Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
BOCCIATA DAL 54% DEGLI ITALIANI, A FAVORE SOLO IL 38%… E’ STATA UNA MARCIA INDIETRO PER IL 61%, SOLO IL 24% NON LA RITIENE TALE
Uno dei primissimi sondaggi post-manovra è quello firmato da Tecnè.
Rilanciato da TgCom24, non lascia grandi dubbi: gli italiani bocciano senza appello quanto fatto da Lega e M5s.
Nel dettaglio, i giudizi negativi arrivano al 54%, quelli positivi si fermano al 38% mentre il restante 8% si dice senza opinione.
Nel dettaglio, il maggior numero di pareri positivi sulla manovra arriva da quel Sud che, teoricamente, potrà beneficiare più del Nord del reddito di cittadinanza: si arriva al 41 per cento.
Al centro il 39% promuove il testo mentre al Nord soltanto il 36 per cento.
La rivelazione Tecnè chiede anche al campione se la riduzione del deficit al 2,04% debba essere considerata una marcia indietro del governo: per il 36% sì, per il 25% solo in parte, per il 24% no perchè non cambiano gli effetti mentre il restante 15% dice di non avere un’opinione al riguardo.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
ZAIA, FEDRIGA E GIORGETTI GUIDANO LA FRONDA DI CHI NON SOPPORTA PIU’ I SUOI METODI DITTATORIALI
Matteo Salvini, secondo un vibrante retroscena di Dagospia, ora sarebbe inviso anche a una grossa fetta della Lega.
Già in precedenza Dago dava contro di come avesse contro alcuni colonnelli: Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e addirittura Giancarlo Giorgetti.
Secondo il sito, da tempo, i tre avrebbero “perso contatto con il Capitano”.
Ma ora – ed è questa la notizia riportata da Dagospia – ci sarebbe “un’area di parlamentari leghisti sempre più ampia che mal sopporta i metodi dittatoriali del leader, che porta consensi ma non permette a nessun altro di ‘esistere’ politicamente”. Parole pesantissime, quelle di Dago.
E, nel dettaglio, la questione dei 49 milioni di euro agiterebbe il partito: a molti, infatti, non piacerebbe quella che sempre il sito di Roberto D’Agostino definisce “la ricerca di un caprone espiatorio su cui smollare la patata bollente”, che sarebbe stato individuato nell’attuale tesoriere, Giulio Centemero.
Nella Lega cova la rivolta contro il leader?
(da “Libero”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
“IL GOVERNO PIU’ DANNOSO DELLA STORIA REPUBBLICANA”
Vittorio Feltri che non ti aspetti su “Libero”, ecco cosa scrive in un editoriale pensatissimo che cambia la linea del quotidiano filoleghista
“Dispiace vedere uno forte come Salvini diventare lo scendiletto di Di Maio; mette malinconia. Pensavamo fosse tutto di un pezzo e invece i pentastellati lo hanno fatto a pezzetti, piegandolo alle loro ubbie. La cosiddetta manovra, che doveva essere ardita, si è rivelata una specie di suicidio assistito dall’ Europa. Il sovranismo sbandierato dal governicchio è impall”idito. Ma non è questo il problema.
La Lega si è ammosciata per reggere la coda ai cinquestelle che hanno imposto il reddito di cittadinanza, mentre essa ha rinunciato alla Flat tax, cioè la diminuzione drastica delle imposte, preferendo insistere sulla modifica della legge Fornero, combattendo la quale è riuscita a peggiorarla di brutto, penalizzando milioni di pensionati, che hanno pagato inutilmente i contributi all’ Inps. Uno scandalo senza precedenti.
Questo ministero, denominato del cambiamento, non solo ha peggiorato lo status quo: si sta avviando a dimostrarsi il più dannoso della storia repubblicana.
Non riduce di un euro il peso fiscale, anzi lo aumenta, e produce una serie di iniquità spaventose, tipiche dei dilettanti allo sbando. Castiga gli imprenditori, gli unici in grado di rilanciare l’ economia, e incoraggia i fannulloni a non lavorare dato che incasseranno l’ assegno previsto per chi, non sapendo fare un mestiere, se ne sta a casa a grattarsi il ventre. Siamo all’ assurdo, dare soldi a gente senza arte nè parte e toglierne ai vecchi che hanno sgobbato una vita.
Davanti a cotanto sfacelo Salvini non ha battuto ciglio pur di compiacere ai grillini, i quali puntano sull’ assistenzialismo per procacciarsi i voti del Sud. Così agendo egli perderà consensi, come si evince dai recenti sondaggi che lo danno in calo.
.Un Salvini incapace di imporsi a Di Maio rimedia una figura da ciula e rischia di dissipare la propria popolarità . Dispiace. Verificare che un politico cui avevi dato credito si lascia turlupinare da un ragazzetto che bisticcia con i congiuntivi è deprimente.
Inoltre è incomprensibile mortificare l’ editoria, togliendole risorse e, nel contempo foraggiare alla grande il cinema, la Rai (la quale spende milioni per un programma) e mantiene un esercito di sfaccendati, nonchè gli enti lirici.
Giusto dire che le aziende devono stare sul mercato, ma non soltanto quelle giornalistiche. O tutte o nessuna caro leader del Carroccio. Non è lecito dividere coloro che percepiscono in figli e figliastri, altrimenti viene il sospetto che i governanti lecchino le terga di qualcuno e diano calci nel didietro ad altri.
Matteo dice che chiunque è obbligato a sopportare dei sacrifici. Come no? Qui però soffre solamente qualcuno che sta sul gozzo all’ esecutivo più scalcinato dell’ ultimo mezzo secolo.
Poi minacciate di aumentare l’ Iva il prossimo anno. Ci volete mandare in malora, è evidente. Ma non ne sarete capaci perchè vi spediremo in mona noi per primi. Molto presto.
(da “Libero”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
UN NETWORK DI ASSOCIAZIONI PER NASCONDERE I SOLDI, ANCHE CON SALVINI SEGRETARIO… ECCO SU COSA INDAGA LA MAGISTRATURA
Una rete di associazioni usata per svuotare i conti della Lega. Una rete di associazioni usata per finanziare la Lega senza passare dai conti ufficiali.
Sembra un gioco di prestigio, ma è proprio questa l’ipotesi sui cui lavorano i magistrati della procura di Genova, da mesi impegnati a rintracciare i 49 milioni di euro frutto della truffa ai danni dello Stato architettata da Umberto Bossi e Francesco Belsito.
Soldi che escono, soldi che rientrano. Tutto finalizzato a far sparire il tesoro padano e a farlo riapparire sotto altre spoglie, ripulito e pronto per essere utilizzato.
Riciclaggio, insomma: questo è il reato su cui indagano i magistrati genovesi.
Ma anche finanziamento illecito, un’ipotesi su cui si sono messi a lavorare contemporaneamente le procure di Roma e Bergamo.
E poi Milano, che ha ricevuto gli “atti relativi” senza tuttavia aprire un vero fascicolo d’indagine.
Per non perdere l’orientamento in questo vorticoso giro di denaro, società straniere, associazioni e schermi fiduciari vale la pena di partire da via Angelo Maj 24, a Bergamo.
È da questa palazzina residenziale color verde acqua che L’Espresso aveva iniziato, sei mesi fa, la caccia ai soldi pubblici del Carroccio.
«Fate inchieste su cose vere, non perdete il vostro tempo», ci aveva risposto Matteo Salvini, intanto diventato vice premier e ministro dell’Interno.
Il palazzone a sei piani di Bergamo Bassa è però diventato nel frattempo interessante anche per diversi magistrati italiani.
Qui ha sede infatti lo studio Dea Consulting, fino a pochi mesi fa di proprietà di due commercialisti bergamaschi poco noti: Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Dopo la pubblicazione del primo articolo del nostro settimanale su di loro, Manzoni ha ceduto tutte le sue quote a Di Rubba. Ma questo è un dettaglio.
Ciò che conta è che sono stati Manzoni e Di Rubba, insieme al collega e tesoriere leghista Giulio Centemero, a creare l’associazione Più Voci, domiciliata proprio in via Angelo Maj 24 e scoperta il primo aprile scorso nell’inchiesta di copertina dal titolo “I conti segreti di Salvini”.
La Più Voci, avevamo scritto, tra il 2015 e il 2016 ha ricevuto parecchie donazioni. Oltre 300 mila euro in tutto, di cui 250 mila dal costruttore romano Luca Parnasi e 40 mila da Esselunga.
Che c’è di strano? Di strano c’è che subito dopo l’associazione Più Voci ha girato quei soldi a due società : Radio Padania e Mc Srl, controllata direttamente dal partito e editrice del quotidiano online Il Populista.
Perchè Parnasi e Esselunga hanno deciso di sponsorizzare la sconosciuta associazione leghista? E come mai quest’ultima ha girato i denari ricevuti a delle società collegate al Carroccio?
Il sospetto era che si trattasse di un finanziamento occulto. Un escamotage utile teoricamente a entrambe le parti: agli imprenditori, per non dover dichiarare ufficialmente il loro sostegno alla Lega; alla Lega, per non vedersi sequestrare quei soldi vista l’inchiesta in corso per truffa.
L’unica a rispondere in qualche modo alle nostre domande era stata Esselunga. “Contributo volontario 2016”, recitava la causale del bonifico. Davanti alla richiesta di commento, Esselunga non ha spiegato perchè ha scelto di dare soldi all’associazione leghista invece che donarli direttamente al partito.
Si è limitata a farci sapere che quella cifra «è stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio». Ma allora perchè non versare il loro contributo direttamente a Radio Padania?
La risposta di Esselunga non è quindi stata esaustiva, ma per lo meno la catena di supermercati ha fatto seguito alle nostre richieste di commento.
L’altro donatore, Parnasi, aveva invece deciso di non rispondere proprio. Il motivo lo abbiamo scoperto qualche mese dopo, quando il costruttore è finito in carcere con l’accusa di corruzione al termine di un’inchiesta giudiziaria sul nuovo stadio della Roma, quello che le sue aziende avrebbero dovuto realizzare.
È la stessa indagine che ha portato all’arresto del presidente dell’Acea Luca Lanzalone, indagato insieme ad altri esponenti del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico e di Forza Italia. Le carte dell’inchiesta – condotta dalla procura di Roma – raccontano bene perchè Parnasi avesse scelto il silenzio di fronte alle nostre domande. Aveva preferito non parlare perchè quel finanziamento doveva rimanere segreto. Intercettato a parlare con i suoi collaboratori, l’immobiliarista mostra infatti una certa agitazione dopo aver ricevuto la nostra chiamata. Tramite il suo commercialista contatta Andrea Manzoni.
«Ragionando sulle possibili conseguenze dell’articolo», scrivono i magistrati nell’ordinanza, «Parnasi e il suo commercialista ipotizzano di creare una falsa documentazione contabile, retrodatata, per giustificare l’erogazione».
Il motivo lo ha spiegato lo stesso Parnasi in un’altra intercettazione. Lui ha finanziato Più voci per la campagna elettorale delle comunali di Milano, quando la Lega sosteneva Stefano Parisi a sindaco di Milano.
Altro che contributo alla libertà di informazione, come ha sempre sostenuto Centemero.
E non era l’unica donazione in programma. Alle domande dei pm di Roma uno dei più stretti collaboratori dell’imprenditore ha raccontato che, dopo la Più voci erano previste altre due elargizioni a Radio Padania, «cento più cento». Ufficialmente per la pubblicità .
Tuttavia, quando il collaboratore è andato da Parnasi a chiedere in quale fasce orarie preferiva collocare la pubblicità , la risposta è stata chiara: era solo un modo per finanziare la Lega, nessuna pubblicità effettiva.
Tre mesi dopo le intercettazioni Parnasi verrà arrestato su ordine della procura di Roma. E tra i magistrati capitolini e quelli di Genova, che già da tempo stavano indagando sul possibile riciclaggio del tesoro leghista, inizierà una collaborazione, un filone investigativo che unisce i 49 milioni scomparsi agli oltre 300 mila incassati tramite l’associazione Più Voci, i soldi vecchi e quelli nuovi.
Nel frattempo la procura di Roma ha messo sotto inchiesta Centemero per finanziamento illecito proprio per la vicenda della Più voci.
Questa opacità nella gestione dei finanziamenti privati avrebbe dovuto far scattare la denuncia dell’opposizione, ma il Pd sul tema può dir poco: anche la fondazione Eyu del tesoriere renziano Francesco Bonifazi era stata foraggiata dal costruttore. E infatti Bonifazi è indagato con Centemero. Avversari in Parlamento, uniti dalla necessità di fare cassa. Il finanziamento illecito della Più voci e quindi della Lega è lo stesso reato ipotizzato dalla procura di Bergamo, che ha un fascicolo ancora contro ignoti.
Da quanto risulta all’Espresso, in questo filone bergamasco sono stati sentiti dai magistrati come persone informate dei fatti i rappresentanti di Esselunga.
La risposta ha chiamato in causa il fondatore, Bernardo Caprotti, nel frattempo deceduto. Fu sua la decisione di donare 40 mila euro alla Più Voci, hanno spiegato ai magistrati i dirigenti della catena di supermercati.
Ma la Più voci non sarebbe stato l’unico strumento usato dalla Lega per incamerare finanziamenti privati al riparo da occhi indiscreti.
Gli investigatori stanno analizzando diverse altre associazioni. Tra queste ce n’è una di recente costituzione, la Now con sede a Genova.
La sigla non ha nemmeno un sito internet. Le uniche notizie pubbliche che la riguardano arrivano dalla pagina Facebook di Giovanni Toti, il governatore della Liguria sostenuto dall’alleanza Forza Italia-Lega.
Nell’ottobre del 2017 Toti scriveva: «Alla presentazione dell’associazione Now con Matteo Salvini, Edoardo Rixi e Marco Bucci».
Insomma, dai nomi presenti sembrerebbe una scatola utilizzata per sostenere l’alleanza della giunta nella regione. Di certo Now nel maggio scorso ha versato 67mila euro alla Lega Nord Liguria.
Non si conoscono, tuttavia, i nomi dei benefattori dell’associazione, che non è tenuta a dichiararli pubblicamente. Una segretezza che, come nel caso della Più voci, non può non far sorgere sospetti.
Per capire, invece, dove nasce l’attuale ipotesi del riciclaggio è necessario tornare in via Angelo Maj.
Qui infatti non ha sede solo la Più voci ma una lunga lista di società i cui proprietari sono schermati da una complessa architettura di scatole cinesi, che porta in Lussemburgo.
Al centro dell’indagine della procura di Genova c’è proprio questa ragnatela. Stessi personaggi, stesse holding e società che avevamo svelato nel servizio di copertina “L’Europa (offshore) che piace a Salvini”, anche in quel caso suscitando l’ilarità del vicepremier.
I fatti degli ultimi giorni dimostrano, però, che la nostra pista è stata seguita anche dai magistrati. La conferma arriva dal decreto di perquisizione con cui il nucleo di polizia tributaria di Genova ha bussato alla porta dello studio di via Angelo Maj.
L’ipotesi dei pm: una parte dei 49 milioni frutto della truffa avrebbero fatto rotta verso il Granducato per poi rientrare in Italia sparpagliati in mille rivoli.
Per questo i finanzieri hanno setacciato anche le abitazioni di Manzoni e di Di Rubba oltrechè il casale a Bergamo Alta di Angelo Lazzari.
Proprio Lazzari è l’uomo su cui la procura di Genova ha puntato il suo faro ultimamente. Bergamasco di Sarnico, 50 anni, si presenta sul web come ingegnere ed ex promotore finanziario, prima in Mediolanum e poi in Unicredit, oggi manager con base in Lussemburgo e attività in Italia e Regno Unito.
Di Lazzari avevamo scritto per la prima volta sei mesi fa, raccontando gli affari di alcune società domiciliate presso lo studio dei commercialisti leghisti. Piccole imprese, con capitale sociale di 10 mila euro l’una, tutte fondate tra il 2014 e il 2016. Dopo la presa del potere di Salvini e la nomina di Centemero a tesoriere del partito. I nomi dicono poco: Growth and Challenge, B Design, Biotetto, Areapergolesi, Alchimia, Sasso, Ma.Se.
Alcune di queste sono dirette proprio dai commercialisti della Lega.
Amministratore della Growth and Challenge è ad esempio Centemero, mentre Manzoni lo è di Areapergolesi.
Ma il dato rilevante, cristallizzato nel decreto di perquisizione, è che entrambe sono nell’elenco delle Srl sospettate dai detective della finanza del riciclaggio.
Ruoli, quelli di Centemero e di Manzoni che rischiano di mettere in serio imbarazzo il governo, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli alleati a 5 stelle, che iniziano a perdere la pazienza di fronte alle continue grane giudiziarie del partito del ministro dell’Interno.
Tornando agli incastri societari, sappiamo per certo che la proprietà delle sette aziende di via Angelo Maj è della Seven Fiduciaria di Bergamo.
E qui inizia il giro d’Europa. La Seven Fiduciaria è infatti a sua volta controllata da un’altra impresa bergamasca, la Sevenbit. Il cui presidente del consiglio d’amministrazione è Lazzari.
La Sevenbit, anch’essa fondata nel 2015, conta una trentina di piccoli azionisti, tra cui lo stesso Lazzari e la nipote di Berlusconi, Alessia.
La maggioranza delle quote, il 90 per cento, è però in mano alla Ivad Sarl, sede in Rue Antoine Jans 10, Lussemburgo, fondata nel 2008 dallo stesso Lazzari.
Impossibile conoscere l’origine dei capitali attraverso cui l’azienda è cresciuta a dismisura, arrivando già un anno dopo la fondazione a un attivo di 1,6 milioni di euro, in gran parte investimenti finanziari.
E impossibile è anche conoscere l’identità dei proprietari attuali di Ivad. Dal dicembre del 2015 la holding lussemburghese ha infatti un nuovo titolare ufficiale, e anche questa volta è italiano. Si chiama Prima Fiduciaria ed è specializzata nella creazione di trust, cioè fondazioni anonime.
Tra gli azionisti della Prima Fiduciaria troviamo un’altra lussemburghese, la Arc advisory company, anch’essa al centro delle perquisizioni della Guardia di finanza della settimana scorsa.
La Arc ci riporta dritti al punto di partenza, visto che è stata fondata nel 2006 proprio dal bergamasco Lazzari. Anche in questo caso è però impossibile tracciare l’origine dei capitali: il socio di controllo della Arc advisory company è infatti la Ligustrum, una società immobiliare svizzera, con base a Lugano, le cui azioni sono intestate al portatore.
Perchè tutta questa riservatezza dietro a sette piccole imprese della bergamasca registrate nell’ufficio dei due commercialisti di fiducia della Lega?
Ci sono legami tra queste società e il partito?
Sei mesi fa, alle domande de L’Espresso, sia Centemero che i colleghi Di Rubba e Manzoni avevano risposto allo stesso modo. Non fornendo informazioni sui beneficiari ultimi della Seven Fiduciaria, ma assicurando che le sette aziende in questione non hanno legami nè diretti nè indiretti con la Lega.
La stessa versione ci è stata fornita da Diego Occari, commercialista veronese che presiede la Prima Fiduciaria, lo schermo usato dal proprietario della società lussemburghese: «Il nostro cliente che detiene le quote di Ivad Sarl è un soggetto istituzionale di primo piano e totalmente estraneo alla politica».
Come hanno fatto a uscire i soldi dai conti del Carroccio? Dove sono finiti i 49 milioni?
Di certo tra la fine del 2011 e il 2017 la Lega ha speso quasi 40 milioni di euro, dilapidando in soli sei anni 32 milioni di euro tra liquidità e investimenti finanziari. Non è colpa del costo del lavoro visto che i dipendenti nello stesso periodo sono passati da 80 a 7 e di conseguenza la spesa complessiva.
I rendiconti ufficiali si limitano a dire che buona parte di questi soldi sono spesi per “contributi ad associazioni” e “oneri diversi di gestione”.
Solo tra il 2012 e il 2015 sono evaporati così oltre 31 milioni, di cui un quarto ad associazioni non meglio specificate.
Nè Maroni nè Salvini hanno mai spiegato i dettagli di quelle operazioni. E soprattutto non hanno mai reso pubblici i nomi di queste organizzazioni che hanno beneficiato dei denari padani.
Ora gli investigatori del capoluogo ligure coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto stanno cercando di risolvere l’enigma.
Credono che attorno alla Lega orbiti una galassia di associazioni e società ufficialmente slegate dal partito ma in realtà contigue.
La loro funzione: fare da sponda con il Carroccio per svuotare le casse del partito ed evitare così il sequestro dei soldi.
Un’ipotesi investigativa che non sarà facile dimostrare. Si tratta di centinaia di migliaia di operazioni bancarie sotto osservazione della finanza. Il periodo va dal 2012 a oggi. Una selva di transazioni, versamenti, bonifici, nella quale è difficile districarsi.
Ogni movimentazione può nascondere un dettaglio utile. Per esempio i pagamenti ai fornitori amici. Un altro modo, al pari delle associazioni, per far fuoriuscire denaro con una formale fattura.
Ipotesi di chi indaga, e non più solo inchieste giornalistiche
(da “L’Espresso”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA REPUBBLICANA, IL GOVERNO UMILIA LE CAMERE, TENENEDO NASCOSTA LA LEGGE DI BILANCIO
Mai visto un tale sfregio delle istituzioni.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, in epoca sovranista, il Parlamento, luogo della sovranità , voterà una manovra senza neanche avere il tempo di leggerla. Con il maxi-emendamento, dove sono scritti i numeri della manovra del popolo pagata dal popolo, che arriverà – almeno così pare, dopo giorni di annunci e rinvii – solo alle 14,00 del pomeriggio di sabato, e il voto finale previsto per 20,30 di sera, dopo la discussione generale.
Appunto, neanche il tempo di leggerla, approfondirla, discuterla con serenità e consapevolezza. E senza trasformare l’Aula in una curva di tifoserie, dove vince sempre la più numerosa, e il rumore della maggioranza zittisce i diritti delle minoranze.
Di quella maggioranza che, solo pochi mesi e anni fa, chiedeva di aprire il Parlamento come una “scatola di tonno” in nome della trasparenza e chiedeva congrui tempi di discussione, in nome della sacralità democratica, quando veniva profanata dalle “ghigliottine” o dai famosi “canguri” sulla legge elettorale.
Di ritardi e slittamenti di qualche ora dei testi se ne sono visti tanti in questi anni, ma mai si è verificato un iter che intacca l’essenza stessa del processo democratico: la Camera chiamata a votare una “scatola vuota”, mentre il governo era impegnato nella cosiddetta trattativa con Bruxelles, le commissioni che discutono del nulla, perchè gli stessi esponenti della maggioranza ammettono che “sono in attesa di avere notizie”, il passaggio finale consumato in poche ore, dopo giorni di attesa di una manovra scritta sotto dettatura da Bruxelles e annunciata da Moscovici e Dombrovskis, prima ancora che dall’Avvocato del popolo.
Per tutto il giorno il Senato sembra la hall di un albergo, con i parlamentari che assomigliano a quegli ospiti cui alla reception dicono “la stanza non è ancora pronta, se volete prendete un caffè al bar”.
È una scena surreale: il maxi-emendamento, atteso per mattina non arriva neanche per il pomeriggio e neanche per la sera.
Perchè non c’è ancora la bollinatura della Ragioneria, il che tradotto significa che ancora non si conoscono saldi, numeri, capitoli di spesa e coperture della manovra del popolo pagata dal popolo, dove gli slogan – reddito di cittadinanza e quota cento – sia pur ridimensionati di quattro miliardi, vengono coperti con l’indebitamento del paese: nuove tasse, blocco dell’indicizzazione delle pensioni a 1500 euro (non certo pensioni d’oro), ritorno di quelle clausole di salvaguardia che si andavano esaurendo, 20 miliardi per il prossimo anno e 23 per quello complessivo, il che significa che se non si troveranno queste cifre l’Iva nel 2020 salirà al 25,2 (dal 22) e per il 2021 al 26,5. Queste le cifre dell’indebitamento che in molti hanno letto come una data del voto incorporata nella manovra, perchè la prossima, non c’è tsunami europeo che tenga, prevede – per chiunque ci sarà – misure di lacrime e sangue.
È su questa Caporetto politica che la stesura tecnica diventa uno psicodramma da nascondere, con cifre che saranno svelate all’ultimo minuto utile senza che venga consentita la lettura nei luoghi da cui una volta veniva invocato lo streaming e la trasparenza.
“Nascondere” diventa la cifra di un governo che ha fatto della comunicazione il suo unico Dio, affidata alla retorica farlocca dell'”abbiamo rispettato gli impegni presi”, per coprire i debiti, come la cultura della legalità pret a porter è affidata a una felpa della polizia, dopo l’abbraccio con un pregiudicato con la maglietta del Milan.
E affidata alla leggerezza degli alibi e all’indifferenza sostanziale di chi, come il premier, dice che non ha alcun imbarazzo perchè “non è colpa del governo” o di chi, come Salvini, rivendica il ritardo “perchè ci siamo fatti sentire con l’Europa”.
Parole che, in fondo, a stento coprono l’essenziale, politico e culturale, quel populismo della disintermediazione per cui Parlamento, regole, cultura democratica sono un impiccio che si frappone tra il popolo e gli unici interpreti della sua sovranità .
Che si esercita in modo extra istituzionale, nel mito futurista della velocità , nella bulimia del messaggio, nell’annuncio a prescindere dai risultati.
E infatti il Parlamento che per sua natura ha le sue lentezze, come la democrazia ha le sue lentezze, è stato trasformato in una perenne hall del Grand Hotel sovranista chiamato a lavorare solo 52 ore negli ultimi cento giorni, secondo gli ultimi dati Open Polis, e coinvolto per ratificare più che per decidere, come mostrano i dati sulle fiducie e sulla decretazione d’urgenza, superiori anche a quelli del governo Renzi, quando gli attuali governanti parlavano di “autostrade verso la dittatura”.
In questo gioco di specchi, il governo nato da un accordo scritto, il famoso contratto, fatica a mettere per iscritto la legge più importante e stravolge, con l’onnipotenza di chi considera il governo il tutto e non un potere “pro-tempore” e limitato, quell’insieme di regole, procedure, prassi consolidate che rappresentano l’essenza della democrazia.
Le lacrime di Emma Bonino – a proposito che brutta pagina non averle accolte col rispetto che merita chi i diritti in questo paese li ha allargati non ristretti – fotografano la fine una fase della Repubblica, quella della consapevolezza che il rispetto delle regole tutela tutti, anche le maggioranze di oggi, che un domani potrebbero invocarle di fronte ad atteggiamenti ancora più strafottenti e padronali.
Perchè può accadere, quando si cessa di coltivare la società aperta e inclusiva, alimentando insofferenze per tutto ciò che è altro, per quel pluralismo – la società , i corpi intermedi, le voci dell’informazione, le autorità di garanzia – che pochi già ha ricordato il capo dello Stato, evidentemente inascoltato.
E può accadere, quando si chiude il Parlamento come una scatola di tonno, perchè poi è difficile riaprirlo.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LO SCONCERTO DEI SUOI, IL FASTIDIO DEL CENTRODESTRA: A CHE GIOCO STA GIOCANDO?
Talvolta è il dettaglio che disvela la storia.
E il dettaglio è che Matteo Salvini sono giorni che non risponde a telefono, a quanti lo stanno cercando per “chiudere” le liste in Abruzzo.
E per dare il via libera al candidato del centrodestra, il senatore di Fratelli d’Italia Marco Marsilio.
Lo ha cercato più volte la Meloni, altrettante Berlusconi o qualcuno da Arcore. La risposta è stata sempre la stessa, attraverso qualche ambasciatore: “Matteo è impegnato sulla manovra, appena finisce la chiudiamo…”.
Insomma, ha preso tempo, senza mai dare il mandato a Giancarlo Giorgetti. Roba che, in tempi di sfavillante decisionismo e comunicazione a colpi di tweet, sarebbe bastato un sì o un no.
Qualche altro dettaglio sul dettaglio: in Abruzzo, dove si voterà il prossimo 10 febbraio, i sondaggi danno il centrodestra in testa, attorno al 40 per cento, i Cinque stelle attorno al 33 e il Pd più staccato. 10 febbraio, per intenderci, significa che le liste vanno presentate entro il 10 gennaio.
Politicamente parlando è domani. Ragionava quella vecchia volpe di Luciano D’Alfonso, ex presidente di quella Regione, in buvette al Senato, nell’attesa del maxiemendamento: “Lo dovete seguire l’Abruzzo. Sarà un laboratorio interessante. È evidente che Salvini sta rallentando le operazioni. Non so se riesce a perdere ma sta dando una mano ai Cinque Stelle. E noi come Pd torniamo in partita”.
È la stessa analisi che fanno dalle parti del centrodestra: “Qualche danno – diceva a qualche collega Gaetano Quagliariello – è già stato fatto”.
È chiaro perchè: ritardare l’ufficializzazione del candidato ha rallentato la formazione delle liste, l’inizio della campagna elettorale, la raccolta delle firme da parte delle liste civiche (potrebbero non farcela), insomma ha indebolito la coalizione sulla carta vincente.
Il povero Marsilio, a differenza della candidata dei Cinque Stelle (pienamente in campo) è ancora un candidato “virtuale”, che non ha acquistato neanche uno spazio tv e messo in stampa neanche un manifesto.
Voi capite perchè su questo atteggiamento di Salvini scorre veleno dalla parte dei suoi alleati. L’ultima è che il via libera del Capitano dovrebbe arrivare domenica, poco prima della slitta di Babbo Natale.
Ricapitolando: Salvini che invece di andare al vertice ad Arcore va dai figli, ragione valida quando l’impegno non è di suo gradimento (si chiami Arcore o Quirinale), Salvini che aiuta Di Maio sull’Abruzzo, Salvini che considera gli alleati di una volta i primi da indebolire, perchè a questo punto se il candidato di Fratelli d’Italia vince, bene, il merito è del suo appoggio, se perde è perchè era uomo della Meloni, non perchè la Lega ha fermato i motori.
Oltre all’Abruzzo, in Sardegna dove si vota a febbraio inoltrato, il dossier è ancora più fuori dai radar.
Di qui la domanda che circola anche dentro la Lega: “Ma a che gioco gioca?”. Chiaramente il discorso – e relative perplessità , dubbi, malessere – va ben oltre le due regioni.
E riguarda il tema di fondo, su quanto “si può andare avanti così”, esattamente quel che rumorosamente si chiedeva Giancarlo Giorgetti nel corso ricevimento al Quirinale l’altro giorno.
Con tono di voce assai poco soave che l’hanno sentito in parecchi.
Guido Crosetto diceva qualche giorno fa a chi gli chiedeva lumi sulla Lega: “Guardate che a Salvini interessa solo la comunicazione, non l’amministrazione. E si confronta solo con la cosiddetta belva, la struttura della comunicazione. Giorgetti non è Salvini, ed è uno che si occupa di amministrazione. Il loro pensiero non è coincidente, ma come Giorgetti la pensa tutta la Lega”, intesa come amministratori, sindaci, governatori, chiamati a gestire lacrime sangue di una manovra depressiva che dà poco o niente al “partito del Pil” e alle esigenze del mondo produttivo.
E che reca in sè una domanda incorporata: “Se questa volta ce la siamo cavata con le chiacchiere, e si è guadagnato tempo, come si fa a gestire la prossima che ha 20 miliardi di clausole di salvaguardia?”.
Di qui la pressione a considerare il prossimo anno come l’anno del ritorno al voto, prima di rimanere incastrati nelle proprie macchinazioni.
È questo tipo di pressione che Salvini si trova a gestire, in una situazione, per la prima volta che rivela una qualche difficoltà .
Finora, come una sorta di re Mida del consenso, è riuscito a trasformare in voti qualunque mossa, uscita, anche gaffe, ma la manovra ha lasciato uno strascico di scricchioli concreti.
Ravvisabile in una gestione social meno svavillante, in una comunicazione meno brillante, nelle prime critiche dei commentatori di riferimento.
Basta leggere l’editoriale di Vittorio Feltri che ha bollato il Capitano come “lo scendiletto di Di Maio” su una manovra che “si è rivelata un suicidio assistito”.
Si è capito che Salvini preferisce andare avanti con questo assetto di governo, perchè preferisce dare qualche soccorso a un leader indebolito come Di Maio, in Abruzzo e non solo, piuttosto che tornare con Berlusconi, e finora lo schema ha funzionato.
Ma c’è un momento nella politica in cui, raggiunto il picco, poi puoi solo scendere. E sei chiamato a un cambio di passo.
La novità è che, per il grosso dei suoi, questo momento si sta avvicinando.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LA LEGGE VIETA DI INDOSSARE DIVISE O STEMMI, MA NESSUNO LA APPLICA: E’ OMISSIONE DI ATTI D’UFFICIO
A quanto pare bisogna ribadirlo: Salvini non può portare la divisa della polizia.
Non lo diciamo noi, lo dice il codice penale, per la precisione l’articolo 498, depenalizzato ma che ancora prevede una sanzione per chi lo infrange.
Ma a quanto pare i poliziotti, sempre così pronti a calar giù di manganello al primo accenno di mancanza di documenti (si veda quanto accaduto stamattina a Porta Nuova a Torino) davanti a Salvini abbassano i bastoni e alzano i telefoni, per concedersi un selfie con il loro ministro dell’Interno.
Liberissimi di votare chi vogliono.
È solo molto interessante vedere come funziona la mente delle nostre forze dell’ordine: se un altro, chiunque, indossasse quella divisa, stiamo pur certi che gliela farebbero togliere a suon di taser.
Ma se il Capitano li onora con i gradi sulle spalle (cosa che, lo ribadiamo per i più distratti, non può fare) allora va bene.
(da Globalist)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
DOPO LA SENTENZA DEL TRIBUNALE, CANCELLATE LE MODIFICHE AL REGOLAMENTO CHE PENALIZZAVANO I CITTADINI STRANIERI… OVVIAMENTE NESSUNO AL GOVERNO HA PENSATO DI COMMISSARIARE LA SINDACA
Il Comune di Lodi ha cancellato le modifiche al regolamento che rendevano più difficile ai cittadini extra comunitari di accedere ai servizi agevolati, come la mensa. L’amministrazione guidata dal sindaco leghista Sara Casanova si adegua alla decisione del Tribunale di Milano.
“Con una votazione terminata all’alba di stamattina (alle 4.55) il Consiglio Comunale di Lodi ha dato adempimento all’ordine del Tribunale di Milano e azzerato le modifiche al regolamento che imponevano ai cittadini stranieri la presentazione di documentazione aggiuntiva dei paesi di origine per accedere alle tariffe agevolate per le prestazioni sociali” spiegano le associazioni che hanno seguito la vicenda fin dal primo momento, il Coordinamento Uguali Doveri, Asgi e Naga.
Le modifiche agli articoli 8 e 17, che erano state introdotte nell’ottobre 2017, sono state integralmente cancellate e la situazione è quindi tornata ad essere quella che è sempre stata: ciascun cittadino di Lodi potrà accedere alle tariffe sulla base del proprio Isee e italiani e stranieri tornano ad essere trattati in maniera uguale: uguali nel dovere di fornire alla pubblica amministrazione tutte le notizie richieste sui loro redditi e patrimoni; uguali nella soggezione a verifiche, ma uguali prima di tutto nel diritto di accedere alle prestazioni sociali senza essere vittime di pretese irragionevoli e, soprattutto, contrarie alla legge dello Stato.
“Si chiude così ufficialmente la triste vicenda della discriminazione che ha portato Lodi alla ribalta nazionale, che ha portato i bambini a doversi dividere tra chi mangiava in mensa e chi no, tra chi saliva sullo scuola bus e chi andava a piedi, riproducendo immagini che speravamo di veder relegate allo scorso secolo – scrivono le tre associazioni – Spiace che la Giunta comunale, anzichè cogliere l’occasione per superare definitivamente le fratture da lei stessa create e anzichè prendere atto delle approfondite motivazioni fornite dal Tribunale (confermate ieri da analoga decisione del Tribunale di Bergamo) abbia continuato a prendersela con presunte ‘strumentalizzazioni’ e abbia deliberato di proporre appello, procrastinando così di anni la formale chiusura della vicenda”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LA UE CASSA LA PROROGA DI 15 ANNI, VERSO LA PROCEDURA DI INFRAZIONE
L’Unione europea pronta ad attaccare la proroga delle concessioni balneari senza gara per 15 anni, prevista dall’emendamento alla manovra della Lega e sul quale è stato già raggiunto un accordo in Senato.
Una misura che, qualora approvata, escluderebbe l’applicazione della direttiva Bolkestein dal comparto delle imprese balneari.
Secondo Bruxelles questo non è possibile e il rischio è che si arrivi a una procedura di infrazione contro l’Italia. D’altro canto per lo stesso ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio esiste ‘il 99 per cento di possibilità ‘ che tra qualche anno gli italiani si ritroveranno questa nuova tegola.
La Commissione Ue, pur non commentando direttamente l’accordo politico sulla proroga delle concessioni, ricorda la sentenza con cui nel luglio 2016 la Corte di Giustizia Ue ha stabilito che la direttiva Bolkestein sui servizi riguarda anche le concessioni balneari e, per questa ragione, l’estensione automatica di autorizzazioni esistenti (senza dunque una procedura di selezione) viola la direttiva del 2006, oltre che il Trattato Ue.
Bruxelles rimanda inoltre alla risposta che la commissaria al mercato interno Elzbieta Bienkowska ha dato ad alcune interrogazioni parlamentari a luglio 2018.
Nel testo, la commissaria ricordava come fosse proprio la sentenza della Corte Ue di luglio 2016 a confermare che le concessioni balneari “sono autorizzazioni ai sensi della direttiva 2006/123/CE, dal momento che esse comportano un’autorizzazione a esercitare un’attività economica in un’area demaniale”.
La sentenza della Corte di Giustizia presa come punto di riferimento rispondeva a una querelle nata nel 2013 tra due consorzi di comuni (in Lombardia e in Sardegna) e alcuni imprenditori balneari. I consorzi, non soddisfatti del servizio offerto dai balneari in questione, decisero di indire delle gare per affidare la gestione dei lidi ad altri operatori.
Gli imprenditori ‘estromessi’ fecero causa, convinti di essere dalla parte della ragione in virtù della proroga stabilita nel 2010 dal governo Berlusconi.
L’esecutivo, infatti, quattro anni dopo l’approvazione della Bolkestein, aveva deciso di concedere con un decreto cinque anni di tempo (fino al 2015) agli operatori del settore per rimettersi in carreggiata dopo gli investimenti iniziali.
Senza quel salvataggio tantissimi stabilimenti avrebbero dovuto cambiare gestore. Dopo aver visionato il testo del decreto legge, la Commissione europea aveva ritirato la proceduta di infrazione aperta all’epoca contro l’Italia, ma i diversi passaggi che portarono all’approvazione della legge alla fine ebbero l’effetto di attenuare l’obbligo imposto dalla direttiva di procedere con le gare arrivando a un rinnovo ‘automatico’, espressamente vietato dalla direttiva europea.
La Commissione se ne accorse solo dopo e decise di non riaprire la procedura di infrazione. Eppure la direttiva europea era stata violata e proprio alla Bolkestein si appellavano i consorzi. Il caso finì alla Corte di Giustizia Europea, che nel luglio 2016 diede ragione ai comuni.
La storia potrebbe ora ripetersi. Se la proroga dovesse essere approvata (e al momento sembra non ci siano ostacoli) gli operatori del settore si sentiranno protetti dalla legge del governo, ma portati davanti ai giudici, l’esito non potrebbe che essere lo stesso del 2016.
Ma c’è un rischio ancora più grave per l’Italia. Lo ha ricordano nelle ultime ore il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi: “Ci sarà anche la proroga delle concessioni agli stabilimenti balneari che ci provocherà un’infrazione per ogni anno di 100 milioni che dovremo pagare all’Europa”.
Per Rossi “si tratta di un’assurdità , al solo scopo di raccattare con demagogia voti, visto che regioni come la Toscana e il Veneto hanno già fatto leggi che vengono incontro ai balneari e non violano le regole europee”.
D’altro canto che il rischio di una nuova infrazione sia molto alto lo ha confermato lo stesso ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio, che all’emendamento sui balneari ha lavorato in prima persona.
(da agenzie)
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