Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile “HANNO MANIFESTATO QUELLI CHE NON BATTONO LO SCONTRINO”
“Oggi sono arrivati sul conto corrente della Società del nostro ristorante i soldi del Decreto
Ristori con cinque giorni di anticipo sulla data prevista, non è elemosina, è ben più di quello che avrei guadagnato tenendo aperto il ristorante”. Come tutti i ristoratori, anche Dimitri Bianchi è stato colpito dalla crisi. Con alcuni soci ha aperto un ristorante a Torino, nel quartiere San Salvario, l’ultima “grissinopoli”, la versione torinese della “cotoletta alla milanese”, l’ha servita ormai due settimane fa, prima della chiusura dei locali voluta dal Governo.
Lui però non è sceso in piazza, sia per senso di responsabilità , “siamo in pandemia”, sia perchè prima di lamentarsi del governo ha voluto vederlo all’opera.
“La manifestazione che si è tenuta il 26 ottobre a Torino contro il Dpcm del 24 ottobre è stata indetta il giorno stesso, senza nemmeno dare il beneficio del dubbio al governo e vedere se i ristori promessi da Conte durante la diretta stampa sarebbero arrivati”. I ristori sono arrivati, in anticipo, e non sono pochi.
Perchè allora molti ristoratori si lamentano?
Se dichiari poco perchè magari batti pochi scontrini è chiaro che ricevi meno di quello che è l’economia reale del tuo ristorante. Ma è colpa tua, o meglio, è conseguenza delle tue scelte, non di quelle dello Stato. Poi ci sono persone che hanno aperto il locale quest’anno e non hanno uno storico del 2019, non so come vengono compensate le loro imprese. Ciò detto, la tassazione in Italia è da sempre troppo alta
Però se non si pagano le tasse lo Stato non può abbassare tasse.
Vero, è un cane che si morde la coda. Dovrebbe passare un’etica diversa, ma allo stesso tempo c’è bisogno che lo Stato ti incentivi a non evadere, dando modo all’imprenditore di vedere una reale corrispondenza tra ciò che dai e ciò che ricevi, tra ciò che lavori e ciò che ti torna indietro.
In un post via Facebook diventato virale lei scrive “mi sono un po’ vergognato del vittimismo, spesso pretestuoso, di tanti miei colleghi”. Qualche collega si è arrabbiato?
No, e mi ha sorpreso. Forse quello che ho scritto tocca le coscienze più di quanto le manifestazioni e le lamentele sui social facciano credere. Per settimane è sembrato che noi ristoratori fossimo i capri espiatori di questa situazione, ecco, no, serve un po’ di onestà intellettuale. Io non mi sento più trascurato di altri, in una situazione in cui tutti, o meglio, in tantissimi stiamo soffrendo. Se ci aggiungiamo il prolungamento della cassa integrazione per i dipendenti, la detrazione fiscale del 60% degli affitti di ottobre, novembre e dicembre e la sospensione dei contributi e delle rate di eventuali finanziamenti, direi che per noi lo Stato ha fatto abbastanza.
Quindi lei è contento che il Governo le abbia chiuso il ristorante.
Con il senno di poi, o meglio, con il bonifico del 10 novembre, sì. Per puro calcolo economico, perchè il fatturato sarebbe stato inferiore al ristoro, e per responsabilità civile. Diciamoci la verità , non è che dentro il ristorante il virus smette di esistere, era rischioso per i clienti e per noi che li serviamo, tocchiamo i loro piatti. Vista la curva epidemiologica, non si poteva che chiudere. E ripeto, ora serve aiutare i più deboli.
Chi sono i più deboli?
Banalmente, i miei dipendenti. Sono quattro, la loro cassa integrazione non raggiunge il 50% del loro stipendio, un cuoco con lavoro part-time che guadagnava 1000 euro al mese, ora ne prende 450. Onestamente, come ci vivi con 450 euro al mese? Sono loro i nuovi operai: baristi, cuochi, camerieri, professionisti della ristorazione e dello spettacolo.
(da Fanpage)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile FORZA ITALIA ACCUSA: “DA PRIMA GLI ITALIANI A PRIMA I FRANCESI”… SALVINI PRIMA FA VOTARE CONTRO IN COMMISSIONE, POI ASTENSIONE IN AULA DOPO TELEFONATA CON BERLUSCONI, ALTRIMENTI ADDIO MONOLOGHI SU RETE MEDIASET CON GIORNALISTI MAGGIORDOMI
Scontro tra Forza Italia e Lega, al Senato, sull’emendamento presentato dalla relatrice dem Valeria Valente per ‘proteggere’ la societa’ della famiglia Berlusconi da eventuali scalate.
La Lega di Matteo Salvini vota contro in commissione Affari Costituzionali. Ma, a fine giornata, il voto è ‘corretto’ dal partito di via Bellerio con l’astensione in Aula. L’emendamento è stato infine approvato da Palazzo Madama.
Ma il primo ‘No’ in Commissione era suonato un po’ come un avvertimento dei leghisti contro quello che vedevano come un inciucio ‘in nuce’ tra Forza Italia e i partiti di maggioranza.
Ricostruzioni che si sono alimentate dopo il nuovo appello alla collaborazione tra opposizione e maggioranza, lanciato in mattinata dallo stesso Berlusconi. Inevitabilmente, questo voto contrario in Commissione ha fatto infuriare i forzisti.
“La realtà supera la finzione – tuona il senatore di Forza Italia Andrea Cangini – e svela la vacuità di certa retorica politica. In commissione Affari costituzionali del Senato, la Lega ha votato contro la norma che difende le aziende nazionali di telecomunicazioni da scalate straniere (caso Mediaset-Vivendi). Matteo Salvini, evidentemente, ha cambiato slogan: da “prima gli italiani” a “prima i francesi”.
Rincara la dose Osvaldo Napoli, del direttivo di Forza Italia alla Camera. “Il voto contrario della Lega – attacca – come i suoi vecchi alleati grillini, sull’emendamento che tutela le telecomunicazioni italiane e difende Mediaset dalle mire ostili di Vivendi, rivela fino in fondo chi è il vero Salvini”.
Ma quando l’emendamento arriva in Aula per il voto, la posizione della Lega cambia, e si astiene. E per spiegare l’improvviso cambio di rotta, scende in campo direttamente il segretario leghista. “Non credo a un inciucio Conte-Berlusconi” dichiara Salvini. “Su questo emendamento” Mediaset-Vivendi, aggiunge, “ne ho parlato oggi con Berlusconi: ci tengo a ribadire che Mediaset va tutelata, perchè è una grande azienda italiana, come Telecom, ad esempio”.
I sovranisti si scoprono fautori del libero mercato internazionale. Dato che il loro voto non era determinante ha tutto l’aspetto di un avvertimento. Detto a nuora perchè suocera intenda, ma non troppo forte, perchè mica possono rinunciare a Rete 4. Diciamo una puntura di spillo, tanto per chiarire che non sarebbero contenti di scherzetti futuri.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile L’ESPONENTE DEL PARTITO DELLA MELONI COMPRO’ 15.000 VOTI PER 8.000 EURO DALLA ‘NDRANGHETA, E’ AI DOMICILIARI IN ATTESA DEL PROCESSO-
L’inchiesta Fenice sulle infiltrazioni della ‘Ndrangheta in Piemonte va avanti e sono arrivate
le prime condanne. Due degli imputati, Onofrio Garcea e Francesco Viterbo, uomini del clan calabrese dei Bonavota responsabili delle attività criminali nel territorio di Carmagnola, provincia di Torino, sono stati condannati rispettivamente a quattro anni e otto mesi e a sette anni e sette mesi per voto di scambio politico mafioso.
I due hanno ottenuto il processo con rito abbreviato che prevede la riduzione della pena di un terzo.
Lo scambio oggetto della condanna ha coinvolto l’ormai ex assessore della regione Piemonte di Fratelli d’Italia Roberto Rosso, anche lui accusato dello stesso reato, commesso in concorso con Garcea e Viterbo.
Rosso avrebbe infatti comprato un consistente pacchetto di voti durante l’ultima campagna per le elezioni regionali del 2019.
Secondo l’accusa i due boss avrebbero ottenuto circa 7.900 euro, versati in due diverse tranche, dall’ex assessore, arrestato lo scorso dicembre dalla guardia di finanza e che da luglio si trova agli arresti domiciliari.
Dopo l’arresto Fratelli d’Italia aveva preso le distanze dal politico cacciandolo dal partito
Altri otto imputati sono ancora in attesa di affrontare il dibattimento in aula a porte aperte e con rito ordinario.
Oltre a Roberto Rosso, difeso dall’avvocato Giorgio Piazzese, verrà processato anche l’imprenditore Mario Burlò, a capo della “OJ Solutions” e accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Burlò, molto attivo nel settore delle sponsorizzazioni sportive, è stato arrestato anche per frodi fiscali legate alla gestione dell’Auxilium Basket di Torino
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile DE LUCA HA SMARRITO LA RETORICA DECISIONISTA
Stamattina erano al Cardarelli e all’ospedale del mare. Ispettori del Ministero e Nas, bardati come degli astronauti nei reparti Covid. Per avere un’idea di quei posti andate a vedere il video di Fanpage, un pronto soccorso che pare Beirut. Ce li ha spediti il mite Speranza, dopo aver ricevuto decine di segnalazioni, parlamentari, sindacalisti, operatori sanitari per verificare i dati della Campania.
Bello schiaffo per De Luca, unica regione d’Italia per cui è stato necessario un supplemento di indagine, ma di questo parleremo tra un po’.
I numeri, prima i numeri. Si è capito che non tornano perchè la genialità italica è più forte di tutto, e anche quando si modernizza con l’algoritmo salva lo spazio dell’imbroglio.
A occhio, sennò non avrebbero mandato gli ispettori, quelli sulla sostenibilità del sistema sanitario sembrano arrotondati per eccesso, perchè magari i ventilatori ci sono pure, ma mancano i medici e non sono tutti attivati.
Quelli sui contagi, invece, per difetto perchè il sistema di tracciamento è completamente saltato. Ammesso che si riesca a mettere un punto fermo anche sulle terapie intensive che, secondo il piano sanitario regionale dell’anno scorso, dovevano essere 621, poi però nella fase calda dell’emergenza diventano trecento. E la settimana scorsa 590, compresi i famosi tre ospedali Covid di Napoli, Salerno e Caserta, annunciati con le fanfare in campagna elettorale e adesso funzionanti, ma a ranghi ridotti.
Ci vorrà un po’ di tempo per capire dove è la falla, se nel sistema di raccolta secondo parametri non corretti o nel sistema di trasmissione dei dati, dalle Asl all’unità di crisi e da lì all’Istituto superiore sanità .
In Liguria, di fronte ad anomalie del genere, la procura di Genova ha già aperto un fascicolo, altro copione molto italico. Poi la sentenza cromatica, se cioè la Campania resterà gialla o diventerà rossa. Figuriamoci, si sa come la pensa Speranza che misure più severe le avrebbe già estese su tutto il territorio nazionale perchè, come suole ripetere, “la tempesta sta arrivando”.
È uno che non ne fa mistero di come la pensa. Lo ha detto anche a De Luca nei giorni scorsi: “Sappi che se vuoi fare misure più restrittive, quelle hanno già la mia firma sotto”.
Epperò allo “sceriffo” è caduta la penna. In fondo, sarebbe stato logico: chiudo Napoli e Caserta, dove la situazione è fuori controllo, lascio aperte Salerno, Benevento e Avellino.
Un gioco da ragazzi per un decisionista. E invece no, scavalcato anche da De Magistris che ha annunciato una stretta alle vie di Napoli. .
Ha spento anche il canale facebook, quello dei suoi bombastici video, i lanciafiamme, le pastiere, la minaccia dei confini chiusi, l’esercito.
Si è chiuso nella sua Salerno, lasciando la trincea di via Santa Lucia, in fondo è anche comprensibile che a 71 anni accetti i consigli di chi ti suggerisce di non sfidare la sorte. Non è più lui, vittima esso stesso delle sue macchinazioni.
Perchè, in questa storia, c’è un prima e c’è un dopo. C’è la prima ondata, la narrazione del pugno di ferro, degli attributi sudisti di fronte ai disastri primaverili del nord, il plebiscito di un potere che nell’emergenza ha trovato un racconto e una maschera della sua essenza inefficiente e clientelare.
C’è poi l’onnipotenza del vincitore che per primo chiude le scuole ordina blocchi stradali e minaccia la chiusura totale. Lo dice, eccome. Per primo in Italia, il 9 ottobre; “Con mille contagi sarà lockdown”.
Lo ridice, nei giorni in cui il governo rende obbligatorie solo le mascherine e discetta di aperture e chiusure delle palestre. Segnatevi questa data, l’ultima da sceriffo, il 23 ottobre giorno in cui chiede al governo nazionale il lockdown e lo promette in Campania: “Chiudiamo tutto per 30-40 giorni. Non voglio vedere camion con le bare”. Punto, a capo.
Poi c’è un dopo. Sentitelo il giorno dei morti: “Serve muoversi in maniera unitaria; differenziazioni territoriali porterebbero a reazione diverse, in Campania non sarebbero capite e sono improponibili”.
Insomma, addio autonomia, esulta per il “giallo” e critica quegli “invidiosi” che vogliono trasformare la Campania in una zona rossa, con un certo spregio del pericolo nella misura in cui il pericolo si chiama coerenza.
Tra il prima e il dopo c’è la notte del 23 ottobre, la guerriglia urbana, i cassonetti rovesciati, la rabbia della gente comune, le infiltrazioni della camorra, teppisti da stadio, i gruppi di estrema destra. Raccontano che è rimasto molto colpito perchè la polizia più di tanto non è intervenuta e se fosse intervenuta forse sarebbe andata anche peggio.
Per farla breve, il timore che un nuovo lockdown la gente non lo regge. Qualche molotov e un po’ di fumo, è bastato poco, con buona pace della retorica sugli attributi. E sulla Campania, gialla, rossa o arancione, decideranno gli altri.
Che carnevale, il populismo.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile SI E’ RAGGIUNTA QUELLA SOGLIA CHE IN EUROPA E’ CONSIDERATA IL LIMITE PER UN SISTEMA FUORI CONTROLLO
Il conteggio è impietoso. Con i numeri di oggi, non solo l’Italia ha superato il milione di casi
dall’inizio della pandemia. Cosa ben più grave, infatti, è rappresentata dal numero degli attualmente positivi, la percentuale contagiati in Italia. Questi ultimi, infatti, sono — all’11 novembre 2020 — 613.358. Su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, significa che allo stato attuale delle cose l’1% dei cittadini italiani sono positivi al coronavirus.
Per comprendere quanto la situazione possa essere grave, da questo punto di vista, basta riprendere alcune dichiarazioni del presidente del Consiglio Superiore della Sanità , Franco Locatelli. Quest’ultimo aveva affermato — nel corso di un suo intervento pubblico lo scorso 18 ottobre (meno di un mese fa) — che la situazione in Italia sarebbe stata fuori controllo se l’1% della popolazione fosse stato contagiato.
In modo particolare, Locatelli aveva affermato: «Per poter dire che la pandemia è fuori controllo servono altri fattori, come l’occupazione dei posti letto e la capacità di contact tracing — sono state le sue parole a Mezz’ora in più, programma di Lucia Annunziata -. C’è una linea di pensiero che si sta sviluppando in ambito europeo, che dice che il sistema rischia di andare fuori controllo se c’è l’1% della popolazione infetta. In Italia significa 600mila persone». Questa percentuale dell’1%, ad esempio, è stata raggiunta anche in Francia, dove però sono state prese delle misure più omogenee sul territorio se si considerano le restrizioni.
Percentuale contagiati in Italia, perchè è preoccupante
Per quanto riguarda la sua affermazione, Locatelli non ha citato un particolare studio, piuttosto una sorta di indirizzo che si è recentemente affermato nell’ambito sanitario a livello europeo, soprattutto per quanto riguarda la gestione della pandemia. Con l’1% della popolazione contagiata, infatti, si verrebbe a creare una situazione di saturazione sia dei reparti ospedalieri, sia del sistema del tracciamento della pandemia. Proprio nella giornata di oggi, dunque, questo numero è stato raggiunto. Non si tratta, lo ripetiamo, di un indicatore ufficiale. Tuttavia, l’affermazione assume una certa forza proprio perchè pronunciata da un esponente di primo piano della sanità italiana, membro del comitato tecnico-scientifico.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile OLTRE IL 40% DEI POSTI LETTO OCCUPATO DA PAZIENTI COVID
Terapie intensive e ospedali in affanno, mentre l’Italia supera il milione di casi. Agli appelli si affiancano i dati, che appaiono impietosi: all’11 novembre 2020, più del 40% dei letti di terapia intensiva attualmente presenti su tutto il territorio nazionale è occupato da pazienti gravi Covid-19. Un sistema che va in affanno — l’allerta era fissata al 30% — perchè già da ora lascia solo il 60% dei posti disponibili a tutte le altre patologie, che non vanno in vacanza durante la pandemia.
Non solo: se come sottolineato dalla Fondazione Gimbe, il numero di ricoverati in rianimazione è da luglio — più o meno stabilmente — circa lo 0,5% delle persone attualmente positive in tutto il Paese, quel dato potrebbe quindi peggiorare sensibilmente con una curva dei contagi sempre più imponente. Sacrificando — come di fatto già è — la risposta del sistema non solo per i casi più gravi di persone positive al virus, ma anche per tutte le altre patologie.
Gli appelli al lockdown — parziale, totale, chirurgico, generalizzato, purchè sia lockdown — da parte del personale medico e infermieristico, ormai, non si contano già più.
La seconda ondata di pandemia ha visto, per una prima lunga fase, tanti asintomatici e positivi con un’età media bassa: il dato però aumenta di settimana in settimana, e, per quanto gli asintomatici restino costantemente la stragrande maggioranza, come a marzo, più di marzo ora pazienti anche giovani finiscono in ospedale e in rianimazione.
«Abbiamo raddoppiato i letti in terapia intensiva, immesso nei servizi sanitari oltre 36 mila tra medici e infermieri», rivendica in un’intervista oggi a La Stampa, il premier Giuseppe Conte.
Secondo i dati del ministero della Salute, infatti, all’inizio dell’emergenza l’Italia disponeva di 5.179 posti in terapia intensiva. Ma il raddoppio, per il momento, è di natura ancora potenziale. I posti reali, ad oggi, sono 7.596: 2.417 in più rispetto all’era pre-Covid. Già ad oggi, se ci fosse necessità , questo numero può arrivare a 9.518, perchè le Regioni hanno già i ventilatori (dismessi da sale operatorie, o convertendo sale operatorie di chirurgia differibile — quindi non urgenza, non oncologico — o ancora utilizzando i famosi ventilatori distribuiti dal commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri). Il totale delle disponibilità di rianimazione attivabili arriva a quota 11.307, con l’eventuale utilizzo totale di quei 1.789 ventilatori ancora a disposizione e non distribuiti da Arcuri: arrivando così al 105% in più rispetto al livello pre-emergenziale.
«Sulle terapie intensive siamo messi molto meglio di aprile», diceva Franco Locatelli il 24 ottobre scorso in un’intervista a il Fatto Quotidiano.
«Quando si arriverà a una soglia del 30% di occupazione dei posti letto a disposizione salirà l’allerta, adesso siamo al 10—15% e comunque l’attenzione è alta», spiegava allora il presidente del Consiglio superiore di sanità . Ecco, quella soglia — al dato di oggi, 11 novembre, con 3.081 italiani e italiane in rianimazione — sembra essere ampiamente superata: sono occupati oltre il 40,5% dei 7.596 posti letto disponibili in tutta Italia in rianimazione (secondo l’ultimo report pubblicato sul sito di Invitalia e risalente al 5 novembre per il punto settimanale sull’emergenza Covid del Commissario Straordinario). Ovvero il 31,2% dei 9518 letti potenzialmente disponibili, e il 26,3% di quelli complessivamente attivabili. Numeri che rappresentano stime, anche a causa della mancanza di dati disaggregati e di omogeneità nelle variabili comunicate dalle Regioni.
Se poi calcoliamo sulla base dei posti letto potenzialmente disponibili, sempre secondo l’ufficio del commissario straordinario (ovvero 9.518), la percentuale di occupazione ad oggi scende al 32%. Se, ancora, ripetiamo lo stesso calcolo invece per gli 11.307 letti complessivamente attivabili secondo i dati di Invitalia, il dato scende ancora, al 27%. In tutti e tre i casi, la soglia del 30% è se non raggiunta e superata, quantomeno a pochi passi
E per dare un’idea della velocità di crescita, si pensi che al 5 novembre, data di pubblicazione dell’ultimo report di Invitalia, i pazienti ricoverati in TI risultano 2.391, ovvero il 31,5% del totale dei 7.596 posti letto in rianimazione attualmente presenti, il 25% dei potenzialmente disponibili, il 21% dei complessivamente attivabili
Il futuro
«In tutto il Paese la crescita del contagio è molto forte, e in alcune regioni raggiunge anche i 1.000 casi per 100 mila abitanti», diceva ieri il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro in conferenza stampa presentando il monitoraggio dei dati della cabina di regia per il periodo dal 26 ottobre al 1° novembre: una fotografia che quindi a oggi rischia di essere già superata dai fatti. «Anche la curva di posti letto e terapie intensive sta crescendo rapidamente e si avvicina ai livelli critici. In alcune regioni sono già stati superati».
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile “IN ITALIA ESISTONO ANCORA LEGGI RAZZISTE”
Circa il 60% dei medici stranieri operativi in Italia lavora nel settore privato. «Vergognoso
che senza cittadinanza non si possano fare concorsi pubblici», ha spiegato a Open il presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia
L’emergenza sanitaria non ferma le politiche di esclusione degli stranieri. È delle ultime ore la notizia dell’avviso di reclutamento per il personale sanitario bandito della Regione Piemonte che prevede come requisito di domanda la «cittadinanza italiana o di uno degli stati membri dell’Unione europea».
Una clausola inserita nonostante la scarsità di personale e la lezione della prima ondata: proprio a Torino (ma anche a Crema), decine di medici cubani erano venuti in soccorso alla sanità italiana, per salvare cittadini e ospedali messi in ginocchio dall’inaspettato Coronavirus. Ma quello del Piemonte non è un caso isolato: in tutta Italia, a rimanere fuori dalla professione pubblica sono migliaia di medici e infermieri extraeuropei.
Ad aprile, il primo ministro Giuseppe Conte aveva inserito una clausola nel decreto Cura Italia (l’articolo 13), che apriva alla possibilità per i medici senza cittadinanza di essere reclutati nella sanità per aiutare durante l’emergenza.
Quello che è successo, però, è che la normativa non è mai stata applicata. «Il giorno dopo l’approvazione del decreto, il governo ha fatto un appello per il volontariato», ha spiegato il dottor Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi) e Consigliere dell’ordine dei medici di Roma dal 2002. «Hanno risposto tantissimi medici e l’articolo 13 è rimasto semplice inchiostro su carta».
Nè le regioni di sinistra nè quelle di destra hanno trovato una soluzione a questo problema che va avanti da sempre, ha spiegato il dottor Aodi. Oltre al Piemonte, a far discutere è stato recentemente anche il caso del Veneto, che in queste settimane di nuova ondata sta pensando di sopperire alla mancanza di organico chiamando professionisti dalla Romania. «È una cosa vergognosa», dice il presidente. «Abbiamo un esercito qualificato che viene messo da parte e resta invisibile. La maggioranza di noi si è laureata in Italia, ha già il titolo riconosciuto. Per riconoscere formalmente quello dei medici dalla Romania servirebbe almeno un anno».
In un congresso tenutosi il mese scorso, l’Amsi aveva fornito cifre eloquenti: sul territorio nazionale ci sono 77.500 professionisti della sanità di origine straniera, tra cui 22 mila medici e 38 mila infermieri. Tra i medici, solo 5 mila lavorano nel pubblico, oltre 15 mila sono assunti nel privato (e, nelle cliniche, spesso sottopagati) e circa 2 mila lavorano da liberi professionisti. Quasi il 60% di loro, dunque, lavora fuori dalla sanità pubblica.
La questione è una: pur essendo iscritti all’albo e pur pagando le tasse, senza la cittadinanza in tasca gli è precluso qualsiasi accesso ai concorsi pubblici. Per il dottor Aodi, si tratta di una vera e propria offesa verso una categoria di lavoratori: «In Italia esistono ancora leggi razziste. È un’offesa verso chi ha lasciato i proprio Paesi per venire a lavorare qui».
Con la Legge Martelli del 1990, è stata data ai medici extraeuropei operativi in Italia da prima del 1989 la possibilità di iscriversi all’ordine professionale. Lo stesso Aodi, spiega, è in Italia grazie a questa normativa. Ma ora, insiste, è il momento di fare un altro passo avanti: «Chiediamo che chi ha un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni in Italia sia ammesso ai concorsi pubblici — afferma il presidente — e che dopo averlo passato possa iniziare il suo percorso verso la cittadinanza. Potremmo fare la differenza in questi mesi di emergenza, e non solo».
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile LA FOTO DELLA TRAGEDIA… TRA I NAUFRAGHI ANCHE UN NEONATO E VARI BAMBINI
Un gommone che affonda, centinaia di migranti che finiscono in acqua. Tra loro anche alcuni bambini e un neonato, adesso in salvo.
E i volontari della Ong spagnola Open Arms, l’unica ormai non sotto sequestro, che si buttano in mare cercando di salvare quante più vite possibili. È di cinque morti il bilancio ancora provvisorio della tragedia.
Sono foto e immagini drammatiche quelle che arrivano dal Mediterraneo. “Naufragio. I nostri soccorritori sono in acqua tentando di recuperare circa 100 persone tra cui bambini e un neonato. L’imbarcazione ha ceduto, è quello che accade quando si abbandonano per giorni le persone in mare. Continuiamo”, scrive su Twitter Open arms
“Ha ceduto il fondo del gommone su cui tutte queste persone viaggiavano da almeno due giorni – racconta Riccaro Gatti, presidente di Open Arms – noi abbiamo fatto il possibile ma siamo da soli con i nostri mezzi limitati, due lance rapide e sei soccorritori. Ci saranno sicuramente altri morti, quanti non lo sappiamo. Questo dimostra quanto è necessaria un’operazione congiunta a livello europeo di soccorso da parte dei governi e corridoi umanitari per ingressi sicuri”.
“Tutti i superstiti sono a bordo”, fa sapere la Ong, spiegando che sei persone, tra cui un neonato e un ragazzo, hanno bisogno di essere evacuate con urgenza. Una volta concluso il conteggio dei migranti, Open Arms chiederà alle autorità italiane il recupero immediato di queste sei persone e l’autorizzazione allo sbarco
Il barcone era alla deriva da ieri ed era stato identificato da un aereo di Frontex, che aveva quindi fornito la posizione alla nave Ong. Poco dopo la localizzazione, spiega Open Arms, il fondo dello scafo ha ceduto, facendo finire in mare tutti gli occupanti.
Secondo il centralino Alarm Phone, ci sarebbero ancora barche a rischio in mare con a bordo 275 migranti. Venti sono ancora in mare dopo l’allerta lanciata ventiquattro ore fa. “Abbiamo perso contatti. Crediamo siano ancora in mare”, aggiunge l’organizzazione. E per due imbarcazioni con 75 e 100 persone in acque Sar di Malta “nessun soccorso in vista”.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2020 Riccardo Fucile PER IL PRESIDENTE ANPAL IL 25% DEI BENEFICIARI HA TROVATO LAVORO, MA IN REALTA’ E’ SOLO IL 14%
I numeri, si sa, sono la cosa più interpretabile del mondo. E per questo chi deve dimostrare
di aver raggiunto dei risultati in qualsiasi campo dello scibile umano, di solito li allunga, li allarga o li restringe e rimpicciolisce (in altri termini li manipola) come è più utile alla causa.
Non fa eccezione alla regola Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal – l’Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro -, chiamato due anni fa dall’allora vicepremier M5s Di Maio per mettere in piedi la rete dei navigator, quei funzionari pubblici che avrebbero dovuto trovare lavoro a tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza, così da far diventare una misura solamente assistenziale in una volta a trovare impiego ai disoccupati.
Il professore del Mississippi si è presentato in un’audizione alla commissione Lavoro della Camera sbandierando dati molto positivi – dal suo punto di vista – sul numero di percettori del reddito di cittadinanza che hanno trovato lavoro.
Per Parisi infatti “al 31 ottobre 2020, su un totale di 1.369.779 beneficiari tenuti alla sottoscrizione di un Patto per il Lavoro, ben 352.068 hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivamente alla domanda del beneficio. Si tratta del 25,7%. Un’incidenza percentuale che in ben 15 Regioni supera il 30%”. Insomma, 1 su 4 è riuscito nell’impresa di trovare lavoro. Un risultato che ha scatenato l’entusiasmo del deputato pentastellato Claudio Cominardi: “Cosa dobbiamo dedurne? Che anche nella grave crisi generata dalla pandemia questo strumento di sostegno al reddito ha avuto un ruolo e un’importanza incredibili, offrendo un salvagente contro la povertà e stimolando decine di migliaia di persone nella ricerca di una nuova occupazione”.
E che ha spinto lo stesso Parisi a chiedere addirittura una proroga, un potenziamento e un ampliamento dei navigator.
Ora, se non ci fermiamo alle dichiarazioni propagandistiche e invece analizziamo più nel dettaglio i numeri, ci accorgiamo che non è tutto oro quel che luccica.
Intanto, perchè già a questo livello superficiale di approfondimento possiamo dire, rovesciando la propaganda, che 3 su 4 beneficiari hanno ricevuto l’assegno senza mai aver lavorato nemmeno per un giorno. Stiamo parlando di più di un milione di persone.
Se però andiamo più in profondità , si nota subito come l’entusiasmo di Parisi sia quanto meno discutibile. Prima di tutto perchè il prof italo-americano è costretto a specificare che i beneficiari con un rapporto di lavoro ancora attivo al 31 ottobre sono solo 192.851 ovvero molto di meno rispetto al totale di 352mila strombazzato in precedenza. Già così la percentuale di lavoratori scende dal 25% a un più modesto 14%.
Perchè scende? Perchè sostanzialmente la maggior parte di questi contratti sono a termine e quindi molti di questi non sono stati rinnovati. Ce lo conferma lo stesso Parisi snocciolando i dati dell’Anpal.
“Il 15,4% dei beneficiari ha stipulato un contratto a tempo indeterminato, il 4,1% un contratto di apprendistato – ha precisato il presidente -. Per il 65% dei soggetti invece si è registrato un contratto a tempo determinato. Con riferimento ai contratti a tempo determinato e di collaborazione, il 69,8% ha una durata inferiore ai 6 mesi, il 20,9% tra i 7 ed i 12 mesi ed una quota del 9,3% supera la soglia dell’anno”.
Avete capito bene: la maggior parte dei contratti è a termine e di questi la quasi totalità è inferiore ai 6 mesi.
La stragrande maggioranza del lavoro creato dal “sistema Parisi” è di brevissimo termine. Così il rapporto fra quanto costa il Reddito di cittadinanza allo Stato (più di 6 miliardi l’anno) e quanto e quale lavoro produce resta in ampio territorio negativo.
Così come negativo resta sicuramente il giudizio sull’operato di Parisi e della “sua” Anpal. Del resto è lui stesso a non avere le idee chiare su come migliorare il lavoro dell’Agenzia da lui guidata. “Sinceramente non ho una risposta precisa su come può essere migliorata l’efficienza dell’Anpal, è un problema e bisogna risolverlo. È anche una decisione politica se tenerla o chiuderla”, confessa con estremo candore ai deputati della commissione.
Una risposta che fa da perfetta cornice alla manipolazione dei numeri spiegata in precedenza. E che sarebbe una perfetta battuta per un film: Totò, Mimmo e i navigator.
(da “Huffingtonpost”)
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