Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile IN POCHE ORE UN GUAZZABUGLIO DI DATI SBAGLIATI, MEGLIO STENDERE UN VELO PIETOSO
Il Veneto dichiara zero positivi e zero morti nelle ultime 24 ore, poi corretto a 3 positivi e zero vittime fino ad arrivare alla quando nel pomeriggio la Protezione civile dà i suoi di numeri: in Veneto c’è stato un solo positivo ma cinque vittime.
Il primo dato, che avrebbe rappresentato un evento in una delle regioni più colpite nella prima fase dell’emergenza considerando che si sarebbe trattato della prima volta di non crescita dei numeri. Un “giallo” insomma, E’ ‘giallo’ sui dati delle vittime e dei contagi in Veneto.
Il bollettino della Protezione Civile indica oggi nella regione amministrata da Luca Zaia, 5 morti e un nuovo caso di positività . Per la Regione invece ci sarebbero stati 3 nuovi positivi ma nessuna vittima.
Il caso inizia questa mattina. Il primo bollettino regionale segna infatti 0 casi e 0 vittime, la prima volta per il territorio che ha avuto uno dei primi e più clamorosi casi: quello del paese di Vò, chiuso come ‘zona rossa’ prima che i provvedimenti si espandessero su tutto il territorio nazionale. E che ha visto gli elogi internazionali alla Regione per come ha fronteggiato la pandemia.
Passa però qualche ora e arriva il secondo bollettino, questo relativo alle ore 17 sempre di oggi: i positivi sono 3 (due a Venezia e uno a Rovigo), i decessi restano zero. I numeri complessivi diventano quindi di 19.186 casi di contagio rispetto ai 19.183 della mattina mentre il conto dei morti resta fermo a 1.954.
Alle 18 i dati ufficiali della protezione Civile nazionale che ribaltano anche questo secondo bollettino. I deceduti in Veneto risultano sì 1.954 ma contro i 1.949 del giorno precedente. I casi positivi 19.183, uno in più del giorno prima.
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile LA RIUNIONE CON I FEDELISSIMI DOVE SPIEGA I MOTIVI
Silvio Berlusconi è convinto di avere cinque inconfutabili ragioni per non farsi “mangiare sulla
testa”, come dice lui, da Matteo Salvini.
Le ha snocciolate venerdì in collegamento Zoom dalla villa della figlia Marina che, temendo l’allegro andirivieni di Arcore, tre mesi fa se l’era portato a Chateauneuf-de-Grasse, mezz’ora da Nizza.
In esilio il Cav non se la passa male. Ha messo un po’ di distanza tra la sua persona e l’esercito dei rompiscatole. Tra l’altro con Zoom può silenziare chi vuole e, se la riunione politica lo addormenta, può perfino far cadere la linea.
L’altro giorno era collegata con lui la crème di Forza Italia: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Mariastella Gelmini, Iole Santelli, Licia Ronzulli e, taciturni ma attenti, l’Avvocato e l’Ambasciatore (rispettivamente Niccolò Ghedini e Gianni Letta). L’elencazione dei presenti è necessaria, perchè la metà di loro ha riservatamente raccontato quanto segue.
Il primo attrito con Salvini non è alto e nemmeno nobile. Si tratta di poltrone, anzi di una in particolare: quella del candidato presidente della Campania. Silvio rivendica al suo partito la guida della Regione e la vuole per Stefano Caldoro. Subdolamente Matteo non gli contesta il diritto, per carità , però boccia la scelta di Caldoro; esattamente come per la Puglia non si oppone affatto a un uomo della Meloni, ma ha dei dubbi proprio su quello indicato da Giorgia (l’ex ministro Raffaele Fitto).
Insomma, il Capitano rivendica lo “ius primae noctis” sulle candidature e i suoi vassalli lo vivono come un sopruso. Oltretutto Berlusconi si è rammentato che pure in Piemonte Salvini disdegnava Cirio, che però è stato eletto; anche in Calabria storceva il naso sulla Santelli, e lei guarda caso ha stravinto; perfino in Basilicata puntava i piedi contro Bardi, eppure contro ogni pronostico Bardi ce l’aveva fatta. “Se gli avessi dato retta, avrei perso tre volte di fila”, tira le somme l’ex premier. Su Caldoro, perciò, “Salvini si levi dalla testa che io faccia un passo indietro”.
A costo di rompere l’alleanza e di correre alle Regionali in splendida solitudine: “Io perderei, d’accordo, ma la Lega non andrebbe da nessuna parte”.
Secondo motivo di tensione: le battutacce dopo l’apertura di credito al Governo. Salvini lo paragona a Renzi, e questa Berlusconi non la manda giù. “Come osa insegnarmi la coerenza, lui che ha fatto un Governo con i 5 stelle?”. Da quale pulpito, insomma. “Ricordategli da dove viene”, è stata la disposizione del vecchio patriarca. E subito è iniziato il cannoneggiamento mediatico contro il giovanotto presuntuoso.
Terzo casus belli: l’eterno conflitto d’interessi berlusconiano che impedisce a Forza Italia di spingere a fondo l’opposizione, al fianco della Lega.
Vince sempre il timore che possa andarci di mezzo Mediaset. Era così ai tempi di Romano Prodi, figurarsi adesso con i grillini al potere. In più ci si è messo il Covid, azzerando la pubblicità . Berlusconi gradirebbe che il Governo desse una mano, penalizzando la Rai. Ecco perchè Confalonieri e Letta intonano serenate sotto Palazzo Chigi, fanno aumentare il minutaggio grillino e placcano tutti quanti, dentro il Biscione, vorrebbero trasformarlo in megafono del sovranismo leghista. Il partito-azienda è, per principio, filo-governativo.
Oltretutto (ed è il quarto motivo di tensione con Salvini) Berlusconi incarna vizi e virtù di un “cumenda” brianzolo. Ha un gusto ispirato all’Italia “perbene” degli anni Sessanta, quel senso estetico tutto impettito che al G7 di Genova gli fece vietare le mutande stese. Perfino le sue feste con le olgettine erano (per definizione) eleganti.
Figurarsi se un simile personaggio può concludere la sua carriera agli ordini di Salvini, confuso in una folla rumorosa e sguaiata di “descamisados”. A costo di scendere dal 7 per cento che gli accreditano i sondaggi, Berlusconi preferisce salire sul piedistallo dello statista, già in posa per il futuro busto al Pincio.
Infine, quinto punto, la legge elettorale: dal Pd hanno avvertito di tenersi pronti, che stavolta si fa sul serio. Torneremo al proporzionale e, a quel punto, fine delle attuali alleanze, liberi tutti. Gli estremisti finiranno in castigo dietro la lavagna e i partiti moderati saranno il perno delle maggioranze future. Il Cav è lusingato dalle attenzioni del Pd, invita i suoi a coltivare rapporti con i dem e continuamente si informa su cosa dicono di lui Zingaretti, Orlando, Franceschini. Anche Berlusconi, come diceva Totò, si butterà a sinistra?
Lui alza le spalle e assicura: “In fondo di sinistra io sono sempre stato”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile 40 GIORNI DI RITARDO DALLA FATTURA DI OLTRE 500.000 EURO ALLO STORNO, L’INCHIESTA DI REPORT MOSTRA I DOCUMENTI EMESSI
“Ho dato mandato ai miei legali di querelare ‘Il Fatto Quotidiano’ per l’articolo di oggi che anticipa i contenuti della prossima puntata della trasmissione televisiva della Rai ‘Report’ in cui si racconta di una donazione di camici per protezione individuale forniti alla Regione Lombardia. Si tratta dell’ennesimo attacco politico vergognoso, basato su fatti volutamente artefatti e scientemente omissivi per raccontare una realtà che semplicemente non esiste”.
Lo comunica, in una nota, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, in merito a quanto pubblicato oggi da ‘Il Fatto Quotidiano’ in relazione a un articolo circa la fornitura di camici durante l’emergenza Covid-19, che anticipa il contenuto di una inchiesta di Report.
La trasmissione di Rai Tre, in onda lunedì sera, avrebbe scoperto un contratto di fornitura di camici ad ARIA Spa, la centrale acquisti della Regione Lombardia, da parte di un’azienda di proprietà del cognato e della moglie del presidente Attilio Fontana.
“Agli inviati della trasmissione televisiva ‘Report’ – prosegue Fontana – avevo già spiegato per iscritto che non sapevo nulla della procedura attivata da ARIA SpA e che non sono mai intervenuto in alcun modo. Oggi il titolo di prima pagina del ‘Fatto’ e il testo mettono in connessione la ditta fornitrice con la mia persona attraverso la partecipazione azionaria (10%) di mia moglie e invocano un conflitto di interesse peraltro totalmente inesistente, proprio perchè non vi è stato da parte mia alcun intervento”.
“Il testo del ‘Fatto ‘- conclude il governatore – infatti, in maniera consapevole e capziosa omette di dire chiaramente che la Regione Lombardia attraverso la stazione appaltante ARIA SpA non ha eseguito nessun pagamento per quei camici e l’intera fornitura è stata erogata dall’azienda a titolo gratuito. Ho anche dato mandato a miei legali di diffidare immediatamente la trasmissione ‘Report’ dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti e la mia totale estraneità alla vicenda”.
Pd: “Fare chiarezza”.
“Nei prossimi giorni capiremo i risvolti relativi all’affidamento, senza gara pubblica, di una fornitura di camici da parte della Regione Lombardia a una società di cui risultano soci la moglie e il cognato del Presidente Fontana. Io continuo ad essere preoccupata per lo stato di salute dei lombardi perchè sono convinta che la gestione, anche di questa fase, da parte di Regione Lombardia, non sia minimamente adeguata. Tuttavia, è chiaro che il presidente Fontana dovrà dire qualcosa su quanto accaduto. Si tratta di una vicenda imbarazzante e inopportuna. Sarà stato un malinteso, sarà che poi il mezzo milione ( non miliardo ) è stato stornato”. Lo afferma Simona Malpezzi, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. “Ma questa vicenda aggiunge note di opacità e malessere a quanto già accaduto. Sono dei pasticcioni. La Lombardia merita di più”, conclude.
Dini a Report: “Corretto appena saputo”.
“Effettivamente, i miei quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se n’è occupato ha male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto perchè avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”. E’ un passaggio della conversazione tra il giornalista di Report e l’amministratore legato di Paul&Shark, Andrea Dini, cognato del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, contenuta nel servizio ‘a loro insaputa’, che andrà in onda domani lunedì 8 giugno su Rai3, su una fornitura di camici e altri Dpi.
Report, che ha anticipato lo sbobinato delle conversazioni, dice ad Andrea Dini, eredi di una famiglia di imprenditori storici di Varese che producono da decenni il noto marchio Paul and Shark, di essere in possesso della lettera di acquisto di Aria, inviata alla Dama S.p.A., che detiene il marchio “senza gara di appalto”, di “75 mila camici e 7000 tra cappellini e calzari. Il tutto per un valore di 513 mila euro.
E che non si tratti di una donazione sembra molto chiaro – dice Report -. La società pubblica della Regione Lombardia specifica infatti che il pagamento avverrà tramite bonifico entro 60 giorni dalla data di fatturazione”.
Alla richiesta di informazioni sull’appalto per i camici, all’inizio del servizio, Dini risponde “non è un appalto. È una donazione”.
“In realtà all’Aria – replica il giornalista Giorgio Mottola – non risulta, sembra invece un’aggiudicazione, mi pare, di una procedura negoziata, tra l’altro”.
“No, guardi, no no è una donazione. Chieda pure ad Aria, ci sono tutti i documenti – risponde Dini -. Noi li abbiamo donati anche ad altre persone, abbiamo donato mascherine. Sono un’azienda lombarda, devo fare il mio dovere”.
“Io non ero in azienda – dice ancora Dini quando gli viene chiesto se ha partecipato alla gara ‘per sbaglio’ – e… appena l’ho saputo ho detto no, no, in Lombardia assolutamente no”, Perchè lei è il cognato del presidente?, gli viene chiesto da Report: “Assolutamente” risponde. “Le carte ad Aria ci sono tutte. Abbiamo fatto note di credito, abbiamo fatto tutto…. -aggiunge – è tutto una donazione; non avremo mai un euro da Aria. Mai preso un euro, e non avremo mai neanche uno”.
Un affidamento, sottolinea Report, avvenuto all’insaputa sia dell’ad Dini sia del governatore Fontana. “Alla fine, il dottor Dini – dice nel chiudere il servizio Sigfrido Ranucci – ci ha inviato le note di credito. Dimostrano che ha restituito i soldi pagati dalla Regione. Ma a maggio, 40 giorni dopo e se fossimo maliziosi, ma non lo siamo, la restituzione coincide con il periodo in cui Report ha cominciato la sua inchiesta”.
(da “Il Fatto Quoridiano”)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile IL COMITATO “NOI DENUNCEREMO”: MERCOLEDI’ 10 SARA’ PRESENTATO L’ESPOSTO
L’ultima volta che Claudio Longhini è uscito di casa sulle sue gambe era il 2 marzo. “Pochi
giorni fa ho trovato il coraggio di scendere nel box dove aveva l’auto. C’era l’ultima Gazzetta dello Sport che ha comprato. Segnava quella data”, racconta ad HuffPost Cristina, sua figlia. Quello che succede nelle due settimane dopo è un mix di dolore, rabbia, mancanza di assistenza. Disperazione dei familiari. E della sensazione, maturata mettendo in fila i fatti, che Claudio – bergamasco morto per Covid il 19 marzo, a 65 anni – nei giorni che avrebbero potuto essere cruciali per la diagnosi e la cura sia stato abbandonato. E con lui la sua famiglia.
Per questo motivo, mercoledì 10 giugno Cristina sarà davanti alla procura di Bergamo. In mano avrà l’esposto contro ignoti da consegnare ai magistrati.
Con lei ci sarà Diego Federici, che ha perso in pochi giorni entrambi i genitori per il coronavirus, Monica Plazzoli, moglie di Armando Invernizzi, morto per Covid nel giorno in cui i decessi in Italia erano quasi mille. E tanti altri familiari di vittime dell’epidemia.
Sarà un giorno simbolico, sarà il Denuncia day. “Non abbiamo il dito puntato contro i medici che erano in prima linea, anche loro sono vittime. Chiediamo, però, che si accerti la responsabilità di chi ha sbagliato nella gestione dell’emergenza”, spiega ad HuffPost Luca Fusco, fondatore del Comitato Noi denunceremo.
Insieme a suo figlio, Stefano, ha creato un gruppo Facebook all’indomani della morte per Covid di suo padre. “Abbiamo invitato le persone a raccontare la storia dei loro cari. Morti a Bergamo, ma non solo. Non ci aspettavamo tutte queste adesioni”. Il gruppo oggi conta 55mila iscritti, di tutta Italia. Dopo aver condiviso il loro dramma, hanno deciso di trasformare in esposti contro ignoti alcune storie. Quelle in cui sembra esserci qualcosa che non ha funzionato.
“Il nostro obiettivo è capire chi ha fatto errori. Non ci interessa il risarcimento, non sono i soldi il nostro obiettivo. Ci interessa la giustizia”, continua.
Accertare in giudizio eventuali responsabilità non sarà facile. Dal comitato lo sanno, ma non è questo a scoraggiarli.
E il loro sguardo è rivolto soprattutto verso la Regione e le Agenzia di Tutela della Salute (Ats): “Ci limitiamo a raccontare ai magistrati quello che è successo. Fontana è convinto di non aver sbagliato? Se ci sarà un processo, lo dirà in quella sede”, chiosa Fusco.
Con gli esposti si partirà da Bergamo, ma altre persone sono pronte a fare la stessa cosa in tutta Italia: “Mercoledì presenteremo i primi 50 atti. Poi ci saranno gli altri”, racconta ad HuffPost Consuelo Locati, avvocato del comitato. “Ci sono migliaia di parenti che vogliono spiegazioni. Qualcosa non ha funzionato nell’emergenza. Penso alle tante persone morte in casa, agli ospedali al collasso, al piano pandemico inesistente, ai medici di base che non facevano le visite. E allo stato di abbandono sono state lasciate le persone”. Il termine abbandono ricorre spesso quando si parla con i familiari delle vittime di Covid. E anche l’avvocato Locati è tra loro: suo padre è stato ucciso dal virus.
“Oltre alle falle nella gestione, in Lombardia è mancato quel senso di protezione, di accudimento, da parte delle istituzioni. Da quello che mi raccontano i miei amici che vivono lì, in Veneto questo non è successo”.
Passato lo tsunami, i familiari chiedono la verità : “Per ora agiamo in sede penale, anche se sappiamo che potrebbe essere complicato, in alcuni casi, accertare le responsabilità , perchè c’è un groviglio di atti e delibere regionali che si sovrappongono. Stiamo, però, valutando anche di agire in sede civile. Lo faremo probabilmente a settembre”.
Anche Locati tiene a precisare che l’obiettivo del comitato è appurare le responsabilità istituzionali. “Nessuno crede che i colpevoli dei malfunzionamenti siano i medici che sono stati buttati in trincea. Ma, a livello più alto, c’è stato un momento in cui l’interesse economico è stato ritenuto prevalente rispetto alla salute”.
Cristina ricorda tutto degli ultimi giorni di vita suo padre Claudio. Non era lì, accanto a lui. Non poteva esserci, ma ricorda l’angoscia, il senso di impotenza, il tentativo di fare qualcosa per salvarlo. “Papà era andato in pensione a dicembre. Stava bene, aveva il diabete ma lo teneva sotto controllo. Se quel 2 marzo gli avessero detto che da lì a due settimane se ne sarebbe andato, non ci avrebbe creduto”. Claudio inizia ad avere la febbre, poi i problemi intestinali, la debolezza, la perdita dei sensi. Da parte dei familiari, l’ansia crescente, la difficoltà nel trovare un dottore che lo visitasse – “ne abbiamo trovato uno dopo un lungo giro di telefonate. Il medico di base si rifiutava di venire”, racconta ancora Cristina, che pur vivendo a Milano in quei giorni cerca di fare il possibile per il padre che sta a Bergamo. La famiglia si rivolge al numero per l’emergenza. Risposta: “Fino a quando non ha una crisi respiratoria, non veniamo”. La moglie di Claudio riesce finalmente a trovare un medico disposto a visitarlo. La saturazione è bassa, parte la corsa in ospedale. Poi la diagnosi: Covid-19.
“Dalla struttura di Bergamo ci chiedono di collaborare per trovare un posto in terapia intensiva, ci dicono che altrimenti papà non si salverà . Proviamo a cercarlo, sentendoci addosso anche questo peso. Iniziamo a telefonare a tutti quelli che conosciamo”. In terapia intensiva Claudio non arriverà mai. Morirà il 19 marzo, dopo essere stato intubato. Cristina a quel punto deve andare in ospedale: sarà costretta a fare un riconoscimento in fretta e furia. Necessario perchè il padre non aveva i documenti. Può farlo solo lei, perchè la mamma ha i sintomi del Covid, anche se nessuno le farà mai un tampone, e sorella in quei giorni non sta bene. Poi il calvario per scoprire dove era stata portata la salma: “Abbiamo scoperto che era stata cremata a Ferrara, portata lì dall’esercito, solo quando è arrivata la fattura”. La famiglia è riuscita a salutare Claudio un mese dopo la sua morte. Quindici minuti nel cimitero di Bergamo. Il tempo è passato, il dolore resta lì: “Sono farmacista e a Milano vedo la gente che fa scorta di farmaci per partire, in vista dell’estate. Ecco, a noi resta un lungo inverno. La cattiva stagione per noi non è mai finita”.
Per Diego Federici inizia tutto il 18 marzo: “Vado a casa dei miei genitori e trovo mamma a terra con una crisi respiratoria e la febbre alta e papà in stato confusionale. Il 118, vista la gravità della situazione, porta via prima mamma, all’ospedale di Treviglio. Poi viene a prendere papà , ma lo portano in un’altra struttura”. Sarà l’ultima volta che Diego vede i suoi genitori, Renato, 72 anni, e Ida, 73. Per entrambi stessa diagnosi: Covid.
“Mamma stava male – continua Diego parlando ad HuffPost – ci dicono che sta per morire ma che non ce la possono far vedere. Poi le sue condizioni migliorano. Resta in reparto, è stabile. Papà sembra stare meglio. È su un lettino del pronto soccorso, perchè non c’è spazio”. La situazione, però, precipita anche per Renato: si aggrava in poche ore, e se ne va il 21 marzo. Ida vive ancora qualche altro giorno. Poi, un’altra telefonata sconvolge Diego: “Ci hanno detto che le stavano dando la morfina perchè era peggiorata. A quel punto ho domandato perchè non provassero a metterle il casco o a intubarla. Mi hanno risposto che stavano facendo in modo che andasse via senza soffrire”. Ida muore il 25 marzo. Intanto, ai due figli nessuno fa un tampone: “L’Ats ci considera una volta sola. Quando ci dice di restare in quarantena fino al 1 aprile”.
Poi il vuoto e la solitudine. Oltre al dolore della doppia perdita, la consapevolezza di aver potuto contrarre il Covid e di non avere modo per scoprirlo. Se si chiede a Diego cosa non abbia funzionato, risponde: “Niente. Siamo stati trattati come numeri. Oltre alla carenza di umanità , siamo stati ignorati dalle istituzioni che avrebbero dovuto aiutarci. A ciò aggiungo che non ho ancora ricevuto la cartella clinica di mamma. Perchè?”. È solo una delle domande che Diego si pone. Ha 35 anni e tanta rabbia. Quella di chi in un attimo ha visto una malattia sconosciuta portarsi via mamma e papà . E si è trovato solo, senza il sostegno delle autorità sanitarie, ad affrontare il baratro.
Tira un sospiro profondo Monica Plazzoli prima di iniziare a parlare del suo Armando. I giorni prima della morte sono un ricordo confuso: “Non so come abbia fatto a tirare avanti”, racconta ad HuffPost. Suo marito aveva 66 anni, stava bene, faceva l’elettricista e “con tre figli in casa, non ci pensava proprio ad andare in pensione”. Armando si ammala presto, i primi sintomi il 23 febbraio. Solo due giorni prima, da Codogno, era arrivata la notizia del paziente
“Era una febbre strana – racconta Monica – andava e veniva. Non scendeva con la Tachipirina”. Passa il tempo e Armando peggiora. Anche Monica si ammala per qualche giorno. La figlia telefona al numero per le emergenze, ma le rispondono di non temere. Non sembrano casi di Covid. Siamo nel momento in cui ancora non è chiara l’entità del contagio, in cui gli operatori fanno la domanda: “È stato a contatto con qualcuno tornato dalla Cina?”. Mentre Monica sta meglio, Armando non dà segno di guarigione. Lei decide di portarlo in ospedale. “Ci entra con le sue gambe. Era forte, nonostante la febbre”.
Da lì iniziano lunghe giornate di attesa: “Lavoro in una Rsa. Dopo aver fatto la quarantena, ho chiesto i turni di notte, per essere a casa di giorno. E aspettare la telefonata dell’ospedale. Mi dicevano che non aveva altri problemi, ce l’avrebbe fatta”. A volte è Armando a chiamare. Monica percepisce tutta la sua sofferenza: “Mi diceva di portarlo via, che faticava a respirare ma ogni tanto gli toglievano il caso per darlo ad altri. Che a volte non gli portavano da mangiare”.
Passa ancora del tempo e Armando viene intubato. Morirà il 27 marzo, il giorno in cui il bollettino della Protezione civile diffonderà una cifra terribile: 969 decessi. A Monica oggi restano la rabbia, il ricordo della solitudine di quei giorni e un dubbio: “Se non ci fosse stata tutta questa disorganizzazione, se avessero fatto Bergamo zona rossa prima, magari gli ospedali non sarebbero arrivati al collasso. Forse Armando avrebbe potuto essere curato diversamente”.
Passata l’emergenza, sta arrivando il tempo dell’accertamento della responsabilità . “Bisogna distinguere, in relazione alla responsabilità civile, la posizione degli operatori da quella delle strutture. I primi rispondono per colpa, come afferma l’art. 7 della Gelli Bianco che richiama l’art. 2043 cc per chi opera all’interno di una struttura. È evidente che, nella valutazione delle condotte, dovrà tenersi conto dell’eccezionalità dell’epidemia e dell’assenza di risorse disponibili. Elementi che potranno essere invocate per escludere la colpa e quindi la responsabilità ”, spiega ad HuffPost Domenico Pittella, avvocato e docente esperto di responsabilità sanitaria.
“In relazione alle strutture – continua – la responsabilità è modellata sull’adeguatezza organizzativa della struttura, pubblica o privata. La giurisprudenza è rigorosa, ad esempio in materia di responsabilità per danno da infezioni nosocomiali”.
Per quanto riguarda l’epidemia Covid, quindi, “occorrerà verificare se le strutture avrebbero potuto adottare misure volte ad evitare la diffusione del virus e i contagi. Da questo punto di vista, non ritengo che la configurazione della responsabilità della struttura secondo il modello del rischio di impresa o della colpa presunta porti a conclusioni molto differenti: l’epidemia potrebbe integrare o meno, a seconda delle valutazioni che dovranno essere effettuate tenendo in considerazione il caso concreto, il caso fortuito o l’assenza di colpa, che escludono la responsabilità rispettivamente per la prima o la seconda teoria”. Certamente ogni storia sarà un caso a sè: “Non potranno essere adottate soluzioni unitarie, ma occorrerà distinguere le singole situazioni. Alcuni problemi riguardano l’assenza di posti in terapia intensiva altri, invece, la carenza (anche dopo le prime settimane) di dispositivi di protezione”
Per l’avvocato Pittella, in vista dei possibili procedimenti giudiziari, sarebbe stato necessario un intervento a tutela dei medici: “Ritengo che – continua – anche se la normativa attuale, e in particolare l’art. 1218 cc, è in grado di tenere in considerazione dell’eccezionalità della situazione, bene avrebbe fatto il legislatore a prevedere espressamente una attenuazione della responsabilità degli operatori sanitari che sono stati dei veri e propri eroi in questa situazione”. La giurisprudenza “potrà certamente tenerne conto escludendo addebiti di responsabilità ” ma, chiosa l’avvocato, un intervento legislativo sarebbe stato molto utile a sciogliere ogni dubbio e “assicurare uniformità interpretativa”.
C’è poi la questione della responsabilità penale. Prima dell’approvazione del Cura Italia, si era pensato a uno scudo per medici e infermieri. La discussione si è arenata quando è stato proposto di estendere la misura anche alle strutture. Ma, come spiega anche il professore Cristiano Cupelli in un’intervista sul sito Giustizia Insieme, restano molti nodi da sciogliere.
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile NEI PRIMI GIORNI PRESENTATE 9.500 DOMANDE
È iniziato dal primo giugno il processo di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, la norma per cui la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova si è battuta al punto da ipotizzare le dimissioni nel caso in cui non fosse stata inclusa nel decreto Rilancio. ù
E sono trapelati i primi dati relativi al provvedimento per l’emersione dei rapporti di lavoro: nei primi quattro giorni, sono state ricevute circa 9.500 domande.
La data ultima per presentarsi, in questura o in prefettura, è il 15 luglio e il provvedimento coinvolge i settori agricoltura, zootecnia, assistenza alla persona e lavoro domestico.
Quando Bellanova l’ha annunciato, centrodestra e Lega hanno scatenato non poche polemiche, apostrofando la norma come una maxisanatoria per gli immigrati.
Ad ogni modo, i primi dati relativi alla sua applicazione rivelano un esordio in sordina, almeno dal punto di vista quantitativo.
Se si proseguirà a questo ritmo, la platea di lavoratori supererà di poco la quota di 100 mila: in media sono arrivate 2.375 domande al giorno.
Moltiplicando la media giornaliera per i 45 giorni della finestra temporale, la misura di Bellanova rischierebbe, dunque, di fermarsi a un quinto della portata prevista.
La ministra, tuttavia, invita alla cautela: «Per una valutazione più approfondita e di merito ritengo opportuno attendere i due step sulla diffusione dei dati indicati dal ministero dell’Interno, stabiliti per il 15 giugno e il primo luglio. Una lettura più approfondita ha bisogno, come è evidente, di avere a disposizione una massa di numeri più eloquente».
Ministra, nel caso in cui la norma non raggiungesse la platea stimata, si tratterebbe di una sconfitta?
«Parto da una premessa indispensabile: per me ogni lavoratrice e lavoratore regolarizzato e sottratto alle mani dei caporali varrà il grande impegno che l’approvazione della norma ha richiesto. Chi nelle scorse settimane mi ha messo alla gogna dei social parlando di invasione e ora critica i primi dati dovrebbe scegliere da che parte stare. Per me è sempre stato chiaro: mai con la mafia dei caporali».
C’è un problema di comunicazione con quei lavoratori che non hanno facile accesso all’informazione?
«È evidente che quella norma tanto più centrerà il suo obiettivo quanto più i lavoratori irregolari che vivono nel nostro Paese e soprattutto negli insediamenti informali saranno correttamente informati di questa opportunità e avranno a disposizione la piattaforma pubblica su cui incrociare domanda e offerta di lavoro. Quella piattaforma che io continuo a ritenere urgente e necessaria, e che dall’Anpal, l’agenzia governativa che si occupa di politiche del lavoro, non è mai stata realizzata come ci ha candidamente detto il suo Presidente — Domenico Parisi — nei giorni scorsi dalle pagine dei giornali. È necessario che i lavoratori stranieri irregolari siano raggiunti da una informazione quanto più corretta e capillare possibile su questa opportunità e chi di dovere, lungo l’intera filiera istituzionale come tra tutti i soggetti interessati a sconfiggere lavoro irregolare e caporalato, agisca di conseguenza».
Quindi, per lei, resta una norma necessaria a prescindere dai numeri degli interessati.
«Le circa 9.500 domande già inviate o in corso di presentazione e le oltre 60 mila visualizzazioni del sito del ministero dell’Interno sono già di per sè eloquenti. Indicano con molta chiarezza la necessità e l’opportunità di questa norma per consentire il controllo dell’emergenza sanitaria anche tra i lavoratori irregolari stranieri presenti nel nostro territorio mettendo al riparo la salute loro e di tutti; per avviare percorsi di emersione e regolarizzazione del lavoro italiano e straniero; per fronteggiare il bisogno di lavoro stagionale in agricoltura; per sconfiggere l’intermediazione illegale e criminale del lavoro e la concorrenza sleale tra imprese».
Pensa che la media giornaliera di domande per permesso di soggiorno e assunzioni aumenteranno?
«Voglio essere chiara: più lavoro irregolare, italiano e straniero, emergerà , più lavoratrici e lavoratori cosiddetti invisibili saranno nella condizione di sottrarsi a questa invisibilità e allo sfruttamento spesso osceno che ne consegue, conquistando identità e dignità . Dobbiamo levare più acqua possibile ai caporali e alla concorrenza sleale tra imprese che nell’agricoltura, ma non solo, avvelena le filiere, indebolendo proprio migliaia di imprese sane e la loro reputazione, in Italia e nel mondo».
(da Open)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile AVEVA ACCOMPAGNATO UN SUO CONNAZIONALE A DENUNCIARE UN MANCATO PAGAMENTO E DA ALLORA AVEVA RICEVUTO MINACCE
Adnan Siddique era arrivato in Italia dal Pakistan 5 anni fa con la speranza di costruirsi un
futuro migliore.
A Lahore, metropoli pakistana di 11 milioni di abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative.
A Caltanissetta, dove si era stabilito, lavorava come muratore. Aveva 32 anni. Aveva, perchè Siddique è stato ucciso tre notti fa, il 3 giugno, a coltellate.
La sua colpa era stata quella di aver preso le difese di un gruppo di braccianti connazionali vittime del caporalato. Qualche mese fa aveva accompagnato un bracciante a sporgere denuncia per non essere stato pagato e da allora aveva continuato a ricevere minacce, tutte denunciate. Finchè non è stato ucciso.
Ieri è stata eseguita dal medico legale Cataldo Raffino l’autopsia sul cadavere. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale.
Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri. Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio
Sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione, per procacciare manodopera nel settore agricolo, tra datori di lavoro e connazionali.
A parlare di Adnan sono sono i proprietari del Bar Lumiere, che erano diventati suoi amici: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Lo avevano invitato a pranzo tante volte e Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano.
“Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno – lo avevano picchiato”. Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, conferma. “Era bravissimo, gentile – afferma – quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria”.
Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.
(da Globalist)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile ATTENDIAMO CHE ANCHE SALVINI E MELONI CHIEDANO CHE VENGA ANNULLATA LA MULTA: COSI’ SI DIMOSTRA DI NON AVERE PREGIUDIZI
La presidente dell’Anpi di Cosenza non ci sta e fa ricorso contro la multa per aver portato i fiori a un luogo simbolo della Resistenza lo scorso 25 aprile.
Quanto avvenuto durante il lockdown alla rappresentante dell’Associazione nazionale partigiani torna alla ribalta oggi, il giorno dopo le evidenti violazioni delle norme per il contenimento del coronavirus viste sabato a Roma nelle manifestazioni dei neofascisti.
Lo scorso 25 aprile Maria Pina Iannuzzi, presidente dell’Anpi provinciale di Cosenza “Paolo Cappello” era stata multata per aver violato le prescrizioni atte al contenimento del rischio epidemiologico Covid-19.
Iannuzzi si è adesso rivolta al prefetto Cinzia Guercio perchè possa cancellare la multa.
L’Anpi provinciale precisa che nel giorno della festa della Liberazione, in pieno lockdown, erano state prese “le giuste precauzioni (mascherine, guanti, distanziamento)” per “portare dei fiori in un luogo fortemente simbolico: il Largo dei Partigiani, nella città vecchia, proprio di fronte a quel carcere giudiziario luogo di prigionia e dunque sofferenza per tanti antifascisti cosentini, a cominciare da Paolo Cappello, il muratore socialista che fu ucciso nel 1924”.
L’Anpi sottolinea inoltre che le associazioni partigiane e combattentistiche erano autorizzate a partecipare alle celebrazioni per il 75 º anniversario della Liberazione.
Dalla foto si capisce chiaramente che i 13 partecipanti erano tutti a distanza di sicurezza e con adeguate protezioni, quindi appare evidente che la multa andrebbe revocata.
Per noi tutte le manifestazioni vanno misurate con lo stesso metro, senza distinzioni.
Attendiamo che anche Salvini e Meloni si uniscano alla richiesta.
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile ALTRI 400.000 SONO FERMI PERCHE’ NON HANNO INDICATO LE COORDINATE BANCARIE PER IL PAGAMENTO
La Cassa Integrazione Guadagni è ancora un miraggio solo per 830mila persone. Spiega oggi
Repubblica che lo dicono i numeri Inps aggiornati al 4 giugno, frutto della differenza tra 7,6 milioni di lavoratori pagati su 8,4 milioni beneficiari potenziali.
La stessa Inps parla però di “soli” 420 mila lavoratori in attesa — la metà circa: gli unici di cui conosce le coordinate bancarie.
Per gli altri — si giustifica — citofonare alle imprese che non hanno inviato l’ormai mitico SR41: il documento con l’Iban dei lavoratori.
Le domande annullate sono circa 110.000
«Attenzione però, perchè dentro questa cifra ci sono molti doppioni», avverte Marialuisa Gnecchi, vicepresidente dell’Inps. «Ogni azienda può avere inviato anche più di un SR41. Ad esempio, la regione Piemonte per la cassa in deroga ha obbligato le imprese a fare due domande per gli stessi lavoratori: una per le prime 5 settimane e una per le altre 4».
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2020 Riccardo Fucile “SUL MES ODIO POSIZIONI PREGIUDIZIALI”
Roberta Lombardi dice no al bis di Virginia Raggi a Roma e chiede al MoVimento 5 Stelle di pensare al MES come possibile soluzione di finanziamento per il rilancio del paese.
In un’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera la deputata regionale dice la sua sul nuovo M5S che si aspetta:
Si sfideranno Di Maio e Di Battista? È auspicabile un accordo?
«Perchè no? Finchè siamo stati collegiali siamo stati dirompenti. Anche Di Maio e Di Battista sono sicuramente necessari per il Movimento».
Conte ha fatto bene?
«È stato responsabile. Mi piacerebbe che andasse avanti. Anche se ho paura che il ritorno alla normalità per alcuni sia il solito canto del gallo per attirare consensi».
Parla di Renzi? Anche Conte cerca visibilità ? Il Pd è nervoso.
«Ai cittadini le lotte di posizionamento non interessano. Chiunque le faccia».
Si vuole abolire il tetto del doppio mandato, anche per ricandidare Virginia Raggi
«Sono contraria. La politica è un servizio civile a tempo determinato. Crediamo così poco nel nostro progetto da sostenere che il singolo sia più importante dell’idea?»
Un giudizio sul mandato?
«Molto lavoro, ma non tutti i risultati sono visibili»
Direte sempre di no al Mes, anche se cambiasse?
«Odio le posizioni pregiudiziali. A oggi, la fine delle condizionalità è scritta sulla sabbia. Ma se alla fine dell’iter fosse ratificato il cambiamento, si può pensare di esaminarlo in tutte le sue possibili implicazioni».
Corrao è stato punito per aver votato no al Mes. Per la Lezzi si è trattato di un segnale contro Di Battista.
«Mi pare che qualche collega si faccia prendere da dietrologia o avantologia pro domo sua. Abbiamo accettato uno statuto, si rispetti».
Di Battista mette a rischio il governo?
«Con Alessandro abbiamo fatto 5 anni di opposizione feroce, capisco che cambiare ruolo sia difficile. Finchè questo governo fa cose giuste, è giusto criticarlo ma offrendo anche idee costruttive».
(da “NextQuotidiano“)
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