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IL GRAN CONSIGLIO M5S PER PLACARE LA RIVOLTA: DI MAIO LE PROVA TUTTE PUR DI NON MOLLARE LA POLTRONA

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

UN ORGANO POLITICO PER CONDIVIDERE LE RESPONSABILITA’ CON APPENDINO, TAVERNA, DI BATTISTA E FICO… SOSPETTI SU CONTE MENTRE BUGANI SE NE VA

Un ulteriore upgrade dell’organizzazione interna. Intorno a questa soluzione ruotano i pensieri e le valutazioni di Luigi Di Maio. Non subito, a ridosso degli Stati generali convocati per metà  marzo.
Una sorta di comitato che faccia da raccordo tra i Facilitatori e il capo politico. E che si collochi subito al di sotto del leader.
Un vero e proprio gabinetto di guerra a sentire i nomi che stanno circolando in queste ore: Chiara Appendino, Paola Taverna, Alessandro Di Battista e Roberto Fico, anche se il ruolo istituzionale di quest’ultimo sta consigliando un surplus di valutazione.
Non è un elenco chiuso, le geometrie sono variabili. Ma la caratura interna dei nomi in ballo dà  il senso di un’operazione che è tutt’altro che di facciata.
Il comitato avrebbe un ruolo tutto politico. Sarebbe nei fatti una sorta di camera di compensazione tra il carattere tecnico e organizzativo che ha — almeno nelle intenzioni – la nuova struttura creata nelle ultime settimane e la sintesi sulle scelte che di volta in volta si dovranno assumere.
La ratio è semplice. Da un lato cedere un altro pezzetto di governance del Movimento, creando una sorta di gran consiglio deputato a spartirsi oneri e onori con il leader. Dall’altro riprendere in mano più saldamente le redini dei 5 stelle coinvolgendo al comando i volti più autorevoli e riconosciuti dagli attivisti e dalla base parlamentare.
Già , la base parlamentare. Non è passata inosservata, tutt’altro, la pubblicazione di stralci dell’intervista concessa da Giuseppe Conte a Maurizio Belpietro, un’anticipazione del nuovo libro del direttore de La Verità  pubblicata oggi dal quotidiano. Un passaggio in particolare.
Quello in cui Rocco Casalino tenta di allontanare l’idea che tra Di Maio e il premier ci sia dissidio, facendolo con una tesi scivolosa. Eccola: “Diciamocela in maniera nuda e cruda. Un gruppo parlamentare, che vuole colpire Luigi, cerca un altro al suo posto. Insomma, capisco che qualcun altro voglia mettere lui. Questo però non significa nè che sia disponibile, nè che si stia muovendo in tal senso”.
Nella smentita, una conferma. Quella che a Palazzo Chigi si ha la consapevolezza che il leader pentastellato non ha più il controllo dei suoi. La risposta che dà  Francesco D’Uva quando gli si pone il quesito è significativa: “Non può essere una persona al di fuori del Movimento a poter spiegare cosa succede al nostro interno”.
L’ex capogruppo taccia il collegamento come “inverosimile”, ma il riferimento alla “persona al di fuori” è un segnale evidente di come le acque non siano affatto tranquille.
Nonostante le smentite di rito, più fonti confermano che i rapporti siano tutt’altro che idilliaci. E nel corpaccione dei dimaiani di ferro continuano ad avvelenare i pozzi che le voci del passo indietro arrivino direttamente dalla presidenza.
Voci che continuano ad essere smentite seccamente. Un fonte che ha contatti frequenti con il ministro degli Esteri lo conferma ad Huffpost: “Ho parlato con Luigi. Non ha intenzione di dimettersi. Anche perchè non ci sono soluzioni oltre a lui, è una patata bollente che nessuno ha fino in fondo il coraggio di prendersi. E in questa fase con chiunque al suo posto ci indeboliremmo”.
C’è poi tutto il fronte Casaleggio/Rousseau a intersecarsi e sovrapporsi alla situazione di per sè già  turbolenta. Di Maio ha avallato lo schema Facilitatori per rispondere alle critiche di solipsismo.
Ma in tanti hanno visto alcune scelte come mediate con l’azienda di Milano. Su tutte quella di Enrica Sabatini, socia fondatrice di Rousseau, agli affari interni del Movimento. Una scelta che più voci vicine al capo politico definiscono come “mediata” con il figlio del co-fondatore.
“Un organo come quello di cui si parla — ragiona un parlamentare molto vicino alla leadership — sarebbe la risposta a tutti quelli che chiedono più condivisione e riconoscerebbero le facce di chi da anni si batte per i nostri valori”.
Nel frattempo Max Bugani ha lasciato il suo ruolo nel board di Rousseau, e fonti a lui molto vicine ne raccontano l’umore cupo ma smentiscono un suo possibile addio.
La tempistica è tutta da decidere. E le critiche non mancano.
Il senatore Emanuele Dessì chiede un confronto vero agli Stati generali. Un suo collega è pessimista: “Luigi metterà  tutto in discussione, tranne il fatto che è lui a comandare insieme a chi decide lui”.
E sul nuovo Gran consiglio: “Tu puoi spostare e muovere pedine fin che vuoi, ma finchè non capiamo chi e cosa siamo diventati e dove vogliamo andare servirà  a ben poco”.
Se sarà  vero confronto, la vulgata indica tre porte davanti al Movimento, tre strade da imboccare. La prima è quella spinta fortemente da Beppe Grillo, partita dall’operazione governo con il Pd e che guarda al mondo del progressismo.
La seconda, spiegano, vorrebbe un Di Maio che vuole sì preservare l’indipendenza, ma che guarda maggiormente all’alveo del centrodestra.
La terza è quella del “soli contro tutti” a là  Di Battista, che non dispiacerebbe in un futuro post governativo nemmeno a Casaleggio.
Scenari futuribili, che passano tutti da un pre requisito che per ora non sembra essere nella disponibilità  di chi disegna traiettorie verso l’orizzone: la contendibilità  della leadership del Movimento.

(da “Huffingtonpost”)

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INTERVISTA A MALALAI JOYA, UNA VITA DA CLANDESTINA PER LA LIBERTA’ E LA GIUSTIZIA IN AFGHANISTAN

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

I TALEBANI VOGLIONO UCCIDERLA MA LEI CONTINUA LA SUA BATTAGLIA: “QUANDO DIVENTI UNA SPERANZA PER IL TUO POPOLO NON HAI DIRITTO AD ARRENDERTI”

L’Afghanistan, quasi ignorato, come sempre, dai media, potrebbe   essere coinvolto nell’inasprirsi dei rapporti tra Iran e Usa. Il paese ospita il contingente più numeroso di militari americani (13.000) nell’area, che hanno installato sul territorio numerose   basi aeree a due passi dal confine iraniano.
Teheran è presente in Afghanistan con una forte penetrazione culturale e religiosa e sostiene ed arma, come tutti gli altri attori sullo scacchiere afghano, i suoi gruppi di talebani che operano   nella regione occidentale del paese.
Ognuno le sue pedine, nella propria guerriglia per procura.
E’ utile ascoltare la voce di una coraggiosa attivista che si batte per i diritti e la democrazia fin da quando faceva parte del Parlamento afghano come deputata di Farah: Malalai Joya, espulsa da quel Parlamento per i suoi attacchi ai Signori della Guerra.
Una voce scomoda per molti che la costringe a una vita difficile e nascosta, l’alto costo per la sua scelta di resistenza.
Fa già  freddo a Kabul anche se la neve non è ancora arrivata. Incontro Malalai, come sempre, in un posto sicuro. Arriva completamente avvolta in uno scialle, solo un ciuffo di capelli emerge dalle stoffe. E’ circondata dalle sue guardie del corpo. Poche oggi, non ci sono pericoli qui. A volte ne porta con sè fino a 12. Dipende da dove va. La sua scorta non deve mai esporsi, il volto nascosto dietro una mascherina. Ne va della loro sicurezza e di quella della famiglia.
La sua vita è, sempre di più, piena di ostacoli e scandita da molti divieti. Non può stare più di qualche giorno in una casa, non può usare telefoni e computer attraverso i quali potrebbe essere localizzata e spiata. Anche i talebani ora, sono diventati molto esperti in questo campo. Nemmeno il suo ufficio   è un posto sicuro, l’hanno attaccato diverse volte. Ha grandi difficoltà  a godersi la sua famiglia. Stare con suo marito o con suo figlio li mette in pericolo. Come si spiega a un bambino che deve tacere il nome di sua madre? Emerge dalle stoffe con la sua inconfondibile e squillante risata. Parliamo davanti alle immancabili tazze di tè, alle ciotoline di melograno e di mandorle, frutti di stagione.
Ancora non si sanno i risultati delle elezioni. Come andrà  a finire?
Nonostante tutti i mezzi tecnologici siamo alle solite. Ghani e Abdullah sono sempre due cani sullo stesso osso, ognuno con i suoi alleati. Come la volta precedente, verrà  qualcuno dalla Casa Bianca a decidere e risolvere il pasticcio. Questa è stata una ‘selezione’ non un’elezione. E sono loro, gli americani, a farla.   Per noi la grande speranza è l’affluenza più bassa di sempre. Significa che la maggior parte degli afghani ha capito l’inganno e ha deciso di boicottare le elezioni non andando a votare. Nella mia provincia, a Farah, c’è stato il numero più basso di elettori del paese. Un successo per noi.
Normalmente dovrebbe essere il contrario..
Già , normalmente, ma in Afghanistan niente è normale. Per gli altri paesi le elezioni sono un momento importante della democrazia ma qui, dove c’è la caricatura della democrazia,   è il contrario, è l’astensione a darci speranza per il futuro.
Non è per   le minacce talebane che gli afghani   hanno disertato le urne?
No, ho sentito tante persone che avevano sempre votato, anche a rischio di rimetterci il dito per colpa dei talebani. Ma hanno scelto di non andare a votare. Hanno capito cosa sta succedendo e hanno preso consapevolmente la loro decisione.
Quali saranno gli scenari futuri?
Gli Usa non se ne andranno mai da qui. A loro interessano le basi dalle quali controllano il cielo e la terra del nostro paese e tengono a bada gli stati confinanti, i loro nemici. Soprattutto l’Iran , a due passi dalle loro postazioni. La grande tragedia dell’Afghanistan, per gli americani, non è altro che un interesse strategico. Porteranno ufficialmente al potere qualche talebano? Beh , non è una novità , non è la prima volta. Gli Usa, dopo l’invasione, hanno sempre sostenuto, direttamente o indirettamente,   questi terroristi. Ci sono persone che hanno visto con i loro occhi gli elicotteri Usa lanciare cibo e armi a talebani e Daesh. Prima sostenevano i jihadi contro i russi, poi i talebani, ora la pedina più forte è l’Isis, è il loro progetto. Molti dei leaders talebani degli anni 90 vivono qui a Kabul, nelle zone più sicure, con belle case e posti di potere,   nel Governo o nei Ministeri. Perfino uno, laureato a Yale,   che ha partecipato alla distruzione dei Buddha di Bamyan! Nessuno ha mai chiesto niente a questa gente. Adesso tutti, Russi, Americani, Pakistani, organizzano costose conferenze per trattare con loro. Ogni nazione si paga i suoi terroristi. Quale riconciliazione? Gli americani hanno bisogno di un Afghanistan instabile, insicuro, allo sbando, per poter fare i loro interessi economici e politici. Se così non fosse, dopo tutti questi anni e tutti questi soldi spesi, le cose non sarebbero a questo punto. In questo inferno, ognuno può fare quello che vuole, senza giustizia e senza vergogna.
Cosa cambierà  se le truppe Usa se ne andranno?
Niente. Adesso l’esercito non serve più, rischiare la vita di giovani americani porta a Trump dei problemi in patria. Non ne ha bisogno. I soldati sono sostituiti   dai contractors, dalle truppe speciali della Cia, con licenza di orrori impuniti, dall’esercito afghano che è carne da cannone, dai droni che uccidono senza coscienza, come in un video gioco. No, non cambierà  granchè. Potranno continuare tranquillamente a seguire la loro strategia, a controllare da qui questa parte di mondo, ad arricchirsi con il loro principale business.
Quale?
Quello dell’oppio e dell’eroina. Abbiamo il 94% della produzione mondiale e, ogni anno, immancabilmente, dall’inizio dell’invasione americana, aumentano gli ettari coltivati a papavero e le tonnellate di droga. Nessuno vuole fermare questa mafia di morte! E’ evidente nei fatti. Ogni paese pesca i suoi pesci.   Tutti sono coinvolti, militari Usa e Nato, Governo, talebani,   warlords. Rende troppo e a troppa gente perchè qualcuno faccia qualcosa. E’ come mettere dei conigli a sorvegliare le carote! Oltre a uccidere i giovani dell’occidente, questa roba uccide il nostro futuro.
Quanti sono i tossicodipendenti in Afghanistan?
Il Ministero dice che sono circa 3 milioni ma credo siano di più. Qui a Kabul li puoi vedere ovunque, a ogni angolo, nelle aiuole al centro della carreggiata, nei sotterranei, dove vengono recuperati con un carro i cadaveri ogni mattina, , un mestiere sicuro, uno dei pochi. Nelle province è anche peggio. Sono giovani, donne, bambini. Anche quelli che ti chiedono l’elemosina quando sei in macchina, negli interminabili ingorghi di Kabul. Anche loro vivono di oppio!
Che futuro hanno questi ‘accordi di pace’?
Tutta la popolazione di questo paese vuole la pace, non ne possiamo più della guerra che dura da 40 anni. Ma questa cosiddetta ‘pace’ sarà  peggio della guerra attuale.   Un’operazione che mette il sale sulle ferite del popolo afghano, soprattutto delle donne che sono state e sono le prime   vittime del regime talebano. E’ una ‘pace’ pericolosissima.   I talebani controllano già  più della metà  del paese ma dando   loro ancora più potere, permettendogli di entrare in Parlamento ufficialmente, le ingiustizie , la violenza, le violazioni di diritti umani aumenteranno ancora. Soprattutto le donne ne faranno le spese, torneremo indietro di 20 anni, le poche leggi che ci difendono saranno eliminate.
Poteva andare diversamente?
Sì, poteva andare diversamente. Il problema è volerlo. Dopo l’11 settembre gli Usa ci hanno messo pochi giorni a spazzare via da qui i talebani. Poi, in 20 anni, non sono riusciti ad evitare che si prendessero mezzo paese. Come mai? Eppure i talebani, che pure sono armati e bene, non hanno nemmeno gli stinger, i lanciarazzi contro l’aviazione. Gli americani attaccano per lo più dal cielo. L’armata più potente del mondo non ce la fa a battere delle bande di terroristi? Strano no?
Quindi, qual è la strategia Usa, secondo te?
Gli Usa giocano e hanno giocato con questi tagliagole il gioco di Tom e Jerry. Li manovrano, li combattono, li sostengono. Ne hanno bisogno.
Che pace possiamo immaginare?
La pace senza giustizia non esiste. Tutti qui sanno che questi criminali hanno ucciso, violentato, rubato, tradito, torturato, fatto saltare in aria cittadini inermi e adesso è tutto perdonato? Talebani infiltrati, massacrano i loro commilitoni nell’esercito, continuamente. Gli afghani non possono accettare tutto questo. Ogni giorno, i nostri sostenitori nelle varie province, a loro rischio e pericolo,   ci mandano report di crimini bestiali. A commetterli sono i talebani, Daesh, i vari signori della guerra con le loro milizie, la polizia. Ma nessuno lo viene a sapere , nessuno fa giustizia. Ignoranza e impunità  uccidono un paese.
Il popolo afghano potrebbe scendere in piazza contro tutto questo, come succede adesso in Irak, Libano, Cile, Hong kong?
Abbiamo troppi nemici e troppo forti. Le manifestazioni di piazza spontanee senza guida e senza armi, finiscono in genere nel sangue. Non hanno futuro. Ogni paese ha la propria situazione, con relativi problemi, nemici, storia, cultura. Non puoi nemmeno paragonare la resistenza afghana con quella cilena o   palestinese o iraniana, che pure è una nazione simile e vicina.   Perchè? Perchè a noi manca l’istruzione. In questi anni il vuoto scolastico è stato enorme, in alcune zone l’analfabetismo delle donne arriva al 95%.E’ l’istruzione, la conoscenza della propria identità  e dei propri diritti, le opportunità  di futuro, è questo che dà  forza al nostro popolo
Qual è quindi la strategia delle forze democratiche in Afghanistan?
Le forze democratichee crescono, il partito Hambastagi, Rawa, Saijss e tutti i miei sostenitori, professori, intellettuali, persone con le mani pulite, ci sono e   ci sosteniamo a vicenda. Ma le chances sono nulle. La nostra azione è limitata da ostacoli enormi. Uno è il denaro. Come ho detto, l’istruzione è la porta di uscita dal disastro, ma come costruire scuole o avviare corsi di alfabetizzazione a mani vuote? Per un corso ci vogliono almeno 5000 euro! Noi non abbiamo fucili,   dobbiamo combattere con le parole, con la penna, la conoscenza. Le scuole qui, vengono fatte saltare dai talebani, sono occupate dai militari, sono chiuse, raggiungerle vuol dire spesso rischiare la vita, soprattutto quella delle bambine.   Come si fa a contrastare tutto questo senza soldi?
E se ci fossero?
Prova a immaginare. Se tutte queste forze democratiche avessero i soldi per poter realizzare i loro progetti e dare istruzione a tutti, questo paese farebbe la rivoluzione, non c’è dubbio, perchè la gente combatterebbe per i propri diritti.
Poi, c’è il problema della sicurezza. Dobbiamo stare tutti molto attenti a come ci muoviamo, uccidere qui è molto facile, anche economico. Sicuramente io avrei molto successo se andassi a parlare apertamente alla gente nelle province, in una piazza magari, sarebbero tutti con me. Ma non so nemmeno se riuscirei a finire il mio discorso!   E la sicurezza costa. Se fossimo liberi di muoverci sarebbe diverso. Per questo, vedi, ci vuole molto tempo. Anche il tempo è una nostra arma. Per voi dieci anni sono molti ma per noi no, non sono niente, una piccola parte del cammino. E’ una battaglia lunga, ci vogliono determinazione e pazienza. Noi piantiamo dei semi per il futuro. Anche quando non saremo più vivi, avremo di sicuro un risultano dei nostri sforzi attuali.
Cominciano a fiorire questi semi?
Certo, i giovani che mi seguono sono sempre di più e più motivati, condividono la battaglia che ci sta davanti. Abbiamo la responsabilità  di guidarli nella giusta direzione. Vengono da me e mi dicono: vogliamo   essere al tuo fianco,   cosa possiamo fare? Un tempo non era così. E’ l’urgenza a spingerli perchè il disastro delle loro vite e del paese è sempre più grande. Raramente riesco a incontrarli personalmente, a volte nemmeno sui social.
Come si svolge la tua attività ?
In questo momento sto facendo una battaglia per le scuole, a Takar, a Kabul, a Farah. Ho molti sostenitori all’estero e spero che mi diano una mano. Siamo   un Comitato e lavoriamo tutti insieme. Non voglio essere un leader, sono una semplice attivista come ognuno di loro.
Come rimani in contatto con i tuoi sostenitori?
Attraverso facebook o il nostro network o per telefono. Non sono mai io a farlo, lo fanno altri nel Comitato.   Organizzano i meeting e io ci vado. Non posso fare niente in prima persona perchè qui è tutto controllato, internet, telefono ecc. Dobbiamo inventarci tecniche diverse per non farci identificare. Avere diverse case, diversi indirizzi mail, diversi telefoni…decide il mio comitato di sicurezza, per fortuna, non io. Tutto questo è molto stressante ma necessario.
Alle elezioni di settembre si sono presentati i   figli dei vecchi warlords che controllano ancora gran parte del paese (comandanti dei gruppi fondamentalisti che combattevano i russi, hanno scatenato la guerra civile negli anni ’90, governano molte province, controllano il traffico di droga e siedono in Parlamento). Erediteranno il potere dei loro padri?
Noi li chiamiamo ‘i figli dei lupi’. Hanno studiato in buone università  all’estero,   in questi ultimi dieci anni, e adesso ritornano, presentandosi come persone pacifiche,   ben educate, istruite. Molti di loro sono in Parlamento, hanno posti di potere, come   ambasciatori o altro e hanno molti titoli di studio. Alcuni ancora non hanno le mani sporche di sangue come i loro genitori, ma imparano presto. Giorni fa, il figlio di un   potente warlord, parlamentare nella legislatura precedente, ha ucciso un soldato a bruciapelo, lo hanno visto in molti. Suo padre, per toglierlo dai pasticci, ha accusato un altro soldato, che è stato condannato per l’omicidio.   E’ così che funziona con questa gente. Sono accademici e uccidono in modo accademico, con il loro stile,   mentre i padri uccidevano in modo più brutale e selvaggio. Per questo li chiamiamo ‘figli dei lupi’.
Hanno seguito tra la gente?
In un primo momento magari le persone   ci cascano ma capiscono presto chi sono e che non sono diversi dai loro genitori.
Tu vai spesso all’estero. Non hai mai la tentazione di restarci e di vivere tranquilla?
Sarebbe una   sconfitta per me. I giovani del mio paese mi guardano come un esempio, proprio perchè potrei starmene all’estero e vivere una bella vita con la mia famiglia ma rimango qui, voglio essere parte del cambiamento necessario al paese.   Condivido la vita fragile della mia gente, per questo hanno fiducia in me. A volte arrivano delle sorprese. A Farah City, dove sono nata, gli abitanti di un quartiere hanno dato il mio nome a una strada! Non ci avrei mai creduto!
Malalai sorride, si vede che le fa piacere. Deve andare ora, il buio arriva presto in questa stagione. Meglio non muoversi di notte.
‘Sai, come diceva una mia compagna, quando diventi una speranza per qualcuno non hai il diritto di arrenderti. ‘

(da Globalist)

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I BUCHI DEL 41 BIS: QUANDO ROBERTO FIORE (FORZA NUOVA) FECE INCONTRARE IL BOSS DI CAMORRA E IL FRATELLO NEL CARCERE DI VITERBO

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

IL REGIME DI CARCERE DURO E’ STATO SVUOTATO, LO DIMOSTRA UNA LUNGA SERIE DI CASI

Quando Roberto Fiore era un parlamentare europeo, riuscì a far violare il regime di carcere impermeabile del 41 bis a uno dei capi della camorra, Antonio Varriale.
Si presentò alle dieci di sera all’ingresso del carcere di massima sicurezza di Viterbo accompagnato da due collaboratori e chiese e ottenne di parlare con un solo detenuto. Nonostante l’ora tarda per un carcere, a Fiore vennero aperti cancelli e porte blindate e fu accompagnato – in virtù del suo ruolo di deputato europeo – davanti alla cella del boss Varriale con il quale l’europarlamentare e i due suoi collaboratori iniziarono a conversare.
Il dialogo però venne interrotto quando uno degli agenti della polizia penitenziaria si rese conto, controllando i documenti dei visitatori, che una delle persone che accompagnava Fiore era il fratello del capomafia.
La porta blindata della cella venne richiusa e il parlamentare con i suoi amici furono accompagnati all’uscita. Fiore non profferì parola.
Il responsabile degli agenti di Viterbo ammise che vi era stato «qualche errore nell’esecuzione della visita: primo perchè uno degli accompagnatori del politico era il fratello del detenuto sottoposto al regime speciale del 41 bis e secondo perchè dando l’autorizzazione ad aprire il blindo è stato permesso in un certo qual modo un colloquio di famiglia, eludendo le regole che vigono per l’effettuazione dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis».
Chissà  quali interessi aveva Fiore a far incontrare a tarda sera il capo di un clan camorristico detenuto con suo fratello.
Questa storia non è mai emersa agli onori della cronaca, ma è documentata, e dimostra come Fiore, oggi membro di Forza Nuova ha avuto contatti con persone legate alla camorra.
Il 41 bis viene violato anche così. Un sistema temuto dai mafiosi, tanto che Riina ha trattato con uomini dello Stato per farlo ammorbidire, oggi è diventato permeabile. Perchè questo sistema soffre di ipocrisia e tutte le cose che soffrono di ipocrisia tendono a morire.
I mafiosi condannati a vita continuano a esercitare il potere carismatico. E ammorbidire il regime penitenziario, allargando l’accesso ai benefici anche per chi non si pente, non depotenzia la loro carica criminal
Altra stranezza delle ultime settimane nel popolo dei 41
bis è il comportamento del boss della camorra Francesco Schiavone detto “Sandokan”. Con dodici ergastoli sulle spalle è rinchiuso nella sezione di massima sicurezza di Parma, ma da qualche settimana ha avanzato una strana richiesta alla direzione del carcere, quella di poter fare lo scopino.
Una scelta che non si addice al rango di un capomafia come Sandokan, dal momento che questa attività  di solito è ambita dai detenuti meno abbienti perchè consente di guadagnare qualcosa. Ma Schiavone non ha certo bisogno di arrotondare con mestieri umili. E allora? Tutto ciò ricorda quello che è avvenuto in passato quando uno dei capi di Cosa nostra, Salvatore Biondino, chiese di poter fare lo scopino.
Anche Biondino non aveva bisogno di arrotondare. Voleva fare lo scopino perchè quell’attività  gli consentiva di muoversi più liberamente e soprattutto di contattare detenuti chiusi lontano dalla sua cella. In sostanza, lo scopino può aggirare i rigori del 41 bis. Questa strategia all’epoca in cui stava prendendo piede la dissociazione in alcuni capimafia venne intuita dall’allora capo dell’ispettorato del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato Alfonso Sabella, che bloccò la richiesta di Biondino. Lo stesso giorno Sabella venne destituito dal ministro Roberto Castelli.
Sulla gestione dei detenuti al 41 bis e delle strutture in cui si trovano, è stata dedicata prima di Natale una riunione alla Procura nazionale antimafia (Pna) alla quale hanno partecipato tutti i procuratori distrettuali e i vertici del Dap. Ne è venuto fuori un quadro devastante nella gestione delle carceri e l’assenza di qualunque linea guida su questo regime da parte dei vertici dell’amministrazione.
Il capo dei pm di Messina, Maurizio de Lucia, ha evidenziato la carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate. Non c’è un numero sufficiente di celle per tutti i detenuti sottoposti al 41 bis, che non è una ulteriore pena afflittiva, ma uno strumento di tutela della collettività  che evita ai boss di continuare a comandare. Oggi sono 753 i detenuti al carcere impermeabile, fra cui dieci donne, e di questi 598 sono condannati definitivamente. Vi sono una trentina di richieste di nuove applicazioni del regime, a cui non viene data esecuzione perchè i reparti sono saturi
Carenze nel regime speciale che doveva far diventare il carcere impermeabile all’esterno
Rispetto al 41 bis del dopo stragi, oggi questo regime si è svuotato e ammorbidito. Il 41 bis, come dimostrano i fatti degli ultimi dieci anni, non serve a far collaborare i boss con la giustizia, perchè la decisione di “pentirsi” arriva subito dopo l’arresto.
È accaduto ancora di recente a Palermo nella serie di inchieste coordinate dal procuratore Francesco Lo Voi che ha portato in cella per mafia decine di persone e svelando gli assetti di Cosa nostra.
I nuovi mafiosi appena vedono il carcere iniziano a “cantare”. E come ha evidenziato il procuratore di Napoli, Gianni Melillo, durante la riunione alla Pna, se il Dap può realisticamente sopportare appena la metà  degli attuali detenuti al 41 bis, è del tutto evidente che rinuncia all’effettività  dei controlli e all’effettività  di “impermeabilizzare” i detenuti sottoposti a questo regime carcerario. Per Melillo «i controlli sono assolutamente saltuari e non vi è alcuna seria aspettativa dei limiti del 41 bis».
In precedenza Melillo, sentito in Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra, aveva tuonato sulla gestione degli istituti di pena, sostenendo che il carcere è un colabrodo, «governato non dallo Stato ma dalle organizzazioni mafiose».
Basta pensare che nelle sezioni dell’alta sicurezza sono tantissimi i telefoni cellulari che si continuano a trovare a disposizione dei detenuti, che hanno pure il controllo delle sezioni. L’ultima inchiesta della procura di Catanzaro offre uno spaccato su questo punto, denunciando che era stata addirittura formata una “Locale” (gruppo organizzato) di ‘ndrangheta all’interno del carcere di Vibo Valentia ad opera di un boss, Giuseppe Accorinti, che agiva in carcere come se governasse il clan sul territorio.
Ad occuparsi dei 41 bis sono gli agenti specializzati del Gom della polizia penitenziaria, i quali devono fronteggiare l’aumento dei detenuti sottoposti a questo regime con un sempre più ridotto numero di personale. Riescono ad ottenere grandi risultati grazie alla loro professionalità , riconosciuta dai magistrati. Ma sono pochi rispetto al lavoro che devono affrontare.
Gli ultimi festeggiamenti nelle sezioni dei 41 bis sono stati registrati nei mesi scorsi dopo la sentenza della Grande Chambre e della Consulta, che hanno dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. Le reazioni sono state di euforia e di vittoria.
Chi diceva che finalmente avevano trovato ascolto le proprie preghiere, chi sospirava di sollievo all’idea di poter accedere ai benefici, comprese le misure alternative alla detenzione e chi, in un modo o nell’altro immagina di ritornare in libertà .
In questo clima quasi da stadio, si respirava aria di vittoria, come se tutto ciò fosse da sempre dovuto. I boss Filippo e Giuseppe Graviano, condannati a più ergastoli in via definitiva, hanno concepito i loro figli in carcere nonostante il 41 bis, e hanno sempre detto ai propri familiari che prima o poi sarebbero tornati insieme, fuori. E non certo da collaboratori di giustizia. Chissà  cosa gli è stato promesso.

(da “L’Espresso”)

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GIOVEDI’ A STRASBURGO SI VOTA SULLA MESSA IN STATO D’ACCCUSA DI POLONIA E UNGHERIA PER VIOLAZIONE DELLO STATO DI DIRITTO

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

POTREBBE SCATTARE LA REAZIONE DI KACZYNSKI E ORBAN CHE RISCHIA L’ESPULSIONE DAL PPE… NON SI PUO’ ACCETTARE CHE DUE PAESI CHE VIOLANO I PRINCIPI DELLA DEMOCRAZIA FACCIANO PARTE DELL’EUROPA

Giovedì a Strasburgo l’Aula del Parlamento europeo sarà  chiamata a votare un testo che mette sotto accusa Polonia e Ungheria per violazione dello stato di diritto. Sebbene sia una mossa solo politica (solo il Consiglio europeo può agire e serve l’unanimità  per farlo), la questione ha già  messo in fibrillazione i gruppi dell’Eurocamera e le istituzioni europee.
Oggi la presidente Ursula von der Leyen porta il tema alla riunione della Commissione europea a Strasburgo. Nei gruppi, sia i favorevoli che i contrari, la previsione è che il testo sarà  approvato. E potrebbe essere la molla della ‘vendetta’ del presidente polacco Jaroslaw Kaczynski e del premier ungherese Viktor Orban, l’occasione per mettersi decisamente insieme, con i 13 eletti ungheresi che entrano nell’Ecr, i Conservatori e Riformisti, il gruppo che comprende anche i polacchi del Pis, e poi, chissà , in interlocuzione con Matteo Salvini per un grande gruppo sovranista.
Sia Orban che Kaczynski sono nel mirino degli europeisti da tempo. Il testo che verrà  messo ai voti giovedì chiede al Consiglio europeo di tirare finalmente le somme della verifica avviata su Polonia e Ungheria sul rispetto dello stato di diritto (art. 7) e prendere decisioni.
Al Governo di Varsavia si contesta la riforma della giustizia, lesiva dell’indipendenza della magistratura come contestano i magistrati polacchi di recente in piazza.
Per Budapest, invece, l’allarme è concentrato sul funzionamento del sistema costituzionale ed elettorale, l’indipendenza della magistratura, la corruzione, la tutela della vita privata e la protezione dei dati, la libertà  di espressione.
In più, Orban rischia di essere espulso dal Partito popolare europeo. L’anno scorso è stato sospeso, al termine di una lunga assemblea all’Europarlamento a Bruxelles. Il 4 febbraio è fissata — a meno di rinvii per ora non in vista — una nuova assemblea che potrebbe decidere la definitiva espulsione del leader di Fidesz dalla famiglia dei Popolari.
“La nostra posizione è chiara. Chi vuole rimanere nel Ppe deve chiarire che si attiene ai nostri principi”, dice oggi a Strasburgo il presidente del gruppo Ppe nel Parlamento Europeo Manfred Weber.
Ma per il Ppe la decisione è difficile. Il partito sostiene il testo che verrà  messo ai voti giovedì. Ma è spaccato al suo interno, tanto che solo domani sera, in un’apposita riunione, prenderà  una decisione ufficiale. Propendere per il sì potrebbe suonare come l’anticamera dell’espulsione di Orban dal Ppe. Il gruppo perderebbe i 13 parlamentari di Fidesz, poco male in quanto resterebbe comunque primo gruppo all’Europarlamento con 174 eurodeputati (con la Brexit ne guadagna infatti 5).
Ma la questione è politica: un eventuale addio di Orban potrebbe innescare movimenti inediti e spingere la destra a coalizzarsi.
Eppure è difficile fermare la macchina in corsa. All’Europarlamento la risoluzione verrà  sostenuta dai Socialisti, i liberali di Renew Europe, i Verdi, la delegazione del M5S e buona parte dei Popolari. Ecco perchè ha buone chance di passare.
In Polonia i giudici sono in piazza contro la riforma della giustizia di Kaczynski, sulla quale l’Ue ha già  avvertito il Governo di Varsavia. Un passo formale dell’Europarlamento a questo punto sembra necessario ai più.
Ma cosa succederà  dopo? È la domanda che gira nel Ppe e che l’assemblea del gruppo esaminerà  domani sera.
Se Orban entrasse nell’Ecr – dove oltre agli eletti di Kaczynski, ci sono anche gli eletti di Fratelli d’Italia — potrebbe non essere un grave danno.
Tra il Ppe e l’Ecr c’è dialogo, spesso compiono le stesse scelte in aula. Il punto è che, dopodomani, un eventuale sgambetto in aula a Polonia e Ungheria insieme, sommato a un’eventuale espulsione di Orban dal Ppe, potrebbe innescare ‘derive’ imprevedibili e rafforzare la destra, è il ragionamento che si fa tra i Popolari.
In fondo, l’Ecr ha votato no sulla nomina della presidente von der Leyen a luglio, esattamente come i sovranisti di ‘Identità  e democrazia’, il gruppo dei salviniani, i lepenisti, l’Afd e altri. E a novembre, nel voto sulla Commissione, dell’Ecr solo i polacchi e qualche altra delegazione ha votato sì, Fratelli d’Italia ha votato no. Per dire che i Conservatori e Riformisti sono interlocutori del Ppe, ma anche dei sovranisti, al centro tra i due e pronti a giocare su più sponde, a destra.
Finora, il no di Kaczynski ha infranto il sogno di Salvini di costruire un grande gruppo sovranista dopo le europee: il loro incontro a Varsavia, lo scorso gennaio, andò male.
Gli europeisti ancora ringraziano il polacco per l’aiuto. Il problema stava nei legami tra il leader della Lega e i russi, nonchè nell’alleanza con Marine Le Pen. Problemi che oggi restano, tanto più che Salvini non vuole mollare la leader del Rassemblement National.
Però, se l’aula dovesse decidere di allargare anche a Kaczynski e Orban il cosiddetto ‘cordone sanitario’ anti-Salvini, se il Ppe espellesse l’ungherese, si determinerebbero altre condizioni.
I due leader messi sotto accusa potrebbero stringere ulteriormente la loro alleanza e allargarla verso destra, sempre più lontano dal Ppe. Ecco perchè sul voto di dopodomani la soglia di attenzione a Strasburgo è parecchio alta.

(da “Huffingtonpost”)

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UE, APPROVATO IL GREEN DEAL: IN ARRIVO MILLE MILIARDI DI INVESTIMENTI PER L’ECONOMIA VERDE NEI PROSSIMI DIECI ANNI

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

UN QUARTO DEL BILANCIO DESTINATO ALLA LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Semaforo verde a Strasburgo per il Green Deal. Lo ha annunciato oggi durante la plenaria del Parlamento Ue il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis: “Vogliamo raggiungere emissioni zero entro il 2050. Non possiamo fallire. Il piano per gli investimenti sostenibili adottato oggi dalla Commissione europea” punta a “mobilitare almeno mille miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni” e invia un chiaro segnale a tutti: “quando si fanno investimenti occorre pensare verde”.
L’Unione europea prevede di dedicare un quarto del proprio bilancio alla lotta ai cambiamenti climatici e ha istituito un programma per spostare 100 miliardi di euro (110 miliardi di dollari) in investimenti per rendere l’economia più rispettosa dell’ambiente nei prossimi 10 anni. Cento miliardi che che potranno andare a tutti i Paesi, non solo a quelli chiamati a maggiori sforzi per uscire dal carbone.
“Con Invest Europe mobiliteremo circa 279 miliardi di euro di fondi pubblici e privati per investimenti favorevoli al clima e all’ambientali. Il cofinanziamento nazionale per progetti verdi conta 140 miliardi di euro. Il meccanismo per la transizione giusta dovrebbe mobilitare 100 miliardi”, ha spiegato Dombrovskis.
“Il Green Deal è la scommessa di un nuovo modello di sviluppo europeo, ci saranno 50 provvedimenti legislativi nei prossimi due anni, il primo verrà  presentato oggi, molto importante, e riguarda il Fondo di transizione giusta, come accompagnare la trasformazione, aumentare i posti di lavoro e non chiudere le aziende”, ha commentato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. “Naturalmente oltre alla metodologia noi lo vogliamo robusto con risorse adeguate, mi sembra che anche su questo si siano fatti dei passi in avanti – ha aggiunto – e che alcuni meccanismi possano consentire ai nostri paesi di attingere ad un fondo sufficiente forte”.
Il piano includerà  un meccanismo progettato per aiutare le regioni più colpite dalla transizione verso industrie più pulite, sebbene tutti gli Stati membri dell’Ue avranno diritto a sussidi. Von der Leyen, entrata in carica a dicembre, ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici la priorità  del suo mandato.

(da “Huffingtonpost“)

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MORIRE DA SENZA CASA: A ROMA SI MUORE DI FREDDO, MAI SPESI TRE MILIONI DI EURO DESTINATI A DARE UNA CASA AI SENZATETTO

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

L’EMERGENZA FREDDO NELLA CAPITALE COINVOLGE 5.000 PERSONE… ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO E MUNICIPI FANNO DA SOLI

Ogni anno con l’arrivo dell’inverno nella capitale scatta “l’emergenza freddo” per le circa 8mila persone che vivono in strada. Da fine dicembre Roma conta già  due decessi di persone senza fissa dimora.
Roma Capitale ha a disposizione risorse per circa 13 milioni di euro per servizi e infrastrutture per l’inclusione sociale, due dei 5 assi tematici previsti dal programma PON Metro, con un budget complessivo di quasi 38 milioni di euro, di fondi strutturali europei.
Secondo il cronoprogramma dei progetti finanziati in questi ambiti — tra cui “interventi innovativi per l’abitare”, la creazione di un “ufficio housing”, una “rete sociale dei municipi”, il superamento dei campi rom, “interventi innovativi per le persone senza dimora” e “reti di comunità  e di innovazione sociale nei municipi” — nel 2019 si sarebbero dovuti spendere circa 3 milioni di euro.
Ma secondo i dati riportati sul sito dedicato, aggiornati ad agosto 2019, sono stati spesi 245mila euro per l’inclusione di rom, e 164mila per “interventi innovativi per le persone senza fissa dimora”, ovvero case.
A settembre 2018 era stata indetta una gara europea per l’avvio di in “condominio sociale” e appartamenti housing first, aggiudicata a giugno 2019, i progetti non sono mai partiti, e sarebbero stati comunque temporanei.
Nel frattempo, a marzo 2019, è partita una nuova gara, per “la definizione del Sistema di Accoglienza in favore di adulti in condizione di marginalità  estrema Annualità  2019 — 2023”, per quasi 14 milioni di euro. Tra i 7 servizi oggetto del bando, ancora il “condominio solidale” e gli appartamenti housing first. La strategia cittadina per l’inclusione abitativa dei senza dimora si avvale anche dei fondi europei PON Inclusione e FEAD: ma su 3 milioni di euro disponibili per questi servizi i pagamenti effettuati risultano pari a zero.
Così anche quest’anno il normale freddo invernale è diventato un’ emergenza per chi è costretto a vivere in strada. Il piano freddo del Comune di Roma è partito a metà  dicembre — dopo l’avvio del piano freddo diocesano della Caritas — con l’aggiunta di 450 posti ai circa mille disponibili per l’accoglienza notturna nei 7 centri ordinari, con una spesa di oltre 1 milione e 100 mila euro.
Ci sono poi «ulteriori 20 posti, ampliabili a 35, presso la Stazione Termini e altri 35 presso la Stazione Tiburtina» ha informato la Sindaca il 5 gennaio. Si tratta di brandine che devono essere liberate entro 5 del mattino, allestite in strutture inadeguate, dove la luce resta accesa tutta la notte e gli unici bagni a disposizione sono quelli chimici. Altri 150 posti sarebbero in corso di attivazione.
«Una goccia nell’oceano» commenta Alberto Campailla dell’associazione Nonna Roma che ha attivato il 3 gennaio una raccolta straordinaria di indumenti, perchè, si legge nell’evento Facebook, «non possiamo rimanere a guardare».
Aspettando l’avvio dei progetti di Roma Capitale, cittadini e municipi fanno da sè. Una rete di associazioni, spazi sociali e cittadini si è attivata per una raccolta straordinaria di beni e indumenti denunciando, al tempo stesso, la «sistematica incapacità  del Comune di Roma di sostenere i suoi cittadini più fragili».
Nonna Roma ha avviato diversi progetti contro la povertà  tra cui un banco alimentare, un dopo scuola e servizi culturali, per favorire percorsi di costruzione di autonomia. «È la prima volta che ci dedichiamo al supporto delle persone senza tetto, riteniamo che sia un terreno importante di lavoro, perchè l’approccio assistenziale non basta».
Sette le realtà  che hanno risposto all’appello: Sparwasser, il circolo Arci Pietralata, Csa Astra, via Zabaglia, il circolo Arci Pianeta sonoro, Lsa 100 celle, gli studenti del De Lollis Undergound. «È andata molto bene, stiamo continuando a ricevere adesioni, è nata una rete solidale. Abbiamo raccolto coperte, sacchi a pelo, sciarpe, cappelli, calzettoni. 35 volontari hanno partecipato alla prima distribuzione, organizzata con la Comunità  di Sant’Egidio, con 8 automobili, un’ambulanza e un furgone». Un momento che è stato anche utile per conoscere sul capo la situazione. Tra le persone incontrate per strada «molti sono italiani, anziani, molti soffrono di disagi psichici. Ci sono anche molti giovani migranti, soprattutto nordafricani, fuoriusciti dai circuiti ufficiali dell’accoglienza, e molti dell’est Europa».
L’unica vera soluzione è la casa, «anche per brevi periodi, perchè interrompe un ciclo: metà  di coloro che usufruisce di una casa non torna in strada» dice Campailla.
Il tema della casa è enorme e non riguarda solo chi non ce l’ha. «Per esempio sono molti i padri separati che, pur lavorando, non riescono a pagare un affitto, e il mercato del lavoro non fornisce le garanzie richieste dai proprietari. Il buono casa del Comune di Roma, di cui potrebbero usufruire anche le famiglie sgomberate dall’occupazione di via Cardinal Capranica — finite in un centro di accoglienza — non funziona perchè non si trovano case in affitto».
Per superare il carattere emergenziale dei servizi previsti dal piano freddo, il III Municipio ha tenuto aperta, con fondi propri, una struttura per persone senza fissa dimora in via Ottorino Gentiloni, dopo la fine del piano a marzo 2019. «Era impensabile gettare per strada le persone accolte» dice l’assessore alle politiche sociali del municipio, Maria Concetta Romano.
«Il centro è stato concesso in comodato d’suo da Farmacap e lo abbiamo affidato tramite bando alla cooperativa Ambiente e Lavoro, che a sua volta lo ha tenuto aperto gratuitamente anche nei mesi estivi per dare continuità  ai percorsi di reinserimento avviati».
Gli utenti sono assistiti per l’accesso a contributi, misure di sostegno e progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Il Centro, che può ospitare fino a 25 persone, è aperto dalle 18.30 alle 9 del mattino, garantisce la cena e la colazione, servizi igienici, una lavanderia, un cambio vestiti, un servizio di trasporto a due punti di ritrovo nel municipio, un deposito per i beni personali, ma anche una biblioteca. «Puntiamo a farlo diventare un centro permanente aperto al territorio, come centro diurno anche per anziani soli, con l’avvio di laboratori e un presidio medico aperto a tutti» racconta l’Assessore. Nel terzo Municipio è attivo anche un emporio solidale, dove si può fare la spesa con una tessera, ed è in partenza un progetto co-housing.
Diversa la situazione nel VII Municipio. «Nel nostro municipio non esiste più nessuna struttura di ricovero e da diversi anni ha chiuso anche il servizio Kaspar Hauser al Quadraro che si rivolgeva proprio ai senza tetto» scrive la rete Cinecittà  Bene Comune, che ieri ha denunciato il taglio dei servizi e l’abbandono del patrimonio pubblico che potrebbe invece servire a sostenere le persone più più fragili. «Un anno fa chiudeva in via Sestili 7, sempre al Quadraro, un servizio pubblico importante, il centro diurno e notturno La Tartaruga del Serd» prosegue la nota. Anche nel quartiere Don Bosco si contano numerosi spazi pubblici inutilizzati che potrebbero servire al rilancio di servizi e lavoro. Per questo la rete chiede alle istituzioni Regione, Comune e Municipio di aprire un tavolo di discussione sul futuro di questi locali di proprietà  comunale.

(da Fanpage)

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SONDAGGIO SWG: PER IL 66% DEGLI ITALIANI TRUMP HA SBAGLIATO A UCCIDERE SOLEIMANI

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

PER IL 24% E’ STATO ADDIRITTURA UN ATTO CRIMINALE E PER IL 72% ORA C’E’ IL RISCHIO DI UNA GUERRA… META’ DEGLI ITALIANI VUOLE IL RITIRO DEI MILITARI ITALIANI, SOLO IL 25% E’ PERCHE’ RIMANGANO IN IRAQ

Il 66% degli intervistati boccia la scelta di Trump che ha condotto all’uccisione del generale Soleimani. A pensarla così sono soprattutto i giovani tra i 25 e 34 anni
Trump non doveva uccidere Soleimani, ora le sue azioni potrebbero portare a una guerra. A pensarlo è la maggioranza degli italiani. È quanto emerge dall’ultimo sondaggio Swg.
Il 66% degli intervistati boccia infatti la scelta di Trump. Tra questi, a pensarla così sono soprattutto giovani tra i 25 e 34 anni (76%).
Inoltre alla domanda «Secondo lei, Trump, ha fatto “molto”, “abbastanza”, “poco” o “per niente bene” a ordinare l’attacco missilistico che portato all’uccisione Soleimani?», il 51% degli intervistati propende per il “per niente”.
Il 40% ritiene la decisione “sbagliata e pericolosa”, mentre per il 24% si tratta di un “atto criminale”.
Il 72% degli intervistati ha paura che lo scontro degeneri in un conflitto in cui potrebbe essere coinvolta anche l’Italia. Per il 27% il rischio è “elevato”, mentre per il 45% il rischio c’è, anche se non è percepito come “particolarmente elevato”.
Il 67% degli intervistati inoltre ha paura di un attacco contro i nostri militari in Medio Oriente. Di questi è il 16% ad avere “molta paura”, mentre il restante 51% ha “abbastanza” paura.
Un italiano su due, infine, vorrebbe che i soldati italiani lasciassero il fronte iracheno. E mentre il 25% del campione intervistato ritiene che l’Italia dovrebbe lasciare il proprio contingente militare in Iraq, il restante 25% “non sa” esprimersi su tale ipotesi.

(da Open)

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LA LEZIONE DELLA LAMORGESE A SALVINI: “NESSUNO PUO’ SOTTRARSI ALLA LEGGE”

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

“UN MINISTRO DEGLI INTERNI NON DEVE PARLARE TANTO, DEVE OPERARE”… “NON INDOSSO DIVISE, RAPPRESENTO LO STATO E TUTTI I CITTADINI”

«È la regola generale, non vale solo per Salvini. Non amo entrare su questo argomento e in certe dinamiche ma, in quanto ministri, nessuno di noi può sottrarsi alle leggi vigenti. Come ex ministro va davanti al Tribunale dei ministri e lì si decide se deve essere processato o meno», queste le parole del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a “Otto e mezzo” su La7, rispondendo a una domanda sulla richiesta di autorizzazione a procedere per l’ex capo del Viminale in merito al caso “Gregoretti”.
Sulla comunicazione social della ministra, opposta rispetto a quella del leader della Lega, Luciana Lamorgese ha detto: «Non è una questione di strategia. Penso di aver portato al Ministero il mio essere come sono. Io credo che un ministro dell’Interno non deve parlare tanto ma deve operare. Io faccio qualche intervista ogni tanto per dare numeri e risultati ma il ruolo del ministero dell’Interno è un ruolo di garanzia, fuori dalle scene».
Sui migranti sembra avere le idee chiare: «Vanno aumentate le categorie per la concessione dei permessi umanitari», per evitare quello che stava avvenendo a fine dicembre, quando «abbiamo rischiato che finissero i strada» migliaia di persone. Questa, dunque, sarà  una delle modifiche ai decreti sicurezza
«Eravamo l’unico Paese che era al 28% di permessi umanitari sul totale a fronte di un 3-4% degli altri Paesi. Ma non è un bene così com’è stato ridotto, dobbiamo prevedere ulteriori categorie», ha concluso confermando, infine, la riduzione delle multe per le ong, che dovrebbero tornare all’iniziale previsione da 10 a 50mila euro.

(da agenzie)

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LUCIANA LAMORGESE INSEGNA COME SI PARLA DI MIGRANTI SENZA GRIDARE

Gennaio 14th, 2020 Riccardo Fucile

“I PORTI NON SONO MAI STATI CHIUSI, ALLA FINE SBARCAVANO TUTTI”… “A SETTEMBRE SONO AUMENTATI GLI ARRIVI, MA DALLA TUNISIA NON DALLA LIBIA”… “NON GIUDICO IL MIO PREDECESSORE, E’ UNA PRASSI DI ELEGANZA ISTITUZIONALE”

La differenza è ovvia e si vede nel quotidiano. Niente social, nessun proclama. Ed ecco che Luciana Lamorgese, come raramente accade, va ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo (su La7) e spiega, in maniera calma e pacata, spiega esattamente la situazione dei flussi migratori diretti in Italia.
Nessun grido, nessuna propaganda. Lo fa dal punto di vista istituzionale, senza voler fare campagna elettorale su questo o quel tema. Il capo del Viminale, inoltre, non ha voluto dare un proprio parere sull’operato del suo predecessore Matteo Salvini, nè sul caso Gregoretti.
Lilli Gruber ha immediatamente chiesto a Luciana Lamorgese di spiegare come mai, soprattutto nel mese di settembre, il numero di migranti sbarcati sulle nostre coste sia aumentato rispetto al periodo precedente. Il ministro dell’Interno ha spiegato che «molti dei migranti arrivati a settembre provenissero dalla Tunisia, dove non c’è un governo e manca un ministro dell’Interno». Insomma, impossibile interfacciarsi e trovare (o rinnovare) accordi con un’entità  istituzionale che non esiste. Le partenze, dunque, dalla Tunisia. E non dalla Libia come accadeva in passato.
Luciana Lamorgese ha poi smentito la bufala dei porti chiusi, paventata dal leader della Lega durante il suo passaggio al Dicastero dell’Interno (e ribadita ancora adesso in campagna elettorale).
I decreti sicurezza, infatti, non chiudevano alcun porto perchè era sempre compito della magistratura decidere sugli sbarchi in Italia. Insomma, una narrazione ben diversa — e più reale, come spesso sottolineato — rispetto a quella fornita dall’ex capo del Viminale.
E proprio su Matteo Salvini e sulle indagini per il caso Gregoretti, Luciana Lamorgese non ha voluto proferire parola. Il ministro dell’Interno ha detto che non è suo compito dare una valutazione in merito all’operato del del suo predecessore e che tutto quel che avverrà  sarà  deciso dalla magistratura. Senza gridare, puntare il dito verso la telecamera e fare populismo.

(da agenzie)

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