Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
HA SCONFITTO IL PUPILLO DI SCHAUBLE… SUCCEDE ALLA MERKEL IN NOME DELLA CONTINUITA’
Annegret Kramp-Karrenbauer è la nuova presidente della Cdu. Sarà lei a guidare l’ultima grande Volkspartei, l’ultimo partito di massa in Europa – negli ultimi sondaggi è tornato al 30% – nella difficile era post-Merkel dei populismi e dell’insorgenza delle destre.
AKK ha battuto con quasi il 52% il concorrente Friedrich Merz. Al ballottaggio la segretaria generale del partito ed ex governatrice della Saar era arrivata con il 45% dei voti, battendo al primo turno di sei punti il lobbyista di Blackrock.
Terzo con il 15% dei voti, il ministro della Sanità Jens Spahn.
Il cuore del discorso con cui Friedrich Merz si era candidato alla guida della Cdu non stava nella rassicurazione che “il governo e il parlamento sono eletti fino al 2021”, la rassicurazione insomma che se fosse stato eletto presidente della Cdu, la coabitazione con Angela Merkel sarebbe pacifica e il governo non sarebbe caduto. Era questo, infatti, il timore che attraversa le file dei 1001 delegati.
Molti delegati ragionano come il parlamentare Fritz Guentzler: “con la testa voterei per Merz, anche per le sue competenze economiche. Ma strategicamente sarebbe più saggio votare Annegret Kramp-Karrenbauer”.
La Cdu è stanca di conflitti, vuole una navigazione tranquilla del Merkel IV. Anche per questo ha scelto Kramp-Karrenbauer. Ma in una frase successiva della relazione, in modo molto più sottile, Merz aveva promesso invece il contrario.
I “nostri veri avversari”, aveva scandito nella plenaria della fiera di Amburgo, sono “Spd, Verdi e Fdp”. Merz prometteva il ritorno di “dibattito politico” e di “posizioni chiare” nella Cdu, senza le quali il lobbyista di Blackrock è intimamente convinto che non si possano riconquistare voti.
Vuol dire che con lui la Cdu si sarebbe spostata talmente a destra e avrebbe litigato talmente spesso con il partner di governo, già sofferentissimo nei sondaggi anche per la convivenza nella Grande coalizione, finchè la Spd non avrebbe staccato la spina? Chissà . La suggestione è sembrata questa.
Per il resto, l’attacco a Merkel non sarebbe potuto essere più esplicito: “la smobilitazione asimmetrica”, la tendenza della cancelliera a non prendere posizione su nulla, “ha fatto il suo tempo”, ha sibilato ai mille delegati. La politica “si sta polarizzando”. E “per me è insopportabile”, ha gridato quasi, tra gli applausi della platea, “che non riusciamo a riconquistare i voti andati all’Afd”.
(da agenzie)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
PUBBLICO IN PIEDI, APPLAUSI PER CINQUE MINUTI E GRIDA “BRAVO PRESIDENTE”, UN SEGNALE AL GOVERNO
Prima alla Scala con «Attila» a Milano e prima volta per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che da quando è stato eletto Capo dello Stato non aveva ancora potuto essere presente il 7 dicembre.
Mattarella è stato accolto fuori dal teatro da calorosi applausi delle persone accalcate dietro le transenne e da un «Bravo Presidente!».
§Ad accoglierlo il sovrintendente Alexander Pereira e il sindaco Giuseppe Sala. Prima di lui sono arrivati tra gli altri la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il presidente della Regione Attilio Fontana, la senatrice a vita Liliana Segre, Fedele Confalonieri, l’ex premier Mario Monti, la vicepresidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e il prefetto Renato Saccone.
Il pubblico della Prima ha accolto con un applauso caloroso, durato più di 5 minuti, l’ingresso nel palco d’onore del presidente della Repubblica.
Con la sala buia gli spettatori, in piedi, avevano atteso per alcuni minuti l’ingresso del Capo dello Stato.
Alla fine il pubblico, sempre in piedi, si è girato verso il palcoscenico, con la sala del Piermarini illuminata e il sipario chiuso, per ascoltare l’inno di Mameli diretto dal maestro Riccardo Chailly.Nell’intervallo, il presidente Mattarella è andato a salutare il direttore Riccardo Chailly in camerino.
Mentre rientrava nel palco reale del Piermarini, a chi gli chiedeva se l’opera gli piacesse, il presidente ha risposto: «Molto». «Milano vuole molto bene al Presidente Mattarella», ha commentato il sindaco Beppe Sala. «Tutte le volte che viene, Milano gli dimostra un grande affetto. Abbiamo bisogno di Mattarella e dimostriamo vicinanza al Presidente della Repubblica», ha concluso il sindaco.
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
SE LA POLITICA E’ PASSIONE SI PUO’ ANCHE ACCETTARE DI PERDERE SE CI SI CREDE VERAMENTE
Fa un effetto strano che Minniti abbia rinunciato a proseguire nella candidatura a segretario del Pd dopo aver scoperto che Renzi non l’avrebbe accompagnato nella corsa e che, anzi, gli avrebbe messo il bastone fra le ruote costruendosi un partito tutto suo.
Perchè Minniti era stato chiaro: la sua candidatura nasceva per dare un futuro al Pd, per salvarlo dai personalismi e dall’odio, per offrirgli la possibilità di tornare presto al governo esercitando un’opposizione dura e illustrando un’alternativa chiara.
Un partito esiste e resiste a dispetto delle persone che lo animano. Un partito vale più del destino del singolo, proprio come dieci giorni fa diceva Minniti. E se lo diceva dobbiamo immaginare che non fingesse.
E se non fingeva perchè poi, scoprendo che il suo potenziale supporter non era con lui e magari neanche più nel partito, ha cambiato idea?
La revoca della disponibilità a candidarsi invece che offrire il senso di una misura, di un limite, ha il sapore amaro della fuga dalle responsabilità , della retromarcia davanti a un insuccesso possibile.
Ma la politica è passione, abbiamo detto. E allora non si corre solo per vincere la gara.
Si può persino accettare di perdere se si vuol bene alla ditta.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
AL CARA DI MINEO 90 RICHIEDENTI ASILO CACCIATI PER STRADA DAL DECRETO RAZZISTA… IL VESCOVO DI CALTAGIRONE: “APRIREMO LE CHIESE PER ALLOGGIARE QUESTE PERSONE”
“In Italia specialmente prima delle vacanze estive, passa una bella pubblicità : non è civiltà abbandonare i cani per strada e chi lo fa è punito dalla legge. Invece, abbandonare per strada i migranti o, se sembra troppo forte, ‘accompagnarli’ e lasciarli per strada , è ‘sicurezza’, è legge”.
Il vescovo di Caltagirone, monsignor Calogero Peri, insorge contro il decreto sicurezza di Salvini, che a breve lascerà in strada anche decine di migranti che oggi risiedono nel Cara di Mineo (Catania).
Perchè, come ha spiegato il direttore della Croce Rossa di Crotone Francesco Parisi il provvedimento “prevede che venga data accoglienza a coloro i quali hanno fatto richiesta di permesso di soggiorno per asilo politico e non più per motivi umanitari. Di conseguenza questi ultimi perdono il diritto all’accoglienza e a transitare negli Sprar”. Il Cara di Mineo è la struttura per richiedenti asilo più grandi d’Italia, e oggi al suo interno ci sono 1800 persone.
Anche lì, nel giro di qualche giorno, inizierà la cacciata dei migranti. Ieri dovevano andarsene una mamma con la sua bimba che ha la broncopolmonite, ma la loro data di uscita è stata rimandata.
In ogni caso entro l’11 dicembre, scrive Avvenire, “quasi 90 persone su 1800 verranno accompagnate fuori dalla struttura. Poi ne seguiranno altri secondo una tabella di marcia non ancora precisata”.
Tra gli espulsi dal centro ci saranno anche bambini da 1 a 12 anni di età , “molti dei quali nati proprio in Sicilia durante la permanenza dei genitori nel Centro per richiedenti asilo”.
Bambini che una volta fuori dalla struttura non frequenteranno neanche più la scuola dell’obbligo e dovranno capire dove andare. Perchè “le istituzioni non si occuperanno di dare loro un tetto”.
Per questo, aggiunge Caltagirone, “apriremo anche le chiese per alloggiare queste persone” e precisa di avere già provveduto a mettere a punto 40 posti letto.
Il monsignore poi, sempre sul quotidiano dei vescovi, ricorda che il Cara “fu fortemente voluto da Forza Italia e dalla Lega Nord, rispettivamente nella persona di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, e di Roberto Maroni, ministro dell’Interno”. Un Cara imposto “contro le alternative proposte dai sindaci del territorio”.
Uscita forzata per decine di migranti dal Cara di Mineo, ma anche da analoghe struttura in tutta Italia. Cosa faranno? Dove andranno?
Decine di Comuni, intanto, hanno firmato mozioni per sospendere la nuova legge, mentre l’Anci stima un rischio di maggiori spese per 280 milioni l’anno.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
DOPO ANNI DI POLITICA DI CHIUSURA, IL PAESE CAMBIA LINEA
Mentre in Italia la questione immigrazione viene trattata alla stregua di un problema di ordine pubblico, il Giappone, un paese che finora era stato fieramente ostile ad aprire le frontiere ha riconsiderato il suo atteggiamenti.
La Camera bassa del Parlamento giapponese, ha approvato la nuova normativa per i visti dei lavoratori stranieri: grazie all”Immigration Bill’, circa 300mila lavoratori stranieri potranno entrare in Giappone nei prossimi anni.
Lavoratori qualificati ma anche, ed è questa la novità cruciale, lavoratori poco qualificati.
Non si tratta, evidentemente, di numeri imponenti, ma segna un cambiamento epocale nella tipica scorza di stampo quasi xenofobo del Sol Levante.
Quindi questo provvedimento sia pur di portata limitata, costituisce comunque un fattore politico interessantissimo. Anche perchè varato da un governo conservatore come quello di Shinzo Abe, di coalizione fra il Partito liberal-democratico e la formazione del ‘Nuovo Komeito’, centrista e buddista.
Il provvedimento sull’immigrazione peraltro si inserisce in una fase politica, forse storica, di estrema innovazione per il Giappone moderno.
Con la ‘Restaurazione Meji’, nel 1868 con la quale il Sol levante aprì ai ‘diavoli bianchi, abolì lo ‘shogunato’ feudale, e instaurò un primo governo rappresentativo, seppur fortemente limitato dal ruolo della Corte imperiale e degli apparati statali. Questa prima fase finì con il ‘fascismo militare giapponese’ e con la catastrofe della seconda guerra mondiale.
La ‘seconda’ fase di apertura al mondo del Giappone moderno fu, ovviamente, quella iniziata con l’occupazione americana e la Costituzione di MacArthur.
Con l’abolizione del mandato divino dell’Imperatore e con una nuova forma più coerente di governo rappresentativo. Ora potremo essere alla ‘terza’ fase dell’apertura al mondo, la fase ‘asiatica’: Shinzo Abe da un lato ha rafforzato la sua premiership e leadership con il terzo mandato alla presidenza del Pld. In tale modo ha messo in piedi una specie di ‘shogunato democratico’.
E dall’altro lato, con i vertici bilaterali delle scorse settimane, con il presidente cinese e con il primo ministro indiano, ha aperto la strada dell’Asia ancora una volta al Giappone moderno.
L’alleanza strategica con gli Usa rimane fondamentale ma non esaurisce più la collocazione internazionale del’Impero. Insomma prima una fase ‘occidentale’ con un ruolo molto forte in Asia, poi la fase ‘americana’ conflittuale con l’Asia profonda, oggi la fase ‘asiatica’?
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
OPINIONISTI DIVISI : DAL 6% AL 12%
Mentre lo psicodramma del Partito Democratico aggiunge un nuovo tassello con il ritiro di Marco Minniti dalla corsa per le primarie i sondaggisti misurano il valore dell’ipotetico partito o movimento di Matteo Renzi.
Repubblica racconta i conti degli uomini dei numeri:
La prospettiva più rosea la fornisce Emg Acqua, che a novembre ha diffuso un sondaggio su 1.603 intervistati che dava un ipotetico partito di Renzi al 12%: bottino proveniente per metà dal Pd.
Stesso risultato di Ipr marketing, che ha invece stimato Renzi al 9%, anche qui con oltre la metà dei consensi in arrivo dalle file dem.
«Renzi toglierebbe il 5% al Pd, che scenderebbe dal 18% al 13%. Il resto – spiega il direttore Ipr Antonio Noto – arriva da elettorato moderato».
Dificile dire quale, però. «L’elettorato di Forza Italia residuo è fedelissimo di Berlusconi e non è così facile da spostare».
Più probabile, piuttosto, che l’ex premier agganci una parte del mondo imprenditoriale, visto che «tra le imprese solo il 25% dà oggi un giudizio positivo sul governo».
A conti fatti, tuttavia, un partito di Renzi servirebbe più che altro a «sgonfiare il Pd, delegittimando indirettamente anche le primarie».
SWG invece non ha svolto rilevazioni ma fa notare che Macron, il modello a cui l’ex premier guarda, funziona nel sistema elettorale francese mentre in Italia un 10% serve a investire sul lungo periodo e non sul breve
Per Roberto Weber, di Ixè, l’avventura avrebbe un tono ancora minore: «A settembre lo abbiamo stimato al 5-6%. Il suo dimensionamento potenziale era all’8%, ma considerato che di solito le previsioni sui partiti personali sono a rialzo di un terzo, abbassiamo al 5-6%. Tutti voti in arrivo dal Pd, o quasi».
Senza contare che, aggiunge, «Renzi ha un gradimento tra i più bassi, tra i leader».
Un giudizio negativo condiviso anche da Nicola Piepoli, presidente dell’omonimo Istituto: «Non abbiamo testato il partito di Renzi perchè lo giudichiamo inattuale. A voler far numeri, diciamo che potrebbe valere il 2%… Come il partito della scissione di Bersani e D’Alema, insomma».
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
LA TRASFORMAZIONE DEI CONTRATTI DA A TEMPO DETERMINATO A INDETERMINATO NON E’ MERITO DEL DECRETO DIGNITA’, LA PERCENTUALE E’ INFERIORE NEL CONFRONTO CON IL PRIMO TRIMESTRE 2018
Nei giorni scorsi Assolavoro e Federmeccanica hanno lanciato l’allarme sugli effetti del Decreto Dignità . Secondo l’associazione delle imprese industriali del settore metalmeccanico «il 30% delle imprese del settore non rinnoverà , alla data di scadenza, i contratti a tempo determinato in essere».
Per Assolavoro — l’associazione nazionale delle agenzie per il lavoro — dal primo di gennaio 2019 53mila persone non potranno più essere impiegate con le Agenzie per il Lavoro a causa del raggiungimento del tetto massimo di 24 mesi (prima era 36) per un impiego a tempo determinato.
La stima prudenziale è basata su quanto previsto da una circolare del Ministero del Lavoro che ha retrodatato a prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del Decreto Dignità il termine da considerare per gli assunti dalle agenzie.
È comprensibile quindi che Luigi Di Maio abbia voluto correre ai ripari con un post ad effetto su Facebook.
Il ministro del Lavoro ha pubblicato su Facebook lo screenshot di un commento di una ragazza che recita: «Grazie al decreto dignità oggi il mio contratto è stato cambiato in indeterminato. Grazie Luigi». Segue emoticon con il baciotto. Lo screen è presentato al pubblico dei fan pentastellati come la prova provata dell’effetto del decreto dignità .
Il ministro del Lavoro poi ha tenuto a precisare che di messaggi come questo gliene sono arrivati diversi in questi mesi (il provvedimento è entrato in vigore il 14 luglio) ma soprattutto sono arrivati i dati ufficiali del Ministero relativi alle attivazioni di contratti di lavoro nel terzo trimestre del 2018.
Di Maio può così annunciare trionfante che «ci sono state 56 mila e 400 trasformazioni in più di contratti da tempo determinato in tempo indeterminato. Cioè sono aumentati di quasi il 50% rispetto allo stesso periodo del 2017».
«Che botta che abbiamo dato alla precarietà smontando quella follia del Jobs Act! Finalmente le persone tornano a respirare» commenta Di Maio prima di dare un abbraccio a tutte le 56.400 persone che adesso «possono iniziare a scrivere una nuova storia della loro vita!».
Ma davvero i dati relativi al terzo trimestre sono effetto del Decreto Dignità ?
Per scoprirlo — fa notare Mario Seminerio su Phastidio — sarebbe necessario confrontarli con quelli dei trimestri precedenti.
Se il numero di attivazioni di contratti a tempo determinato è stabile non si può certo attribuire il numero delle assunzioni a tempo indeterminato alla legge voluta da Di Maio.
Partiamo intanto dai dati forniti dal Ministero del Lavoro: nel terzo trimestre del 2018 il 67,4% delle attivazioni è costituito da rapporti di lavoro a Tempo Determinato, mentre quelli a Tempo Indeterminato raggiungono il 18,9% del totale.
La maggior parte dei nuovi contratti di lavoro quindi — grazie al Decreto Dignità ? — è ancora per contratti a termine.
Ma anche così è possibile ancora sostenere che il numero di trasformazioni di contratti da tempo determinato a tempo indeterminato sia uno degli effetti positivi del Decreto Dignità .
Di Maio si limita a dire che il numero di trasformazioni è in aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno con un +48,6% (173mila trasformazioni). Ma come sono andate le cose durante i due precedenti trimestri del 2018?
Consultando il rapporto dell’osservatorio dell’INPS sul precariato pubblicato il 10 novembre scorso (quindi i dati relativi al terzo trimestre sono ancora provvisori rispetto a quelli del Ministero del Lavoro) ci si può fare un’idea più precisa di come Di Maio stia nascondendo alcuni dati per far risultare dai numeri di ieri l’esistenza di un successo del Decreto Dignità .
Ecco quindi che si scopre che nel primo trimestre 2018, le trasformazioni sono state 141.315 con un aumento del 55% rispetto allo stesso trimestre del 2017.
Durante il secondo trimestre del 2018 le trasformazioni dei contratti a termine a tempo indeterminato sono state 121.645 e l’aumento rispetto al 2017 è stato più contenuto (+32%).
Però durante quel periodo il Decreto Dignità non c’era, come è possibile quindi che ci sia stato un aumento delle trasformazioni dei contratti a tempo indeterminato? Evidentemente l’aumento tanto sbandierato dal ministro non è un effetto del Decreto Dignità .
Di Maio lo sa e infatti sul Blog scrive che «le aziende già avevano previsto questa inversione di tendenza quando il decreto è stato approvato».
Che è un modo per dire che anche il MoVimento 5 Stelle sa bene che è ancora troppo presto per cantare vittoria (così come è troppo presto per dare la colpa dell’aumento della disoccupazione al Decreto Dignità )
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
IL PARADOSSO: SOSTENGONO IL GOVERNO E PROTESTANO CONTRO CHI HANNO VOTATO… UN’ALTRA CORTE DEI MIRACOLI DI CUI SI SENTIVA LA MANCANZA
Due giorni fa abbiamo sorriso leggendo le richieste delle giubbe arancioni dell’ex Generale Antonio Pappalardo che hanno manifestato davanti a Montecitorio.
Oggi è il turno di quelle del Coordinamento Nazionale Gilet Gialli Italia, il primo gruppo organizzato a mettere il cappello sulla protesta dei gilet jaunes francesi.
Del Coordinamento fanno parte l’ex deputato pentastellato Ivan Della Valle (famoso per il suo coinvolgimento nella rimborsopoli a 5 Stelle) e Giancarlo Nardozzi, Presidente del Goia (Gruppo Organizzato Indipendente Ambulanti).
Il cinque dicembre a Roma i gilet arancioni pappalardiani hanno chiesto l’abolizione di tutte le accise sui carburanti entro Natale, la sospensione delle scie chimiche e l’introduzione di una nuova moneta denominata “Nuova Lira”.
Lo spin off “ufficiale” del movimento francese guidato da Della Valle e Nardozzi invece in piazza non ci è ancora sceso.
Ha dichiarato invece di essere pronto ad organizzare una manifestazione a Bruxelles con tutti i gilet gialli d’Europa. Forse per evitare la figuraccia di trovarsi in quattro gatti davanti alla Camera come successo due giorni fa.
Di fatto ad oggi il Coordinamento non ha organizzato alcuna manifestazione di protesta. Un po’ perchè si sta ancora strutturando internamente (sono stati aperti dei gruppi territoriali regionali che contano ad oggi meno di duecento iscritti in totale) un po’ perchè l’intenzione non è quella di protestare contro il governo italiano.
Al contrario dei colleghi francesi infatti i Gilet Gialli italiani sono decisamente più filogovernativi. E questo naturalmente è un problema perchè si può essere post-ideologici quanto si vuole ma è davvero complicato giustificare manifestazioni come quelle transalpine a favore del governo.
Questo però non significa che i Gilet Gialli vogliano rinunciare ad avanzare le loro richieste.
Questo senza aver lottato per nemmeno un minuto in piazza o aver anche solo fatto sapere di essere pronti a farlo qualora le loro domande non ottenessero risposta.
Nella migliore tradizione pentastellata ecco quindi che il Coordinamento ha stilato una lista di sedici richieste (da presentare al Governo all’Unione Europea?) che dopo un percorso partecipato si ridurranno a dieci e che saranno portate avanti nei prossimi mesi.
Come? Non è dato di saperlo, ma non c’è dubbio che ci sarà un percorso partecipato anche per quello.
Quali sono le richieste dei Gilet Gialli di Della Valle?
In cima spunta la proposta di Italexit vale a dire l’uscita dall’Euro e dall’Unione Europea.
C’è poi la richiesta della flat tax con aliquota unica al 15%. Una promessa elettorale della Lega che però è scomparsa dall’orizzonte politico.
E ancora: no alla Bolkestein (soprattutto per ambulanti e balneari, à§a va sans dire); revoca delle concessioni autostradali e diminuzione dei pedaggi.
Al tempo stesso però i soldi dei pedaggi (ridotti) dovranno essere usati per la manutenzione.
Seguono ulteriori proposte economiche degno dello Stato Libero di Bananas: divieto di localizzazione, pensioni minime a mille euro al mese, abolizione di tutte le imposte sugli immobili (si abitazioni che ad uso commerciale), diminuzione del costo degli affitti (per legge!).
C’è anche un ambizioso programma di riforma costituzionale con l’elezione diretta del Capo dello Stato e modifica dell’istituto referendario.
Infine una non meglio precisata “riforma sindacale”.
Visto il tenore delle richiese si immagina che il pacchetto sarà presentato all’attenzione del governo italiano e non delle istituzioni europee. Ma questo però significa che i Gilet Gialli dovranno protestare contro il governo Conte (che però sostengono). La confusione regna sovrana.
Non esistono però solo questi due “gruppi” di Gilet Gialli.
Il movimento italiano è variegato e multiforme. In altri gruppi Facebook non collegati al Coordinamento si leggono proposte ancora più fantasiose.
Nel gruppo Facebook “Gilet Gialli” c’è ad esempio chi propone di abolire il campionato di calcio perchè è “il principale strumento di distrazione degli italiani dai veri problemi, nonchè dai piani che i potenti attuano a scapito nostro”.
Altri propongono invece di “ripudiare il debito pubblico” del nostro Paese proponendo di chiamarlo con un altro nome: QUDEP ovvero quantitativo di danaro emesso per il popolo.
I Gilet non devono permettere che in loro presenza si parli di debito pubblico. Sarà anche molto più divertente dire “ce l’abbiamo nel QUDEP”.
Riuscirà tanta indignazione e tanta fantasia a produrre qualche risultato concreto?
Per ora i Gilet Gialli italiani temporeggiano, discutono, propongono, valutano se scendere in piazza, si chiedono se davvero qualcuno è disposto a farsi arrestare per “la causa”.
Ma la vera domanda è, perchè in Italia i Gilet Gialli dovrebbero esistere?
A leggere la maggior parte dei commenti si tratta di persone che hanno votato uno dei due partiti di maggioranza. Come mai non vogliono lasciare che il governo del cambiamento faccia il suo lavoro?
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 7th, 2018 Riccardo Fucile
CON QUELLO CHE VIENE SOTTRATTO SI RISOLVEREBBERO I PROBLEMI DEL PAESE, MA SALVINI E DI MAIO NON HANNO LE PALLE PER AFFRONTARE LA VERA EMERGENZA DEL PAESE… PIU’ FACILE CRIMINALIZZARE GLI IMMIGRATI
È l’Italia il Paese con il più alto livello di corruzione in Europa. Almeno in termini assoluti e non in percentuale al Pil.
Ogni anno perdiamo infatti 236,8 miliardi di ricchezza, circa il 13 per cento del prodotto interno lordo, pari a 3.903 euro per abitante.
La cifra della corruzione, già impressionante di per se, è due volte più alta di quella della Francia, pari a 120 miliardi di euro e al 6 per cento del Pil e di quella della Germania, dove la corruzione costa 104 miliardi di euro (il 4 per cento del Pil).
Questi sono i numeri contenuti in uno studio pubblicato dal gruppo dei Verdi europei basato sulle analisi condotte dalla ong americana RAND per il parlamento europeo, relatrice la deputata 5 Stelle Laura Ferrara.
Complessivamente l’Unione europea perde per corruzione 904 miliardi di euro di prodotto interno lordo se si includono nel calcolo anche gli effetti indiretti, come le mancate entrate fiscali e la riduzione degli investimenti esteri. Tanto per mettere le cifre in contesto: porre fine alla fame del mondo costerebbe 229 miliardi; fornire educazione primaria a tutti i bambini dei 46 Paesi più poveri del globo 22 miliardi; 4 miliardi per eliminare la malaria; 129 miliardi per offrire acqua pulita e fognature a tutti gli esseri umani.
In Europa le persone non credono che gli sforzi del governo per combattere la corruzione siano efficaci e le uniche istituzioni di cui hanno fiducia a larga maggioranza sono le forze di polizia. La fiducia nelle istituzioni europee poi è bassissima: si ferma al 4 per cento.
All’interno della Ue, il Paese più corrotto in termini di perdita percentuale del prodotto interno lordo è la Romania, con il 15,6 per cento di perdita del Pil.
Non è un caso. Il suo governo socialista, che sta per presiedere il prossimo semestre dell’Unione, è da tempo nel mirino della Commissione e del parlamento europeo per le misure legislative prese con lo scopo di coprire la corruzione. E la mancanza di lotta contro la corruzione è stata al centro di uno dei rapporti più duri inviati recentemente da Bruxelles a Bucarest.
Più in generale, la corruzione sembra essere un vero problema per l’Europa dell’Est, oltre che per l’Italia: Bulgaria, Lettonia e Grecia perdono circa il 14 per cento di Pil ogni anno, la Croazia il 13,5 per cento, la Slovacchia il 13, la Repubblica Ceca il 12.
Al contrario, è l’Olanda — una notizia che non dovrebbe essere una sorpresa per chi segue le vicende europee — il Paese più virtuoso.
Qui la corruzione vale solo lo 0,76 per cento del Pil (circa 4,4 miliardi di euro). Sul podio sono anche Danimarca e la Finlandia, 4 miliardi entrambe, rispettivamente il 2 e il 2,5 per cento del Pil. E non se la cava male nemmeno il Regno Unito dove la corruzione ruba al Pil “solo” il 2,3 per cento, ovvero circa 41 miliardi di euro.
Con riferimento al nostro Paese, lo studio mette in evidenza come le risorse così sprecate potrebbero da sole risolvere le maggiori emergenze sociali.
La perdita di ricchezza dovuta alla corruzione è infatti pari a oltre una volta e mezza il budget nazionale per la sanità pubblica; a 16 volte gli stanziamenti per combattere la disoccupazione; a 12 volte i fondi per le forze di polizia e addirittura è di 337 volte più grande della spesa per le abitazioni sociali.
Per non parlare degli investimenti sull’istruzione, nota dolente, che con quei soldi potrebbero essere più che triplicati. Infine, se quei 237 miliardi fossero distribuiti agli italiani basterebbero per dare a oltre il 18 per cento della popolazione 21mila euro l’anno, la media nazionale.
In oltre la metà degli stati europei (Italia, Bulgaria, repubblica ceca, Croazia, Cipro, Grecia, Ungheria, Lituania Lettonia, Romania, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna) l’80 per cento degli abitanti ritiene che la corruzione sia un fenomeno diffuso nel loro Paese al punto che la maggioranza di loro non la denuncia.
Un’abitudine al peggio che viene ribadita anche in un sondaggio condotto da Eurostat nel 2017, secondo cui il 55 per cento degli intervistati riteneva che l’alto livello di corruzione fosse peggiorato negli tre anni precedenti e il 30 percento che fosse rimasto allo stesso livello. Solo il 4 percento pensava che fosse diminuito. E difatti l’89 per cento degli italiani pensa che la corruzione sia estremamente diffusa nel Bel Paese, con l’84 per cento convinto addirittura che faccia parte della cultura d’impresa del Paese.
Ma c’è un segno di speranza. Secondo il 79 per cento la corruzione non è un fenomeno accettabile e dovrebbe essere combattuta aggressivamente. Se solo lo Stato lo volesse.
(da agenzie)
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