Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
L’ANNUNCIO DI MEDICI SENZA FRONTIERE: “TUTTI HANNO PAURA A DARCI UNA BANDIERA, I GOVERNI NON VOGLIONO TESTIMONI AI LORO CRIMINI”… MA IL MONDO GIRA, UN GIORNO QUALCUNO NE RISPONDERA’ E NON CI SARANNO SCONTI PER NESSUNO
Le ong Msf e Sos Mèditerranèe lo hanno annunciato questa sera: “Dopo due mesi in porto a Marsiglia senza riuscire a ottenere una bandiera, e mentre uomini, donne e bambini continuano a morire in mare, Msf e SOS Mèditerranèe sono costrette a chiudere le attività della nave Aquarius. Una scelta dolorosa, ma purtroppo obbligata, che lascerà nel Mediterraneo più morti evitabili, senza alcun testimone”.
Dopo due mesi in porto a Marsiglia senza riuscire a ottenere una bandiera, e mentre uomini, donne e bambini continuano a morire in mare, Msf e Sos Mèditerranèe sono costrette a chiudere le attività della nave Aquarius. Una scelta dolorosa, ma purtroppo obbligata, che lascerà nel Mediterraneo più morti evitabili, senza alcun testimone”.
E’ l’annuncio di Claudia Lodesani di Msf.
“In un crescente clima di criminalizzazione dei migranti e di chi li aiuta, si perde di vista il principio stesso di umanità . Finchè le persone continueranno a morire in mare o a subire atroci sofferenze in Libia, cercheremo nuovi modi per fornire loro l’assistenza umanitaria e le cure mediche di cui hanno disperatamente bisogno”, spiega, ricordando le tante operazioni di soccorso della nave, che hanno consentito di salvare oltre 30mila persone dal 2016 a oggi.
“Rinunciare all’Aquarius è stata una decisione estremamente difficile da prendere”, ha dichiarato Frederic Penard, direttore delle operazioni di SOS Mediterranee, che “sta già esplorando attivamente le opzioni per una nuova nave e un nuovo padiglione”.
Per spiegare questa decisione, Msf ha lamentato “gli attacchi compiuti negli ultimi 18 mesi da alcuni Stati europei” e le “affermazioni grottesche sul traffico di rifiuti e attività criminali” rivolte a entrambe le organizzazioni umanitarie.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
MANCANO LE RELAZIONI SU REDDITO E QUOTA 100, DI MAIO E SALVINI SI SCAMBIANO PENSIONI D’ORO E ECOTASSA
Giovanni Tria entra a Palazzo Chigi per l’ora di pranzo. Quando inizia il vertice di governo, intorno alle 16, ha già fatto ritorno al ministero dell’Economia.
Le relazioni tecniche sui possibili risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100 non sono pronte, e senza quelle il punto di caduta con l’Europa non si può trovare.
Una serie di complicatissime simulazioni che vertono su diverse modulazioni della stessa domanda: se da 16 miliardi il fondo per l’attuazione del programma di governo scende di un tot, cosa riusciamo a fare?
Così il vertice annunciato come decisivo è utile a trovare una quadra su una serie di aspetti laterali, ma il grande nodo ancora non viene sciolto.
Fonti di governo delineano però la sostanza del piano: dare a Bruxelles quello che chiede, portando il rapporto deficit/Pil al 2%, forse addirittura all’1,9%.
In due modi. Tagliando lo 0,2%, circa 3,5 miliardi, dal fondo, e ottenendo flessibilità sui soldi stanziati per il dissesto idrogeologico e le spese emergenziali (attualmente 3 miliardi, che potrebbero salire fino a 5), per le quali Luigi Di Maio ha annunciato “misure speciali che permetteranno ai sindaci di utilizzare velocemente quel denaro”.
Un ulteriore segnale a Bruxelles verrebbe dato attraverso uno sprint sul versante delle dismissioni, e con un piano di abbattimento del debito pubblico che, scrive l’Ansa, consterebbe anche nel pagamento dei premi di risultato ai dipendenti pubblici in Btp italiani.
Ma senza simulazioni, il piano non ha un riscontro reale sui conti pubblici.
E per la Commissione le chiacchere stanno a zero. Unito al fatto che Matteo Salvini ha tutto l’interesse a posticipare l’annuncio dell’asciugamento delle misure a dopo la manifestazione che vedrà convergere i leghisti di tutta Italia a Roma sabato prossimo, il vertice (a cui hanno partecipato oltre a Giuseppe Conte anche Riccardo Fraccaro, Laura Castelli e Massimo Garavaglia) ha limato alcuni punti che dividevano M5s e Carroccio in vista dell’approdo della manovra al Senato.
I 5 stelle incassano l’innalzamento del taglio delle pensioni d’oro dal 25% al 40%, la Lega lo stralcio di tasse sulle auto non ecologiche (rimane in campo l’ipotesi di incentivi per quelle che lo sono) e il via libera definitivo al saldo e stralcio delle cartelle di Equitalia.
Il vicepremier pentastellato aveva infatti provato a inserire le norme per decurtare gli assegni sopra i 4.500 euro già nel testo della manovra che si appresta a ricevere il via libera dalla Camera. Ma la Lega aveva sbarrato la strada, chiedendo per il lasciapassare l’inserimento della quota 100. Solo che così Di Maio sarebbe rimasto con il reddito di cittadinanza in mano e con il Carroccio passato all’incasso totale.
Alla fine non se ne fece nulla. È la logica del pedinamento reciproco che caratterizza da mesi le relazioni tra i due azionisti di governo. Ed è proprio in questo ragionamento che si colloca lo scambio odierno. All’insegna del massimo risultato per entrambi. Perchè Di Maio porta a casa un taglio molto elevato delle pensioni d’oro (fino al 40%) e Salvini, dal canto suo, ferma la tassa sulle auto inquinanti, entrata nella legge di bilancio attraverso un emendamento targato M5s.
A rendere la bilancia perfettamente in equilibrio arriva anche una misura cara alla Lega: il saldo e stralcio per le cartelle Equitalia.
Scendendo nel dettaglio delle misure, il taglio degli assegni d’oro – che arriverà con un emendamento alla manovra in Senato – dovrebbe ricalcare uno schema progressivo a scaglioni. Secondo quanto riferiscono fonti di governo a Huffpost il taglio del 40% dovrebbe riguardare i redditi che sfiorano i 500mila euro. A scendere il 16% (tra 200.001 fino a 500mila euro), il 12% (tra 130.001 e 200mila), l’8% (tra 90.001 e 130mila euro). I risparmi ottenuti andranno a sostenere i costi per innalzare le pensioni minime a 780 euro al mese.
Lo stop all’ecotassa è il bottino di Salvini. Non ci saranno penalizzazioni per le auto in circolazione, ma questo richiederà necessariamente ridurre gli incentivi per i modelli elettrici e ibridi o, in alternativa, trovare nuove coperture per garantire il bonus. Opzione quest’ultima assai complessa nella cornice di una manovra che deve necessariamente dimagrire per provare a raggiungere un’intesa con Bruxelles ed evitare così la procedura d’infrazione.
Il saldo e stralcio delle cartelle di Equitalia prevede un maxi-sconto: basterà pagare il 15% del dovuto per vedersi annullato il debito contratto con il Fisco.
Riguarderà le cartelle di medio importo, in una forbice compresa tra i 30 e i 90mila euro circa.
Una misura che Salvini ha voluto a tutti i costi, che potrà spendere anche per recuperare quella fiducia da parte degli imprenditori del Nord che si sta erodendo. Il saldo e stralcio era già frutto di un accordo politico con i 5 Stelle che non era riuscito però confluire nel decreto fiscale per il caos sul condono. Anche per questa misura la volta buona sarà il passaggio parlamentare della manovra a palazzo Madama.
Solo allora si capirà se l’auspicio di Di Maio – trattare senza tradire – si sarà rivelato accettabile per gli elettori 5s e per quelli della Lega oppure se la manovra sarà diventata alla fine un fragile specchietto per le allodole.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
LOTTI E GUERINI TENTANO DI TENERE INSIEME LA CORRENTE … ZINGARETTI PREPARA IL SUO “NUOVO PD” CON CUPERLO E CALENDA
Tana libera tutti. O meglio: Renzi libera tutti.
Ormai è chiaro che lavora a un’altra Cosa, sia pur tra mille ambiguità . Perchè i sondaggi, quelli veri, non sono così rassicuranti. Lasciando anche il grosso dei suoi al loro destino. Sconcerto. Smarrimento. Incertezza.
Il Transatlantico pare un formicaio impazzito: “E ora? — chiede un parlamentare del Sud a Boccia — Io avevo una iniziativa convocata per Minniti, che dico alla gente?”. Non è un caso isolato, anzi. Senza il proprio leader e senza il candidato al congresso c’è un intero mondo spaesato.
Nelle stesse ore Nicola Zingaretti, in un’iniziativa molto affollata all’università con Cacciari, in una sala molto affollata parla del suo “nuovo Pd”, aperto alla società civile, inclusivo, per nulla rancoroso.
L’accordo per una gestione plurale prevede Paolo Gentiloni nel ruolo di presidente, la candidatura alle Europee di Carlo Calenda al Nord, e un ruolo di primo piano per Gianni Cuperlo, l’anima più di sinistra e di “discontinuità ” radicale col renzismo.
È in questo clima che Luca Lotti, uno che va al sodo, e Lorenzo Guerini, l’altro artefice dell’operazione Minniti, si attaccano al telefono: “Fermi tutti, almeno per 24 ore. Il tema non è uscire o no, ma è costruire una corrente, tenere assieme tutti i nostri”.
Il tentativo delle prossime 24 ore è quello di costruire una diga, prima del rompete le righe finale, accelerato dalla prospettiva di una disfatta congressuale.
Perchè si capisce che l’ex segretario ha in mente un soggetto nuovo: non una scissione, fatta di ceto politico e nomenklatura, ma proprio un’altra cosa. È su questo che è maturato il gran rifiuto di Minniti.
Nel corso dell’ultimo incontro, l’ex ministro dell’Interno ha chiesto a Lotti e Guerini un impegno solenne, scritto, a considerare il Pd l’unica casa comune escludendo progetti di scissione. Fonti degne di queste nome raccontano che i due lo avrebbero anche preso ma che, alla fine di un giro di telefonate, sono stati costretti a rifiutare, perchè c’era tutta l’ala dei falchi del renzismo, Maria Elena Boschi in primis, e con lei Marattin, la Bellanova ad averlo impedito.
Perchè il cosiddetto modello “Ciudadanos” di Renzi, prevede, nell’ambito del suo mondo, sommersi (i più) e salvati (assai pochi): “Il punto — prosegue uno dei protagonista della trattativa finale con Minniti — non è tanto Renzi che ha detto ‘fate quello che volete’ ma sono i suoi, che hanno paura di rompere con Renzi, hanno paura che non se li porti nel suo partito, e dunque non hanno firmato”.
È questa la tensione che si registra all’interno di un mondo che, da protagonista, si sente trattato come una zavorra. Per intenderci: se è da escludere che nella nuova lista non ci saranno i vari De Luca, cacicchi e capibastoni vari, non è da escludere che ci sarà la Boschi, Sandro Gozi, Ivan Scalfarotto e pochi altri.
Anzi sono già nella cabina di comando, con la Boschi addirittura più determinata di Renzi sulla linea di fondare un altro soggetto fuori dal Pd, nell’illusione che ci siano le masse pronte ad accoglierlo, e con lo spirito settario che è meglio comandare in casa più piccola che sentirsi ospiti in casa altrui.
Parliamoci chiaro: non è Minniti, Zingaretti o chicchessia il tema della discussione ma l’impossibilità e l’incapacità di un pezzo di quel mondo a riconoscere un “capo” che non sia Renzi.
L’ipotesi alimenta una dinamica da “liberi tutti”. E rende urgente la decisione sul “che fare”.
C’è chi ha contattato Graziano Delrio, per valutare un sostegno a Martina. C’è chi attende di capire se davvero Renzi andrà fino in fondo perchè non è neanche facile per lui scaricare coloro che hanno condiviso le scelte, il potere, i segreti di questi anni. Dicevamo, Lotti, il pragmatico.
Fosse stato per lui, settimane fa avrebbe già strutturato la “corrente” e fatto un accordo con Zingaretti, negoziando quote di potere nella nuova gestione. Adesso è tutto maledettamente più complicato. A partire dall’ultimo tentativo di “congelare” il congresso affidando a Paolo Gentiloni il ruolo di traghettatore fino alle europee. Un’ipotesi assai poco praticabile, per l’indisponibilità dello stesso Gentiloni e degli altri due candidati che, col mondo renziano allo sbando, hanno a questo punto un congresso in discesa.
E non vivono come un dramma l’abbandono di Renzi: “In fondo — dice Debora Serracchiani — quel che sta accadendo è un elemento di chiarezza. Il tema è che il congresso serve e va fatto per costruire una opposizione forte. Punto”.
A una settimana dalla presentazione delle firme i renziani non hanno un candidato. L’idea più probabile è quella che, alla fine, sarà chiesto il sacrificio a Lorenzo Guerini, la colomba che proprio per evitare traumatiche rotture sin dal primo minuto fu artefice della candidatura di Minnini.
Con l’obiettivo di “tenere assieme la corrente di 70 parlamentari e 500 sindaci. Quanto sarà compatta, dopo il liberi tutti, è altro discorso.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
GLI ALTRI POTREBBERO SEGUIRE DOPO IL CONGRESSO PD SE VINCE ZINGARETTI
Se nuova avventura politica sarà , sarà ‘solitaria’. Almeno nella prima fase.
Matteo Renzi si muove da solo in questa nuova azione politica che potrebbe portarlo fuori dal Pd. Con lui ci sono Sandro Gozi, che da tempo spinge sulla necessità di andare oltre il Partito Democratico. Ci sono gli eurodeputati Enrico Gasbarra e Nicola Danti, sostenitori di questa opzione.
Ma, specificano fonti vicine all’ex segretario, sbaglia chi si immagina una scissione del Pd, commette un errore chi si prefigura un addio di gruppo al Nazareno: della serie, Renzi e i suoi ‘luogotenenti’ da Luca Lotti a Maria Elena Boschi. Non sarà così. Non subito, almeno. E chissà dopo.
Renzi ha cominciato a muoversi oltre il recinto del Pd, partendo dagli incontri di ieri a Bruxelles. Stamane su Facebook scrive: “Non farò mai il capo di una corrente. Faccio una battaglia sulle idee, non per due poltrone interne. Per me le correnti sono la rovina del Pd. Le correnti potevano andar bene nei partiti del Novecento: nella Dc o nel Pci. Oggi le correnti non elaborano idee ma proteggono gruppi dirigenti. E tutta la mia esperienza, fin dai tempi delle primarie da Sindaco, dimostra che io sono abituato a rischiare in prima persona, non a chiedere il permesso a qualcuno. Per cui: chiedetemi tutto ma non di fare il piccolo burattinaio al congresso del Pd”.
Briglie sciolte e niente zavorre. Ma per la definizione di questo nuovo soggetto – se davvero andrà così – bisognerà aspettare gennaio, forse anche la fine di gennaio. Certo, prima delle primarie del Pd, il 3 marzo.
Ma prima di Natale, invece, non si prevedono sviluppi di sostanza. Tanto che l’ex premier non parteciperà all’assemblea fondativa del nuovo movimento che sui social si autodefinisce cittadini2019.it, tipo ‘Ciudadanos’ in Spagna anche se quest’ultimo è movimento nato più da costole dei partiti di centrodestra e liberali che dal centrosinistra.
I ‘Cittadini’ italiani invece sono contatti noti all’ex sottosegretario agli Affari Europei Gozi, esponenti della società civile anche ex Pd. Domenica 16, in un palazzo di via Nazionale a Roma, Gozi sarà con loro. Renzi no.
I contorni della nuova iniziativa sono ancora sfumati, complicati nella gestione dei rapporti con i renziani che restano nel Pd e si sentono abbandonati dal leader, disperati alla ricerca di un candidato per il congresso. Quantomeno per contarsi. Poi, se vince Nicola Zingaretti come sembra soprattutto dopo il ritiro di Marco Minniti, si vedrà .
E’ possibile che a quel punto ci sia la vera scissione. Sempre che Renzi li voglia ancora con sè.
Di certo, si scommette nell’area, va prima creata una nuova ‘casa’ e poi si decide il destino politico dell’area renziana, che in gran parte non si immagina in un partito guidato da Zingaretti, un partito dove magari ritornano Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani.
Dunque, Renzi va avanti. Gli altri restano e seguiranno dopo, se seguiranno. Questa è l’idea di massima. Invece è ben più chiaro l’orizzonte politico di tutta l’operazione, anche alla luce degli incontri di Renzi ieri alla Commissione europea.
Innanzitutto si muove in ambito europeo: parte e torna lì, alle europee di maggio, centrali di questa fase. Va da sè che un nuovo soggetto politico vedrebbe Renzi candidato alle europee, ma anche qui niente di ufficiale. Di certo, si tratta di un’operazione che punta a stringere un’alleanza anti-sovranista già prima del voto di maggio e non dopo.
Ecco perchè ieri a Bruxelles, tra tutti gli incontri che ha avuto, Renzi si è ritrovato particolarmente in sintonia con la Liberale Marghrete Vestager.
Anche lei vorrebbe costruire un’alleanza anti-sovranista da subito, senza aspettare il voto. E’ ciò che la differenzia dai socialisti e dal loro candidato per la presidenza della Commissione Frans Timmermans, che pure ieri Renzi ha incontrato.
Il Pse rimanda ogni tipo di ragionamento sulle alleanze a dopo il voto: del resto, il sistema per le europee è proporzionale. Renzi invece anticipa, convinto com’è che i socialisti servano per questa nuova alleanza – che immagina dai Liberali, ai Popolari ai Verdi – ma non ne saranno protagonisti.
Significa scommettere sulla debacle dei socialisti, particolarmente in difficoltà in molti paesi europei? Chi glielo fa notare, si sente rispondere che di certo la crisi dei socialisti è un fatto in sè, non imputabile a Renzi.
E comunque la nuova operazione renziana non sarebbe conflittuale col Pd: punta invece ad “allargare”, è il mantra.
Certo, tra il dire e il fare, c’è un oceano. Le mosse renziane degli ultimi tre giorni stanno seminando tensioni nel Pd, anche nella stessa area dell’ex segretario. E nessuno è pronto a scommettere che i rapporti tra il ‘nuovo’ Renzi e il suo ex partito fileranno lisci da qui alle europee.
E’ iniziata una cavalcata in solitaria. Resterà tale?
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
LAURA CASTELLI: “E’ NEL CONTRATTO DI GOVERNO”
Il blitz notturno sull’ecotassa è fallito e si è trasformato nell’ennesimo scontro tra Matteo Salvini che non ne vuole sapere, “con i voti della Lega non passerà mai una nuova tassa sull’auto a benzina”, e gli M5s che invece con Laura Castelli sostengono il tema sia nel contratto di governo.
Nello stesso tempo però Luigi Di Maio è costretto a promettere modifiche. La confusione nel governo è tanta.
La storia è questa.
In commissione Bilancio alla Camera due sere fa i deputati grillini hanno inserito, in un emendamento sulla pesca, l’ecotassa per chi acquista auto con carburanti inquinanti e un bonus per chi compra macchine elettriche.
In calce c’erano le firme della Lega poichè originariamente si parlava di pesca.
La proposta è passata ma in meno di ventiquattro ore è stata disconosciuta dal Carroccio che nel frattempo ha ricevuto una pioggia di telefonate dai concessionari del Nord allarmati dal calo delle vendite per non parlare dei costruttori: Fca per esempio ha già subito un calo in borsa.
Matteo Salvini ha fermato tutto dicendo che per quanto gli riguarda il bonus per chi acquista auto elettriche va bene ma non va tassato chi decide di comprare una macchina a benzina: “Sono assolutamente contrario ad ogni tassa nuova sulle auto che sono già tra le più tassate d’Europa”.
Il viceministro all’Economia Laura Castelli replica al leader leghista tirando dritto: “L’ecotassa resta”. Anche perchè attraverso la tassa si finanzia il bonus che ammonterebbe a 300milioni per tre anni.
L’esponente M5s chiarisce che “non inciderà su chi ha auto vecchie”, su chi cioè le ha già acquistate “nè su chi compra auto sotto una certa cilindrata. Peraltro — conclude – è nel contratto di governo”.
Il contratto di governo in realtà non parla di ecotassa. Il capitolo 4, dedicato all’Ambiente, green economy e rifiuti zero, è piuttosto generico e alla fine si legge: “Anche al fine di prevenire misure sanzionatorie da parte dell’Unione Europea prevediamo misure volte all’adeguamento degli standard di contrasto all’inquinamento atmosferico secondo le norme in vigore”. Non vengono però indicate ricette e soluzioni.
Che la novità sia il frutto del lavoro dei 5Stelle lo ha raccontato anche il sottosegretario M5s Michele Dell’Orco: “Da settembre insieme a Davide Crippa ci stavamo lavorando. Vi assicuro che non è stato semplice, tra burocrazia e politica”. Ma Di Maio in un facebook live è costretto alla retromarcia e assicura modifiche dopo le polemiche: “Ho ricevuto tantissime telefonate dalle case costruttrici e dai consumatori. Li incontrerò attorno a un tavolo”.
Quindi Crippa ipotizza novità : “Un tetto per non finanziare auto di superlusso, visto che qualcuno può fare a meno dei 6mila euro” e si potrebbe anche “vedere come modificare il range della fascia di auto che non prevede nè bonus nè malus”. In pratica diminuendo la parte “malus” scenderà anche quella “bonus”.
Per il momento, la proposta approvata, prevede questo funzionamento: dal 1 gennaio 2019 e per i successivi tre anni – spiegano i due esponenti del governo – chi acquisterà e immatricolerà in Italia un’autovettura nuova elettrica, ibrida o alimentata a metano, si vedrà riconosciuto un contributo economico fino a 6mila euro, calcolato sulla base della co2 emessa per chilometro.
Chi, invece, ne comprerà una nuova alimentata con carburanti più inquinanti, dovrà pagare un’imposta che, anche in questo caso, sarà legata alle emissioni di co2 del veicolo: da 150 euro a 3000 euro. Per fare un esempio, la Panda, l’auto utilitaria per eccellenza, vedrebbe una tassa di 400 euro.
Su questo, a quanto pare, saranno fatti studi più approfonditi. Di Maio ha già detto di voler incontrare in costruttori. Ma mentre Salvini di tassare le nuove auto con carburanti inquinanti non ne vuole sapere, il vicepremier grillino insiste su “una piccola penale” necessaria.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
L’EVOLUZIONE DELLE POSIZIONI SUL CONFLITTO TRA UCRAINA E RUSSIA, I MILITANTI AL FRONTE E I FINANZIAMENTI
Ucraina La guerra che non c’è è il libro pubblicato nel marzo del 2015 a firma di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi: due giovani corrispondenti di guerra italiani per loro stessa ammissione un po’ naif, che avevano passato 40 giorni tra la Kiev post-Maidan e il Donbass in rivolta.
Una testimonianza a volte ingenua ma di primissima mano, che quasi all’inizio si imbatte in un italiano.
Un 52enne piemontese di nome Francesco e detto Stan, che porta al collo una runa di metallo, e che si è arruolato assieme ai miliziani del Pravy Sektor nel Battaglione Azov.
E il reparto il cui impiego viene spesso viene portato a esempio di certe vocazioni “neo-naziste” dell’attuale governo di Kiev, e in effetti Stan non nasconde le sue idee di estrema destra.
“Da ragazzo stava in Avanguardia Nazionale con Stefano Delle Chiaie”, racconta senza la minima remora. “Partecipare a una guerra ideologica è sempre stata la sua ambizione.
‘Ho-cinquanta-due-anni’, ha cadenzato con lentezza come se ogni sillaba valesse un pugno di lustri. ‘Se non ne approfitto ora, quando cazzo mi ricapita’”.
A fine libro, però, salta infatti fuori un altro italiano di estrema destra.
Ha 35 anni, si chiama Andrea, è lucchese, ha il corpo pieno di tatuaggi inneggianti a Mussolini. Legato a Forza Nuova, tra anni ’90 e 2000 ha fondato uno dei gruppi ultrà più violenti della scena toscana.
E lui è finito dall’altra parte del fronte, tra i separatisti del Donbass. Convertito alla chiesa ortodossa e all’antifascismo, ma un “antifascismo russo” che “fa rima con patria, con tradizione”, racconta di come i separatisti hanno iniziato ad armarsi saccheggiando i musei della Seconda Guerra Mondiale; ammette senza problemi che Mosca li appoggia: e canta De Andrè per spiegare che in guerra bisogna uccidere senza pietà , per non fare “la fine di Piero”.
Non solo Sceresini e Giroffi hanno testimoniato di questa difficoltà della estrema destra italiana a scegliere con chi stare, nella vicenda del Maidan e del Donbass. Giornale on line chiaramente orientato su una linea di sinistra radicale e a sua volta simpatizzante per i ribelli del Donbass, Popoff Quotidiano nel settembre del 2014 aveva ad esempio già registrato una sorta di “derby nero in Ucraina: Casapound con Kiev, Forza Nuova con Putin”.
Piuttosto che il cinismo dello stesso Putin nel servirsi dei fascisti, la denuncia era su “quali capriole e equilibrismi siano capaci i fascisti quando cercano di ingraziarsi un nuovo padrone”.
Secondo l’analisi, sarebbe stata CasaPound sulla vicenda ucraina ad avere una linea “coerente”: “pro Kiev e quindi Pro-Ue fin dall’inizio della vicenda, tolto il piccolo problema’ che in Italia invece Casapound è anti-Ue”.
E riferiva appunto di stetti contatti con il Pravy Sektor, a combattere col quale sarebbero andati noti militanti: “da Zippo camerata famoso per aver pestato dei militanti del Pd, a Francesco Saverio Fontana, arruolatosi nella squadraccia nera che è il battaglione Azov (famoso per la brutalità con cui opera contro la popolazione civile del Donbass) e tornato di recente in Italia, già in giro a fare propaganda pro nazi col gagliardetto del battaglione in bella vista”.
Su Forza Nuova osservava che invece c’era stata un’evoluzione da una posizione pro-Kiev a una pro-Putin. Un “salto della quaglia” il cui imbarazzo sarebbe dimostrato “dal fatto che dal sito di Forza Nuova sono spariti gli articoli di rivendicazione degli incontri con Svoboda (salvo che i camerati si son dimenticati di togliere i link: ad esempio oppure questa commovente lettera del segretario Roberto Fiore ai camerati di Svoboda,)”.
Proprio da Popoff apprendiamo che l’Andrea 35enne e lucchese incontrato da Sceresini e Giroffi fa di cognome Palmeri, e scappato da un regime di sorveglianza speciale nel luglio del 2014, ed è appunto ricomparso nel Donbass “a combattere l’imperialismo americano”.
Come ricordano, era “capo di un gruppo ultras fascista, i Bulldog, famosi per aver fatto piazza pulita allo stadio di ogni traccia di colore rosso a suon di sprangate e scazzottate”.
Ma, appunto, a Popoff sono comunque convinti che i ribelli del Donbass siano i “buoni”. Nella loro analisi. “ovviamente Palmeri e Forza Nuova sanno benissimo che è difficile, se non impossibile, andare in giro a suon di saluti romani, celtiche e svastiche in una zona dove l’antifascismo è viscerale, profondo, una pregiudiziale perchè tutti hanno bene impressa nella memoria la fatica immensa che fu la Grande Guerra Patriottica e mostrano fieri il nastro di San Giorgio. Così è plausibile pensare che Palmeri all’esercito del Donbass non la stia raccontando tutta”.
Ci pensano dunque loro a denunciarlo, per prevenire chiunque possa usare “questa vicenda per diffamare ulteriormente la Resistenza del Donbass, togliendo valore al sangue versato da quel popolo per la propria libertà contro l’aggressione imperialista di USA, UE e NATO”.
Attenzione, però. La rivolta di Maidan è del febbraio del 2014. Come già ricordato, già nel settembre del 2013 il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher aveva riempito Roma di manifesti “Io sto con Putin” dal fortissimo tono omofobo.
Come spiegò lo stesso Tilgher, “Putin ha assunto posizioni coraggiose, contro la potentissima lobby gay che, con un’azione capillare, punta quasi a colpevolizzare chi omosessuale non è, e contro le centrali finanziarie mondiali che vogliono la guerra in Siria. Noi stiamo con Putin, senza se e senza ma: un attacco in Siria aprirebbe le porte a un conflitto mondiale e la posizione russa rappresenta un argine contro l’irresponsabilità di Obama e di tutti i guerrafondai”.
Risale invece al 4 dicembre del 2013 un’intervista di Roberto Fiore alla Voce della Russia in cui il leader di Forza Nuova esprime sostegno a Putin in chiave anti-immigrazione. E da notare che il 5 giugno 2008 Russia Today aveva invece definito lo stesso Fiore “un terrorista fascista pericoloso”. Insomma, non solo state solo le quaglie fasciste a saltare.
Nel suo Tango Noir Anton Shekhovtsov attesta che Fiore tra 2012 e 2014 avrebbe tenuto il piede su due staffe: cercando di fare affari in Russia, tanto da incontrare il vice premier russo Arkady Dvorkovich all’International Business Forum Italia Russia; e nel contempo mantenendo i già citati rapporti con l’estrema destra ucraina.
Ma quando il 20 dicembre 2014 Forza Nuova convoca a Milano una riunione di gruppi di estrema destra da tutta Europa per costruire quella che viene esplicitamente definita “un’alleanza strategica pro Putin” il movimento di Fiore vanta invece di avere con Putin “rapporti decennali”.
Fiore nel novembre del 2013 ha promosso con sponsorizzazione russa un incontro sulla limitazione della libertà di espressione in Europa in chiave omofoba; dal 29 agosto al primo settembre 2014 è stato a un evento in Crimea, presentando un appello contro le sanzioni europee alla Russia; il 12 e 13 settembre 2014 ha a partecipato a Mosca a una due giorni di convegni sponsorizzati da Cremlino e Duma in difesa della famiglia tradizionale. Il 17 maggio del 2015 tornerà a Mosca a dire che la stessa Mosca “è la terza Roma”, secondo lo slogan del nazionalismo russo
Nel marzo 2015 ancora Fiore è stato tra i leader di dieci movimenti europei di estrema destra invitati a San Pietroburgo a un “Forum internazionale conservatore russo” patrocinato dal Cremlino .
Con lui Luca Bertoni, un fedelissimo di Salvini che rappresenta l’associazione leghista Lombardia-Russia; e Irina Osipova, un’italo-russa già candidata alle comunali a Roma con Fratelli d’Italia.
Un’inchiesta dell’Espresso nell’ottobre del 2017 collega questo evento a un giro di arruolamento di mercenari di estrema destra italiani per il Donbass, in cui ricompare il nome del solito Palmeri.
Il servizio riassume: “un plotone di fascisti e di neonazisti italiani che combattono in Ucraina, schierati in prima linea contro il governo di Kiev sostenuto dalla Nato. Ideologi ‘rossobruni’, stranieri e nostrani, che teorizzano e sostengono la guerra anti-europea dei miliziani filorussi. Un istruttore di arti marziali che arruola mercenari nelle nostre città , per spedirli al fronte. Ex poliziotti congedati e militari reduci da altre guerre sporche. Una misteriosa imprenditrice della sicurezza con base tra Londra e Milano. Anonimi finanziatori russi che pagano i movimenti europei di estrema destra. E due reclutatori di casa nostra con radici politiche opposte: un neofascista e un comunista. Tutti uniti nel nome di Putin”.
Secondo un’indagine dei Carabinieri, gli italiani combattenti con i russofoni del Donbass sarebbero almeno 6. Per il governo di Kiev, almeno 25. oltre a Palmeri un altro nome che viene fatto è quello del 33enne nolano Antonio Cataldo, ex-militare che nel 2001 aveva già fatto il mercenario in Libia per i Gheddafisti.
Anche L’Espresso ritiene che “la nuova ideologia divide dall’interno anche l’estrema destra. I vertici di Casapound, ad esempio, si sono schierati con il governo di Kiev. Ma in visita nel Donbass spuntano anche esponenti romani del movimento, come Alberto Palladino, detto Zippo. Militante che nel 2008 balzò agli onori delle cronache per aver partecipato all’aggressione degli studenti di sinistra a piazza Navona. E ora si occupa di esteri nella redazione del Primato nazionale, giornale online di riferimento del movimento di estrema destra”.
Quello stesso Zippo che, abbiamo visto, secondo Popoff stava invece con gli ucraini! Però appena un mese dopo il leader di CasaPound Simone Di Stefano appare anche lui passato con il Cremlino. “Siamo fascisti ma ci piace anche Putin”, confessa. Si va da Putin o da Trump?, gli chiedono. “Mi sono simpatici entrambi”, è la risposta. “A Trump chiederei la chiusura delle basi Usa in Italia”.
E il 22 giugno del 2018, proprio nel giorno anniversario dell’attacco di Hitler all’Urss, CasaPound organizza una conferenza su Putin ) cui partecipano sia l’ideologo rosso-bruno Aleksandr Dugin, sia quel Giulietto Chiesa che da dirigente del Pci famoso per il suo filo-sovietismo e corrispondente da Mosca per Stampa e Unità è diventato uno dei più famigerati complottisti italiani, a partire dalle sue teorie sull’attacco alle Torri Gemelle fatto dalla Cia (e non solo).
Nel novembre del 2017 L’Espresso ha poi fatto un’inchiesta sui finanziamenti di CasaPound e Forza Nuova in cui si cita la nostra Intelligence per spiegare che “in cambio dell’appoggio alla causa russa in Europa i movimenti estremisti avrebbero ‘ricevuto sostegno economico’”.
Affermazioni in realtà generica e non suffragata da prove. “Anche Forza Nuova? Impossibile saperlo”, riconosce il servizio. “Le informazioni raccolte da L’Espresso permettono tuttavia di descrivere alcuni legami economici che uniscono Fiore alla Russia”, aggiunge.
E sono quelle di cui abbiamo già riferito. In più, si aggiunge che Fiore “per oltre cinque anni è stato proprietario di una società basata a Cipro, isola europea prediletta dai russi, che grazie al segreto bancario è da anni uno dei posti più in voga per chi vuole tenere riservati i propri affari.
Nell’ottobre del 2010 Fiore ha infatti aperto sull’isola la Vis Ecologia Ltd, società che si occupa ufficialmente di ‘riciclo di materiali’, ma che ha caratteristiche insolite per un’azienda operativa: nessun dipendente, niente sito internet, la sede registrata presso gli uffici di uno studio di commercialisti.
Le visure camerali dicono che l’impresa è stata registrata a Cipro ‘per scopi fiscali’, ma è impossibile sapere se sui conti siano girati soldi dato che l’impresa non ha mai depositato un bilancio.
Contattato da L’Espresso, il segretario di Forza Nuova non ha risposto alle richieste di chiarimento sull’attività della sua società cipriota”.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
LO STANZIAMENTO DI 60 MILIONI E’ IRRISORIO RISPETTO ALLE PROMESSE E IN LINEA CON I GOVERNI PRECEDENTI, NON C’E’ NULLA DA FESTEGGIARE
«Con 60 milioni le Università tornano a respirare». È raggiante la senatrice Paola Taverna quando annuncia che nella Manovra del Popolo il governo ha previsto lo stanziamento di 40 milioni di euro per i fondi agli atenei, 10 milioni per le borse di studio e 10 per gli istituti di ricerca.
Secondo la senatrice pentastellata «finalmente il Governo agisce e pone l’istruzione fra gli obiettivi principali».
Ma davvero 60 milioni di euro sono una boccata d’ossigeno? La risposta è no.
Secondo Paola Taverna lo stanziamento dimostra che il governo Conte ha l’istruzione universitaria tra gli obiettivi principali.
Ma cosa sono sessanta milioni di euro di fronte ai 9 miliardi previsti per il Reddito di Cittadinanza e ai 7 miliardi che ci costerà il “superamento” della legge Fornero? Niente.
Dire che il governo pone l’istruzione tra gli obiettivi principali presentando il tutto come un enorme regalo di Natale per gli atenei italiani è una sonora fregnaccia.
I 40 milioni di euro graziosamente donati alle università del Bel Paese andranno a finire all’interno del Fondo per il finanziamento ordinario delle università (FFO). Sapete a quanto ammonta la dotazione del FFO per il 2018? Sette miliardi e trecento milioni di euro.
Messa in questa prospettiva è evidente quindi come l’Università non sia tra gli obiettivi principali dell’esecutivo. E come potrebbe essere altrimenti.
Ma per Paola Taverna su una manovra da 37-40 miliardi di euro mettere 40 milioni “nelle casse dei nostri atenei” equivale a mettere al centro la spesa per l’istruzione.
Al massimo si può dire che il governo gialloverde sta facendo quello che hanno fatto tutti i governi dal 2010 ad oggi: aumentare impercettibilmente la dotazione del Fondo.
Riguardo invece ai 10 milioni per le borse di studio, basti qui ricordare che gli studenti universitari italiani sono 1.654.680.
Non tutti naturalmente avranno diritto alla borsa di studio. Ma quante sono le borse di studio erogate annualmente?
Nel 2016 vennero erogate 136mila borse di studio e nel 2017 i fondi statali per il diritto allo studio ammontano a 217 milioni di euro (nel 2013 erano 149 milioni).
Di nuovo: ben vengano i 10 milioni di euro in più ma non sono certo uno stanziamento clamoroso.
Anzi, il partito che prometteva «un rilancio forte di formazione, università e ricerca» dicendo che avrebbe portato entro la fine della legislatura la spesa per l’Università e la ricerca «in media con l’Unione europea: al 5% del Pil per la formazione e al 3% per la ricerca» forse avrebbe potuto fare di più.
Anche perchè il M5S aveva scritto nero su bianco quanti soldi servivano per questo ambizioso programma di rilancio di formazione, università e ricerca: 25 miliardi di euro in cinque anni. Ovvero cinque miliardi di euro l’anno.
Paola Taverna però festeggia perchè sono stati stanziati 60 milioni di euro, non esattamente quello che era stato promesso.
Il professor Michele Boldrin commenta su Twitter il grande annuncio della senatrice Taverna dicendo che «il governo Lega-M5S è disposto ad investire nel futuro dei giovani meno di 1/200 di quanto intende regalare ai sessantenni per farli stare in pensione 30 anni».
Il tutto a carico di chi quelle pensioni dovrà pagare il futuro, cioè i giovani (se troveranno lavoro).
Dati alla Mano la misura a sostegno dell’Università e della ricerca porta la spesa per l’istruzione universitaria dallo 0,16% del PIL allo 0,16% del PIL.
Non sposta quindi nulla. Ma il M5S la vede diversamente e twitta «Altro che tagli: con noi al Governo lo Stato torna a fare lo Stato!».
Le cose non migliorano se si va oltre i confini italiani e si guarda quanto spendono gli altri stati membri della UE per l’istruzione, l’università e la ricerca.
I dati Eurostat del 2016 e mostrano come il nostro Paese investa il 3,9% del PIL nell’istruzione (la Francia investe invece il 5,4% del PIL, la Germania il 4,2%) .
In particolare per quanto riguarda l’istruzione universitaria (tertiary education nei grafici qui sopra) l’Italia spende lo 0,3% del PIL (Francia lo 0,6% e la Germania lo 0,8%). Nel 2017 la spesa per l’Università era salita allo 0,4% del PIL, sempre poco rispetto a quanto fanno nel resto d’Europa.
Con l’incredibile manovra del popolo però questa spesa rimarrà sostanzialmente uguale.
Il MoVimento 5 Stelle si è dato 5 anni di tempo (ma nel contratto di governo tutti questi riferimenti sono scomparsi) per portare la spesa per l’istruzione al 5% del PIL, ovvero aumentarla dell’1,1%. Perchè quindi festeggiare lo stanziamento di 40 milioni di euro?
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
E’ LA POLITICA CHE HA PAGATO LA PENSIONE AL FUNZIONARIO DEI BENI CULTURALI IN ASPETTATIVA PERMANENTE
Verrà brevettato come il metodo Sgarbi. Andare in pensione senza lavorare un giorno è un’arte che può e deve essere riservata a pochi (specialmente per i conti dello Stato) ma è assai remunerativa, anche se l’assegno dell’INPS tra i 2500 e i 3500 euro che prenderà non basterà per la sua casa, dove si spendono 30mila euro ogni mese tra assistenti e dipendenti.
Racconta oggi Luciano Cerasa sul Fatto:
La sua pensione non è e non poteva maturare coi presunti contributi figurativi versati dall’amministrazione dei Beni culturali.
L’aspettativa non retribuita cui allude il critico d’arte infatti non comporta il riconoscimento di contributi, anche se dà diritto al lavoratore di fare se vuole dei versamenti contributivi volontari.
E allora? Dal 1° gennaio 2012 la legge Fornero ha fissato a 66 anni per gli uomini l’età anagrafica dalla quale si può andare in pensione di vecchiaia. L’altro requisito è quello di aver versato almeno 20 anni di contributi
Sgarbi, nato nel 1952, ha effettivamente compiuto 66 anni.
Per quanto riguarda il suo montante contributivo ha iniziato a lavorare a 20 anni come supplente di latino nelle scuole.
La legge 300 del 1970 prevede il riconoscimento di contributi figurativi per l’aspettativa sindacale e per le cariche elettive. Il valore del montante è equiparato ai versamenti che sono stati effettuati nell’ultimo posto di lavoro.
Sgarbi è stato deputato dal 1992 al 2006, assessore alla cultura del comune di Milano tra il 2006 e il 2008, sindaco Udc-Dc di Salemi dal 2008 al 2012, assessore in Sicilia fino al 2016 e nel 2018 rieletto deputato e sindaco di Sutri.
Il riscatto della laurea e della specializzazione universitaria ha fatto il resto.
È la politica che ha pagato la pensione al funzionario dei Beni culturali in aspettativa permanente Vittorio Sgarbi, non la sua impunita latitanza dalla P.A.
Se le cariche elettive possano essere considerate poi una professione e un lavoro, è un’altra storia.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 6th, 2018 Riccardo Fucile
PUBBLICITA’ SUL SOCIAL NETWORK CON TARGET I GIOVANI ITALIANI.. UN DELIRIO: SONO CRIMINALI E CAUSANO CENTINAIA DI MORTI
Un video in inglese di 34 secondi, che in queste ore sta finendo sulle bacheche di migliaia di giovani italiani.
Con un attacco contro i migranti, toni allarmisti e dichiarazioni manipolate.
È la mossa che il governo ungherese, presieduto dal primo ministro Viktor Orban, sta utilizzando per diffondere il suo messaggio in tutta Europa, Italia compresa.
Nella breve clip diffusa via Facebook una voce narrante, accompagnata da un musichetta ansiogena, spiega che dal 2015 a oggi sono entrati in Europa 1,8 milioni di immigrati “e molti altri milioni vorrebbero arrivare”.
E fa seguire a questa affermazione una serie di foto di attentati con la scritta in sovrimpressione: “Centinaia di persone hanno perso la vita in vili attentati dall’inizio della crisi migratoria”.
Il video è diventato nei giorni scorsi un post sponsorizzato proprio dalla pagina ufficiale del governo ungherese su Facebook che punta, come può rivelare l’Espresso, al pubblico degli italiani con più di 28 anni.
Impossibile invece sapere al momento quanti soldi siano stati investiti per la sua promozione sui social.
Il filmato, realizzato circa un mese e mezzo fa, era stato presentato dall’esecutivo ungherese come la risposta del Paese alla decisione del Parlamento Europeo di avviare le procedure previste dall’articolo 7 del trattato di Lisbona e che potrebbero portare all’applicazione di sanzioni contro lo Stato che negli ultimi anni ha approvato una serie di leggi liberticide.
Secondo Orban e il suo esecutivo invece la decisione dell’Europarlamento sarebbe stata una vendetta per la decisione dell’Ungheria di non accogliere alcun richiedente asilo sul suo territorio.
Non stupisce quindi che proprio sul terreno dell’immigrazione l’Ungheria decida di giocare le sue carte mediatiche. Con l’utilizzo di più di un trucco.
Il video si apre infatti con una dichiarazione del’eurodeputato belga Guy Verhofstadt che chiede “più immigrati”. In realtà si tratta di un contenuto estrapolato da un intervento più esteso in cui lo stesso deputato specificava l’importanza di avere un’immigrazione legale, opposta all’attuale traffico di esseri umani che invece riguarda la maggior parte dei migranti in arrivo nel nostro Continente.
(da “L’Espresso”)
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