Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
SALVINI E’ INCUPITO E HA RIPRESO A COMPRARE LE SIGARETTE, NON SOLO A SCROCCARLE… NELLA LEGA SCONTRO TRA FALCHI E COLOMBE E SALVINI MOSTRA I SUOI LIMITI: UN CONTO E’ COMUNICARE, ALTRA COSA GOVERNARE
Il compleanno della figlia è una buona ragione per non parlare sulla manovra. E per restare, per ore, staccato dal mondo, perchè in fondo, dice qualcuno che ha parlato con lui, “sono loro che hanno fatto le balconate, non noi”. E adesso l’onere di gestire la retromarcia tocca più a loro, ai Cinque Stelle.
È così che il solitamente ciarliero Salvini appare, anche a chi ha una certa consuetudine con lui, insolitamente riservato, asserragliato in un umore cupo.
Perchè è vero che le “balconate” le hanno fatte “loro”, e magari è più facile rispetto a “loro” affrontare questa Caporetto politica di una manovra stracciata e riscritta, ma per la prima volta il leader della Lega si trova a gestire la smentita di se stesso, col fardello di una grande pressione dei suoi.
Il convegno con Giorgia Meloni è invece una buona ragione per parlare, per il solitamente taciturno Giancarlo Giorgetti, che per la prima volta evoca la parola magica, il “voto”, “qualora non sarà più possibile realizzare il contratto di governo”. Frase che può anche sembrare rassicurante, e in parte lo è, perchè Giorgetti sta negando quello che in parecchi anche tra i suoi vogliono: un manovrone parlamentare, che porti al governo col centrodestra, con i famosi responsabili evocati da Berlusconi…
Però ci sono parole che valgono come una spia rossa sul cruscotto di una macchina, soprattutto nel giorno in cui Di Maio dice che non si voterà mai.
E soprattutto se, nell’ambito dello stesso ragionamento, il potente sottosegretario a palazzo Chigi dice ciò che imprenditori, artigiani, commercianti pensano e dicono, come mercoledì alla manifestazione di Confartigianato.
E cioè che il reddito di cittadinanza “magari piace all’Italia che non ci piace con cui dobbiamo governare”. La spia suggerisce che c’è un guasto al motore, anche se finora è andato a pieni giri.
Ed è per questo che parlare con Salvini è un’impresa. “È infastidito”, continuano a dire i suoi.
E deve esserci del vero se, dopo aver ricominciato a fumare, ha ricominciato anche a comprare le sigarette, e non solo a chiederle qua e là .
Salvini è un leader più attento alla comunicazione che al “governo”, ma ci sono dei momenti in cui non tutto si gestisce con la comunicazione.
E il problema è una manovra che non soddisfa le belve del sovranismo che pure ha aizzato ai tempi in cui lo spread si mangiava a colazione, ma al tempo stesso non soddisfa il “partito del Pil” che pure ha ricevuto al Viminale qualche giorno fa.
E che, come il grosso del suo partito, la pensa come Giorgetti.
È una vecchia storia, che prima o poi vivono tutti i leader. Quando va tutto bene è facile gestire anche gli opposti, ma alla prima difficoltà gli opposti diventano opposte recriminazioni.
E nella Lega, sia un pur in modo discreto, ribollono le tesi opposte, perchè Borghi, il grande teorico della rottura con l’Europa, avrebbe “osato” di più e tenuto il punto.
E Giorgetti, e non solo lui, può facilmente indossare i panni della Cassandra, che l’aveva detto in tempi non sospetti: alla fine si sarebbe arrivati al 2 per cento nel rapporto deficit-Pil e tanto valeva evitare tutto questo casino.
Tesi che non si confrontano in un convegno culturale, ma nella carne di un partito che è al suo massimo storico e alla sua prima, vera difficoltà di governo.
Anche Alberto Brambilla, che Giorgetti voleva all’Inps dice che “quota cento così non funziona e torneranno le finestre”.
Negli altri partiti si chiamano falchi e colombe, nella Lega questa abitudine non c’è. Ma è chiaro che questa Caporetto riguarda gli ideologi alla Borghi e i negoziatori alla Duringon, a cui Salvini ha dato ascolto e fiducia.
Certo, ora la faccia ce la metterà Conte, ma che succede il 18 quando alla Camera si discuterà la mozione della Meloni sul global compact, su cui Conte ha detto una cosa e Salvini il suo contrario?
Il 19 vota l’assemblea generale delle Nazioni Uniti e se è chiaro quel che farà Orban o Macron, i sovranisti e gli anti-sovranisti, nessuno sa cosa farà il governo Conte. Mentre tutti sanno che oggi il governo, in Europa, ha prorogato le sanzioni alla Russia che il leader della Lega avrebbe cancellato con la velocità di un tweet.
E che succederà sulla Tav, dopo che sarà finita l’ammuina della famosa analisi costi-benefici?
Non è una doppia linea di frattura, ma un doppio problema quello da cui Salvini si è isolato col telefono, in queste ore.
Quello che riguarda il governo, e non è banale, quello che riguarda il suo partito, esplosi col detonatore di una manovra ingestibile per il suo mondo.
Dalle poche parole che ha pronunciato Giorgetti, prima del convegno, parecchi hanno ricavato la sensazione che è la pressione sul leader della Lega è davvero forte, anche perchè i più avveduti gli hanno fatto notare che se non costruisce una rottura nei primi sei mesi dell’anno, poi ce n’è un’altra di manovra e le lune di miele elettorali non sono eterne.
Quando trionfò in Veneto, Luca Zaia disse a Salvini: “Abbiamo vinto prendendo il blocco della Dc”. Quello delle camere di commercio, della piccola impresa, del nord dei produttori. È una analisi che ha fatto scuola dentro la Lega. E che sta tornando di moda, dopo l’ubriacatura degli ideologi no euro secondo cui il “popolo” è più largo degli imprenditori.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: governo | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
SCONTRO GIORGETTI-DI MAIO, SCARICABARILE SUI TAGLI: “COSI’ NON SI DURA”
“La tensione si taglia con il coltello”. A sera una fonte M5s di governo mette sul tavolo le carte di una mano rimasta al buio per ore.
I cellulari squillano a vuoto, staff, governo e sottogoverno tacciono. “È comunque normale — spiega la stessa fonte — se non ci fosse in sessione di bilancio quando ci dovrebbe essere?”.
La partita tra Roma e Bruxelles sulla manovra resta intricatissima.
La proposta italiana di scendere al 2,04% nel rapporto deficit/Pil condivisa dal presidente del Consiglio con il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha di per sè obbligato Movimento 5 stelle e Lega ad asciugare i denari stanziati rispettivamente per reddito di cittadinanza (da 9 a 7,5 miliardi) e riforma della Fornero (da 6,7 a circa 4,5).
E nonostante il premier assicuri che “non sia stato affatto difficile convincere Salvini e Di Maio”, è da mercoledì che l’aria tra le rispettive war room è diventata elettrica.
Il leader della Lega si è inabissato: “Sono affari vostri, noi abbiamo dato” ha fatto sapere a premier e alleati facendo perdere le tracce per una due giorni dedicata ai figli e sostanzialmente staccando il telefono.
“Più di così non possiamo fare”, ha ribadito in un gioco di specchi il capo politico del Movimento 5 stelle, al quale il taglio del reddito è costato non poco.
Il punto è che Conte e Tria sono ripartiti da Bruxelles con un’ulteriore richiesta di sforzo da parte dell’Europa.
“Sul deficit/Pil possiamo chiudere un occhio — il senso del messaggio — ma il deficit strutturale deve calare ulteriormente”.
Non basta dunque il mastodontico piano di dismissioni (che al momento rimane sulla carta, di fatto un “pagherò”), un maggiore impegno sugli investimenti, la promessa di uno sprint maggiore sui tagli.
Serve ridurre l’impatto delle misure portanti.
Dall’incontro fra Conte e Angela Merkel filtra una forte preoccupazione soprattutto sul versante quota 100.
“La Fornero è una delle poche riforme strutturali positive”, spiegano a Bruxelles, non accontentandosi della durata triennale assicurata dalla Lega. Salvini riaffiora a pelo d’acqua per gelare qualsiasi ulteriore sforzo su quel versante: “Quota cento non si tocca”, tuona raggiunto dall’agenzia di stampa Agi. E conferma che la misura deve essere “triennale, con prima finestra utile ad aprile”.
La Lega fiuta gli spin dei 5 stelle che riversano sulla loro misura chiave l’onere di evitare la procedura d’infrazione. E si inviperisce.
Giancarlo Giorgetti è al Senato. Parla in un potenzialmente innocuo convegno sui populismi. E tira un fendente micidiale: “Il rischio è che il reddito di cittadinanza aumenti il lavoro nero, piace all’Italia che non ci piace”.
Sbam, uno schiaffo in piena faccia agli alleati. I pompieri leghisti si affannano a spiegare che “sapete come è Giancarlo, è uno schietto che dice quel che pensa ma non rema contro”. Ma le parole, collocate nel bel mezzo di una fase delicatissima, pesano come macigni.
Di Maio si affretta ad arginarle. Raccontano che il leader 5 stelle sia furioso. Ma spiegano anche che sia convinto che l’impatto strutturale di quota 100 sia il vero nodo rimasto in campo, e decide di non forzare la mano con una replica che sarebbe potuta essere decisamente più dura: “Non è tra i rischi che stiamo contemplando nel senso che l’ispettorato del lavoro e la Guardia di Finanza saranno a lavoro ogni giorno. Ho anche letto di una sua dichiarazione per cui il reddito di cittadinanza piace ad un’Italia che non piace a Giorgetti. A me l’Italia piace tutta, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, e sono orgoglioso di questo paese”.
Mentre a Roma vanno in scena cannoneggiamenti sulle rispettive trincee, Conte e Tria si infilano in aereo, verso una quattro giorni di passione e tensioni, con i tecnici del Tesoro rimasti in Belgio a limare la parte tecnica.
Ore di passione perchè martedì, al massimo mercoledì, un maxiemendamento dovrà mettere nero su bianco al Senato i nuovi saldi, pena la partenza della procedura d’infrazione.
E non sono solo quota 100 e reddito a dividere i 5 stelle: “Sai quanti emendamenti sono in gioco?
I 5 stelle sono convinti: a Giorgetti è scappata la frizione perchè è furioso per il loro no alla proroga della pubblicità sul gioco d’azzardo, fonte di finanziamento cruciale per il comparto dello sport, a lui molto caro.
È un tutti contro tutti, fibrillazioni che si muovono pericolosamente sul crinale del normale caos di sessione di bilancio e di pericolose spinte centrifughe verso la rottura. E negli ambienti di alcuni tecnici al governo rimbalza la domanda: “Possiamo anche superare lo scoglio della manovra, ma così come stiamo andando avanti adesso non si dura”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Europa | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
I PENDOLARI CONTE E TRIA FANNO IL PIENO DI RILIEVI E TORNANO A ROMA A RIFERIRE AI DUE FUORICORSO… I PAESI DEL NORD NON CI STANNO
“Stiamo lavorando, c’è lo staff tecnico che sta lavorando, per poter compiere gli ultimi dettagli per completare la nostra proposta”. Se c’è una questione su cui Giuseppe Conte non si sbilancia, parlando della trattativa con l’Ue sulla manovra economica nella lunga conferenza stampa al termine del Consiglio europeo a Bruxelles, è il deficit strutturale.
E’ su questo che l’Europa chiede all’Italia maggiori sforzi, pur apprezzando la scelta di ridurre quello nominale dal 2,4 per cento al 2,04 per cento.
Lo hanno sottolineato a Giovanni Tria i commissari Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis, che il ministro ha incontrato di nuovo oggi.
Lo ha rilevato Angela Merkel nel bilaterale con Conte stamattina: una Cancelliera molto disponibile e determinata a evitare le sanzioni contro Roma, ma preoccupata per l’intervento sulle pensioni, ‘quota cento’, voluto da Matteo Salvini.
E anche nel bilaterale con il premier olandese Mark Rutte la musica è stata la stessa. “La Commissione sia ferma sulle regole del Patto”, dirà dopo Rutte, il più ostile a Roma sulle spese in deficit.
Questo non vuol dire che la trattativa con la Commissione si sia inceppata. Conte, esattamente come Merkel, si dice “fiducioso in una soluzione positiva”.
Ma qui a Bruxelles, negli ultimi due giorni di negoziati senza sosta, il governo ha fatto il pieno dei rilievi europei e ora li porta a Roma per dirimerli come al solito con i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Resta qui solo la delegazione dei tecnici del Tesoro al lavoro con quelli della Commissione, che nel weekend è chiusa ma il negoziato continua lo stesso.
Si sono trasferiti nel vicino Palazzo Charlemagne e lì hanno cominciato a scrivere un documento con diverse opzioni in campo. Poi però tocca alla politica decidere. E’ questo il punto, ancora questo.
A sorpresa, al termine della conferenza stampa di Conte, Tria dice che anche lui stasera torna a Roma: “Qui restano i miei tecnici, con cui sono in contatto costante”. Però fino a ieri il ministro aveva programmato di rimanere qui tutto il weekend, fino a missione compiuta, pronto per fare altri incontri politici con i commissari per chiudere questa tenzone tra Italia ed Europa che dura ormai da mesi. Non è così. “Speriamo di chiudere entro il weekend”, dice Conte ma non sembra molto convinto.
Perchè di fatto, in queste ultime 24 ore, il governo ha guadagnato un giorno in più: c’è anche tutta la giornata di lunedì.
In quanto si è deciso di presentare il maxiemendamento che modificherà la manovra, licenziata dalla Camera e ormai superata alla luce delle trattative con l’Ue, direttamente in aula al Senato e non in commissione. Altre 24 ore di tempo.
Ma le questioni da dirimere non sono più a Bruxelles bensì a Roma: almeno sul livello politico, che è quello che serve.
Le preoccupazioni europee restano concentrate su ‘quota cento’, provvedimento sul quale Salvini non intende mollare. Ufficialmente nemmeno Conte retrocede. Anzi rispondendo ad una domanda precisa in conferenza stampa si piazza come al solito in posizione esattamente mediana tra le richieste leghiste e quelle pentastellate.
“Reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni verranno realizzate così come sono state concepite, programmate, annunciate – insiste il capo del governo – conoscerete i testi normativi, nessun arretramento su questo”.
Ma l’Ue chiede uno sforzo in più altrimenti non riuscirà a convincere i falchi del nord, meno facili alla trattativa con Roma, a evitare la procedura di infrazione.
Dall’altro lato il governo cerca di resistere, almeno nelle dichiarazioni ufficiali. Conte in conferenza stampa difende fino alla fine il nuovo documento programmatico di bilancio presentato mercoledì scorso a Juncker, con saldi diversi da quello bocciato, una marcia indietro in sostanza.
Il massimo che può fare Bruxelles in queste condizioni è far slittare le raccomandazioni per l’Italia, penultimo passo prima dell’apertura formale della procedura, a dopo Natale.
Al momento la riunione di mercoledì in Commissione non si presenta in termini ostili, ma nemmeno come l’occasione per chiudere formalmente l’ipotesi delle sanzioni.
L’Ue potrebbe prendere altro tempo e aspettare che la manovra venga approvata definitivamente dal Parlamento a fine dicembre: non si sa mai. Se cambiasse rispetto ad un eventuale accordo raggiunto qui a Bruxelles, la procedura di infrazione battezzerebbe il nuovo anno per il governo gialloverde.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Europa | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
SE UN INCENERITORE E’ A CINQUESTELLE NON INQUINA PIU’?
L’incendio al TMB AMA Nuovo Salario rischiava di creare un bel problema per la sindaca di Roma Virginia Raggi.
Senza quell’impianto di trattamento dei rifiuti, che si occupava dello “smaltimento” di circa un quinto delle 4.500 tonnellate di indifferenziato prodotte giornalmente nella Capitale, il sistema di gestione dei rifiuti della rischia di andare al collasso.
Per di più a pochi giorni dalle festività natalizie. La Raggi ha dovuto quindi escogitare un sistema per evitare, o quantomeno scongiurare, l’ennesima emergenza rifiuti.
La soluzione più ovvia è quella di esportare in altri impianti italiani i rifiuti prodotti nella Capitale.
Ma dove? Ieri il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini è stato categorico. Memore delle polemiche scatenate ad arte dai pentastellati un anno fa ha dichiarato all’AdnKronos «Voglio vederli chiederci una mano dopo che ci hanno irriso e deriso lo scorso anno solo perchè avevamo dato disponibilità . Quindi mi auguro che nessuno ci venga a chiedere nulla».
Lo scorso anno a Bonaccini arrivò una richiesta da parte della Regione Lazio (su richiesta di AMA) per l’utilizzo del termovalorizzatore di Parma; la Regione diede il consenso e «poi mi arrivarono gli insulti del Movimento 5 stelle dicendo che volevo strumentalizzare politicamente», ricorda Bonaccini.
Effettivamente fu proprio così. Bonaccini accettò di aiutare Roma, sommersa dai rifiuti, e per tutta risposta il M5S mise in modo la macchina del fango per spiegare che nella Capitale non c’era nessuna emergenza spiegando quello degli inceneritori è un “business ghiotto” (quindi moralmente sbagliato?) e che se la monezza di Roma andava fuori Regione era colpa del PD e del Governo.
Alla fine i rifiuti romani se ne andarono in Abruzzo, senza troppo clamore. E nei giorni scorsi è già stata inoltrata una richiesta di proroga.
Oggi poi Virginia Raggi ha fatto sapere via Twitter che Torino è pronta a sostenere Roma dopo l’incendio all’impianto dei rifiuti. Nessuna proposta formale, per il momento, ma la disponibilità della Appendino c’è.
C’è un problema però: a Torino c’è un inceneritore.
Ma gli inceneritori non erano il male assoluto che uccideva i cittadini?
Quest’anno la musica è cambiata, e non si parla più di strumentalizzazioni. Al governo ci sono i 5 Stelle che proprio qualche tempo fa sono stati protagonisti di un simpatico battibecco con la Lega sulla questione dei termovalorizzatori (che il M5S si ostina a chiamare inceneritori).
Da sempre il MoVimento 5 Stelle è contro i cosiddetti “inceneritori”, al punto che Grillo si era detto pronto a “passare sul cadavere di Pizzarotti” nel caso quello di Parma fosse entrato in servizio.
Non è andata così, ed anzi sono molti i sindaci pentastellati che mandano i rifiuti prodotti dai loro cittadini negli impianti di termovalorizzazione.
A Roma la questione è ancora più delicata. La sindaca Raggi non vuole un inceneritore sul territorio comunale di Roma perchè gli inceneritori avvelenano la gente (oltre ad essere un ottimo affare per le mafie, come hanno ricordato Di Maio&Fico).
Allo stesso tempo però la Raggi, come Comune di Roma, spedisce i rifiuti dei romani in giro per l’Italia, dove finiscono in impianti di termovalorizzazione.
Al tempo stesso però il presidente e AD di AMA (scelto dai 5 Stelle) ha chiesto il revamping — la riaccensione — dell’inceneritore di Colleferro. E non finisce qui perchè ACEA — la multiutility di cui il Comune è azionista di maggioranza — è proprietaria di due termovalorizzatori quello di Terni e quello a San Vittore del Lazio.
Quello della Raggi è un classico esempio di sindrome NIMBY, not in my back yard. L’importante è che i rifiuti vadano altrove, non importa come e dove.
Caso curioso quindi che sia proprio Torino, amministrata dal M5S, ad offrire il suo aiuto alla Raggi.
Evidentemente se un inceneritore è a 5 Stelle non inquina. Oppure i cittadini torinesi sono di serie B rispetto ai romani?
Fatto sta che quando il M5S sabaudo era all’opposizione aveva ben altri progetti per l’inceneritore di Gerbido. Al punto che nel programma elettorale di Chiara Appendino era stato messo nero su bianco la promessa di una progressiva riduzione del rifiuto indifferenziato conferito all’inceneritore.
Con l’arrivo dei rifiuti romani però l’inceneritore finirebbe per lavorare “di più” e non di meno. Ovvero, stando alla stringente logica pentastellata, ad inquinare di più e ad avvelenare di più.
Poco male però, perchè ad essere “avvelenati” saranno i cittadini di Torino e non gli elettori della Raggi.
Curioso poi come ad aprile la sindaca di Torino avesse ribadito che lo spegnimento dell’inceneritore continuava ad essere una priorità della sua giunta.
Non si registrano però atti concreti in tal senso perchè — spiegavano i 5 Stelle torinesi — l’inceneritore ora è un impianto regionale «ed è tutto più complicato».
Ma se il termovalorizzatore è un impianto regionale, concretamente, che potere decisionale e che disponibilità può dare Chiara Appendino a Virginia Raggi?
(da “NextQuotidiano“)
argomento: denuncia | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
MALUMORI E DELUSIONE PER LA DECISIONE DEL GOVERNO DI CEDERE ALL’UE SUL DEFICIT
Quando il premier Giuseppe Conte ha dichiarato che la proposta italiana di abbassare il deficit dal 2,4 al 2,04% del Pil è “nell’interesse anche dell’Europa” la dolorosa presa di coscienza è ormai completata.
E trovare differenze tra l’approccio del Governo gialloverde e quello che lo ha preceduto è diventata un’impresa ardua.
Alla fine dei giochi tra le parti di un teatro tutto politico, anche i parlamentari euroscettici di M5S e Lega che incarnano il volto puro delle battaglie fatte in campagna elettorale ammettono, a modo loro, la sconfitta: dai leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai al sottosegretario Luciano Barra Caracciolo fino al senatore grillino Elio Lannutti, l’insoddisfazione per come stanno andando le cose tra l’Italia e Bruxelles è visibile, e dà voce ai tanti che soprattutto sui social chiedono conto ai loro rappresentanti di come il Governo possa predicare l’intransigenza e praticare l’accondiscendenza.
La delusione è ancora più tangibile perchè quell’assist che doveva arrivare dallo sforamento annunciato dalla Francia sul deficit, tanto politicamente cavalcato, alla fine non sta dando i risultati sperati: il taglio annunciato da Conte sulla proposta iniziale fatta alla Commissione Europea fa risparmiare circa sette miliardi, che non sono certo spiccioli visto il costo preventivato delle misure centrali della manovra (reddito e quota 100).
E, ha detto Pierre Moscovici, comunque “non ci siamo”.
Il presidente della Commissione Bilancio Claudio Borghi, ospite di Piazza Pulita, non cela preoccupazione: “Se poi succede qualcosa nel corso dell’anno non ci sono più i soldi per far niente”, ha detto a PiazzaPulita. Sarà anche per questo che il Governo ora negozia con la Commissione Ue un possibile scomputo della spesa per il dissesto idrogeologico e per la riduzione dei tempi della giustizia dal calcolo del deficit. In altre parole, una richiesta di “flessibilità ” che stona non poco con i toni battaglieri utilizzati dai gialloverdi fino a qualche giorno fa.
E i sostenitori di Lega e M5S se ne sono accorti.
Le aspettative erano alte, alcuni chiedono dimissioni: “Eh certo, molto logico, sei eletto per portare avanti certe idee e alla prima che non passa ti dimetti così lasci i tuoi elettori senza rappresentanza. Come non averci pensato. Quanti del partito che lei propaganda si sono dimessi dopo l’insuccesso elettorale”, risponde Borghi su twitter. Insomma la prima è persa, e ci si fa a bastare quanto si è riuscito ad ottenere.
Secondo il presidente della Commissione Finanze del Senato Alberto Bagnai, non è poco: lo scarto tra deficit programmatico e tendenziale è di -1,2 con questo governo, la media per quelli tra il 2014 e il 2018 è di -0,4, scrive sul suo blog.
“Il sentiero stretto di Padoan è diventato a quattro corsie”, aggiunge. Ma ammette che rispetto a quanto aveva consigliato in Senato prima della partenza del premier Conte per Bruxelles, “pare che le cose stiano andando in modo diverso”.
Conte non ha seguito i consigli del senatore e “voi, che avete meno informazioni di me, siete liberi di leggere questo risultato come una mia sconfitta”.
E aggiunge: “L’acquiescenza a richieste che in termini economici sono del tutto surreali viene vista da molti di voi come una inopportuna arrendevolezza. Può darsi”.
Ad essere profondamente deluso è invece il senatore grillino Elio Lannutti: “Dopo il 3,4% della Francia, dovevamo rilanciare al 3% almeno. Parlo per me, che sono molto arrabbiato per questo immotivato cedimento, specie dopo la rivolta dei gilet gialli. Così non va!”.
Il sottosegretario all’Economia Luciano Barra Caracciolo è scettico: “Naturalmente per il 2020 sarà in più necessaria manovra fine 2019 di taglio di almeno 0.6. Non negoziabile. Quale che sia la maggioranza (si fa per dire) nel parlamento europeo in esito alle elezioni di maggio”.
Sul sito ScenariEconomici che da sempre appoggia la linea economica del Governo Gialloverde e sul quale si possono leggere a volte interventi del ministro Paolo Savona, sono apparsi diversi articoli critici nei confronti del cedimento di Conte alle richieste dei Commissari Moscovici e Dombrovskis.
A proposito di Savona, il ministro per gli Affari Ue non si è ancora espresso sulla trattativa in corso con l’Ue: d’altronde, fu lui stesso a dire che ci sarebbe stata la possibilità di trovarsi di fronte a una “scelta drammatica”, nello scontro con Bruxelles, e che questa scelta sarebbe poi spettata al Parlamento.
Qui sta per arrivare la nuova manovra a saldi di bilancio variati di uno “zero virgola”, frutto di una contrattazione tecnica che in realtà cela la partita tutta politica: quella tra i leader del Governo del Cambiamento e la Commissione Europea che, nella ferrea applicazione dei Trattati, non cambia mai.
Anche su questo il Parlamento sarà chiamato a dare il suo voto, caricandolo di significato.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: finanziaria | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
“DAL TERRORISMO A SALVINI, NE E’ SEMPRE VALSA LA PENA”
Due amici, in fasi diverse della sua vita, gli hanno posto la domanda delle domande. Il primo è Ago, maresciallo dei carabinieri protagonista di tante indagini sul terrorismo e sulla mafia: “Armando, ma ne valeva davvero la pena?”.
Era una fredda giornata degli anni Novanta e Armando, il magistrato Armando Spataro, aveva appena terminato una commemorazione del collega Emilio Alessandrini, ucciso da Prima linea il 29 gennaio 1979.
Il secondo è Ferdinando Pomarici, magistrato che Spataro considera, più che un collega, un fratello, e che nel 2008 gli manda un sms: “Proprio sicuri di aver fatto bene a rischiare la pelle contro le Br?”.
Ago si riferiva all’ennesima, ricorrente stagione di attacchi della politica alla magistratura. Pomarici alle accuse di aver violato il segreto di Stato durante le indagini per il sequestro di Abu Omar. Più spiccio, oggi, Matteo Salvini, instancabile ministro dell’Interno, che pochi giorni fa a Spataro, che lo accusava di aver rivelato via tweet arresti che erano ancora in corso, ha risposto con un secco: “Gli auguro un futuro serenissimo da pensionato”.
Ora il momento è arrivato: ne valeva la pena?
Per rispondere, e rispondere sì, Spataro ha scritto qualche anno fa un libro di oltre 600 pagine (Ne valeva la pena, Laterza). E oggi non ha cambiato idea.
Spiega perchè mostrando un poster che ha portato con sè in ogni cambio d’ufficio, prima a Milano e poi a Torino. Riproduce un quadro di Norman Rockwell con una bambina di colore di 6 anni, Ruby Bridges, che entra in una scuola della Louisiana scortata da quattro agenti federali: dovevano far rispettare la sentenza della Corte suprema che imponeva alla scuola “bianca” di accoglierla.
“Il quadro”, spiega Spataro, “rappresenta la forza della legge e, insieme, l’orgoglio e il coraggio di chi, debole, solo alla legge si affida, come la bambina che incede a testa alta”.
Ci hanno provato in tanti a fargli cambiare idea, per tutta la sua carriera in cui ha incrociato il terrorismo, la mafia, la corruzione politica.
Ma quelle di Spataro sono braccia rubate alla pallanuoto. Da giovane, a Taranto, dov’è nato, gioca nella Rari nantes di cui era anche l’allenatore.
Adora Bob Dylan e la musica della West Coast, che fa ascoltare in un programma curato in una delle prime radio libere, Radio Taranto.
Nel 1976, la svolta: decide di lasciare la radio, la moto e soprattutto la pallanuoto, da cui non riusciva proprio a staccarsi.
Sposa Rosalia e dopo aver vinto il concorso di magistratura sceglie, per non avere ripensamenti, la sede giudiziaria più lontana dalle piscine della Rari nantes: Milano. Viene catapultato nelle indagini che Pomarici svolgeva sui sequestri di persona. Poi il procuratore Mauro Gresti gli affida il ruolo di pm nel processo milanese contro il fondatore delle Br, Renato Curcio: per non esporre i magistrati più noti come Emilio Alessandrini, Ferdinando Pomarici, Guido Viola…
Vede cadere i colleghi Alessandrini e Guido Galli, sulla cui agendina telefonica era scritto: “Se mi succede qualcosa, telefonate ad Armando Spataro, tel n…”.
Conduce le indagini — tra mille polemiche — sull’omicidio del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Con Pomarici e i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa scopre la base Br di via Monte Nevoso, con infinite polemiche sul memoriale di Moro trovato dodici anni dopo in un’intercapedine: “Falsi misteri”, commenta.
Negli anni Novanta è tra i magistrati che a Milano indagano — finalmente — sulle organizzazioni mafiose che si sono saldamente insediate anche in Lombardia, nell’assordante silenzio della politica che ripete che “a Milano la mafia non c’è”.
Pm per tutta la sua carriera, magistrato d’indagine e d’accusa. Con una pausa: quella che tra il 1998 e il 2002 lo porta a Roma, al Consiglio superiore della magistratura, eletto nelle file del Movimento per la giustizia, il gruppo “eretico” di magistrati che aveva contribuito a fondare insieme a Giovanni Falcone.
Prima aveva partecipato alle attività del circolo Società civile, fondato a Milano da Nando dalla Chiesa con l’obiettivo di restituire alla società civile gli spazi che i partiti, di destra e di sinistra, avevano occupato nelle istituzioni, lottizzandole e inserendovi robuste dosi di corruzione.
L’indagine che gli cambia la vita è del 2003: a Milano scompare un imam egiziano, Abu Omar. Partono depistaggi e intossicazioni informative, ma Spataro e Pomarici scoprono che è un rapimento, una extraordinary rendition organizzata dall’amministrazione Usa e messa in atto da agenti Cia.
“Il caso Abu Omar ha cambiato il mio modo di considerare i rapporti istituzionali e il ruolo della politica”, ammette Spataro. I suoi principi per cui la legge è uguale per tutti e i diritti devono valere anche per il peggiore dei criminali (“Gli uomini delle istituzioni non possono comportarsi come l’Anonima sequestri”) vengono messi a dura prova da una vicenda in cui alcuni agenti americani, scoperti, processati e condannati, vengono prontamente graziati dal capo dello Stato e in cui cinque governi (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) impongono il segreto di Stato e aprono il conflitto di poteri con i magistrati, rendendo improcessabili il direttore del servizio segreto militare italiano e i suoi uomini.
“Cambiano i governi, ma nessuno sarà mai disposto ad accettare fino in fondo il ruolo che la Costituzione affida alla magistratura”, ripete.
Ora Spataro va in pensione, convinto comunque che “ne valeva la pena”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
I SALDI MIGRATORI PER GLI ULTRA 24ENNI SONO NEGATIVI PER 244.000 UNITA’
In aumento i laureati italiani che si trasferiscono all’estero, nel 2017 sono quasi 28 mila (+4% sul 2016). In forte aumento tra 2013 e 2017 il numero di emigrati diplomati (+32,9%) e laureati (41,8%).
E’ quanto emerge dal rapporto Istat “Mobilità interna e migrazioni internazionali della popolazione residente – Anno 2017”, in cui viene sottolineato che “in cinque anni l’Italia perde oltre 156 mila laureati e diplomati”.
Nel 2017, più della metà dei cittadini italiani che si trasferiscono all’estero (52,6%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33 mila diplomati e 28 mila laureati.
Rispetto all’anno precedente, il numero di diplomati emigrati è sostanzialmente stabile mentre quello dei laureati mostra un lieve aumento (+3,9%).
Tuttavia l’aumento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto al 2013, gli emigrati diplomati aumentano del 32,9% e i laureati del 41,8%.
Guardando l’età , gli espatriati di 25 anni e più sono 82 mila e 31 mila quelli rimpatriati nella stessa fascia di età : il loro saldo migratorio con l’estero è negativo per oltre 51 mila unità , di cui 13 mila laureati (26,2%) e 19 mila diplomati (36,7%).
I saldi migratori cumulati dal 2013 al 2017, calcolati per gli emigrati ultra 24enni, evidenziano una perdita netta di popolazione italiana di quella fascia di età di circa 244 mila unità , di cui il 64% possiede un titolo di studio medio-alto
Le motivazioni che spingono i giovani migranti a lasciare l’Italia sono da attribuire in parte all’andamento negativo del mercato del lavoro italiano e, in parte, alla nuova ottica di globalizzazione, che induce i giovani più qualificati a investire il proprio talento nei Paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione.
(da agenzie)
argomento: Costume | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
LA UE BLOCCA I FONDI E GLI INTIMA DI RESTITUIRE QUELLI RICEVUTI, BEN 84 MILIONI DI EURO… E’ UN VIZIO DEI SOVRANISTI FOTTERSI I SOLDI
E’ il primo ministro, ma è stato il fondatore e ha ancora voce in capitolo sui bilanci del gigante ceco dell’agroalimentare che da anni prende fondi europei per l’agricoltura: 84 milioni nel solo 2017.
Lui, Andrej BabiÅ¡, capo del governo della Repubblica Ceca, nega ma ora il Parlamento Europeo ha chiesto alla Commissione di “sospendere tutti i finanziamenti dell’Ue destinati al gruppo Agrofert fino al completamento delle indagini e alla risoluzione del conflitto di interessi“.
La questione ha una forte rilevanza politica: Agrofert guarda con occhio attento a molte delle questioni in gioco nella riforma della politica agricola comune e nei negoziati sul bilancio dell’Unione in corso in questi giorni a Bruxelles in sede di Consiglio Ue.
L’indicazione non poteva essere più chiara. Giovedì l’assemblea di Strasburgo ha adottato una risoluzione “sul conflitto di interessi e la protezione del bilancio dell’Ue in Repubblica ceca” con 434 voti a favore, 64 contrari e 47 astensioni: nel testo presentato dai Verdi con il sostegno del Ppe, l’Europarlamento “si rammarica del fatto che per lungo tempo la Commissione sia rimasta passiva, nonostante fin dal 2014 vi fossero forti indizi relativi a un conflitto di interessi di Andrej BabiÅ¡ nella sua funzione di ministro delle Finanze e successivamente di primo ministro”, sollecita la sospensione di tutti i sussidi comunitari nei confronti del gruppo e chiede che tutti i fondi ricevuti da Agrofert “illegalmente o irregolarmente” siano recuperati.
Il caso era scoppiato a settembre dopo una denuncia di Transparency International Repubblica ceca, secondo cui BabiÅ¡ — che, oltre che leader del partito Ano 2011 e capo del governo dal 2014, è anche un imprenditore di successo i cui interessi spaziano dall’agroalimentare al settore dei media — continui a controllare la holding Agrofert attraverso vari fondi fiduciari, nei quali a febbraio 2017 aveva trasferito i suoi beni per soddisfare le leggi ceche sul conflitto di interessi.
Secondo la sollecitazione inviata dall’organizzazione alla Commissione Ue, la holding dell’agro-chimico-alimentare continua a profittare dei finanziamenti comunitari e BabiÅ¡, in quanto premier, partecipa alla definizione del bilancio europeo e non si può dunque escludere che sia in conflitto di interessi.
Con un ulteriore problema politico: la Repubblica Ceca orbita in quell’area Visegrad che contesta alla base le politiche di Bruxelles continuando a beneficiare dei fondi comunitari.
“Transparency International non ha alcuna prova“, aveva risposto all’epoca BabiÅ¡, accusando il capo del ramo ceco dell’organizzazione di prendere “parte a una lotta politica contro di me”.
Ora la palla passa alla Commissione, cui la risoluzione votata a Strasburgo chiede di esaminare “la legittimità di tutte le sovvenzioni versate al gruppo Agrofert da quando Andrej BabiÅ¡ è entrato a far parte del governo ceco”.
Mercoledì, affrontando la questione in Parlamento, il commissario per il bilancio dell’Unione Gà¼nther Oettinger ha dichiarato che l’esecutivo non ha intenzione di erogare sussidi alle società collegate a BabiÅ¡ finchè la situazione non sarà risolta.
“La situazione legale non è stata chiarita in modo soddisfacente — ha detto il Oettinger secondo Radio Praga — i potenziali conflitti di interessi non sono stati eliminati”
Secondo il quotidiano Hospodarske noviny l’anno scorso il gruppo Agrofert, il più grande datore di lavoro privato del Paese, aveva ricevuto dai fondi europei la cifra record pari a 2,1 miliardi di corone, circa 84 milioni di euro.
In un comunicato di giovedì la holding, che nel 2017 ha totalizzato 4,8 miliardi di corone (186 milioni di euro) in profitti, ha fatto sapere che le sue attività in Repubblica Ceca hanno ricevuto 10,24 miliardi di corone in sussidi tra il 2006 e il 2017.
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Europa | Commenta »
Dicembre 14th, 2018 Riccardo Fucile
NON SOLO RAZZISTA, ORA PURE SCHIAVISTA CON 400 ORE DI LAVORO STRAORDINARIO
Prima il razzismo, poi lo sfruttamnento e infine la limitazione delle libertà .
Una ‘ricetta’ che ha provocato scontri violenti fino a tarda notte, a Budapest, fra manifestanti che protestano contro il governo e la polizia, sulla piazza davanti al Parlamento.
In migliaia hanno protestato ieri sera di nuovo contro la legge sugli straordinari, ribattezzata «schiavista», che aumenta a 400 ore l’anno gli straordinari dei lavoratori.
La mobilitazione è motivata però anche dalle misure che minacciano la libertà accademica e il forzato trasferimento da Budapest della Ceu, istituto fondato da George Soros.
La polizia è intervenuta con ingenti forze, usando gas lacrimogeno e urticante al peperoncino. Secondo un primo bilancio ci sarebbero 30 feriti, fra cui anche due poliziotti
Gli scontri sono continuati fino a tarda notte: molti giovani hanno occupato due ponti sul Danubio, e sono ritornati più volte sulla piazza del Parlamento. La polizia ha fermato una decina di persone.
I manifestanti hanno usato fumogeni. Il corteo ha esibito cartelli con le scritte: «Non siamo schiavi!», «Paese libero, università libera!». La folla scandiva fra l’altro: «Orban vattene!».
L’opposizione intende ricorrere alla Corte costituzionale per la legge controversa.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Europa | Commenta »