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SONDAGGIO IXE’, LA DISTANZA TRA LEGA E PD E’ MINIMA: DALLE EUROPEE SI E’ RIDOTTO DAL 12% AL 2%

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

LEGA 23,9%, PD 22%, M5S 15,4%, FDI 13,8%, FORZA ITALIA 7,2%, ITALIA VIVA 2,6%… SALGONO LA SINISTRA 3%, + EUROPA 3,1% E VERDI 1,9%

Il sondaggio Lega-Pd, completato come ogni settimana dall’Istituto Ixè, rileva come la distanza tra i due partiti sia ai minimi termini dopo le elezioni europee del 2019, quando tra Lega e Partito Democratico c’era un vero e proprio abisso (il Carroccio aveva fatto registrare il 34,3% dei voti, mentre il Pd si era attestato come secondo partito con il 22,7%).
L’Istituto Ixè ha evidenziato come tra Pd e Lega, ormai, la distanza sia di soli due punti.
In modo particolare, ha evidenziato un arretramento evidente della Lega, attestata al 23,9% delle preferenze, mentre il Partito Democratico è segnalato al 22%, sempre al di sotto del risultato delle europee 2019, ma con una distanza molto più sottile rispetto alla Lega.
Nelle ultime settimane, la strategia della Lega è tornata nuovamente a battere sul tema dei migranti. Inoltre, Matteo Salvini ha ripreso i suoi comizi in giro per l’Italia in vista delle elezioni regionali di settembre 2020, non facendosi mancare anche momenti di scontro molto elevato nei singoli territori, come nel caso di Mondragone.
La strategia del Partito Democratico, attendista, si sta rivelando alla lunga un vero e proprio logoramento nei confronti della Lega: quest’ultima perde consensi, mentre il Pd resta stabile. Di conseguenza la distanza decresce più per demeriti altrui che per meriti propri.
Cosa succede, invece, negli altri campi?
Il Movimento 5 Stelle è dato al 15,4%, ancora in leggera flessione (secondo Ixè avrebbe perso 2 punti nel giro di un mese).
Stabili Fratelli d’Italia (13,8%) e Forza Italia (7,2%), mentre crescono i partiti di sinistra. Italia Viva, invece, si attesta al 2,6%, in flessione rispetto al 3% della scorsa settimana.
La Sinistra è data al 3%, + Europa al 3,1%, Verdi 1.9%, Azione 1,2%

(da agenzie)

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BUONO VACANZE BOICOTTATO DI FATTO DA CHI L’HA VOLUTO: MOLTI ALBERGATORI LO RIFIUTANO

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

TIPICO ESEMPIO DI ERRORE NEL DARE SOLDI A CHI SA SOLO LAMENTARSI ED EVIDENTEMENTE NON NE HA NECESSITA’

Alle famiglie numerose viene richiesto in alcuni casi di spendere almeno mille euro per incassare il bonus, il doppio dell’ammontare del voucher. È successo per esempio a un nucleo residente a Roma che stava effettuando una prenotazione in un campeggio vicino a Ostia e che dopo il ricatto ha segnalato l’accaduto all’Unione nazionale consumatori, che adesso ha in rampa di lancio un esposto all’Antitrust per pratiche commerciali scorrette
Nel suo primo giorno di vita il bonus vacanze ha portato a casa quasi 150 mila richieste, per un valore economico complessivo pari a circa 70 milioni di euro.
Dopo tre giorni la crescita ha cominciato a spegnersi, tanto che ammontavano a 225mila le famiglie che avevano fatto domanda per un controvalore di 100 milioni di euro, mentre in 1500 lo avevano anche già  speso.
Poi il numero delle domande, nel frattempo arrivato a quota 350mila ha cominciato ad aumentare a ritmi più blandi, ovvero del 10%.
Il Messaggero calcola che nella prima settimana di vita dell’incentivo è stato erogato solo un dieci per cento scarso delle risorse stanziate dal governo per finanziare la misura. Di questi 380 mila sconti autorizzati ne sono stati spesi appena il 3 per cento, ovvero 11 mila.
Perchè? Uno dei motivi è che un albergatore su due tende a rifiutarlo:
Un albergatore su due dice no al bonus vacanze, ma tra quelli che hanno aderito all’iniziativa c’è anche chi adotta strategie più o meno “garbate” per disincentivare chi ha ottenuto l’incentivo tramite l’app “Io a prenotare”.
Qualche esempio? Alle famiglie numerose, con uno sconto da 500 euro in valigia, viene richiesto in alcuni casi di spendere almeno mille euro per incassare il bonus, il doppio dunque dell’ammontare del voucher in loro possesso. È successo per esempio a un nucleo residente a Roma che stava effettuando una prenotazione in un campeggio vicino a Ostia e che dopo il ricatto ha segnalato l’accaduto all’Unione nazionale consumatori, che adesso ha in rampa di lancio un esposto all’Antitrust per pratiche commerciali scorrett
Per questo, segnala il quotidiano, da una ricognizione è emerso anche che ci sono strutture ricettive che praticano tariffe differenziate nei confronti degli ospiti in possesso del voucher o che applicano termini di cancellazione della prenotazione più stringenti e con penali più elevate se a prenotare è un avente diritto allo sconto.
Altre negano la possibilità  di usufruire delle offerte promozionali se si ha il voucher in tasca.
Sui furbetti del bonus vacanze ha acceso un faro pure il ministero del Turismo di Dario Franceschini che ora sta monitorando la situazione e raccogliendo le proteste degli aspiranti vacanzieri sui social. Infine sono numerosi gli hotel disposti a ospitare solo in determinati periodi i nuclei con un Isee entro i 40 mila euro che hanno avuto accesso alla misura.
Il fornitore, che per verificare la validità  del bonus deve inserire i dati del cliente e l’importo del corrispettivo dovuto in una procedura web dedicata disponibile nell’area riservata del sito internet dell’Agenzia delle Entrate, recupera lo sconto fatto sotto forma di credito d’imposta, utilizzandolo in compensazione nel modello F24 senza limiti di importo, oppure lo può cedere a terzi, banche comprese.

(da agenzie)

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LA RASSEGNAZIONE DI ZINGARETTI

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

DISTACCO DAL PALAZZO: “LO AVEVO DETTO CHE ANDAVANO SCIOLTI I NODI, SEMBRA CHE TUTTI ASPETTINO IL SEMESTRE BIANCO, VEDO PIU’ TRAME CHE GOVERNO”

A un certo punto, Nicola Zingaretti è diventato pressochè irreperibile: “Sono a Oriolo, del resto lo avevo detto…”. Il segretario del Pd non è una Cassandra. ma effettivamente alla direzione di un mese fa aveva chiesto, anche con una certa solennità , di sciogliere i nodi, elencandoli, prima del valzer degli Stati generali: Autostrade, Ilva, Semplificazioni, Alitalia.
A Oriolo, piccolo paese in provincia di Cosenza, il segretario del Pd ha incontrato Sergio Flamigni, ex parlamentare del Pci, intellettuale, oltre novanta primavere sulle spalle, insomma quella generazione che ha costruito l’Italia, altra tempra.
E ha preso l’impegno di portare la sua sterminata documentazione, sul caso Moro, le stragi, la mafia, in una sede dell’Ater della Garbatella.
È la fotografia di un distacco disincantato, proprio mentre sul cellulare gli infiniti messaggi registrano l’ennesima convulsione sul Ponte di Genova, una di quelle destinate ad aprire i giornali: Palazzo Chigi che dice di essere stato informato dalla De Micheli, la rivolta dei 5 stelle su Conte, il giorno dopo le Semplificazioni e il giorno prima della prossima tappa del calvario, presumibilmente l’Ilva.
Ecco, il patatrac: “Il problema — è lo sfogo sussurrato dal segretario – non è che il Ponte va a Benetton, è che è finito e non è stato fatto niente. Io che dovrei dire adesso? Che lo avevo detto?”. In quel “l’avevo detto”, che è un moto dell’anima più che una linea, c’è un senso di amarezza, mista a rabbia, quasi di impotenza di fronte a un quadro diventato ingovernabile: “Sembra che tutti abbiano l’obiettivo di aspettare il semestre bianco, vedo più trame che governo, io le cose che dovevo dire le ho dette”.
Ed effettivamente non è l’unico se, a margine di un Consiglio dei ministri di qualche giorno fa, l’esperto Guerini ha fiutato la stessa aria: “Sento odore di rimpasto”. Inevitabilmente il sulfureo odore di manovra porta alle mosse di Franceschini, quasi come un riflesso condizionato, anche quando magari il ministro della Cultura ha intenzioni opposte.
È così che la sua intervista a Repubblica dell’altro giorno è stata oggetto di un’esegesi come un testo della Sibilla. Di Maio ha raccolto una maliziosa interpretazione da qualche ex democristiano del Pd: “È il bacio di Giuda. Chi vuole sostituire il premier si pone come il suo più strenuo difensore, è una regola di scuola”.
Al cronista l’eventualità  non risulta, però il fatto va annotato sul taccuino alla voce “clima di sospetti”, che da tempo si registra nel Consiglio dei ministri. Sospetti tra singoli ministri, tra partiti, tra partiti e Conte, in particolare tra 5 stelle e Conte: “Ma come fa Conte a dire che è paradossale? — ha quasi urlato Buffagni — Prima ci mette davanti al fatto compiuto, siamo noi a dire che è paradossale”.
Quanto possa andare avanti così non è dato sapere, nè il “come”. È la più classica delle situazioni da rompete le righe, in attesa dell’evento che metta tutti davanti al fatto compiuto: “Così andiamo a sbattere a settembre, non può tenere se andiamo avanti così”. È questa l’analisi che Luigi Di Maio ha condiviso con qualche parlamentare.
Con una postilla: “Io non capisco perchè Conte non prenda una iniziativa e metta attorno a un tavolo i leader di maggioranza, in fondo sta a lui”.
Anche Di Maio è attenzionato dai suoi colleghi, perchè nessuno crede che aspetti solo il momento giusto per consumare la sua vendetta, con un nuovo Governo che archivi il Conte bis. “Sta come un lupo sordo” è l’immagine pugliese con cui Boccia ne ha immortalato, parlottando con quale amico, il fare sornione, la prudenza nelle dichiarazioni, l’aria di chi attende.
C’è solo un punto fermo in questa storia in cui tutto si avvita su se stesso, ed l’impossibilità  di un rimpasto, perchè toccare una casella significa sapere dove si inizia e non sapere dove si finisce:
Zingaretti non ha alcuna intenzione di entrare nel Governo, anche se in parecchi nel Pd lo spingono in tal senso per “stabilizzare” e “dare il senso di una svolta”: “Nico’, è una trappola — gli ha detto Boccia — perchè così ti incastri nel Governo e tra un anno ti si cucinano nel partito”.
Ha trovato facile ascolto il ministro per gli Affari regionali, complice anche l’amarezza di questi giorni e il senso di quasi estraneità  a quel che sta accadendo, che non gli piace, ma non riesce a cambiare.
Neanche la legge elettorale si riesce a fare. E, ripartito da Oriolo, resta in un’altra dimensione: “È stato come attraversare decenni di storia del nostro paese, grazie Sergio, è anche così che si rendono più ricche le nostre vite”.

(da “Huffingtonpost”)

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BUONI SPESA EMERGENZA COVID: A TROPEA 126 FINTI POVERI DENUNCIATI

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

PIU’ DI META’ DEI BENEFICIARI HA BARATO, TRA LORO ANCHE SOGGETTI LEGATI AI CLAN…   LA SOLITA STORIA, I CONTROLLI VANNO FATTI PRIMA

Al primo controllo sui sussidi erogati dai Comuni nel corso dell’emergenza Covid 19 si è scoperto che più della metà  dei beneficiari ha barato.
E tra loro ci sono anche soggetti legati ai clan.
È successo a Tropea, piccolo centro turistico del Vibonese di poco più di seimila abitanti. Durante il lockdown, in 225 hanno chiesto di beneficiare dei buoni spesa, gli aiuti che il governo ha affidato ai Comuni per sostenere cittadini in difficoltà  nell’acquisto di generi alimentari e di prima necessità . Peccato che in 126, più della metà  di chi lo ha ricevuto, non ne avesse diritto.
Lo ha scoperto la Guardia di Finanza che ha passato al setaccio gli elenchi e lì ha scovato uomini dei clan, soggetti con disponibilità  anche rilevanti sui conti correnti, lavoratori regolari che avevano appena percepito lo stipendio o beneficiari di altri sussidi, come il reddito di cittadinanza o l’indennità  di disoccupazione.
Tutti quanti hanno presentato al Comune false autocertificazioni per attestare inesistenti difficoltà  finanziarie, sulla carta tanto drammatiche da non consentire loro neanche di mettere insieme pranzo e cena. Tutto falso.
In altri casi invece, la richiesta di buoni spesa è stata presentata da due componenti del medesimo nucleo familiare, che hanno finito per incassare un doppio sussidio. Risultato, buona parte dei 55.568 affidati al Comune di Tropea sono finiti in mano a chi non ne aveva diritto.
I 126 furbetti sono stati tutti multati, denunciati per indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e segnalati al Comune per il recupero delle somme non spettanti.
Ma quanto scoperto in un piccolo centro come Tropea è un campanello d’allarme. Già  durante il lockdown il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, aveva lanciato l’allarme non solo sul pericolo che i clan mettessero le mani sui sussidi di diversa natura messi a disposizione da governo e Regioni o guadagnassero consensi con una sorta di welfare criminale, ma anche sul rischio che illeciti e false dichiarazioni inceppassero il meccanismo, finendo per escludere dai sussidi chi davvero li necessitava.
“Gli elenchi dei cittadini bisognosi, che ricevono gli aiuti, come i buoni per la spesa devono essere forniti alle prefetture, che diano risposte entro 48 ore per evitare abusi negli aiuti. Altrimenti succederà  come con il reddito di cittadinanza, quando la gente cambiava la residenza da un giorno all’altro per averlo. O gente con il suv da 80mila euro che andava a prendere il tablet per la figlia. C’è bisogno di controlli”.
Un appello rimasto per lo più inascoltato.

(da agenzie)

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CASO CAMICI LOMBARDIA, INDAGATO IL COGNATO DI FONTANA

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

LA FINANZA ACQUISISCE CARTE IN REGIONE LOMBARDIA

Spuntano i nomi dei primi indagati nell’inchiesta della procura di Milano sul caso dei camici forniti alla Regione Lombardia durante l’emergenza coronavirus dalla Dama spa, società  di cui detiene una quota la moglie del governatore Attilio Fontana e gestita dal cognato Andrea Dini.
Proprio Dini, in base a quanto apprende l’Ansa, sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati insieme a Filippo Bongiovanni, direttore generale di Aria, la Centrale acquisti regionale.
Il reato contestato è quello di turbata libertà  nel procedimento di scelta del contraente. I pm hanno sentito come testimoni anche l’assessore Raffaele Cattaneo e il presidente di Aria Francesco Ferri.
Sempre in giornata la guardia di finanza è tornata in Regione Lombardia per acquisire i documenti relativi ai contratti di fornitura stipulati tra Aria Spa e l’azienda gestita da Dini, fratello della moglie del governatore lombardo Roberta Dini.
Quello che devono chiarire i magistrati è se la procedura con cui è stata concessa la fornitura di camici e altro materiale medico da 513mila euro si sia svolta in modo regolare oppure no. La notizia arriva dopo che pochi giorni fa la procura aveva individuato la prima ipotesi di reato per l’indagine, cioè la turbativa d’asta.
In base al servizio giornalistico di Giorgio Mottola andato in onda sul programma di Rai3 Report, le fatture sarebbero state stornate e l’acquisto trasformato in una donazione solo dopo la diffusione della vicenda sui media nazionali. Dini finora ha sempre negato, affermando che il suo intento era sin dall’inizio a scopi benefici.

(da agenzie)

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COMPROMESSO MERKEL: 500 MILIARDI DI SUSSIDI, PER I PRESTITI C’E’ IL MES

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

LA SOLUZIONE AVANZATA DALLA CANCELLIERA SUL RECOVERY FUND CHE POTREBBE BASTARE A ITALIA E SPAGNA

Giacca verde chiaro e mascherina bianca al volto, una spruzzata di disinfettante sulle mani e Angela Merkel è pronta per il discorso all’Europarlamento che lancia il semestre di presidenza tedesca dell’Ue con la sua mission più importante: raggiungere un accordo sul Recovery fund per salvare l’unità  europea.
“Entro l’estate”, spera la cancelliera, che, tradotto, vuol dire entro fine luglio.
Se non basterà  il Consiglio europeo della settimana prossima, ce ne sarà  un altro la settimana seguente. L’intesa è lontana, Merkel è molto preoccupata dalle resistenze dei paesi ‘frugali’, quando in mattinata arriva nello studio del presidente David Sassoli. Ma la cancelliera ha in mente un compromesso che, apprende Huffpost, potrebbe andar bene anche all’Italia, la Spagna e i paesi più in difficoltà  con la crisi da covid.
Secondo questo schema, che la cancelliera accenna in aula, il Recovery fund verrebbe ridotto ai soli 500mld di sussidi a fondo perduto, che poi sono la proposta iniziale del duo franco-tedesco.
Via i 250 miliardi di prestiti, aggiunti dalla Commissione europea. Per i prestiti, rivolgersi al Mes, è il messaggio che arriva dal nord Europa, che Merkel accoglie e Giuseppe Conte, in visita oggi dall’alleato spagnolo Pedro Sanchez, interpreta secondo le necessità  della sua maggioranza di governo divisa.
Per il premier, spiegano i suoi, l’importante è che non si tocchino i sussidi a fondo perduto. Quanto alla parte relativa ai prestiti, non c’è solo il Salva Stati, ma anche gli altri strumenti messi in campo dall’Ue, tra l’intervento della Bei e il piano Sure della Commissione sulla disoccupazione.
“E’ ideologico dire ora se lo prendo o meno il Mes — insiste Conte in conferenza stampa con Sanchez — ci aggiorneremo costantemente e, quando sarà  completato il negoziato europeo, valuteremo ciò che conviene o meno all’Italia”.
Lo spagnolo pure ha l’opposizione alle calcagna sul Mes, ma per ora non pensa di ricorrere al Salva Stati. Tuttavia si mostra più laico: “Non ha senso creare strumenti europei e poi abbiamo vergogna di usarli”.
Ad ogni modo, da Madrid Conte e Sanchez lanciano la loro risposta alle richieste del nord Europa: accordo al più presto sul fondo di ripresa e “non si indietreggi dalla proposta della Commissione”, sottolinea Conte. “Trovare un minimo comune denominatore tra i 27 paesi sarebbe sbagliato perchè non servirebbe a nessuno. L’Europa deve esprimere una decisione politica ambiziosa ed elevata”.
A dieci giorni dal Consiglio europeo di metà  luglio, il negoziato è nella fase in cui ancora ognuno pianta e difende i suoi paletti. Del resto, il compromesso che ha in mente Merkel è solo una parte del tutto. Chissà  se basterà .
Conte, per dire, è anche interessato a ottenere una ‘governance’ degli aiuti che gli permetta di utilizzarli in modo celere. Ma in aula al Parlamento europeo è il presidente del Consiglio Ue Charles Michel a elencare tutti i nodi: sono ancora tutti lì, al pettine delle discussioni.
Non c’è ancora accordo sulle dimensioni del bilancio pluriennale europeo 2021-27, sugli sconti sui contributi al bilancio di cui usufruiscono gli Stati più ricchi (‘rebates’), sul livello del recovery fund e la proporzione tra sussidi e prestiti, sui criteri di ripartizione degli aiuti, il nesso tra il fondo e le riforme che ciascuno Stato membro deve adottare in cambio dei soldi, il rispetto dello stato di diritto soprattutto nei paesi dell’Est, il nesso con la lotta ai cambiamenti climatici e, infine, quando si comincerà  a ripagare il debito comune che la Commissione accumulerà  per creare il fondo di ricostruzione.
La proposta di Ursula von der Leyen è di restituire a partire dal 2028, non prima del prossimo bilancio pluriennale. Ma gli Stati del nord vorrebbero anticipare la scadenza e la Germania è con loro.
Michel presenterà  la sua sintesi delle trattative entro il weekend. Poi la parola passerà  agli ambasciatori dei paesi membri e poi ai leader al summit del 17 e 18 luglio. E’ su questo tavolo che planeranno i nodi più intricati. Da parte sua, il presidente del Consiglio europeo dovrebbe lasciare invariata la cifra prevista dalla Commissione: 750 miliardi, riducendo però il bilancio pluriennale di una cinquantina di miliardi (passerebbe da 1100 a 1050mld). Ma il grosso verrà  deciso dai leader. E la soluzione non è affatto dietro l’angolo.
I ‘frugali’ stanno opponendo una resistenza senza quartiere. Preoccupata, Merkel lo dice a Sassoli, nell’incontro mattutino prima della plenaria e anche nell’incontro serale a 4 col presidente dell’Europarlamento, la presidente della Commissione e Michel. Per questo, nel discorso in aula la leader tedesca insiste sul concetto di “coesione”, sulla necessità  di cercare un compromesso per il bene dell’unità  europea stavolta davvero a rischio.
Ma il compromesso va cercato anche con lo stesso Parlamento europeo, che ha l’ultima parola sulle decisioni dei leader. E’ questo il motivo della riunione serale dei quattro presidenti.
Sassoli avverte Merkel sui quattro paletti irrinunciabili della maggioranza parlamentare: nessuna riduzione del bilancio pluriennale e del recovery fund, istituzione immediata di almeno due risorse proprie (tasse europee) e le altre entro 5 anni, che il Parlamento abbia poteri di controllo sulla spesa.
In mattinata, il presidente dell’Europarlamento sente al telefono Conte, mentre il premier è in volo per Madrid. Saranno giorni di trattative febbrili.
Venerdì il capo del governo vola a L’Aja per un bilaterale con l’olandese Mark Rutte, lunedì sarà  a Meseberg, vicino Berlino, ricevuto da Merkel. E la settimana prossima avrà  un bilaterale anche con il francese Emmanuel Macron. Nord e sud Europa sono alla resa dei conti all’ombra del covid. “L’Europa non è un bancomat”, tuona in aula il tedesco Manfred Weber, presidente dei Popolari.
Seduta tra i banchi, Merkel lo guarda perplessa, colpita dai toni del suo connazionale e collega di partito. Ma nel frattempo anche lei si è cambiata la mascherina: non più bianco neutro, ora ha quella del Ppe. Anche lei nell’arena, come è naturale.

(da “Huffingtonpost”)

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L’INVITO A PALAZZO CHIGI SFARINA IL CENTRODESTRA

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

L’INCONTRO SLITTA A DATA DA DESTINARSI, ANCHE L’OPPOSIZIONE LITIGA TRA RIPICCHE E GELOSIE

Anche l’opposizione nel suo piccolo litiga. Le frizioni Pd-Cinquestelle sulla gestione del nuovo ponte di Genova fanno passare in sordina la giornata di passione vissuta dal centrodestra.
L’invito del premier Giuseppe Conte alla coalizione Berlusconi-Salvini-Meloni — convocata a Palazzo Chigi per domani pomeriggio – scatena nei destinatari una ridda di ripicche, gelosie, personalismi. Ed equivoci.
La leader di FdI accetta prontamente con richiesta aggiuntiva di riunione in streaming. Il leader della Lega, invece, dice no: il “signor Conte” è “un chiacchierone”, prima mantenga le promesse su Cig e cantieri, e loro non sono “a disposizione di nessuno”. Segue irritazione reciproca mentre Forza Italia, basita, sta alla finestra.
A quel punto Conte, da Madrid, trova il tempo di dedicarsi a loro: “Mi ricordano un po’ Nanni Moretti in Ecce Bombo: mi si nota di più se lo facciamo a Palazzo Chigi o a Villa Pamphilj, se lo facciamo per canali istituzionali o non istituzionali, in streaming o con rappresentazione fotografica?”.
Citazione che non è il massimo del garbo istituzionale, certo, ma possiede un’innegabile efficacia.
Nel centrodestra, pur masticando amaro, se ne rendono conto. E, dopo un giro di telefonate, producono una posizione unitaria: sì al confronto, ma la settimana prossima.
Ovvero a data da destinarsi, dato che se ne parlerà  al rimpatrio del capo del governo. “L’ipotesi di domani non è percorribile — fanno sapere leghisti, forzisti e meloniani — per il poco preavviso, per impegni precedenti e per la scarsa chiarezza con cui Palazzo Chigi ha deciso di informare i leader, ovvero in tempi diversi”
Il dissidio sta tutto lì. Nella tempistica dell’invito. Che, secondo la versione della Lega, era a loro sfavore, se non addirittura un trappolone. A mezzogiorno, Salvini è a un incontro con gli imprenditori insieme a Lucia Borgonzoni quando i giornalisti gli chiedono se andrà  all’incontro con il premier e lui risponde picche. In realtà , parla in astratto. Perchè alla sua segreteria la mail di invito per Palazzo Chigi arriverà  solo a mezzogiorno e mezzo. Cioè a frittata già  fatta. Cioè ben dopo l’invito “personale” già  ricevuto — e commentato sulle agenzie di stampa – da Giorgia Meloni.
Salvini è a dir poco seccato. Con il protagonismo di Giorgia, fresca di cinque pagine di servizio su Panorama in cui viene bucolicamente ritratta tra piante mediterranee, mici e scottish terrier, ma anche incoronata star del centrodestra, regina di consensi nei sondaggi e finanche possibile competitor per la premiership.
Un titolo che è anche un monito: “Se supero Fini, missione compiuta”. Catenaccio: “La donna che ha portato la Destra dal 4 al 15% e ora punta alla leadership”.
Più di una punzecchiatura dal settimanale che non è più l’house organ del Cavaliere, ma certo non gli è ostile. Il capo della Lega però ce l’ha soprattutto con Conte e con il suo invito provocatorio. “Un’operazione con doppio fine — mugugnano i suoi — Spaccare la coalizione e far perdere le staffe a Matteo”.
Operazione, per alcune ore, riuscita. Mentre Forza Italia mantiene un prudente silenzio, con Antonio Tajani che aspetta le decisioni degli alleati. O tutti o nessuno, è l’unico terreno comune.
A dividersi, insomma non è solo la maggioranza di governo: se Atene piange, Sparta ha poco da ridere. Alla fine, la quadra (teorica) si trova. E la palla torna a Conte. Quello a cui l’azzurra Licia Ronzulli prova a restituire la citazione morettiana: “Fa cose, vede gente…”. Quello, però, che nell’intervista a Panorama la Meloni aveva scolpito come “garbato, ma scaltro”. E che stavolta li ha fatti ballare.

(da “Huffingtonpost”)

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LA CORTE COSTITUZIONALE DA’ TORTO AD AUTOSTRADE: “LEGITTIMO ESTROMETTERE LA SOCIETA’ DALLA COSTRUZIONE DEL NUOVO PONTE”

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

ASPI AVEVA PRESENTATO RICORSO CONTRO IL DECRETO CON IL QUALE ERA STATA ESCLUSA… LA MOTIVAZIONE DELLA CONSULTA: “SCELTA DETTATA DALLA GRAVE SITUAZIONE”

“L’eccezionale gravità  della situazione” giustifica l’esclusione di Aspi dai lavori per la ricostruzione del ponte di Genova. Con questa motivazione la Corte ha respinto i 6 ricorsi del Tar della Liguria che aveva sollevato dubbi di costituzionalità  sull’articolo 41 della Carta per l’esclusione di Aspi dalla ricostruzione.
Era stata la società  a rivolgersi al Tar per lamentare la violazione di una serie di diritti che sconfinavano, secondo i legali dell’azienda, nell’illegittimità  costituzionale. La sentenza arriva nel giorno delle polemiche per la notizia che sarà  Aspi a gestire il nuovo ponte di Genova, almeno fino alla possibile revoca della concessione. Ma ecco il comunicato con cui la Corte ha annunciato la sua decisione.
Il comunicato della Corte
“La Corte costituzionale ha esaminato nell’odierna camera di consiglio le questioni sollevate dal Tar della Liguria riguardanti numerose disposizioni del Decreto legge n. 109 del 2018 (cosiddetto Decreto Genova) emanato dopo il crollo del Ponte Morandi. Il Decreto ha affidato a un commissario straordinario le attività  volte alla demolizione integrale e alla ricostruzione del Ponte nonchè all’espropriazione delle aree a ciò necessarie. Inoltre, è stato demandato al commissario di individuare le imprese affidatarie, precludendogli di rivolgersi alla concessionaria Autostrade Spa (Aspi) e alle società  da essa controllate o con essa collegate. Infine, il Decreto impugnato ha obbligato Aspi a far fronte ai costi della ricostruzione e degli espropri.
In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non fondate le questioni relative all’esclusione legislativa di Aspi dalla procedura negoziata volta alla scelta delle imprese alle quali affidare le opere di demolizione e di ricostruzione.
La decisione del Legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata determinata dalla eccezionale gravità  della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società  incaricata della manutenzione del Ponte stesso. La Corte ha poi dichiarato inammissibili le questioni sull’analoga esclusione delle imprese collegate ad Aspi e quelle concernenti l’obbligo della concessionaria di far fronte alle spese di ricostruzione del Ponte e di esproprio delle aree interessate”.
La ricostruzione del caso
Il ricorso affrontato oggi dalla Consulta era intitolato “Aspi contro la presidenza del Consiglio dei ministri e altri undici”. Fra questi “undici” c’era soprattutto la struttura commissariale, presieduta da Marco Bucci, il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del ponte Morandi, che ha poi ricostruito il viadotto sul Polcevera.
Con il celebre decreto Genova, poi diventato legge, Autostrade per l’Italia era stata estromessa dalle attività  di ricostruzione del Ponte Morandi, affidate al Commissario straordinario con spese a carico del concessionario.
Aspi aveva presentato una serie di ricorsi al Tar Liguria con cui lamentava la violazione di una serie di diritti che sconfinavano, secondo i legali della società  del gruppo Atlantia, nell’illegittimità  costituzionale
L’elenco delle presunte violazioni di diritti costituzionali era lungo e ruotava in primis attorno al mancato rispetto della Convenzione fra Stato e concessionaria. Soprattutto sull’imposizione ad Aspi, lasciata fuori dalla porta della ricostruzione, dei costi per il nuovo viadotto ma anche di quelli per i risarcimenti alle imprese e agli sfollati: “Non è dato comprendere – hanno scritto i giudici del Tar – con precisione sulla scorta di quali parametri economici sono state determinate le indennità  per metro quadro”.
I giudici, nelle sei ordinanze sul tavolo della Consulta, sostengono “la sussistenza di un contrasto con   i principi di   separazione dei poteri, di difesa e del giusto processo, nonchè del complesso delle disposizioni censurate   con il principio di proporzionalità “.   Ribadiscono, inoltre, che “l’esclusione della società  concessionaria dalle   attività    in questione costituirebbe una restrizione della   libertà  di   iniziativa   economica   in contrasto con   l’articolo 41 della Costituzione (che garantisce la libertà  dell’iniziativa economica privata, ndr)”.
L’esclusione di Aspi dalla ricostruzione, inoltre, era stata decisa in assenza di qualsiasi responsabilità  accertata processualmente della società  – visto che l’inchiesta della procura non è neppure arrivata all’udienza preliminare – nel crollo del 14 agosto 2018. Secondo i giudici del Tar “il legislatore risulta aver alterato il complesso di diritti e obblighi attribuiti alla ricorrente Aspi dalla Convenzione unica”. Sulla base di queste considerazioni giuridiche il Tar ha sospeso il giudizio sul ricorso perchè ha ritenuto “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale”.

(da agenzie)

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LA MELONI PUBBLICA LA BELLA STORIA DELLE GEMELLINE SIAMESI OPERATE AL BAMBIN GESU” E I SUOI FANS NON TROVANO DI MEGLIO CHE INDIGNARSI SU “CHI PAGA?”

Luglio 8th, 2020 Riccardo Fucile

A PARTE CHE SONO TALMENTE IGNORANTI CHE NON SANNO NEPPURE CHE LA STRUTTURA E’ DEL VATICANO, E’ LA DIMOSTRAZIONE ULTERIORE CHE CON CERTA FOGNA UMANA I TEMPI DELLA DISCUSSIONE SONO FINITI DA TEMPO

Una parte politica ha cavalcato e instillato un germe difficile da rimuovere, anche quando si vuole raccontare una bella storia di inclusione.
E così accade che Giorgia Meloni condivida su Facebook la storia, attraverso una foto, delle due gemelline siamesi operate all’Ospedale Bambin Gesù di Roma; i suoi fan (non tutti, ma un campione non indifferente, invece di essere felici per il lieto epilogo di una vicenda che poteva provocare ben altre conseguenze sulle piccole), non hanno gradito e hanno iniziato a fare del tipico vittimismo italiano: «Chi paga?», oppure «noi paghiamo e loro vengono operati».
Ripercorriamo in breve la storia delle gemelline siamesi. Le due piccole, originarie di un villaggio centrafricano, sono arrivate a Roma insieme alla mamma. Sono unite, fin dalla nascita, alla testa. Notate in quel villaggio da un prete missionario, i genitori delle bimbe vengono messe in contatto con i medici del Bambin Gesù di Roma che, dopo gli esami di rito — e tutti i rischi del caso — vengono operate alla testa e divise. Dopo un mese, le loro condizioni sono considerate ottime. E così anche Giorgia Meloni ha voluto raccontare questa bella storia di inclusione e incensare il lavoro dei medici.
«All’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma separate con successo due gemelline siamesi. ‘È il primo caso in Italia — e probabilmente l’unico al mondo — di intervento riuscito su una coppia di craniopagi totali posteriori’, fanno sapere i medici. Complimenti all’equipe medica dell’Ospedale Bambino Gesù, che ancora una volta si rivela eccellenza mondiale nella sanità . Buona vita alle due piccoline!». Insomma, un bel post su una bella storia. Ma i suoi fan non hanno apprezzato.
A parte la questione di lana caprina che non dovrebbe nulla a che vedere con la bella storia delle gemelline siamesi operate a Roma.
Comunque, per quanto possa interessare, ricordiamo l’Ospedale Bambin Gesù non è un nosocomio pubblico italiano, ma dipendente dal Vaticano e solo in convenzione con il Ministero del Tesoro e della Sanità .
Volete ancora chiedervi chi paga?

(da “Giornalettismo”)

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