Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
NAVE ITALIANA, EQUIPAGGIO ITALIANO… IN QUESTO CASO “PRIMA GLI ITALIANI” UN CAZZO… CI AUGURIAMO CHE L’ARMATORE CANCELLI LA SPEZIA DAI SUOI SCALI
Aveva chiesto di fare rifornimento alla Spezia, dopo essere stata respinta a Gioia Tauro e a Civitavecchia. La Capitaneria e l’Autorità portuale hanno dato l’assenso. Il Comune di centrodestra no.
E la sosta negata alla Costa Diadema è diventata ieri un giallo.
La nave ha trovato accoglienza a Piombino, qualche ora dopo, e per l’equipaggio, stremato, è stato un immenso sollievo.
Il sindaco Pierluigi Peracchini aveva annunciato che la nave non sarebbe «sbarcata alla Spezia perchè il nostro sistema sanitario è allo stremo, non possiamo permetterci il lusso di ospitare altri malati».
Moltissimi figli o familiari di marittimi, hanno preso le distanze. «Non si respinge una nave che batte bandiera italiana, carica di lavoratori, che possono peraltro fare la quarantena a bordo, bene hanno fatto Capitaneria e Autorità Portuale a dire di sì».
Chi ha scritto che «non è cosa di cui vantarsi». Chi ha ricordato che «le navi portano soldi e lavoro e sopra ci sono esseri umani». E chi ricordava che «chiunque a bordo, cittadino italiano, potrebbe essere un figlio o un fratello»,
La presidente del porto Carla Roncallo ha confermato di aver dato l’assenso allo scalo.
Non è apparso chiaro perchè negare lo scalo tecnico, che non prevedeva lo sbarco di nessuno. E sono spuntate accuse su una presunta operazione di immagine, costruita per aggregare consenso, proponendo l’idea di un Comune forte.
Il comandante della Capitaneria Giovanni Stella: «Mai — dice — ci saremmo aspettati, in Italia, di vivere l’emergenza coronavirus. La Diadema ha chiesto solo il bunkeraggio”
Il morale dei marittimi italiani respinti è molto basso. Si sentono «trattati come untori» e lamentano di aver trovato «più solidarietà all’estero che non in Italia».
(da agenzie)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
IN PRATICA SI FINANZIEREBBE INTERAMENTE LA CASSA INTEGRAZIONE DEI PAESI IN CRISI CORONAVIRUS SENZA DOVER RICORRERE A MISURE DIVISIVE COME MES E CORONABOND, ASSICURANDO IL POSTO DI LAVORO
La Commissione europea starebbe lavorando a un piano da 80-100 miliardi di euro per aiutare gli Stati membri a preservare i posti di lavoro nella crisi del coronavirus attraverso un regime europeo di “riassicurazione” contro la disoccupazione. Lo si apprende da diverse fonti Ue.
L’obiettivo sarebbe creare a livello europeo un sistema che permetta di finanziare strumenti come il Kurzarbeit tedesco o alla Cassa integrazione italiana, attraverso un sostegno pubblico ai lavoratori in modo da evitare il più possibile licenziamenti da parte delle imprese.
La Commissione potrebbe quindi chiedere di attivare l’articolo 122 comma 2 del Trattato, in base al quale uno Stato membro può ricevere un’assistenza finanziaria dall’Ue se “si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”.
L’articolo 122 comma 2 del Trattato consentirebbe di usare le risorse del bilancio Ue – compresa la possibilità per la Commissione di emettere dei titoli – senza ricorrere a altre istituzioni o strumenti finanziari come il Mes o i Coronabond.
L’Ue fornirebbe prestiti ai singoli Paesi per aiutarli a finanziare nel breve periodo strumenti come il Kurzarbeit in Germania o la Cassa integrazione in Italia. Nei paesi in cui questi strumenti non sono presenti nella legislazione, le risorse potrebbero andare a finanziare i sussidi per la disoccupazione.
La proposta della Commissione dovrebbe essere presentata prima dell’Eurogruppo del 7 aprile, durante il quale i ministri delle Finanze della zona euro sono chiamati a discutere delle diverse opzioni sul tavolo per rispondere all’impatto economico della crisi del Coronavirus. L’idea di un regime europeo di “riassicurazione” contro la disoccupazione – secondo quanto si apprende – avrebbe ricevuto il consenso dei due partiti della grande coalizione in Germania.
(da agenzie)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
GIA’ CI IMMAGINIAMO QUANTI BAMBINI SARANNO LASCIATI LIBERI DI GIOCARE TRA LORO… IL GOVERNATORE DE LUCA: “MESSAGGIO GRAVISSIMO”, ANCHE LA REGIONE LOMBARDIA CONTRARIA
Una passeggiata ogni giorno, col proprio figlio minorenne, ma sempre vicino casa. È la concessione prevista da una nuova circolare emessa dal Viminale, che viene incontro alle molte richieste delle associazioni dei genitori.
Nel provvedimento del ministero dell’Interno si legge: “È da intendersi consentito, ad un solo genitore, camminare con i propri figli minori in quanto tale attività può essere ricondotta alle attività motorie all’aperto, purchè in prossimità della propria abitazione“. La nota è stata inviata ai prefetti per “chiarimenti” sui divieti di assembramento e spostamenti. E “l’attività motoria generalmente consentita”, precisa il testo, “non va intesa come equivalente all’attività sportiva (jogging)”. Possibile invece camminare “in prossimità della propria abitazione”.
Quest’ultimo passaggio sull’attività sportiva ha creato una serie di incomprensioni, perchè in molti avevano inteso che la circolare avesse vietato il jogging.
Il Viminale, quindi, è stato costretto a una precisazione ufficiale per sottolineare che il jogging era e resta consentito perchè fa parte delle attività motorie ammesse.
Nella circolare firmata da Matteo Piantedosi, capo di Gabinetto del ministro dell’Interno ed inviata oggi a tutti i prefetti, infatti è scritto che “l’attività motoria generalmente consentita non va intesa come equivalente all’attività sportiva (jogging)”
Al netto delle incomprensioni e delle precisazioni, resta il fatto che da oggi è possibile la passeggiata con i propri figli minorenni.
Soddisfazione da parte del Movimento 5 Stelle: “C’è una buona notizia, nonostante i tempi difficili — ha detto il capo politico reggente Vito Crimi — Con l’ultima circolare del Viminale abbiamo accolto l’appello al diritto alla passeggiata per i bambini: a ciascun genitore sarà consentito camminare con i propri figli di minore età in prossimità della propria abitazione”.
Critiche invece da parte di alcuni governatori, con Vincenzo De Luca (Campania) che parla di “messaggio gravissimo”: “Considero gravissimo il messaggio proveniente dal ministero dell’Interno, relativo alla possibilità di fare jogging e di passeggiare sotto casa. Si trasmette irresponsabilmente l’idea che l’epidemia è ormai alle nostre spalle. Si ignora, tra l’altro, che vi sono realtà del Paese dove sta arrivando solo ora l’ondata più forte di contagio. Si rischia, per una settimana di rilassamento anticipato, di provocare una impennata del contagio”.
E conclude dicendo che nella sua Regione “è assolutamente vietato uscire a passeggio o andare a fare jogging. Ribadisco che in Campania rimane in vigore l’ordinanza regionale, derivata da motivi di tutela sanitaria, la cui competenza è esclusivamente regionale”.
D’accordo anche l’assessore al Welfare della Regione lombardia, Giulio Gallera: “Non è questo il momento di abbassare la guardia. La circolare diffusa dal Ministero dell’Interno rischia di creare un effetto psicologico devastante, vanificando gli sforzi e i sacrifici compiuti finora. Il provvedimento ministeriale potrebbe essere inteso come un segnale di allentamento delle misure di contenimento assunte finora. Misure rigide, importanti, che hanno però consentito di contenere la curva dei contagi del coronavirus. L’indicazione utile per tutti deve essere quella di rimanere a casa, ancora per qualche settimana”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
UN TIPICO CASO DI CIRCONVENZIONE DI ELETTORE INCAPACE… LA MELONI NON SA NEANCHE COME AVVIENE UN PIGNORAMENTO DEL CONTO CORRENTE
Giorgia Meloni torna a deliziare il popolo con la sua proposta di dare mille euro a chi ne fa richiesta e venghino siòre et siòre venghino, ‘nnamo donne che m’envecchio. Stavolta lo fa con un video sulla sua pagina facebook in cui usa con perizia il paragone insensato tra cose che non sono paragonabili, aggiungendo, come nel suo stile, qualche lieve imprecisione.
Cominciamo dall’inizio: essendo domani mattina in programma un incontro tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e le opposizioni, la Meloni fa sapere che c’è una proposta “già articolata” per accreditare mille euro nelle tasche degli italiani: “gli italiani che hanno perso il lavoro” (ci sono già la cassa integrazione, i sussidi e il reddito di cittadinanza), “gli italiani che hanno perso un reddito da lavoro autonomo” (c’è il contributo per le partite IVA), “quelli che non sanno cosa dare da mangiare ai loro figli” (ci sono i buoni spesa).
Secondo la leader di Fratelli d’Italia mentre per la CIG o per le altre assistenze si dovrebbe aspettare tempo, i mille euro dovrebbero essere dati “subito”, eppure anche per una norma come quella immaginata da lei ci sarebbero comunque tempi tecnici da rispettare e bisognerebbe stanziare dei fondi.
Perchè la sua ideona dovrebbe essere di più facile attuazione delle altre, che tra l’altro sono già legge? Un mistero.
Ma è ancora più misterioso il paragone successivo: “Esattamente come lo Stato è capace con un semplice click di prelevare i soldi dal tuo conto corrente quando non paghi le multe, di bloccarlo se non sei in regola con il fisco, allora deve anche saper mettere i soldi sul tuo conto corrente quando sei disperato e ne hai bisogno”. Naturalmente non è vero che lo Stato “con un click” possa prelevare soldi dal tuo conto corrente: la procedura del «pignoramento presso terzi» in caso di riscossione esattoriale ha invece delle regole che naturalmente Giorgia non conosce.
L’esattore — ossia Agenzia Entrate Riscossione — notifica al debitore e alla sua banca l’atto di pignoramento. Questa comunicazione deve avvenire non prima di 60 giorni dalla notifica della cartella, ma non oltre 1 anno (o 180 giorni nel caso di precedente notifica di una intimazione di pagamento); fuori da questi termini il pignoramento è nullo;
— con l’atto di pignoramento il conto corrente viene bloccato per 60 giorni durante i quali la banca non può consentire al correntista di prelevare o stornare le somme pignorate
se decorrono i 60 giorni senza che il contribuente abbia pagato il debito, la banca trasferisce i soldi sul conto corrente di Agenzia Entrate Riscossione.
— In questi 60 giorni il contribuente può sbloccare il conto corrente pignorato optando per una delle tre seguenti soluzioni:
— pagare integralmente il debito ossia le somme intimategli da Agenzia Entrate Riscossione;
— chiedere la rateazione del debito: in tal caso il conto viene sbloccato solo alla dimostrazione del pagamento della prima rata;
— proporre opposizione all’esecuzione e sperare che, alla prima udienza, il giudice sospenda l’esecuzione forzata (il che però lo farà solo in presenza di valide e gravi ragioni su cui è fondata l’opposizione stessa).
Come vedete, che il fisco barbaro et ladro possa mettere le sue sporche manacce sul tuo conto corrente di colpo così, senza senso (cit.) è una fregnaccia che soltanto la Meloni potrebbe sostenere.
Ma questa fregnaccia serve a raccontare a tanti un governo cattivo che fa le cose per pura cattiveria dal quale bisogna salvarsi attraverso il voto a chi vuole davvero bene allaggggente, come Giorgia del resto.
Si tratta di un caso di studio di circonvenzione di elettore incapace che farà guadagnare tanti voti a chi, quando andrà al governo, vi spiegherà che adesso sta lavorando ma mica le cose si possono fare con un click, eh, che credete!
Esattamente come quello delle accise, avete presente?
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
EPISODI DI INTOLLERANZA CONTRO GLI OPERATORI: INSULTATI, TRATTATI DA APPESTATI, MINACCIATI DI LICENZIAMENTO DAI DATORI DI LAVORO E OFFESI DAI VICINI DI CASA
Insultati, ingiuriati, trattati da appestati. Minacciati di licenziamento dai datori di lavoro e offesi dai vicini di casa. Succede, nell’Italia stretta nella morsa dell’emergenza e della paura per la diffusione del contagio da Covid-19, a tanti volontari di ritorno dalle zone rosse del Paese, le più colpite dall’epidemia di coronavirus.
Uomini e donne che scelgono di mettersi a servizio delle comunità alle prese con un dramma senza precedenti e per questo impegno, nel corso o al termine della loro missione, si trovano a dover fare i conti con intimidazioni e improperi. A denunciare una situazione che non esita a definire “assurda”, è Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana. “Sono troppe le notizie che giungono da alcune parti d’Italia e che ci narrano di esecrabili intimidazioni ai danni dei soccorritori di ritorno dalle ‘zone rosse’ trattati come untori”, spiega Rocca all’HuffPost.
L’ultimo episodio è di qualche giorno fa: tre volontari tornati dalla Lombardia – Croce Rossa sta inviando infermieri, medici e squadre con le ambulanze a supporto del sistema della regione più colpita dalla pandemia in Italia – e sistemati in un appartamento ove trascorrere il periodo di autoisolamento volontario sono stati pesantemente insultati da diversi condomini del palazzo e trattati come appestati.
“È stato presentato un esposto e la nostra volontaria che aveva messo a disposizione la casa è stata convocata in Questura, le è stato chiesto di spiegare a che titolo quelle persone alloggiassero in una sua proprietà ”, sospira Rocca, che ha telefonato ai tre volontari in quarantena “per manifestare vicinanza, solidarietà e abbracciarli a distanza. È inaudito che a persone che, per spirito di servizio verso la comunità , non esitano, come in questo caso, a mettere a rischio la loro vita, venga riservato un trattamento del genere – scandisce Rocca – Anche perchè si tralascia un dato: senza la rete di supporto del volontariato alcune aree del Paese non avrebbero retto, non ce l’avrebbero fatta a gestire un’emergenza come quella in corso nel nostro Paese”.
I tre volontari insultati, “ovviamente ci sono rimasti male, essere considerati untori non può far piacere anche perchè non sta nè in cielo nè in terra, ma – puntualizza il presidente di Cri – mi hanno detto che non intendono farsi scoraggiare da comportamenti del genere” e comunque, rimarranno nell’appartamento fino alla fine del periodo di quarantena, “non espongono gli altri ad alcun rischio quindi non ci pensiamo proprio a spostarli per le proteste e gli atteggiamenti ingiustificabili dei condomini”.
Inutile, per Rocca, specificare la città o la Regione in cui è successo “un fatto, questo sì deprecabile, perchè poteva succedere ovunque”. E infatti i volontari impegnati sul fronte dell’emergenza sono stati presi di mira anche altrove, pure dai loro datori di lavoro. Minacciati di licenziamento o costretti alle ferie forzate.
Alla Croce Rossa sono arrivate segnalazioni dal Molise, dal Trentino, dall’Emilia-Romagna. “Un comportamento antisociale inaccettabile – dice Rocca – uno stigma intollerabile e a dir poco autolesionista, visto che è perpetrato ai danni di chi si prende cura di tutto il Paese senza sosta e con una tenacia incredibile. I volontari, di Croce Rossa come di altre organizzazioni, sono abituati a mettersi al servizio delle comunità , non si aspettano una medaglia, non chiedono riconoscimenti speciali, non lo hanno fatto in passato e non lo faranno adesso, ma certamente si aspettano di essere trattati con il rispetto dovuto a tutti”.
Insomma, accanto alla beneficenza, al paniere, alla spese e ai libri sospesi, nell’Italia messa a dura prova dal coronavirus emerge anche l’intolleranza, il pregiudizio, addirittura il disprezzo ai danni di “persone che non saranno degli eroi, ma sicuramente straordinari esempi di umanità in azione, uomini e donne che stanno servendo la loro comunità in un momento tanto difficile per la vita di tutti noi”, dice il presidente della Croce Rossa Italiana.
Insulti e paure, minacce e intimidazioni per l’impegno dei volontari nella battaglia contro il coronavirus, non sono molto diffusi. “Per fortuna appartengono a una piccola parte – conclude Rocca – una netta minoranza rispetto all’Italia migliore che ogni giorno ci manifesta stima e apprezzamenti e ci incoraggia ad andare avanti”. Oltre i preconcetti, al di là di stigmi e timori ingiustificati e ingiustificabili.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
LE CONSEGUENZE DELLA MANCATA CHIUSURA DI ALZANO E NEMBRO SONO STATE DEVASTANTI
Quella che state per leggere è una storia di ordinaria follia. Una storia che si consuma tra Alzano Lombardo, L’Avana e Madrid. Una storia che inizia il 29 febbraio e si conclude il 19 marzo.
“La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto”, scriveva Charles Bukowski. Il biglietto, invece, lo avevano pagato Sara e Luca (lei di Alzano Lombardo, lui di Nembro, in provincia di Bergamo) quando sono partiti per Cuba con un volo Air Europe.
Il giorno in cui il loro viaggio inizia è un sabato, è il 29 di febbraio. A Bergamo c’è il sole. Il sindaco Giorgio Gori invita i bergamaschi ad andare in città , a fare shopping, chiunque può viaggiare sui mezzi pubblici dell’ATB al prezzo scontato di un euro e cinquanta: il biglietto è valido per tutto il week end. Bar, ristoranti e negozi sono aperti e il Sentierone — la via pedonale del centro, la via dello struscio — pullula di gente.
Sono i giorni indimenticabili del “Bergamo non si ferma”, degli aperitivi milanesi tra il sindaco Sala e il governatore del Lazio Zingaretti, i giorni degli spot di Confindustria, che rassicura fornitori e clienti che “il rischio di infezione in Italia è basso” e che le aziende continueranno a produrre e a lavorare come sempre.
L’influenza da Covid è relegata nella zona rossa del lodigiano e nel comune veneto di Vo Euganeo. Eppure, già da una settimana, si è sviluppato un pericoloso focolaio in Val Seriana, che ha investito anche la città di Bergamo.
All’ospedale Papa Giovanni XXIII continuano ad arrivare ambulanze cariche di pazienti in crisi respiratoria provenienti proprio dall’ospedale di Alzano Lombardo, dove tutto è iniziato il 23 febbraio.
Il Coronavirus è già tra noi, ma la voglia di non fermarsi è più forte ed è così che Sara e Luca partono tranquillamente da Alzano Lombardo per la loro vacanza d’amore. All’aeroporto di Milano Malpensa nessuno li controlla. Fanno scalo a Madrid, dove il Coronavirus è solo un titolo di giornale nella pagina degli esteri. Proseguono per L’Avana. E qui il sogno si trasforma in incubo.
Luca ha la febbre. Già in volo dalla Spagna inizia a non sentirsi bene, ma una volta arrivato a Cuba la situazione degenera. La tosse non gli da tregua, il respiro è corto, non sente i sapori, non sente gli odori, i sintomi sono quelli tipici del Covid19. Prende la tachipirina e la febbre scende. Luca vuole continuare la sua vacanza a tutti i costi. Dopo due giorni la coppia si sposta a Cayo Santa Maria, una piccola isola al largo della costa settentrionale cubana, un paradiso terrestre a sette ore di pullman da L’Avana.
Su questa isoletta fuori dal mondo Luca non vuole farsi visitare da nessuno, mentre Sara insiste per tornare in Italia dove, nel frattempo, il Governo ha annunciato la “chiusura” della Lombardia diventata l’epicentro del contagio italiano. Anche Sara inizia ad accusare alcuni sintomi del Covid: smette di sentire i sapori e gli odori, ma non ha la febbre. I due ritornano a L’Avana. E’ domenica 8 marzo, l’Italia è sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo: la Lombardia è stata sigillata con un decreto ministeriale, un provvedimento senza precedenti. Luca è sempre più debole, ma non vuole farsi ricoverare in ospedale, ha paura di non riuscire a tornare in Italia, a casa sua, nella sua Nembro.
Un turista italiano è appena morto di polmonite a Trinidad — sulla costa occidentale cubana — e sull’isola ci sono altri turisti ammalati. Da tutto il mondo arrivano le prime notizie di voli per l’Italia cancellati, Luca non si regge in piedi e l’angoscia aumenta.
La parola “coronavirus” aleggia nell’aria, ma nessuno osa pronunciarla. Nemmeno all’aeroporto de L’Avana fanno troppe domande, hanno fretta di rimandare indietro gli italiani. L’aereo per Madrid è pieno di turisti italiani. Luca respira a fatica, è debolissimo. Arrivati in Spagna i passeggeri ricevono la conferma: il volo per Milano è stato annullato. Luca ormai è su una sedia a rotelle.
E’ mercoledì 11 di marzo. Tutta Italia è in lockdown: la prima quarantena nazionale della storia italiana è iniziata e nessuno sa esattamente quando finirà . In Spagna il virus è già arrivato, ci sono migliaia di contagi, una ottantina di morti e moltissimi pazienti in condizioni critiche, ma il governo di Pedro Sanchez non ha ancora emanato misure di contenimento drastiche.
All’aeroporto di Madrid Sara riesce a chiamare una ambulanza, ma deve aspettare un’ora prima che arrivi e nel frattempo la polizia accompagna la coppia e due loro compagni di viaggio in una stanza del commissariato. Luca non riesce quasi più a respirare. Nessuno, però, li identifica. Nessuno controlla i loro documenti. Nessuno registra le loro generalità . Quando arriva l’ambulanza, gli agenti dicono a Sara e agli altri due italiani che devono andarsene, perchè non è possibile entrare in ospedale con il loro compagno di viaggio ammalato.
Sara chiama un taxi e segue l’ambulanza che trasporta il suo Luca all’ospedale de La Paz. Arrivata in pronto soccorso le dicono chiaramente che è vietato l’accesso. Quella è l’ultima volta che Sara vede Luca.
La donna in preda al panico, sola e senza parlare una parola di spagnolo, rimane ore ad aspettare nella sala d’attesa, fino a quando riesce a comunicare con una dottoressa che parla italiano: Luca ha una polmonite bilaterale e, dopo quasi dieci giorni di tachipirina, ha i reni compromessi. Lo stanno ventilando con l’ossigeno. La donna va in albergo a dormire, ne ha prenotato uno vicino all’aeroporto.
Il giorno dopo decide di cambiare hotel e di avvicinarsi all’ospedale. Torna da Luca, ma nessuno sa dirle niente. Non riesce a parlare coi medici. C’è una confusione totale. Un andirivieni di ambulanze, lettighe, pazienti e famigliari spaesati.
Passano tre giorni, è domenica 15 marzo e il Governo spagnolo, dopo aver chiuso le scuole, vieta gli spostamenti e chiude tutte le attività commerciali, ad esclusione di quelle essenziali. Come in Italia. Anche la moglie del premier Sanchez, Begonia Gomez, è positiva al test.
Quella domenica il direttore dell’hotel, nel quale Sara soggiornava, le comunica che la struttura deve chiudere per via del decreto e lei viene trasferita in un bilocale. Siamo al terzo cambio di albergo in meno di una settimana. Sara riesce a comunicare con la Farnesina e con l’Ambasciata italiana in Spagna, che le consiglia di non dire a nessuno il motivo per cui si trova a Madrid, altrimenti l’avrebbero lasciata per strada e non avrebbe trovato più un alloggio. E’ così che arriviamo a martedì 17 marzo.
Finalmente Sara riesce a comunicare di nuovo con la dottoressa che parla italiano: Luca è stato intubato, ma gli organi non rispondono. E’ gravissimo. Mercoledì 18 marzo Luca muore.
Giovedì 19 marzo la Farnesina organizza un volo per recuperare i moltissimi italiani bloccati in Spagna e in transito da diversi paesi del mondo. Sara decide di prendere quel volo Alitalia diretto a Roma, è disperata, ha capito che non potrà mai più vedere il suo Luca e che la salma rientrerà solo quando questo incubo sarà finito.
L’aereo è pieno, hanno tutti la mascherina. Sara ha finito le lacrime e continua a non sentire i sapori e gli odori. Sa bene di avere contratto il virus, ma nessuno le farà mai il tampone. E’ sotto shock.
Arrivata a Fiumicino le controllano la temperatura, non ha febbre, “vada pure”. Lei vuole solo ritornare a casa sua, ad Alzano Lombardo. Prende un Ncc, un auto a noleggio con conducente, percorre la strada senza dire una parola, 850 euro e arrivederci.
Ora Sara è in quarantena a casa sua, in Val Seriana. Molti suoi amici e conoscenti hanno perso la vita a causa del Coronavirus in queste ultime settimane. Altri si sono ammalati di Covid19.
Da quando è partita a fine febbraio il mondo è cambiato. Una generazione di anziani è stata spazzata via, in modo impietoso. Eppure il 29 febbraio la gente passeggiava tranquillamente per le strade. Il medico consiglia a Sara di non vedere nessuno, ma il tampone non glielo fanno.
Intanto lei e il suo compagno in tre settimane hanno preso quattro voli, attraversato tre aeroporti internazionali, visitato due paesi, Spagna e Cuba, soggiornato in sei alberghi, frequentato bar, ristoranti e locali pubblici, sono saliti su autobus, taxi ed Ncc. Hanno incontrato centinaia di persone.
Fino a quando Luca è morto, in un paese lontano, senza avere accanto nessuno, senza vedere i figli, senza una carezza.
E io mi domando: quanti bergamaschi, quanti lombardi come loro hanno viaggiato in totale incoscienza, senza essere tracciati, isolati e diagnosticati? Migliaia.
Quando noi giornalisti chiediamo alle autorità con insistenza perchè non si sia tempestivamente intervenuti a creare una zona rossa ad Alzano Lombardo e a Nembro — nonostante le schiaccianti evidenze scientifiche — non lo facciamo per fare “polemica” come spesso ci viene rinfacciato, ma è esattamente per questo motivo: perchè qualcuno deve rispondere non solo delle morti che potevano essere evitate, ma anche delle migliaia di persone contagiate — in Italia e nel mondo — a causa della mancata tempestività nell’isolare il focolaio lombardo sul nascere, il focolaio di Alzano e Nembro, a causa della disastrosa sottovalutazione sanitaria che non ha trasmesso ai cittadini la gravità della situazione.
Qualcuno deve rispondere delle morti e dei contagi causati da una comunicazione schizofrenica, che invitava tutti alla normalità , nonostante l’aumento esponenziale delle vittime.
Qualcuno deve rispondere di decisioni che oggi evidenziano tutta la loro drammatica inadeguatezza. Perchè questi errori non devono capitare mai più. In nessuna parte del mondo.
Perchè non si tratta — come è stato detto — di “danni collaterali”. Si tratta di vite umane. E le persone meritano risposte. Chi è stato ad opporsi alla creazione tempestiva di una zona rossa ad Alzano Lombardo e a Nembro? Ditecelo.
(da TPI)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
LA VERA STORIA DI UN BOOM DI CONTAGI E DI COME SI E’ CERCATO DI NASCONDERLI
Clinica privata Sant’Antonino, Piacenza.
Una clinica accreditata col servizio sanitario che con “Casa Piacenza”, sua “gemella” e della stessa proprietà (il direttore sanitario Mario Sanna), si trova al centro di un caso molto inquietante: pazienti, medici, caposala, oss, infermieri, donne delle pulizie che si ammalano di Coronavirus già a metà febbraio, o forse anche prima, e nessuna informazione esce da lì.
Finchè il Fatto quotidiano, il 18 marzo, scoperchia la pentola: una donna delle pulizie muore e si scopre che settimane prima un vecchietto col Coronavirus è stato portato via in fretta dalla struttura.
La Clinica privata Sant’Antonino, interrogata da me il 6 marzo, tace su tutto dicendo di chiedere alla Ausl, il direttore della Ausl di Piacenza Luca Baldino mi comunica che quello che succede lì non gli interessa e che ha cose più importanti di cui occuparsi.
Il 13 marzo, la Ausl di Piacenza annuncia che il Sant’Antonino diventa clinica specializzata Covid e ringrazia la clinica per la sua “sensibilità ” in un comunicato ufficiale.
E quindi, è forse il momento di aggiungere tutti i particolari della storia, comprese le varie testimonianze raccolte e le nuove “risposte” della dirigenza della Casa Piacenza e Sant’Antonino, anche se ancora una volta sostanzialmente attribuiscono ogni responsabilità alla Asl di Piacenza.
La storia
A metà febbraio, quando il Coronavirus sembra non essere ancora arrivato in Italia, il paziente anziano Gino B., ricoverato alla clinica Sant’Antonino, si sente male. Comincia ad avere una febbre costante, che non scende. In clinica pensano che dipenda dal fatto che il suo letto è situato di fianco al calorifero. Quella febbre però non passa e a un certo punto si ammala anche il suo vicino di letto. Stanno male anche alcuni dottori. Il 24 febbraio, in clinica, arriva notizia che il dottor Cremonesi, un medico in pensione che svolgeva alcune operazioni presso la clinica Piacenza, è stato ricoverato a Tenerife mentre si trovava in vacanza: ha il Coronavirus. Ne parlano anche i giornali e i tg, ma il nome della Clinica Piacenza non viene mai associato al fatto.
Ufficialmente, lì dentro, non è successo nulla. Nessuna comunicazione ufficiale del proprietario Mario Sanna, nessuna comunicazione alle famiglie dei pazienti ricoverati, nessuna comunicazione ufficiale a tutto il personale.
Gino, il vecchietto trovato positivo, viene portato via alcuni giorni dopo. Il 16 marzo, Monica Rossi, una donna delle pulizie di Casa Piacenza, viene trovata morta in casa. “Avrei potuto salvarla, non me lo perdonerò mai! Vivrò la mia vita con questa croce sulle spalle! Scusami se puoi Monica!”, scrive su Facebook la responsabile del personale di Casa Piacenza Laura Cappellano.
Dunque, cosa è successo da metà febbraio a quel 16 marzo, nelle cliniche private Casa Piacenza e Sant’Antonino?
Molte cose, e tutte ben silenziate dalla dirigente assistenziale Nawal Loubadi, dalla figlia del proprietario Lidia Sanna e da tutti i responsabili delle strutture. Molti dipendenti hanno continuato a lavorare, da quel 24 febbraio, in una condizione di incertezza e paura, scoprendo sempre per vie traverse, per confidenze di medici, di infermieri, di oss, che la malattia stava girando nelle cliniche e che tanti di loro si stavano ammalando.
Qualcuno era stato contagiato e “andava in ferie” o “veniva messo in malattia” in tutta fretta. La parola “Coronvirus” era tabù.
Dopo la morte della donna delle pulizie però, tutto cambia. I dipendenti iniziano a parlare. E mi contattano in tanti. Un oss della Sant’Antonino mi racconta, tra un colpo di tosse l’altro: “Qui ci sono decine e decine di persone positive da più di un mese. Tutto inizia con il paziente anziano Gino B., nella stanza 8, vicino al termosifone bollente. Aveva sempre la febbre altissima, dal 10 febbraio circa. Lo spostano nella stanza 15, una tripla. Dopo che scoppia il Coronavirus in Italia scoprono, credo con una lastra o un tampone, che è positivo. Lo spostano in una stanza singola, la 5. Riguardo i due pazienti che gli sono stati accanto, uno è deceduto giorni fa”.
“Io non lo so come ci è arrivato il Coronavirus qui dentro, ma sicuramente non dai pazienti ricoverati. Qui c’è un infermiere di Casalpusterlengo che ha la mamma che fa l’infermiera all’ospedale di Codogno, mamma che aveva il Coronavirus. Il primario del Sant’Antonino si è preso anche lui il Coronavirus a febbraio e a quanto pare la figlia era stata a cena con un’amica intima della moglie del paziente 1 di Codogno. Si è ammalato il medico F., il medico C., si sono ammalate l’infermiera S., la caposala C.,”, la fisioterapista F. e così via. “Il servizio di igiene dell’ospedale mi ha chiamato a metà marzo e aveva una lista di dipendenti parziale. Gli ho chiesto se nella lista c’era S., il dipendente di Casalpusterlengo e mi è stato risposto ‘La clinica non ci ha fornito questo nome’. Non avevano vari nomi di alcuni dipendenti malati o delle zone rosse che dovevano rimanere a casa”.
“Noi operatori del Sant’Antonino siamo distrutti. Lavoriamo solo per i pazienti. Non abbiamo avuto una mascherina FFP3 per fare l’ossigenoterapia per settimane, quindi ci saremo infettati tutti in quel periodo. Abbiamo visto il panico qui dentro, ma nessuno della dirigenza ha condiviso qualche informazione con noi mortali. A una riunione la mia collega N. ha detto che si sarebbe rivolta al sindacato, le hanno contestato che non era una persona seria. Il problema sanitario poteva accadere, questa omertà no”.
“I Covid li hanno spostati tutti qui alla Sant’Antonino perchè a Casa Piacenza c’è la sala operatoria. Potevano quindi continuare a operare e a fatturare, qui siamo stati trattati come spazzatura. Chi si era ammalato da noi ora è mescolato con pazienti Covid mandati dagli ospedali, quindi ora si possono confondere le acque. Se Luca Baldino della Ausl vuole iniziare a indagare, parta dal paziente Gino B.”. “I problemi iniziano da prima dell’emergenza. Qui non abbiamo sapone, garze, giuste pomate per le medicazioni. Ci viene detto, da anni, addirittura di riciclare le bavaglie dove mangiano i pazienti. Qui da sempre è tutto improntato al risparmio, con cazziatoni della dirigenza continui”.
Un’infermiera del Sant’Antonino mi racconta: “Io da un turno all’altro mi sono trovata qui 80 pazienti col Covid senza sapere come gestirli. In una settimana sono morte 20 persone. Una tizia della Ausl ci ha fatto una lezione veloce su come usare le tute, dicendoci: ‘Non dovete neppure guardarli i pazienti, sono tutte persone che moriranno’”.
L’infermiera piange, mentre lo racconta. “Io li lavo, mi prendo cura di tutti, per me sono tutti come fossero mia mamma, se ne salvo uno sono contenta. Ma siamo troppo pochi qui, certe volte trovo i pannolini del giorno prima. Stamattina un paziente mi ha strappato l’anima. Mi ha preso la mano e mi ha chiesto: ‘Come sta mia moglie, per favore, dimmelo’. La moglie stava male, muoiono soli, come le mosche. Almeno farli morire con dignità . Se io mi lamento che serve personale, mi dicono: se non vuoi lavorare qui, quella è la porta”.
“Abbiamo chiesto tamponi per settimane, si sono ammalati di Coronavirus pazienti che erano entrati a fine gennaio e poi hanno avuto sintomi a febbraio. Se avessero fatto il tampone a tutti, avrebbero chiuso perchè sarebbero rimasti senza personale”. “Io vedo pazienti morire come pesci senz’acqua, questo è solo un posto dove vengono i pazienti molto anziani a morire, almeno un po’ di dignità per loro e di sicurezza per noi. L’Ausl deve vigilare sul rigore con cui lavora il privato, quella di Piacenza cosa fa? Qui da quando non sono entrati più i parenti, si è fatto quel che si voleva, chi ha controllato?”.
Un’addetta alle pulizie, collega della donna delle pulizie morta, mi dice: “Io lavoro alla Casa Piacenza. Sono distrutta. A me fa male respirare, mi fa male la testa, ho tanta paura, ho famiglia. Lavoravo con Monica, quindi potrei aver preso anche io il Coronavirus. Lei aveva la febbre, si è fermata qualche giorno, poi è tornata al lavoro con la febbre e alla fine è morta in casa. Una mia collega è positiva, il marito se l’è preso anche lui da lei, è finito in ospedale. Qui il tampone lo hanno fatto a chi pareva a loro”. “Nel frattempo io andavo avanti da settimane con una mascherina che andrebbe usata 8 ore e che ho usato 1 settimana. Io non voglio morire, ho un figlio. Le mie colleghe sono tutte con le febbre, io vedevo tutti i giorni il primario e non sapevo che era malato, ho saputo che aveva il Coronavirus dopo una settimana. Idem il dottor C. e chissà quanti altri”.
Un’altra infermiera rivela: “Non so come sia entrato qui al Sant’Antonino il Coronavirus. Prendevamo emoculture senza sapere che girava il virus. Poi un giorno scopro che è morta la madre del primario. Che il primario ha il Coronavirus. La nostra caposala è di Codogno. Hanno fatto tamponi solo ad alcuni, poi ci hanno detto che i tamponi erano finiti, ma io li ho visti in un armadietto, c’erano. La mia collega L. aveva la polmonite interstiziale. Tutti ammalati. Qui ora ci fanno la tac, se non hai sintomi come febbre e tosse lavori anche con la polmonite. Non siamo dipendenti, siamo discarica”.
“Si è ammalata ed è morta una paziente che stava nella stanza ‘Sollievo’ da 3.000 euro al mese a Casa Piacenza che non era positiva e si è presa qui il virus. Siamo due infermiere su 40 malati, non sappiamo dove girarci. Siamo carne da macello, noi e i poveri malati. Abbiamo la delibera per legare i polsi per il loro bene perchè non possiamo guardarli tutti, sennò si levano l’ossigeno. Noi non possiamo fare niente, scarseggia pure l’Urbason per le terapie, alle volte lo prendo dal carrello delle urgenze. Se ci lamentiamo ci dicono che c’è la fila fuori dalla porta per lavorare lì, possiamo andarcene. Molti di noi hanno deciso di parlare e questo è un bene. I problemi qui sono esplosi col Covid, ma sono iniziati dalla gestione di Mario Sanna, prima col Dottor Agamennone qui si lavorava bene”.
Luisa racconta: “Mia suocera è stata ricoverata il 13 marzo al Sant’Antonino con febbre e tosse. Mio marito aveva la febbre altissima, ma la Ausl non ha voluto fare il tampone. Il sabato chiamiamo e non riusciamo a parlare con nessuno. Chiamiamo tre volte ma mi dicono che non conoscono ancora bene i pazienti. La sera mi buttano giù il telefono. La domenica dicono che mia suocera risponde alle cure e di portare un cambio. Il giorno dopo non ci rispondono. Alla fine mio cognato va in clinica col cambio il giorno dopo alle 13.00. Gli chiedono il nome della signora, arriva un dottore dopo 30 minuti e lo informano che mia suocera è morta durante la notte. Nessuno ci aveva avvisati! Non abbiamo mai avuto una diagnosi, nulla. L’avranno curata per il Covid? È una cosa oscena”.
Silvia Bettini, di Piacenza, aveva il papà al Sant’Antonino, ricoverato il 13 febbraio. “Io l’ho visto l’ultima volta il 23. Giorni dopo al telefono mi comunicano che è ventilato. Nessuno ci dice che lì gira il Coronavirus, ma io lo scopro per vie traverse. Una sera quindi mio fratello chiama la clinica minacciandoli, dicendo ‘So cosa succede lì dentro, portate mio padre subito al pronto soccorso di Piacenza!’. Dopo mezz’ora ci chiamano dal pronto soccorso e ci dicono che mio padre era arrivato malnutrito e disidratato. Stava morendo e gli avrebbero fatto la morfina. È morto poche ore dopo, di notte. Ci hanno detto che aveva sicuramente il Coronavirus, per via di una polmonite interstiziale gravissima. Lui non ha mai avuto le cure per il Coronavirus”.
Andrea, figlio di una donna che è stata ricoverata al Sant’Antonino, mi dice: “Mia madre era stata operata all’ospedale di Piacenza a fine gennaio e poi è andata al Sant’Antonino per la riabilitazione. Mi avevano sconsigliato tutti quella clinica. È entrata il primo febbraio ed è rimasta fino al 25, ci siamo ammalati di Coronavirus io e mia madre. Io mi sono ammalato il 26. Negavano che ci fossero casi di Coronavirus, mi arrabbiavo perchè una signora che era nella stessa stanza di mia madre aveva badanti che cambiavano continuamente e venivano due volte al giorno, quando già era scoppiato il caso Codogno. Erano tutte con tosse e raffreddore, raccontavano di parenti malati. Io ci litigavo e andavo dalle infermiere a informare della situazione. Il 25 ho chiesto di dimetterla: mia madre torna a casa e resta con la badante. Il 26 io mi ammalo. La badante il 29 mi chiama e mi dice che mamma sta male, il 118 la vanno a prendere e scoprono la polmonite. Alla fine fa il tampone ed è positiva. Io dentro al Sant’Antonino ho visto un clima terribile di paura e omertà , i medici mi dicevano ‘Non parliamo qui per favore, ci sentono!’. Hanno lasciato sani e infetti insieme a lungo, non hanno informato noi parenti del fatto che gli stessi primari e medici con cui avevamo parlato erano infetti, siamo andati tutti in giro per Piacenza malati. Loro hanno fatto delle tac a febbraio a pazienti quando hanno capito cosa succedeva, me lo ha confermato un medico lì, ma hanno scelto di non dire la verità come andava fatto e subito a tutti i coinvolti”.
Dopo il mio primo articolo su Casa Piacenza uscito su Il Fatto il 18 marzo, alcune mie fonti nelle strutture mi hanno riferito che i responsabili delle cliniche hanno avuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei dipendenti, minacciando licenziamenti se avessero scoperto le mie fonti. Riguardo la morte della donna delle pulizie Monica Rossi, la Ausl ha confermato alla sorella Marina la positività del tampone: “Ma il medico di base ha scritto che mia sorella Monica è morta di ictus e — sai cosa? — Senza aver mai visto la sua salma dopo la morte! Quando gli ho chiesto spiegazioni è stato vago e poi non mi ha più parlato”.
La risposta delle clinich
Tramite l’avvocato delle due cliniche coinvolte, l’avvocato Sacchelli, ho posto alcune domande scritte alla dirigenza, che mi ha fatto arrivare le seguenti risposte
1) Avete dipendenti delle zone rosse di Codogno? Se sì, vi risulta siano stati contagiati o abbiano parenti contagiati? L’ospedale di Piacenza, che aveva un infermiere di Codogno risultato positivo, ne ha dato comunicazione già a febbraio, per trasparenza. Come vi siete comportati voi? Sì, abbiamo dipendenti delle zone di Codogno. L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
2) Il vostro primario C., positivo, risulta avere un familiare, la figlia, che era stretta conoscente di un’amica della moglie del paziente uno di Codogno. Sarebbero state informazioni importanti da comunicare a parenti di pazienti e pazienti entrati in contatto col primario, per permettere di ricostruire la catena dei contagi, anche all’interno della clinica Sant’ Antonino e nelle zone di Piacenza e Codogno. L’avete fatto? L’Organo preposto alla gestione delle comunicazione sulla positività di operatori o loro parenti (compresi quelli delle due case di cura) è il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza. Abbiamo fornito al Servizio di igiene tutti i dati che ci hanno richiesto sul caso di specie.
3) Perchè non è stata comunicata la positività del primario (senza specificare la sua identità , ma più genericamente di un dipendente) e di dottori e caposala? È stato fatto tramite il Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
4) Perchè negli altri ospedali viene comunicato per trasparenza e nell’interesse di pazienti e cittadini il numero dei dipendenti e pazienti postivi per contagio avvenuto all’nterno e voi lo tacete? È stato fatto, in numeri dei pazienti sono quelli pubblicati 80 CCPSA e 90 CCPP, i dati sono quelli dell’Asl di Piacenza di cui noi facciamo parte come Struttura Privata Convenzionata
5) Quanti sono ad oggi i dipendenti di Piacenza e Sant’Antonino contagiati? Sono dati che ha Servizio di Igiene dell’Ospedale di Piacenza.
6) Come commentate il comunicato interno in cui invitavate i dipendenti a lavorare anche con tac positiva e che i tamponi erano terminati? La Tac è un esame non previsto nel protocollo ma lo è il tampone. La proprietà ha dato a disposizione la Tac gratuitamente come strumento di screening a maggior tutela dell’operatore. “Operatori con Tac positive ma in assenza di sintomi”: sono gli operatori che hanno in evidenze alterazioni strutturali del polmone non sicuramente riconducibili a polmonite interstiziali da virus, ma riconducibili a patologie virali (Rino virus), influenza virus avute in precedenza.
7) Come mai non avete fatto una comunicazione al personale tra infermieri, oss e addetti alle pulizie sui numeri del contagio all’interno dell’ospedale e li avete lasciati inconsapevoli e spaventati? Come mai avete fatto tamponi solo ad alcuni dipendenti? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale
8 ) Il primo caso di paziente contagiato al Sant’Antonino risulta essere il signor Gino B., aveva la febbre già a metà febbraio, perchè, pare, gli è stato fatto il tampone (positivo) solo a marzo? Da quel momento avete comunicato a tutti i parenti dei ricoverati, per esempio a quelli del paziente Gino B. e Bettini (ricordiamo che l’ospedale non era Covid ai tempi) la positività ? Abbiamo seguito il Protocollo Regionale
9) E avete comunicato ad altri parenti dei pazienti contagiati, tra cui alcuni della sezione Sollievo che erano lì da moltissimi mesi, la situazione? Subito appena ricevuti i Protocolli Regionali e le disposizioni Prefettizie.
10) Alcuni dipendenti dichiarano di aver avuto disposizione di legare i polsi ai pazienti e di averlo fatto. Volete commentare? Parla delle misure di contenzione previste da qualunque protocollo Ospedaliero.
11) Medici e Oss parlano di un personale risotto all’osso, due/tre infermieri per 40 pazienti. È un problema mondiale la carenza di operatori, il personale che c’è, sta lavorando al massimo per garantire un servizio alla comunità .
12) Come si è conclusa la vicenda dei ricoveri truccati, in cui è stata coinvolta la Clinica Piacenza? (avrebbe operato interventi in regime di ricovero seppur breve, anzichè ambulatoriale, per ottenere rimborsi superiori dal servizio sanitario) C’è un procedimento in corso.
(da TPI)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
SONO SOLO “SCHERMI FILTRANTI” COME QUELLE DISTRIBUITE DA ZAIA IN VENETO
Osservate questa foto perchè in uno scatto si racchiude tutta la clamorosa generosità e vicinanza ai cittadini della giunta di Ferrara capitanata da Alan Fabbri e con punta di diamante il prestigioso Nicola Naomo Lodi.
Qui potete ammirare l’amore con cui i consiglieri e la giunta insieme al primo cittadino imbustano — parole loro — le mascherine per proteggere i cittadini durante l’emergenza Coronavirus. Non sono fantastici?
Certo, bisognerebbe anche notare alcune cose, ad essere dei pedanti. Quelle mascherine sono le stesse che ha già distribuito Luca Zaia ai veneti.
E, come sappiamo, a stampare e donare quelle mascherine era stata la ditta Grafica Veneta di Trebaseleghe (PD) di proprietà di Fabio Franceschi. Franceschi invece è noto alle cronache per essere stato socio (con il 4%) della Società Editoriale il Fatto Quotidiano, per essersi candidato alle politiche 2018 con Forza Italia (non eletto) e per una spassosa polemica circa il fatto che non riusciva a trovare operai da assumere alimentando la saga degli imprenditori che offrono lavoro ma non trovano persone disposte a fare fatica.
La cosa più importante — e quella che magari sfugge ai ferraresi — però è che quelle mascherine non sono dispositivi di protezione individuale (DPI).
Si tratta infatti di “schermi filtranti” realizzati in base all’articolo 16 comma 2 del decreto del 17 marzo che autorizza «l’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga alle vigenti norme sull’immissione in commercio».
Quelle mascherine ovviamente non servono per medici, infermieri, operatori sanitari. Non sono del tipo FFP2 o FFP3. E non sono nemmeno mascherine chirurgiche propriamente dette.
Ma questo lo ha scritto anche Fabbri. Per essere precisi lo ha scritto alla fine di un lunghissimo post in cui spiegava “la distribuzione gratuita delle 150mila mascherine” — ma chi vuoi che vada a leggere fino alla fine, e soprattutto che capisca che non si tratta di “dispositivi di protezione individuale”?
Come abbiamo scritto all’epoca del “dono” di Zaia, le innovative mascherine alla veneta sono identiche: non hanno elastici o lacci ma si attaccano alle orecchie tramite dei tagli verticali.
In questo modo però non aderiscono bene al volto e c’è sempre il rischio che si possano levare accidentalmente. Se si pensa di usarle per far visita alle persone in ospedale (non ai pazienti ricoverati per Covid-19) sono completamente inutili: immaginate che il paziente è steso a letto e voi state in piedi. Non è chiaro nemmeno che differenza ci sia tra utilizzare questo genere di mascherine e una semplice bandana o un fazzoletto di tessuto ripiegato un paio di volte.
Ma soprattutto si noti un’altra cosa. Questa è la mascherina indossata da Zaia qualche giorno fa all’epoca della presentazione delle “sue” mascherine:
Nessuno di loro sta indossando le mascherine che vogliono regalare ai ferraresi. Quelle sembrano piuttosto mascherine chirurgiche, che “sono utili perchè proteggono da schizzi e secrezioni grossolane, ma non è detto proteggano dall’aerosol infetto di una persona contagiata. Devono poi essere sostituite dopo qualche ora perchè inumidendosi diventano meno efficaci”. Insomma, è grande la confusione sotto il cielo di Ferrara.
Ma una cosa è certa: le mascherine che il Comune vuole regalare non sono quelle “giuste”. Esattamente come in Veneto.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 31st, 2020 Riccardo Fucile
PESSIMA IMMAGINE DELLE ISTITUZIONI: INUTILE FISSARE NORME SE I PRIMI A NON FARLE RISPETTARE SONO I POLITICI
A prima vista si potrebbe definire assembramento non esattamente in regola con le leggi sul distanziamento sociale, ma in effetti guardando un po’ meglio la conferenza stampa organizzata dalla Regione Lombardia per l’inaugurazione dell’ospedale alla Fiera di Milano lo è.
Attilio Fontana in diretta su Rai1 ha anche fatto un collegamento nel quale si possono ammirare le frotte di giornalisti.
E in effetti tutto ciò, a prescindere dall’esibizione di mascherine — che secondo l’OMS per strada non proteggono e dovrebbero essere riservate agli operatori sanitari — sembra proprio un assembramento pericoloso ai tempi dell’emergenza Coronavirus. Anche perchè si sussurra che alcuni giornalisti siano persino arrivati in pullman
E c’è anche chi dice che le persone erano lì per provare le terapie intensive tutti insieme (ma essendo solo 24 i posti garantiti ci permettiamo di dubitarne).
(da agenzie)
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