Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
FURONO 230.000 GLI ITALIANI “DEPORTATI ECONOMICI” NELLE MINIERE DI CARBONE DEL BELGIO … 8 AGOSTO 1956 LA TRAGEDIA IN CUI MORIRONO 136 LAVORATORI ITALIANI, IL PIU’ GIOVANE AVEVA 14 ANNI
Se avrete l`opportunità `, e la fortuna, di scambiare due chiacchiere con qualcuno degli ex-minatori che ancora si incontrano visitando il bellissimo museo della Memoria del Bois du Cazier in Belgio, vi racconteranno del loro viaggio iniziato probabilmente lasciando un piccolo paesino del Molise, della Sicilia o del Friuli e finito a Namur, stazione dove venivano poi smistati e mandati a lavorare nelle miniere di carbone sparse nel Belgio, da Charleroi a Genk, da Mons a Liegi.
Urbano Ciacci o Sergio Aliboni vi diranno che pioveva o nevicava al loro arrivo, che faceva freddo, che venivano ammassati nelle baracche in lamiera a ridosso delle miniere servite per mettere i prigionieri di guerra e dove avrebbero dovuto passare, senza alcuna possibilità di muoversi (pena l` arresto e il confino) almeno 5 anni.
Dal 1947, anno dello scellerato protocollo tra Italia e Belgio per lo scambio manodopera-carbone, e l’inizio degli anni 60, gli italiani che hanno lavorato nelle miniere di carbone in Belgio, sono arrivati a 230000.
“Deportati economici” [Franzina 2002, 168] venduti dall` Italia per qualche sacco di carbone, che con condizioni di lavoro durissime e di sicurezza pressochè inesistenti hanno posto le basi dello sviluppo economico non solo del Belgio, ma di tutta quell` Europa nata dalla cooperazione e dallo scambio di carbone e acciaio. Non a caso, nel 1951 su iniziativa di Robert Schuman nasce la Comunità apposita.
Ma se è vero come diceva Jean Monnet che gli uomini passano e le istituzioni restano, riconoscendo al politico francese il ruolo di grande Padre dell’Europa odierna, pochi riconoscono che le sue fondamenta risiedono nel sudore, nel lavoro e nel sacrificio di questi minatori, di questi migranti. E delle loro famiglie.
Mogli, madri con bambini che si sono spostate per seguirli, pagando il prezzo, altissimo, non solo dell` abbandono del paese di origine ma anche quello di un` integrazione mancata, fatta di insulti e soprusi subiti nel paese di arrivo. Si leggeva nei bar e nei ristoranti di molte città del Benelux “vietato l` ingresso ai cani e agli italiani”.
Ma tutto cambiò una mattina di agosto del 1956.
A Marcinelle, precisamente nella miniera del Bois du Cazier si è consumata la più grande tragedia dell` immigrazione italiana in Europa. Un incendio causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica scoppia a quasi 1000 metri sotto terra provocando una strage. Perdono la vita 262 minatori, provenienti da 12 paesi diversi dell’Europa e del Nord Africa. 136 di questi italiani, 22 venivano dal paesino abruzzese di Manopello.
Il più giovane di 14 anni e il più anziano di 53 anni. La tragedia fu immane e per la prima volta fu seguita da vicino dalla televisione, media in ascesa in quegli anni.
Il lutto colpì 248 famiglie e lasciò 417 orfani. Il sentimento di gelosia, diffidenza, per non dire razzismo, che aveva accompagnato gli italiani in Belgio tramutò drasticamente.
Ma soprattutto, iniziarono a migliorare le condizioni di sicurezza del lavoro, furono consentite protezioni maggiori ai minatori (l` uso di lanterne elettriche) e il legno fu sostituito con altri materiali ignifughi e vennero ridotti i turni. La silicosi, malattia alle vie respiratorie che avevano colpito moltissimi minatori, venne finalmente riconosciuta come malattia legata al lavoro.
Passi avanti, diritti acquisiti che oggi diamo scontati. Ma non possiamo dimenticare il prezzo pagato.
Le immagini di molti documentari, filmati, i successi di Rocco Granata o di Salvatore Adamo, figli di minatori, nati in Calabria o in Sicilia ma cresciuti in Belgio a pane e carbone, e che sono poi diventati vere e proprie star grazie a pezzi come Marina o Tu somigli all` amore sono pezzi importanti per tenere viva la memoria.
Ma non basta. Bisogna tenere viva la memoria e fare conoscere che cosa è successo a Marcinelle, “quando la vita valeva meno del carbone” come titola il bel libro che il Professore di storia della migrazioni Toni Ricciardi ha dedicato alla catastrofe e che consiglio vivamente di leggere.
Marcinelle è una storia di migrazione, di lavoro, di sacrificio. Ma anche di solidarietà `.
E sono tematiche sempre più drammaticamente attuali e interconnesse fra loro. L` importante che questa interrelazione non debba mai più portare alla morte. Alle morti bianche.
Anche se in questo caso si trattò di morte nera, perchè neri erano i “musi” dei minatori. “Tutti uguali lì sotto eravamo. Eravamo tuti musi neri, tutti fratelli”. Mi raccontava Mario Ziccardi, altro grande uomo, amico, e sopravvissuto solo perchè si andava a sposare in Molise quell`8 agosto. Ma Mario, come Urbano e come Sergio, piangeva ogni volta al ricordo dei suoi amici, fratelli persi quella maledetta mattina.
Quest` anno, per ovvi motivi, non si terranno le commemorazioni al Bois du cazier.
La campana che alle 8e11 scandisce i suoi lugubri mortali 262 rintocchi non suonerà .
Ciò non toglie che i nostri pensieri saranno li`. La “ Catastrofa” come la chiama Paolo di Stefano ha segnato un` epoca ma il suo monito e` ancora vivo e presente oggi.
L` 8 agosto è diventata la giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo per celebrare, ricordare e onorare i tanti lavoratori italiani e il contributo economico, sociale e culturale delle loro opere. Sarebbe bello che diventasse la giornata internazionale del sacrificio del lavoro, visto che sono morti anche olandesi, belgi, francesi, maghrebini, russi, polacchi. E perchè Marcinelle non appartiene a un popolo, anche se scalda il cuore di molti emigrati italiani in Belgio il solo parlarne. Ma rappresenta tutti noi. Perchè siamo migranti e lavoratori, perchè abbiamo lasciato affetti e fatto sacrifici.
E soprattutto perchè crediamo che non si debba mai più morire per un lavoro. Nè sotto terra, nè in fondo al mare. Nè tantomeno ucciso facendo uno stage a Strasburgo, volontariato in Colombia o una ricerca in Egitto.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
UNA STRATEGIA PERDENTE CHE TROVA CONFERMA NEI SONDAGGI; SALVINI CONTINUA A PERDERE CONSENSI, CONTE VIVE IL MOMENTO DI MAGGIORE POPOLARITA’… SALVINI FERMO ALLA FERMATA DEL BUS CHE HA SEMPRE PRESO SENZA ACCORGERSI CHE IL MEZZO HA CAMBIATO PERCORSO
Mai erano stati così divisi, nello stile e nella comunicazione: nel giorno in cui Matteo Salvini
definisce Giuseppe Conte “Criminale” il presidente del Consiglio appare nella conferenza stampa del suo terzo decreto era-Covid, più accattivante composto e piacione che mai, in una comunicazione tutta giocata sulla prima persona plurale: “Dobbiamo essere attenti, accorti e intelligenti”. Noi, ovvio, nessuno si senta escluso, direbbe il sommo poeta Francesco De Gregori.
Mai la forbice tra i due leader era stata così divaricata e confliggente: Salvini cattivista chiama alla guerra, e celebra la cerimonia finale dei selfie ribelli negli stabilimenti balneari, mentre Conte buonista alla doppia panna, esorta gli italiani a godersi l’estate, anche se senza sottovalutare il virus, dagli schermi televisivi.
La conferenza stampa di Conte è il trionfo di questa prima persona plurale: “attenzione, dobbiamo muoverci in modo responsabile e preoccuparci della salute delle persone care e di quelle più fragili”. Salvini invece è in modalità western, cerca l’avversario e lo sfida apertamente come in un duello da saloon: “Quello che emerge dai verbali del Comitato Tecnico scientifico è gravissimo!”.
Ma forse è proprio in questa divaricazione così netta la spiegazione del perchè Salvini è in caduta libera nei sondaggi mentre Conte sta vivendo uno dei suoi momenti di maggiore popolarità .
Nella sala dei Galeoni il premier arriva stanco, ma felice per il varo del “nuovo importante decreto Agosto“. Con questi ultimi 25 miliardi di investimenti, il governo tocca quota cento miliardi di finanziamento, una cifra venduta con grande entusiasmo propagandistico come l’unico rimedio possibile per rilanciare l’economia e sollevare famiglie, lavoratori, imprese: “Tuteliamo l’occupazione, alleggeriamo le scadenze fiscali e aiutiamo gli enti locali”.
E, ovviamente, complice la mano di Rocco Casalino, la conferenza stampa arriva in diretta (ieri sera) proprio nell’intervallo della partitissima tra Juventus e Lione: tifo sincronizzato.
È una comunicazione efficace, un po’ ruffiana e prime time, perfetta per le famiglie, attenta ad ogni dettaglio, quella di Palazzo Chigi.
Mentre Salvini reitera il suo modello dello scorso anno: leader itinerante tra piazze, spiagge, comizi e selfie, in una continua rincorsa del nemico.
Conte cerca di prendersi sulle spalle una nazione: “Siamo il Paese che ha il numero più basso di contagi — dice solleticando un orgoglio da bollettino Covid — non vanifichiamo gli sforzi fatti. Siamo stati il primo Paese occidentale colpito, ma siamo usciti prima degli altri dalla fase acuta”.
Salvini cerca il muro contro muro: “Stiamo andando allo sfascio. Sento la rabbia che sale”. Da un lato — quello della Lega — una mobilitazione di guerra permanente, dall’altro — quello del premier — l’ottimismo rassicurante, quasi come maniera.
Salvini batte sui “migranti infetti”, Conte ripete anche stavolta il suo mantra, come un cantante di successo in tournèe: “Non lasceremo indietro nessuno”.
Vorrei fermarmi qui per fare una sorta di esegesi comparata. Sia il cattivismo salviniano che il buonismo contiano sono due lingue retoriche, due narrazioni che lasciano scoperti ampi margini di realtà .
Ma il tema è: quale di questi due racconti è più in sintonia con il Paese reale e con il suo umore? Salvini scommette “sull’agosto caldo” e sulla protesta, Conte sul consenso e sulla rassicurazione.
E il tema interessante è che gli italiani apparentemente avrebbero molti motivi per protestare, ma non lo fanno. Anzi.
Ed è di queste ore un’altra notizia clamorosa, quella che persino in Puglia Michele Emiliano, malgrado la rottura dell’alleanza giallorossa (a livello regionale) sarebbe di nuovo in testa su Raffaele Fitto, addirittura di quattro punti.
Tutti errori degli istituti demoscopici? Tutta brace che cova sotto la cenere?
Io ho un’altra idea: ho come l’impressione che il Covid sia stato uno spartiacque nella comunicazione politica, non solo in Italia ma in tutto il mondo, e che Salvini non ne voglia prendere atto.
Ho l’idea, molto netta, che la pandemia abbia infranto “il racconto belligerante” della Lega, soprattutto nel profondo Nord, soprattutto in Lombardia e Piemonte (forse persino in Liguria) mentre il governo del buonismo corale è riuscito a mettere simbolicamente il suo timbro sull’unica operazione-miracolo di questi anni, l’edificazione del Ponte sul Polcevera a tempo di record.
La Lega “di lotta” ha separato il suo racconto belligerante da quello del Nord che si lecca le ferite. Attenzione: non dappertutto, perchè in Veneto Luca Zaia ha capito questo cambio di Stato d’animo, e si è calato lui nel ruolo che Conte gioca a livello nazionale.
Al punto che mentre Salvini nega la mascherina, si fa i selfie baciando i bambini e — addirittura — beve platealmente dal bicchiere con il cocktail che gli porge una signora, “Zaia il buono” diventa il leader delle tracciature, delle misure difensive, il padre buono e severo dei veneti.
Trovo incredibile che Salvini non abbia sentito il bisogno — Umberto Bossi lo avrebbe di certo fatto — di un rito pubblico e laico per le vittime di Bergamo: che non abbia sostituito alla mobilitazione belligerante una requiem leghista per le vittime del suo popolo.
Salvini sembra non vedere che il Covid ha cambiato lo stato d’animo dei lombardi, i loro consumi, le loro priorità , il loro rapporto con la Paura e con la sicurezza, l’estetica degli aperitivi, dei fine settimana, del weekend, della fiera.
Il virus ha fatto sparire la criminalità dall’agenda. Ha smussato la retorica dei barconi e degli immigrati, e oggi sembra persino divertente e clownesca la campagna “xenocinofoba” di Libero, con cui Pietro Senaldi e Vittorio Feltri, maghi del sensazionalismo da prima pagina, provano a gonfiare i titoli come ai bei tempi, con il dittico cubitale immigrati-cani.
Un giorno per dire che “arrivano sui barconi con i barboncini” (uno su seimila!) il giorno dopo (ieri) per titolare una intera apertura di pagina sul grido di dolore di una fantomatica “imprenditrice agricola” di Lampedusa: “Gli immigrati mi hanno mangiato quattro cani”.
Ed ecco il punto: Libero può sconfinare nell’eccesso senza temere il grottesco: il suo allarmismo diventa satira, e forse un po’ lo sa.
Salvini a mio parere non può permetterselo: giusto o sbagliato è proprio il suo nord Lombardo che non capisce la “disobbedienza civile” contro il distanziamento sociale, che non capisce il suo muro contro muro, che non considera “criminale” il lockdown imposto da Conte.
È come se Salvini, reiterando “ad infinitum” lo schema che lo ha favorito nell’ascesa, non si rendesse conto che adesso quel ritornello suona come una nota sgraziata.
E questo diventa assolutamente plateale sulle presunte scelte “criminali” di Conte: possibile che Salvini non si renda conto che se davvero il premier potendo chiudere “solo” la Lombardia (come dicono le carte del Cts e come lui denuncia) ha deciso di fermare tutta l’Italia, questo gesto crea consenso subliminale nello zoccolo duro nordista produttivo della Lega?
Possibile che Salvini dopo aver cercato per mesi di raccontare un Conte anti-Lombardo, (seguendo la sua narrativa cattivista) oggi non capisca che lo sta inconsapevolmente esaltando agli occhi del suo popolo?
Adesso che il Superomismo nordista è messo in crisi dal Covid, la prima persona plurale e la retorica della comunità nazionale prevalgono sul tema delle piccole patrie: la retorica della protezione cancella quella della contestazione.
Adesso che il Nord mette in discussione il suo stile di vita frenetico e rivede i suoi consumi, l’Italia diventa tutta “meridione” nazionale, tutta Paese-famiglia, tutta noi-uniti, e non settentrione secessionista e loro-contro.
Forse non per sempre: forse solo per questa stagione sospesa tra un lockdown e un non so che. Questo Salvini cattivista ribelle, oggi, mi pare come uno che sta in attesa alla fermata dell’autobus che ha preso tutti per tutta la sua vita, ogni giorno, sempre alla stessa ora, sempre con puntualità impeccabile, sempre arrivando in orario. E questo deja vu lo inganna.
Purtroppo (per lui) non si accorge che sopra il palo della fermata oggi c’è una etichetta: l’autobus ha cambiato percorso, causa epidemia.
Lo sta guidando Conte, e quella fermata non la fa più.
(da TPI)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
ORDINANZA DEL 23 FEBBRAIO: “IL PRESIDENTE DELLA LOMBARDIA, SENTITO IL MINISTRO DELLA SALUTE, PUO’ MODIFICARE LE DISPOSIZIONI IN RAGIONE DELL’EVOLUZIONE DELLA PANDEMIA”… MA NON LO FECE MAI
Difficile poter fare le vittime e difficile che Capitan Nutella ora ne chiesta le dimissioni e l’arresto. Perchè è noto che alla Lega sono garantisti o forcaioli solo a targhe alterne.
“Il presidente della Regione Lombardia, sentito il ministro della Salute, può modificare le disposizioni di cui alla presente ordinanza in ragione dell’evoluzione epidemiologica”.
Si legge così nel documento pubblicato stamani da ‘Il Fatto quotidiano’ che sulla mancata istituzione delle zone rosse nella Val Seriana pubblica un’ordinanza datata 23 febbraio 2020 e firmata, oltre che dal ministro della Salute, Roberto Speranza, anche dal governatore lombardo, Attilio Fontana.
Il documento, riferisce il quotidiano, “è di due pagine dove vengono elencate tutte le restrizioni, a partire dai check point attorno ai dieci comuni del Basso lodigiano”. Prosegue il giornale: “Il governatore leghista la sera del 23 febbraio quindi, firmò di suo pugno un atto che gli avrebbe permesso fin da subito di allargare la zona rossa di Lodi e di istituire quella in Valseriana. E questo ben prima di scoprire l’esistenza di una legge vecchia di 42 anni (la 833 del 1978) che dà pieni poteri alle regioni ‘in materia di igiene e sanità pubblica’”
L’ordinanza del 23 febbraio, grazie al Comitato per le vittime del coronavirus di Bergamo ‘Noi denunceremo’, è stata recentemente acquisita agli atti della procura di Bergamo che indaga sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro.
E, ricorda il giornale, “è anche alla base di un’interrogazione al ministero della Salute firmata dall’onorevole del M5S Valentina Barzotti, in cui si chiede se il governo fosse ‘a conoscenza delle ragioni per cui Regione Lombardia dopo l’emanazione dell’ordinanza del 23 febbraio scelse di non estendere la zona rossa a Lodi’.
Per la Regione Lombardia, è stato invece il consigliere pentastellato Marco Degli Angeli a invitare l’assessore al Welfare, Giulio Gallera a riferire in commissione, facendo richiesta di accesso agli atti “per verificare eventuali responsabilità “, lamentando una certa “inerzia del governatore Fontana e dell’assessore Gallera nel rispondere a mia legittima richiesta”
Il documento riportato dal ‘Fatto’ “è il risultato di una serie di riunioni istituzionali che si tengono quel 23 febbraio (…) – sottolinea il quotidiano -. La giunta lombarda non si attiverà mai. Nè a Lodi nè a Bergamo, dove sempre il 23 febbraio prima si tiene una riunione in Prefettura con i dirigenti dell’Ats locale e il sindaco Giorgio Gori, e poi, in serata, oltre 200 sindaci si collegano con i vertici della Regione. Bisognerà attendere l’8 marzo, quando, con uno dei famosi Dpcm, sarà a quel punto chiusa tutta la Lombardia”.
(da agenzie)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DEL DIRETTORE DELLE MALATTIE INFETTIVE DEL “GARIBALDI” DI CATANIA
Mentre il governatore Musumeci minaccia di chiudere tutto, il direttore delle Malattie infettive del
Garibaldi di Catania denuncia la totale mancanza di rispetto delle regole da parte dei cittadini
Da regione virtuosa a regione con l’indice Rt (indice di trasmissibilità della malattia, ndr) più alto d’Italia.
La Sicilia riesce nell’impresa impossibile di far peggio di Lombardia e Veneto: un indice di 1,62 a fronte di una media nazionale di 1,01.
Cosa sta succedendo? Come mai i casi sono schizzati così in alto in poche settimane (ieri +27 contagiati)?
«Si è passati da un’osservanza rigida delle regole a un clima di totale menefreghismo dove il Coronavirus viene considerato meno di una banale influenza. Mi aspettavo un azzeramento dei casi in estate, le condizioni c’erano tutte. E, invece, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Le colpe? Diffuse. Dai tecnici, secondo cui la carica virale del virus sarebbe inferiore (il riferimento, nemmeno troppo velato, è al professor Alberto Zangrillo, ndr), alla stanchezza post lockdown dei cittadini, specialmente dei giovani, fino all’arrivo di turisti da aree geografiche a rischio».
A parlare a Open è Bruno Cacopardo, direttore dell’Unità operativa Malattie infettive del Garibaldi di Catania e (ormai ex) membro del Comitato tecnico scientifico istituito dalla Regione Siciliana.
«Chiudere le discoteche, controlli a tappeto sulle spiagge»
«Io, ad esempio, vengo etichettato come “esagerato” solo perchè non voglio dare la mano o baciare le persone che incontro. Mi creda, c’è stato un crollo del rispetto delle misure, e questo mi preoccupa. Noi medici, per mesi, siamo stati in trincea, abbiamo subito uno stress pesantissimo e ora l’idea di tornare sul campo di battaglia per la strafottenza di qualcuno, mi irrita non poco». E il riferimento è anche a un’intervista diventata virale, in cui una donna, in spiaggia a Mondello, dice «Non ce n’è Covid»: «Ecco, queste parole mi fanno irritare. Il virus circola ancora, eccome. E sa perchè abbiamo meno ricoverati? Semplicemente perchè il Covid-19 si sta trasmettendo tra i giovani che si ammalano meno rispetto agli anziani o alle categorie più a rischio. Adesso, però, bisognerebbe chiudere quei locali, quelle strutture dove gli assembramenti sono incorreggibili, penso alle discoteche. Sulle spiagge, invece, servirebbero controlli a tappeto. Ma resto contrario a una chiusura totale».
I focolai in Sicilia
Alcuni siciliani sembrano aver dimenticato le buone abitudini: altro che distanziamento sociale, altro che mascherine e gel per le mani.
«Qui sembra che tutto sia finito, che in Sicilia il problema non ci sia mai stato e che non c’è motivo di preoccuparsi. C’è un vero e proprio clima di rilassatezza, specialmente in alcune zone della Sicilia» spiega riferendosi a Ragusa e Catania, meno a Palermo che si è dimostrata «più attenta». Dal focolaio della comunità evangelica a quello di Sampieri (nel Ragusano) fino al giovane che aveva preso parte a una serata in discoteca alla Playa di Catania.
Insomma, «per il 50% è colpa degli autoctoni»: «I giovani, invece, hanno rispettato alla perfezione le misure imposte dal governo durante il lockdown, poi dopo se ne sono fregati, complice forse la stanchezza».
E i migranti? «Vengono tutti sottoposti a tampone, sono tracciati negli spostamenti e non entrano a contatto con la popolazione locale. Dunque c’è un’incidenza di rischio dieci volte più bassa di quella degli autoctoni».
«C’è un numero crescente di casi»
Nell’ospedale in cui lavora, però, sono 18 i ricoverati di cui 5 severi e 3 in rianimazione: «C’è un numero crescente di casi, non possiamo negarlo, ma al momento è tutto sotto controllo. Abbiamo anche un soggetto giovane con una polmonite interstiziale. Insomma guai ad abbassare la guardia». Nei prossimi mesi — conclude — «mi aspetto una circolazione lenta e graduale del virus con pochi casi gravi e tanti asintomatici in isolamento domiciliare».
Secondo i dati dell’ultimo bollettino, in Sicilia si registrano +27 casi: 37 sono ricoverati con sintomi e 4 in terapia intensiva. In 328 si trovano ancora in isolamento domiciliare, 369 sono gli attualmente positivi, 284 i deceduti e 3.396 i casi totali. La Sicilia, dunque, è la sesta regione d’Italia per incremento di casi in 24 ore.
(da agenzie)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
CHI E’ PEPPE PROVENZANO, IL MINISTRO CHE STA RIPORTANDO SOLDI AL SUD
Il Sud nel cuore, la Sicilia il suo grande amore. Meridionalista convinto, Giuseppe Provenzano — per tutti “Peppe il rosso” ma anche Luciano e Calogero perchè la mamma, per lui, ha scelto ben tre nomi — è ministro per il Sud e la coesione territoriale.
Parla spagnolo, ha 38 anni, è nato a San Cataldo ma è cresciuto a Milena, piccolo comune di quasi 3mila abitanti in provincia di Caltanissetta (ultima nella classifica “Qualità della vita 2019” del Sole24Ore, ndr), in Sicilia.
Sa suonare la chitarra, da giovane si dilettava anche con il sax contralto. Una delle sue amiche più care (e sua collega universitaria) è la moglie del cantante Bugo con il quale è stato a cena a Natale, come svelato a Un Giorno da Pecora.
Oggi “Peppe” vive a Roma con l’avvocata Valentina — che ha conosciuto durante un convegno dell’Anci — e i suoi due figli, Giovanni e Caterina, la più piccola.
Ministro a partire dal 5 settembre 2019, giovane, barba in ordine (da buon siciliano), sta provando a riportare fondi, e dunque dignità , futuro e speranza, a un territorio da sempre martoriato.
L’obiettivo è quello di ridurre il gap di investimenti tra Nord e Sud, da sempre considerato l’ultima ruota del carro. A lui si deve, ad esempio, il «pacchetto sud» nel decreto agosto, ovvero una fiscalità di vantaggio nel Mezzogiorno. Chi assumerà nuovi lavoratori con contratti stabili o chi stabilizzerà precari avrà un taglio dei contributi del 30%. Il Sud come motore di crescita e non più come “peso” o “palla al piede” per il Belpaese.
Provenzano sogna di far «emergere il lavoro irregolare, attrarre investimenti stranieri e rilanciare la domanda di lavoro». Certo, il 30% di taglio ai contributi rischia di non essere risolutivo e da solo non sarà sufficiente a risollevare un Sud da sempre dimenticato dalla politica e ora messo in ginocchio dal Coronavirus. Ma almeno è un primo passo.
L’abilità di far prevalere le proprie opinioni è sempre stata una caratteristica del giovane ministro. Grande lettore di Leonardo Sciascia, ha organizzato il suo primo sciopero alle medie: «Si trattava della lotta per i termosifoni freddi contro mio zio sindaco» ha detto al Corriere. Al liceo è stato rappresentante dei fuorisede al Consiglio d’Istituto: lui che veniva dai paesini e che faceva grande fatica a raggiungere Caltanissetta.
Da giovane sperava di lasciare il piccolo comune di Milena, in cui abitava con la famiglia, salvo poi far di tutto, da grande, per ritornarci.
Perchè dimenticare le proprie origini è praticamente impossibile, anche per “Peppe il rosso”. «Ho sentito e sento il dovere di lavorare perchè il Sud sia un posto in cui è possibile tornare. Anzi, restare» dice oggi, 8 agosto, in un’intervista su Repubblica. Utopia? Quanti anni ci vorranno per invertire questa tendenza?
Il ministro ha scoperto l’amore per la politica all’indomani della strage di Capaci, nel 1992, quella che ha spinto migliaia di persone a diventare politici, magistrati, poliziotti o carabinieri. Idealista sì, ma anche molto pragmatico, raccontano persone che lo conoscono bene. Provenzano ha le idee molto chiare praticamente su tutto: favorevole ai matrimoni gay, alla liberalizzazione delle droghe leggere, non usa le app delle consegne a domicilio del cibo perchè sfruttano i rider.
Dalla laurea in Giurisprudenza presso l’università di Pisa al dottorato alla Scuola superiore Sant’Anna (passando per un Erasmus a Barcellona). Il curriculum di Giuseppe Provenzano è variegato: nel 2020 diventa ricercatore di Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, di cui dal 2016 è vicedirettore.
Il suo lavoro di ricerca si concentra soprattutto sulle politiche di coesione e sviluppo del Sud. Il suo “pallino”, insomma. Muove i primi passi nella Regione Siciliana come capo della segreteria dell’assessore per l’Economia Luca Bianchi (giunta Crocetta), poi diventa consulente del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando.
Sul fronte politico, invece, alla vigilia delle elezioni del 4 marzo 2018, “Peppe il rosso” rinuncia a un posto nelle liste del Pd, nel collegio plurinominale di Agrigento-Caltanissetta. Il motivo? Era stato piazzato in seconda posizione, sotto Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Totò.
«Nella mia provincia 21 circoli su 22 si sono pronunciati contro la candidatura della capolista. Non credevo più che nel Sud ci si dovesse impegnare per abolire l’ereditarietà delle cariche pubbliche» aveva tuonato senza mezzi termini.
Da qui la decisione di dire “no, grazie” al segretario Matteo Renzi. Un inizio non proprio scoppiettante. Infine la svolta con l’arrivo di Nicola Zingaretti che decide di puntare tutto su di lui fino a nominarlo responsabile del Lavoro del Pd.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
INVIATA LA LETTERA PER AVERE ACCESSO AL SUPPORTO PER LA CASSA INTEGRAZIONE
L’Italia chiede di accedere ai fondi Sure per 28,5 miliardi. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, e la Ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali, Nunzia Catalfo, hanno inviato a Bruxelles la lettera con cui il Governo italiano richiede formalmente l’attivazione di SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), lo strumento messo in campo dalla Commissione europea per mitigare i rischi di disoccupazione dovuti all’emergenza Covid19.
Nella missiva, indirizzata ai commissari Dombrovskis, Gentiloni, Schmit e Hahn, il Governo italiano chiede di poter accedere alle risorse di SURE nella misura di 28.492 milioni di euro, un importo giustificato dalle misure che sono state messe in campo per tutelare i redditi dei lavoratori durante la crisi come indicato nella tabella di segnalazione e nella valutazione provvisoria della loro ammissibilità da parte dei servizi competenti della Commissione.
“L’ economia italiana – scrivono Gualtieri e Catalfo – è stata gravemente colpita dalle misure di blocco introdotte dalla fine di febbraio, molto efficaci nel contenere la diffusione del virus ma con un forte impatto negativo sull’economia e sul sistema sociale. Una situazione che terrà la produzione al di sotto dei livelli normali per un po’ di tempo, con gravi rischi di disoccupazione. Di conseguenza — aggiungono i ministri – il governo sta cercando di prolungare le misure di sostegno che scadranno alla fine del mese”.
La lettera di richiesta di attivazione di SURE è accompagnata da un allegato che riassume sinteticamente le informazioni sulle spese effettive e programmate relative alle misure ammissibili al sostegno finanziario della Commissione, con particolare riferimento alle misure decise dal Governo nei decreti legge 18/2020, 27/2020 e 34/2020 volte a tutelare i dipendenti e i lavoratori autonomi.
Concludendo la lettera, Catalfo e Gualtieri sottolineano come la rapida attivazione di SURE rappresenti un esempio positivo di solidarietà tra gli Stati membri e a favore dei lavoratori europei e si impegnano a proseguire il dialogo sulla risposta dell’Italia alla crisi e sulle politiche appropriate “a sostegno dei lavoratori e del benessere della popolazione in generale”.
(da “Huffingtonpost“)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
PER CAPIRE E RISOLVERE I PROBLEMI BISOGNA STUDIARLI E SAPER ASCOLTARE, NON COME CERTI CAZZARI CHE PENSANO A TAGLIARE I FONDI A UN PAESE AMICO DOPO AVER FINANZIATO I CRIMINALI LIBICI
Le parole di Kais Saied durante la sua visita, domenica 2 agosto, alle due città costiere di Sfax e Mahdia.
“Durante le nostre discussioni con diversi funzionari europei sul tema dell’emigrazione irregolare, l’approccio da adottare è stato chiaro. Piuttosto che stanziare più fondi per migliorare solo le capacità materiali e le risorse umane delle guardie costiere, dovremmo pensare a eliminare alla radice le cause che spingono le persone a gettarsi in mare. A questo proposito, la parte europea, e soprattutto i funzionari italiani, si sono dimostrati comprensivi.
È tempo di riflettere sulle vere ragioni che hanno portato a questa emigrazione. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, è direttamente legata all’iniqua distribuzione della ricchezza e delle risorse a livello nazionale, ma anche internazionale per quanto riguarda la divisione globale del lavoro.
Molti ricordano ancora come i tunisini emigrarono regolarmente verso l’Europa nel secondo dopoguerra, come manodopera a basso costo, per aiutare a ricostruire le città europee allora completamente distrutte. All’inizio non ebbero difficoltà ad andare in alcuni di questi Paesi europei, in particolare la Francia.
Poi, poco a poco, si cominciarono a imporre restrizioni attraverso i visti, e le procedure per il permesso di soggiorno nell’area europea furono inasprite. All’inizio degli anni Duemila, si iniziò ad applicare la cosiddetta politica dell’immigrazione selettiva. Si accettavano solo coloro che si volevano accettare, soprattutto i talenti tunisini di cui si aveva bisogno.
Ricordiamo ancora l’ondata migratoria che ebbe luogo dopo il 14 gennaio 2011. In pochi giorni, più di 25.000 persone immigrarono in Italia. Non fu un caso. Oggi l’immigrazione irregolare o clandestina è stata creata da alcuni per motivi politici. E ne hanno la piena responsabilità .
Ho parlato con alcune persone che hanno tentato di immigrare in Italia ma non ci sono riuscite perchè la loro partenza da Sfax è stata intercettata. C’è chi ha incoraggiato queste persone a credere che il processo elettorale sia stato inutile e non abbia portato al raggiungimento degli obiettivi del popolo tunisino, sapendo che non ci è ancora stata data la possibilità di realizzare i molteplici progetti che sono stati preparati. Questi progetti sono rimasti bloccati per motivi politici.
Ci sono stati degli sforzi; sia per offrire opportunità di lavoro, opportunità che preservino la dignità del cittadino, sia per garantire il rispetto dei diritti umani naturali. Citerò, tra gli altri, la città medica aglabide di Kairouan, il treno ad alta velocità che collegherà il Paese da un lato all’altro, da Bizerte a Ben Guerdane, così come i progetti che si porteranno a termine a Sidi Bouzid.
È chiaro che alcune persone stanno cercando con tutti i mezzi di condurre l’esperienza tunisina al fallimento. Poi, in una posizione secondaria, ci sono le persone comuni. E voi conoscete quelli che stanno dietro la deportazione di queste persone.
Vorrei ringraziare le forze di sicurezza per gli sforzi che hanno compiuto. Ci sono quelli che hanno fatto affari a costo della vita dei tunisini.
Invece di affrontare le ragioni che hanno portato all’aggravarsi della situazione dei giovani tunisini, spingendoli a emigrare, l’approccio tradizionale si concentra ancora solo sul controllo delle frontiere e sulla caccia ai contrabbandieri.
Ci sono vittime, vittime della miseria e della povertà , che peggiorano di giorno in giorno, ma anche vittime della miseria politica che strumentalizza loro e la loro situazione.
Sono venuto qui oggi per dimostrare che lo Stato tunisino è presente e che le manovre che si stanno organizzando sono più che evidenti, soprattutto attraverso gli slogan ripetuti da alcuni di coloro che hanno raggiunto le coste italiane.
Detto questo, l’approccio incentrato sulla sicurezza non è nè il migliore nè sufficiente per sradicare l’immigrazione irregolare. L’ho già detto e lo dirò ancora oggi.
Vorrei ricordare che in un certo momento la migrazione era considerata normale. E c’erano soprattutto europei che immigravano dal nord verso i paesi del sud. Alcuni di loro sono ancora qui, in Tunisia, e sono tra i migliori nei loro rispettivi settori, che si tratti di artigianato, di manifatture, di costruzione o altro.
Negli ultimi anni, è arrivata la “Stagione delle migrazioni verso il Nord” (il nome si riferisce al famoso romanzo dello scrittore sudanese Tayeb Salih), che è stato il risultato, come ho detto, della divisione globale del lavoro, ma anche di fattori interni.
Gli uomini e le donne tunisine vogliono vivere con la loro dignità preservata non in questo stato di decomposizione voluto da coloro che cercano di infiltrarsi nelle istituzioni dello Stato.
Come ho detto, non si tratta solo della Guardia Costiera, o dell’inseguimento di quelle “barche della morte”, ma piuttosto di coloro che commerciano con la vita delle persone mettendole su queste barche. La vita umana è priva di valore dal loro punto di vista. Poco tempo fa, ho ispezionato una barca con una capacità originale di non più di 3 o 4 persone, ma mi hanno detto che potrebbe portare anche 20 persone quando è “al completo”. Persone disposte ad affrontare il viaggio, pur sapendo che all’estero saranno sfruttate e potranno lavorare solo nel mercato nero.
Chi si trova all’estero deve capire che gli approcci basati sulla sicurezza non sono sufficienti. Bisogna cercare le cause alla radice di tutta questa miseria e di queste barche della morte. La crescita asimmetrica e l’aumento della povertà non possono essere affrontate solo con un trattamento basato sulla sicurezza.
Tali approcci sono stati adottati in passato e si sono dimostrati incapaci di portare a un cambiamento di questa situazione. Abbiamo bisogno di un approccio diverso.
Queste persone hanno il diritto di vivere nel loro Paese d’origine in modo dignitoso, con il diritto alla vita garantito. Il mondo intero deve sapere che questa situazione precaria e questa povertà che i giovani stanno affrontando non può continuare.
Noi comprendiamo gli aspetti di sicurezza di questo fenomeno, ma anche i suoi aspetti economici e sociali.
Un’economia basata sul ruolo fondamentale dello Stato che offre opportunità di lavoro per raggiungere la dignità nazionale. Chi chiama i giovani a lasciare la Tunisia, e li fa ricorrere all’illusione e alla morte, è il vero criminale, non chi è stato ingannato da loro.
Ancora una volta, vi ringrazio per i vostri sforzi, e vi chiedo di raddoppiarli per rispondere alle richieste del popolo tunisino e per ridurre questo fenomeno, che non nasconde a nessuno le sue cause.
(da agenzie)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
“ECCO COSA FANNO GLI AMICI DI SALVINI E MELONI, QUESTA E’ L’ITALIA CHE SOGNANO”… E L’EUROPA DOVREBBE MANTENERE PAESI DOVE VENGONO NEGATI I DIRITTI CIVILI?
Violenta stretta repressiva del governo sovranista polacco contro gli attivisti Lgbt. Due di loro sono
stati prelevati a casa la scorsa sera a forza dalla polizia e posti in stato di fermo, mentre alcuni membri di spicco della comunità Lgbt sono stati condannati per direttissima a due mesi di prigione, senza la condizionale.
Tra gli arrestati “anche un italiano”. Ne dà notizia il Gay Center, chiedendo alla Farnesina di adoperarsi per la liberazione dell’attivista. “Ecco cosa fanno gli amici di estrema destra di Meloni e Salvini in Polonia”, dichiara in una nota Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center, dove si legge anche: “Questa è la libertà di pensiero che chiedono e l’italia che sognano: se così non è, condannino il governo polacco. L’Unione Europea reagisca con forza fermando ogni finanziamento (ad eccezione di quelli per il solo supporto sanitario per il covid) e attuando azioni restrittive contro il governo polacco e chieda la liberazione immediata degli attivisti”
Quando la folla ieri sera a Varsavia è scesa in piazza cercando di impedire gli arresti e circondando pacificamente le auto delle forze dell’ordine con i condannati a bordo, gli agenti sono intervenuti con estrema brutalità pestando con manganelli qualsiasi manifestante, anche donne e anziani. Almeno una cinquantina di pacifici dimostranti sono stati caricati con violenza sui furgoni della polizia e posti in stato di fermo.
“Nessuna tolleranza contro questi seguaci di un’ideologia perversa che violano la legge”, hanno detto i portavoce ufficiali del governo.
I condannati avevano pacificamente festeggiato in piazza il gay pride con piccoli assembramenti per paura del Covid. Poi, con un innocuo gesto provocatorio avevano appeso bandiere arcobaleno su alcuni monumenti
Una delle persone arrestate, una transessuale di nome Margo, è stata registrata e condannata con la sua originaria identità maschile, per umiliarla. Margo è stata accusata anche di aver danneggiato con dello spray un camioncino usato dai gruppi dell’ultradestra e clericali per la propaganda omofoba.
La Polonia, secondo i media indipendenti polacchi e secondo fonti dell’Unione europea, è diventata il Paese più omofobo d’Europa. Decine di città controllate dal partito sovranista al potere si sono dichiarate “zone libere dall’ideologia Lgbt”, spesso elogiate dalla Chiesa cattolica e dall’emittente cattolica integralista Radio Maryja.
Mesi fa uno dei principali vescovi polacchi aveva definito l’omosessualità “la peste arcobaleno, micidiale per la nazione come fu la peste rossa, il comunismo”.
Lo stesso presidente sovranista Andrzej Duda è riuscito a farsi rieleggere di misura al ballottaggio delle recenti presidenziali, sconfiggendo di pochi voti lo sfidante liberalconservatore europeista Rafal Trzaskowski, con una violenta campagna omofoba. Per gli Lgbt polacchi e ungheresi perseguitati dai regimi sovranisti quest’anno il luogo dove festeggiare liberamente il gay pride è stato la civilissima Praga. L’Europa ha punito la Polonia tagliando le sovvenzioni alle città polacche proclamatesi “lgbt-free”.
(da agenzie)
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Agosto 8th, 2020 Riccardo Fucile
NON CI SONO POLITICI MA CAPI FAZIONE, UNA DERIVA CHE STIAMO INIZIANDO A CONOSCERE BENE ANCHE IN ITALIA
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.
I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.
Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ‘900”.
In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.
In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.
Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perchè ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.
Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”
Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.
Ma attenzione, perchè qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese.
Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).
Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.
Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.
Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.
Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook.
Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.
Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
(da “Huffingtonpost”)
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