Nel 2017 le forze dell’ordine hanno registrato 3 denunce al giorno nei confronti di padroni e padrini — conclude il sociologo — da un lato la legge 199 dà  risultati perchè si aprono i processi, dall’altra parte c’è una politica che quando c’è il lutto dichiara guerra al caporalato e poi nei provvedimenti che prende neanche contempla il tema”.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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SONDAGGIO DA BRIVIDI: PER IL 44% DEI CAMPANI LA CAMORRA NON SAREBBE UN PROBLEMA

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

INCHIESTA DI LIBERA: IL 31,6% DEI CITTADINI VEDE LA MAFIA COME QUALCOSA DI MARGINALE

Il 31,6% dei cittadini campani vede la mafia come qualcosa di marginale o non socialmente pericoloso, il 12,2% la considera solo un fenomeno di letteratura.
Sono alcuni dei dati più significativi che emergono dall’indagine su percezione e presenza delle mafie e della corruzione condotta da Libera in tutte le regioni nell’ambito del percorso ‘Liberaidee’, che da oggi all’11 novembre vedrà  l’associazione impegnata in una serie di iniziative di informazione e sensibilizzazione.
Il rapporto nasce da 10mila questionari somministrati a livello nazionale, 616 dei quali in Campania, coinvolgendo in particolare gli under 18 e i giovani tra i 18 e i 25 anni.
Vista l’alta percentuale di studenti intervistati, oltre sei su dieci, colpisce come in questa fascia ci sia una scarsa consapevolezza dei fenomeni mafiosi e corruttivi, considerando che il movimento anticamorra campano è nato anche in questi ambienti, oltre che tra gli operai e i braccianti agricoli, anch’essi distanti da una percezione corretta.
C’è un forte distacco dalla politica: solo il 16,9% dei campani si definisce impegnato (+5% rispetto alla media nazionale), il 46,8% pensa che sia sufficiente tenersi al corrente, l’8,6% si dice disgustato dalla politica, in linea con il dato italiano.
Nel Paese il fenomeno mafioso è percepito come globale (74,9%), mentre in Campania la percentuale scende al 59,4% e il dato di chi lo ritiene una specificità  del Sud è quasi il quadruplo rispetto al resto dell’Italia (7,5% contro 2,1%).
Per gli intervistati la principale attività  della mafia in Campania è il traffico di droga (70,8%, il 59,8% in Italia), l’estorsione (40%) e il traffico di rifiuti (27%).
In quest’ultimo caso la percezione è doppia rispetto al dato nazionale, così come per gli omicidi. Alla domanda ‘Cosa ti toglie di più la mafia?’, nel dato complessivo prevale l’idea della libertà , mentre in Campania primeggiano sicurezza, lavoro e futuro.
Sul fronte della corruzione, in Campania è piu’ alta la percezione del fenomeno (92,7% contro il 73,4% complessivo) e la metà  del campione ritiene che sia molto presente sul proprio territorio, anche in virtù di esperienze personali.
Tra le figure considerate più corrotte ci sono i politici, principalmente rappresentanti del Governo, parlamentari ed esponenti dei partiti.
Il 64,3% non denuncia perchè teme ripercussioni, mentre un terzo dei campani lo giudica un atto inutile perchè ritiene corrotti anche i funzionari pubblici, segno di una sfiducia generalizzata.
“Alcuni dati sono altamente preoccupanti – riflette Fabio Giuliani, referente di Libera in Campania – mentre su altri fronti il rapporto ci dice che stiamo andando nella giusta direzione. È prioritario lanciare una grande sfida educativa, partendo dalle politiche dell’istruzione”.
Per il responsabile della ricerca, Mariano Di Palma, “non si puo’ affidare l’educazione alla legalità  a eventi spot, all’interno di istituti scolastici che si trasformano sempre piu’ in ‘progettifici’. Bisogna recuperare un senso di mobilitazione civile generale e valorizzare le esperienze straordinarie presenti sui territori anche per dare una speranza per il futuro”.

(da Globalist)

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MA PERCHE’ A ROMA LANZALONE E’ INAMOVIBILE, NONOSTANTE SIA ANCORA AGLI ARRESTI DOMICILIARI PER CORRUZIONE?

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

FA ANCORA PARTE DEL CDA DI ACEA… QUANDO LA RAGGI CHIEDEVA DI CACCIARE INDAGATI E CONDANNATI

Altro che culo di pietra: Lanzalone è inamovibile.
L’avvocato chiamato a Roma da Virginia Raggi su suggerimento dei ministri Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro e diventato presidente di ACEA si trova ancora agli arresti domiciliari e rischia di finire sotto processo per i reati di corruzione e traffico di influenze illecite.
Eppure risulta essere ancora membro del consiglio di amministrazione della municipalizzata la cui quota di maggioranza è detenuta dal Comune di Roma.
Dopo la deflagrazione dell’inchiesta su Parnasi e lo Stadio della Roma Luca Lanzalone aveva rinunciato all’incarico di Presidente di ACEA (al suo posto a giugno il Cda ha nominato Michaela Castelli) ma a quanto pare non ha rinunciato al posto da consigliere. E nessuno evidentemente gli ha chiesto di farsi da parte.
Sul sito della società  Lanzalone infatti figura tra i membri del CdA della società  quotata in borsa.
A segnalarlo nei giorni scorsi è stata Ilaria Sacchettoni che sul Corriere della Sera spiegava che la decadenza di Lanzalone da membro del CdA non è mai stata sottoposta all’attenzione dell’assemblea da parte degli azionisti.
Ci aspettava forse che Lanzalone, dopo aver fatto un passo indietro dal ruolo di presidente si dimettesse anche dal consiglio di amministrazione. Così non è stato e il Comune di Roma, che è l’azionista di maggioranza che aveva indicato Lanzalone al ruolo di presidente, non ha mosso un dito.
Il risultato è che al momento Lanzalone, indagato e agli arresti domiciliari, continua a prendere il suo compenso da consigliere di ACEA anche se è impossibilità  dal presenziare alle sedute del CdA.
Così facendo il Comune di Roma — guidato dalla banda degli onesti del M5S — di fatto non prende le distanze da Lanzalone.
E se per tutti gli altri vale il principio che ognuno è innocente fino a prova contraria è noto come il partito di Di Maio veda le cose. Ci si ricorderà  di quando nel settembre 2015 Virginia Raggi chiedeva su Twitter di «cacciare indagati e condannati». Lanzalone è indagato eppure è ancora lì.
Perchè questa regola ferrea vale per tutti tranne ovviamente che per i 5 Stelle e i loro amici, che essendo onesti per definizione anche quando sono indagati.
Emblematico in questo senso è il caso della sindaca di Roma, che è attualmente sotto processo con l’accusa di falso ma che non solo non si è dimessa (in spregio alle regole del suo partito) ma che addirittura potrebbe rimanere al suo posto anche in caso di condanna in primo grado.
Ma non è solo Lanzalone a rimanere fermamente in sella. Anche Fabio Serini presidente dell’Ipa, l’ente di previdenza dei dipendenti comunali del Campidoglio, è ancora al suo posto.
Serini venne nominato su suggerimento di Lanzalone e a fine ottobre è stato iscritto sul registro degli indagati per concorso in corruzione e traffico di influenze illecite dalla Procura di Roma.
Dalle carte dell’inchiesta è emerso che Serini aveva affidato «incarichi remunerati» allo studio legale di Lanzalone.

(da “NextQuotidiano”)

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PONTE MORANDI: INVECE CHE INIZIARE A DEMOLIRE IL SINDACO VA A SHANGHAI A CERCARE CHI PUO’ RICOSTRUIRLO

Novembre 6th, 2018 Riccardo Fucile

COME SE IN ITALIA NON ESISTESSERO AZIENDE IN GRADO DI FARLO… IL PONTE NON E’ UN BUSINESS COMMERCIALE, E’ UNA ESIGENZA DEI GENOVESI

È la Via della Seta la strada che potrebbe portare Genova a superare le emergenze. Compresa quella del crollo del Morandi. La strategia adottata dal sindaco del capoluogo Marco Bucci e dal presidente dei porti di Genova e Savona, Paolo Signorini, è semplice: mettere sul piatto le infrastrutture di cui il capoluogo ha urgente bisogno e attirare i cinesi in un accordo commerciale .
Signorini e Bucci sono arrivati a Shanghai domenica in una missione “parallela” a quella del governo, guidata dal vicepremier Luigi Di Maio.
Nei tre giorni di permanenza hanno proposto agli investitori le grandi infrastrutture che sosterranno lo sviluppo del primo porto d’Italia.
Il sindaco, che è anche commissario, ha incontrato il colosso statale delle costruzioni, la China Communication Construction Company. La suggestione piace agli investitori orientali perchè è poco onerosa in termini economici (meno di 200 milioni), ma offre un grande ritorno di immagine.
In cima alla lista dei danni collaterali della guerra tra Autostrade e governo, c’è la Gronda. La realizzazione dell’opera era inserita nell’accordo per l’allungamento della concessione, ma se ci sarà  scontro tanto vale cercare un’alternativa.
Ecco perchè anche l’opera è entrata di prepotenza sul tavolo degli incontri in Cina. Così come la diga, che potrebbe diventare la chiave per far entrare i cinesi nel porto di Genova.
Pechino vorrebbe anche i binari («Siamo la porta dell’Europa Occidentale» ha spiegato Signorini agli investitori) e sarebbe disponibile a entrare tra le aziende costruttrici e a realizzare le opere connesse al Terzo Valico.
Ma qualcuno che pensi solo a ricostruire il ponte crollato e non a fare affari c’e’ in circolazione?

(da agenzie)

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