Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
OGNI PARTITO HA IL SUO CAVALLO E GIRA LA GIOSTRA, CON IL VOTO ALLE PORTE… L’UNICO CHE NE ESCE BENE E’ IL FONDATORE DI EMERGENCY
L’assunto da cui bisogna partire per raccontare la pasticciata storia che ha coinvolto Gino Strada e la
sanità calabrese è semplice: nonostante la studiata ambiguità e i pasticci comunicativi del Governo, nessuno ha mai chiesto al fondatore di Emergency di assumere il ruolo di commissario in Calabria.
Fatta questa doverosa premessa, ricostruire la vicenda degli ultimi giorni è utile per raccontare il livello di improvvisazione, se non di schizofrenia, con il quale il Governo gestisce dossier spesso vitali per il futuro del Paese, in una situazione di piena emergenza come quella determinata dal Covid.
Il nome di Strada associato alla difficile situazione della Regione punta dello Stivale viene da lontano. Bisogna risalire a marzo, quando nel pieno deflagrare della prima ondata del virus viene fatto a Jole Santelli. È un dettaglio fondamentale per un motivo: erano mesi che l’esecutivo sapeva che la situazione in Calabria era grave, ed era da almeno sei mesi che i segnali che il commissariamento della sanità locale non stava funzionando. Per questo inizia a girare il nome del medico, nome avanzato da una parte della sinistra locale come suggestione, per sparigliare il campo in un quadro che già allora faceva segnalare immobilismo e affanno.
Non se ne fece nulla, e non solo perchè la compianta governatrice di centrodestra non trovò utile percorrere quella strada, ma soprattutto per un veto che veniva da Roma. Saverio Cotticelli, il primo dei tre commissari che si sono schiantati su questa vicenda, era sì stato nominato dall’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria, ma su suggerimento di Giulia Grillo e di Pierpaolo Sileri, all’epoca rispettivamente ministra della Salute e influente senatore del Movimento 5 stelle, con grande apprezzamento di Nicola Morra, l’uomo forte del grillismo in una Regione in cui forte non è mai stato. Porte chiuse a Strada, difesa del proprio uomo nel suo lavoro di risanamento del deficit della sanità regionale e contropotere di fatto in una Regione tra quelle che storicamente meno hanno accolto a braccia aperte il grillismo fra le grandi del Sud.
Cotticelli sbatte sull’ormai famigerata intervista a Titolo V, trasmissione di RaiTre, e Giuseppe Conte ne chiede stentoreamente le dimissioni, che puntualmente arrivano nel giro di ventiquattro ore. Quello che sembrava un pasticcio non era altro che un antipasto del caos che ne è seguito. I 5 stelle iniziano a fare a gara per scaricare il malcapitato, Sileri arriva a dire che la Calabria è stata dimenticata dal Governo, da un pulpito dal quale forse sarebbe stato meglio sentire il silenzio, e Cotticelli va in Parlamento a essere audito per levarsi un paio di macigni dalle scarpe: “Ho lavorato in profonda solitudine, le interlocuzioni con il Ministero sono state un punto dolente”.
La politica, quella che il Governo vuole fuori dalle nomine della sanità , si rimette in moto. Nella prossima primavera ci sono le elezioni, Covid permettendo, e nessuno vuole rimanere fuori dalla partita di potere che si gioca sull’imminente voto. Ovviamente della scelta del successore si interessa il ministro competente, Roberto Speranza. Che individua in Giuseppe Zuccatelli l’uomo giusto. Il curriculum gli dà ragione: già presidente dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), nel corso degli anni ha avuto diversi incarichi manageriali oltre che nella sua Regione di origine, l’Emilia Romagna, anche in Abruzzo, in Campania e nelle Marche fino ad arrivare lo scorso anno proprio in Calabria per guidare da commissario straordinario l’azienda ospedaliera Pugliese Ciaccio e l’azienda ospedaliera universitaria Mater Domini di Catanzaro, incarichi che lo hanno messo a contatto con Cotticelli. A Catanzaro raccontano che Zuccatelli e l’ex commissario non si sono mai presi, e che il manager ne abbia spesso criticato l’azione, o meglio l’inazione. Quale sostituto migliore per il posto che si era appena liberato?
Abbastanza sorprendentemente, Pier Luigi Bersani è intervenuto martedì sera sulla vicenda calabrese in questi termini: “La persona giusta era Zuccatelli, ma ha pagato per una sciocchezza detta mesi fa e che è saltata fuori al momento giusto”. L’ex segretario del Pd si riferisce ovviamente allo sgangherato video sulle mascherine che ha fatto durare l’incarico del manager poco più che una manciata di ore. Ma perchè la difesa d’ufficio di Bersani? Perchè, e non è un mistero, Zuccatelli è un tecnico d’area che ha sempre orbitato nel bagaglio di relazioni di Liberi e Uguali, il partito in cui milita l’ex segretario del Pd come anche il ministro della Salute, che lo aveva scelto quale uomo di fiducia con una certa esperienza del territorio, sperando di uscire dal pantano.
In molti, a sinistra, vedono nel timing dell’uscita del filmato, risalente allo scorso marzo, una manina politica. La manina dei 5 stelle. I quali, quando è stato nominato Zuccatelli, sono andati su tutte le furie, inchiodando lo stesso Sileri a una lunga videoconferenza dalla quale solo con difficoltà il viceministro si è liberato dal fuoco di fila dei parlamentari calabresi con il più classico dei “vi farò sapere”.
Ecco che a Palazzo incomincia a riaffiorare il nome di Strada. Lo iniziano a pronunciare alcuni parlamentari pentastellati, proprio quelli che a marzo l’avevano osteggiato, come l’uovo di Colombo per risolvere la situazione. La storia dei rapporti tra il fondatore di Emergency e i 5 stelle è turbolenta. All’inizio è un grande amore, più che altro unilaterale, allorchè nel 2013 i grillini appena sbarcati a Roma dovettero costruire in tutta fretta un rabberciato pantheon di viventi da far votare agli attivisti come presidente della Repubblica, personalità con una storia profonda e disparata, infilati a forza in un guazzabuglio online dove figuravano Romano Prodi, Milena Gabanelli e Stefano Rodotà . La spuntò quest’ultimo, calabrese anch’egli, ma in pochi ricordano che in quelle consultazioni online il giurista arrivò terzo, e ottenne quell’ormai mitologica candidatura per il rifiuto prima della Gabanelli, quindi di Strada, che si cavò d’impaccio con un garbato “dopo di me c’è una persona che stimo”. Passano sei anni, ed ecco che il fondatore di Emergency venne scaraventato fuori da quel pantheon dopo che attaccò con un certo garbo il Governo gialloverde: “Quando si è governati da una banda dove la metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni non c’è una grande prospettiva per il Paese”. Carlo Sibilia, attuale viceministro M5s dell’Interno, non la prese benissimo: “Un grazie infinito a Gino Strada per il rispetto mostrato nei confronti di milioni di italiani che hanno votato per le forze politiche che ora governano l’Italia. Ringrazio tutti quelli che aiutano le persone in difficoltà senza mai cercare la visibilità ”.
Allora era ironia, oggi proprio a quella visibilità il Governo, e i 5 stelle in particolare, si sono attaccati come ultima spiaggia nel casino calabrese. I 5 stelle iniziano a far circolare il nome per stoppare le mire di Pd e Leu su quella casella, Giuseppe Conte vede una possibilità di uscire con un colpo di teatro dal pantano. Domenica scorsa la prima telefonata, una richiesta di disponibilità per dare una mano sul versante dei tendoni del triage, dei Covid hotel, degli ospedali da campo. Strada non chiude, risponde con un “parliamone”, si avvia il filo di un discorso che non decolla. Passano i giorni e l’accordo non si concretizza, raccontano che dalle parti di Strada si registra un sostanziale silenzio radio da parte dell’esecutivo per giorni.
Si diffonde la voce di un “tandem”, una formula dai contorni indefiniti, ma che sostanzialmente prevederebbe un tecnico quale commissario ad acta per il risanamento del deficit, a occuparsi di conti e burocrazia, e Strada con un ruolo para-commissariale ad operare sul campo. La voce non viene smentita, anzi, il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia lo scorso 12 novembre va a Porta a Porta e spiega che “Strada è già in Calabria”. Il fondatore di Emergency non la prende bene, intuisce che magari l’idea iniziale di un suo coinvolgimento era sincera, ma si sente usato come foglia di fico, come grande nome da spendere per coprire il caos sulla Calabria, che nel frattempo è quasi una settimana che non ha un commissario. Fatto di non trascurabile importanza, perchè il reggente Nino Spirlì, leghista, è in carica per gli affari correnti, è politicamente debole, e per la gestione di una situazione ospedaliera al collasso da quella figura non si può prescindere. Fonti a lui vicine spiegano che decide di non intervenire sulla speculazione mediatica nei suoi confronti, per non alimentare la più classica delle situazioni gravi ma non serie su cui si sta speculando, anche a suo danno. “Un atto di generosità ”, lo definiscono. E spiegano anche che in quei giorni una sua risposta non arrivava non per titubanze o incertezze, ma perchè la domanda non era stata posta. Tradotto: dal Governo non era arrivata alcuna proposta.
“È colpa mia, ma i ministri sapevano”. Partiamo dalla fine nel raccontare l’ultimo capitolo di questa incredibile storia: il mea culpa del premier sulla scelta di Eugenio Gaudio come commissario in Calabria e sulla sua rinuncia lampo. L’ex rettore della Sapienza parla di fuga di notizie, di una moglie che non voleva trasferirsi a Catanzaro, insomma prova a rabberciare una spiegazione per essere stato l’ennesimo che nel giro di ventiquattr’ore prima diventa il salvatore della patria per poi essere scaricato, o ritirarsi, vedete voi.
Appena arrivata la notizia della nomina parte la girandola di articoli: Gaudio è indagato a Catania in un’inchiesta sui concorsi in università . Palazzo Chigi si affretta a mettere una toppa, spiega che la Procura propende per l’archiviazione, fa filtrare un garantismo inconsueto per coloro che hanno fatto del tintinnio delle manette una cifra qualificante del proprio agire politico. Nel Palazzo esplodono i veleni. E sono ancora una volta i 5 stelle a mettersi di traverso, pensando di averla scampata dopo la giubilazione di Zuccatelli, considerando Gaudio una figura ingombrante, con una lunga e solida ramificazione di contatti, ma non con loro. È una fonte pentastellata a far notare un dato curioso. Appena tre giorni prima l’individuazione del magnifico rettore uscente, il fratello, Carlo, era stato designato dal Consiglio dei ministri su indicazione di Teresa Bellanova quale Presidente del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. Un incarico che dovrà passare per il parere obbligatorio ma non vincolante delle competenti commissioni parlamentari. Parere sul quale sono immediatamente partite speculazioni nei corridoi di Palazzo, così come è iniziato ad affiorare nelle chat pentastellate un vecchio articolo dell’Espresso di sei anni fa: “La Sapienza, lo strano caso del dottorato vinto dal figlio del Rettore. Con il bianchetto”, testatina scandali.
In concomitanza con l’uscita del nome di Gaudio, Strada, che in quel momento non aveva ancora ricevuto alcuna proposta da parte dell’esecutivo, rompe il silenzio. E lo fa in modo tranciante: “Apprendo dai media che ci sarebbe un tandem Gaudio-Strada a guidare la sanità in Calabria. Questo tandem semplicemente non esiste”. Lasciando quantomeno intuire che essere accomunato all’ex rettore era una cosa che non lo aggradava, così come confermano alcune fonti ad Huffpost. Gaudio, accerchiato, molla, Conte fa mea culpa, chiamando i ministri a una corresponsabilità su tutta la vicenda.
L’esecutivo si orienta sul quarto nome, sperando che sia quello giusto. Federico D’Andrea è uno stimato manager che da anni lavora a Milano e dintorni, con buona considerazione bipartisan, un passato nella Guardia di Finanza, anni nei quali è stato tra gli investigatori di punta del pool Mani pulite, stimato da Francesco Saverio Borrelli e Gherardo Colombo. Un profilo radicalmente diverso da quelli che lo hanno preceduto, forse la volta buona in questa disastrata vicenda.
Il Governo, ieri, infine convoca Strada, in videoconferenza, dall’altra parte dello schermo Boccia e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. L’accordo si chiude in fretta, triage, Covid hotel e ospedali da campo la mission di Emergency in Calabria. Strada, d’altronde, ha sempre avuto le idee chiare: “Il mio compito è quello di assistere italiani e stranieri che oggi si trovano in difficoltà perchè lo Stato non garantisce a tutti il diritto alla cura come pure è sancito dalla Costituzione. Il mio lavoro, il lavoro di Emergency, è questo. E penso che il modo in cui possiamo essere più utili a questo Paese, oggi, sia continuare a farlo”. Con queste parole disse no grazie ai 5 stelle che gli offrivano il Quirinale, con parole che immaginiamo simili ha detto sì al governo, mettendo un punto a questa assurda telenovela.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
VA MALE L’INCONTRO TRA IL LEGHISTA E IL CAPO DI CONFINDUSTRIA: BONOMI NON AMA I SOVRANISTI, E’ CONVINTO EUROPEISTA E A FAVORE DEL MES… E PREFERISCE PARLARE CON ZAIA E GIORGETTI CHE CON SALVINI
Doveva restare un incontro riservato perchè pensato come una riunione di routine, una delle tante che Confindustria tiene solitamente con tutti i partiti. Un momento di confronto, uno scambio di idee, tra l’altro nell’ambito di quel Patto per l’Italia che Carlo Bonomi ha rilanciato appena quattro giorni fa nel confronto in video con il segretario della Cgil Maurizio Landini.
E invece poco prima di mezzogiorno, la Lega decide di rendere noto alla stampa l’incontro avvenuto in mattinata tra Matteo Salvini, accompagnato da una delegazione del partito capeggiata da Claudio Borghi, e i vertici dell’associazione degli industriali. Parte così il tentativo del leader del Carroccio di tirare Bonomi nel fronte anti Governo.
Salvini e i suoi fedelissimi di partito arrivano al quartiere generale di Confindustria di buon mattino. Sul tavolo intorno a cui siedono Bonomi e il direttore generale Francesca Mariotti, i rappresentanti della Lega mettono una serie di slide e di documenti che contengono grafici e soluzioni per provare a dare una sterzata a un’economia tramortita dall’emergenza Covid. Si parla di posti di lavoro, di produzione industriale, ma soprattutto di manovra. E non è un caso se l’accento dei leghisti finisce proprio sulla legge di bilancio. Perchè è su questo fronte che gli industriali, a tutti i livelli – dal cervellone di viale dell’Astronomia alle territoriali – hanno ritirato fuori una forte contrarietà nei confronti delle misure adottate dal Governo.
Dopo un mese di sostanziale calma, negli ultimi giorni la temperatura dei rapporti tra Confindustria e l’esecutivo è tornata a surriscaldarsi. Dopo averla definita una manovra “ancora di emergenza, e non di ripartenza” il 20 ottobre, Bonomi è tornato a parlare del provvedimento una settimana fa, ponendo l’accento sulla necessità di non spegnere la discussione in Parlamento con tempi ultra contingentati.
E appena martedì Marco Bonometti, il presidente di Confindustria Lombardia, è andato giù duro affermando che nella manovra ci sono “troppe mancette” e che così “non c’è crescita”. Bonometti non è uno dei tanti presidenti delle articolazioni regionali di Confindustria. È la voce di una delle quattro Regioni del Nord che conta di più in termini di Pil: insieme al Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, tira su il 45% della ricchezza del Paese.
Da quando è scoppiata la pandemia, il fronte confindustriale del Nord è solitamente più acceso nei toni e più intransigente nelle rivendicazioni perchè il virus ha messo in ginocchio soprattutto quell’area del Paese, anche con la seconda ondata. Al di là delle differenze, l’atteggiamento di Confindustria nei confronti del Governo è tornato guardingo. Non oltranzista anche perchè il momento delicato che sta attraversando l’Italia spinge l’associazione degli industriali a cercare di tirare tutti – dai sindacati ai partiti di opposizione – dentro a un progetto di unità nazionale.
Al tavolo del confronto, la manovra è il tema che più avvicina Confindustria e la Lega, ma è un punto di contatto che non ha la forza di generare un asse in chiave anti Governo. Tutt’altro. Dopo l’incontro Salvini festeggia l’esito. Prima con un comunicato, poi in tv. Ed è in questa seconda occasione che tenta di tirare Bonomi sul carro dell’opposizione dura contro Giuseppe Conte.
Tutta la ricostruzione fatta in tv è mirata a questo obiettivo. Con queste parole: “Quello che mi ha colpito di più dell’incontro con Bonomi è il fatto che insieme stiamo lavorando per l’Italia che verrà , mentre l’impressione che molti mi danno di Conte e del suo Governo è di navigare a vista”.
E ancora, rivolgendosi al conduttore di Ore 14 su Rai2: “Ma le pare normale che il presidente degli industriali che lunedì deve intervenire in Parlamento sulla manovra ad oggi, che è mercoledì, ancora non ha il testo? Siamo sulla stessa lunghezza d’onda con gli industriali, sono sicuro che lo saremo anche con i commercianti e gli artigiani”.
Dall’ultima frase si evince anche un altro tentativo del leader della Lega, quello cioè di intercettare il malcontento delle categorie danneggiate dalle restrizioni e dalle chiusure. Per tirarle dalla sua, sempre in ottica di attacco al Governo.
Alitalia.
Il tentativo di Salvini di stringere Confindustria su una posizione di assalto frontale al Governo però non riesce. Troppi elementi dividono il leader della Lega e l’associazione degli industriali. Non sono i tempi del Papeete quando Bonomi era presidente di Assolombarda e accusava Salvini di essere inadeguato perchè – disse allora il leader degli industriali – “non si guida un Paese da una spiaggia”. Ma il fatto che i toni si siano fatti più concilianti non porta al fronte comune.
Per Confindustria, infatti, Salvini resta sempre Salvini, mentre gli industriali sono contro il sovranismo, per l’Europa senza se e senza ma, a favore del Mes.
La Lega che Confindustria può e vuole tenere dentro le sue interlocuzioni è quella dell’ala più morbida, dei governatori come Luca Zaia, quella che ha un approccio radicalmente diverso rispetto a quello di Salvini. Salvini ci ha provato, ma dall’altra parte nessuno ha abboccato.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
LE ONG QUANDO SERVONO NON SONO PIU’ NEMICHE… E VIENE MENO ANCHE “UN CALABRESE PER LA CALABRIA”…MA GIA’ DA TEMPO LE ONG OPERANO IN SICILIA, IN LOMBARDIA, IN PIEMONTE E NELLA MARCHE
Da “aiutiamoli a casa loro” ad “aiutateci a casa nostra”. A proposito della vicenda di Emergency che su
input della Protezione Civile collaborerà alle “attività socio-sanitarie” anti-Covid in Calabria, la Lega non va allo scontro diretto.
Almeno con l’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada, con cui quando era al Viminale Matteo Salvini ha spesso incrociato metaforicamente le lame.
Adesso, invece, gli strali sono riservati al premier, al ministro della Salute Speranza e al governo che si è impelagato nel feuilleton dei “tre piccoli commissari” tutti finiti (male) prima di cominciare.
Il Capitano ripete da due giorni la stessa frase: “Perchè prendere i Gino Strada? Meglio un calabrese. Ce ne sono di eccellenti”. A dire: il problema non è di persone bensì di ruoli.
Tesi simile a quella espressa da Cristian Invernizzi, ex commissario e da quest’anno segretario del Carroccio in Calabria, nonchè fedelissimo del leader: “A livello umano e professionale non posso dire nulla contro il dottor Strada. C’è solo da fargli i complimenti, anche se politicamente so dove è schierato — ha detto alla stampa locale — Il rischio è che si cerchi di mettere in piedi un’operazione di sola immagine usando un grande nome per nascondere una situazione determinata dall’incapacità ”.
lo stesso Nino Spirlì, vicepresidente della Calabria, leghista eterodosso (eufemismo), divenuto presidente facente funzione dopo la morte di Jole Santelli, ha calmato i bollenti spiriti. Dal tuonare che Strada “ci ha rotto” e “dovranno passare sul mio cadavere”, è passato a riflettere: “Il problema non è che Strada si occupi di emergenze, fa già un lavoro eccezionale sui migranti. Ma serve un commissario che sia medico e organizzatore”.
Una correzione di rotta non da poco, considerando che Spirlì intende giocarsi la partita, politica e mediatica, in vista delle prossime elezioni regionali.
Ma a colpire è la moderazione di Salvini, che nell’estate 2019 — quella dei porti chiusi, dei decreti Sicurezza e delle polemiche roventi con le Ong — con l’uomo-simbolo di Emergency aveva scambiato parole molto taglienti. Strada si era detto sbalordito dalla sua “completa disumanità ”, ne aveva stigmatizzato l’atteggiamento come “non soltanto poco solidale, gretto e ignorante ma criminale”.
A sua volta, il ministro dell’Interno lo aveva bollato come “amico dei clandestini”, osservando che “la fine della mangiatoia sull’immigrazione clandestina lo stava facendo impazzire”.
Adesso la musica è cambiata, almeno un po’. Del resto, lo è il contesto: la pandemia ha scalzato l’immigrazione nella classifica delle paure degli italiani. Medici, operatori sanitari, infermieri ed esperti di situazioni emergenziali sono diventati merce rara e ricercata.
Se la Calabria è in difficoltà , le altre regioni non stanno meglio. Una settimana fa, di fronte al sistema sanitario sotto pressione, a lanciare l’allarme e un appello alle Ong è stato il Piemonte governato dal forzista Alberto Cirio.
Il presidente della commissione Sanità in consiglio regionale, il leghista Alessandro Stecco, medico ospedaliero di professione, ha invocato le organizzazioni umanitarie: “Dirottate personale sanitario dai vostri ospedali all’estero verso il Piemonte, i posti letto e soprattutto il personale si stanno esaurendo, abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti”. Stanchezza, ritmi di lavoro massacranti, carenze numeriche: “Non siamo in grado di fronteggiare un tale aumento di ricoveri… Mi chiedo se le Ong che magari gestiscono ospedali e personale in contesti internazionali che magari vivono una fase pandemica diversa da quella europea possano mandarci da subito più personale medico e infermieristico per dare una mano”.
E le Ong ci sono. Non solo operano in Italia già dalla prima ondata di pandemia, ma lo hanno fatto in tutte le situazioni di emergenza — terremoti, alluvioni — e di criticità – lotta al caporalato, campagna contro l’abbandono scolastico. Da anni.
Dividendosi i territori, in modo da supplire alle esigenze di tutti. “E’ bene che all’opera ci siano organizzazioni diverse perchè una soltanto non potrebbe coprire tutte le necessità — spiega Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia — Già da tempo noi siamo in Sicilia, mentre Emergency è in Calabria. A Gino Strada faccio i migliori auguri di buon lavoro”.
In questi mesi di coronavirus, MSF ha supportato ospedali in Lombardia, fatto formazione sul territorio, attività domiciliari con monitoraggio da remoto.
E’ stata presente in una quarantina di strutture per anziani nelle Marche, nelle carceri in Lombardia, Piemonte e Liguria. Con i suoi team ha affiancato le autorità sanitarie di Lampedusa durante gli screening medici agli sbarchi nel rispetto delle misure anti-Covid (assistendo 5.795 persone in 226 sbarchi).
“Ovunque nel mondo lavoriamo con governi e istituzioni — prosegue Lodesani — Servono accordi firmati, autorizzazioni. All’inizio dell’epidemia la Protezione Civile ci ha indirizzato in Lombardia, e poichè avevamo già un contatto con l’azienda ospedaliera di Lodi abbiamo firmato un protocollo con loro. In Sicilia, invece, gli accordi in occasione degli sbarchi si prendono di norma con la Regione o con il Viminale. Per quanto riguarda le carceri, invece, ci interfacciamo con le Asl e con il ministero della Giustizia”.
Le Ong, insomma, non agiscono all’impronta. La collaborazione istituzionale è la regola. Dal Piemonte alla Calabria e alla Sicilia. Il colore politico dell’interlocutore non conta. Lodi, governato da una giunta leghista, due anni fa salì alla ribalta per la controversa delibera del sindaco che subordinava l’accesso scontato alla mensa scolastica e allo scuolabus non soltanto alla certificazione Isee ma anche all’assenza di case o redditi nei Paesi di origine. In sostanza, una norma anti-stranieri che tagliava fuori dalle agevolazioni circa 300 famiglie di immigrati. “Con l’amministrazione lodigiana contro il coronavirus abbiamo lavorato benissimo — assicura la presidente di MSF Italia — Quando gli obiettivi sono comuni e si collabora, i problemi si risolvono”.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
DATI PEGGIORI SOLO IN IRAN E MESSICO
L’Italia è il terzo Paese al mondo per tasso di letalità del Coronavirus. Secondo i dati della Johns Hopkins University di Baltimora, nel nostro Paese si registrano 3,8 decessi ogni 100 persone positive al Covid-19.
Peggio dell’Italia fanno soltanto Messico (10) e Iran (5). Quanto agli altri Paesi europei, Regno Unito a parte (3,7), i dati sono decisamente più bassi: in Germania, si registrano 1,6 decessi ogni 100 casi positivi, simile il dato dell’Olanda, mentre in Francia sono 2,2 e in Spagna 2,8
Sulle ragioni alla base di questa differenza non ci sono certezze al momento, ma gli scienziati dell’università statunitense ipotizzano che uno dei fattori decisivi sia il numero di test eseguiti: più se ne fanno più il tasso dovrebbe abbassarsi.
E in effetti, per fare un esempio, la Germania ha eseguito 25 milioni di test, noi circa 18 milioni. Un altro fattore che potrebbe incidere è l’anzianità della popolazione: il nostro è uno dei Paesi più anziani al mondo. In Italia la media anagrafica dei malati di Covid è di 82 anni.
Secondo Massimo Ciccozzi, epidemiolgo e statistico del Campus Biomedico di Roma intervistato a proposito dal Corriere della Sera, a incidere sono anche le «patologie pregresse, potrebbe scoprirsi che la nostra popolazione, ad una certa età , ne ha di più rispetto ad altri Paesi, almeno tre secondo lo studio fatto su oltre 5.000 cartelle cliniche. Ma anche le Rsa, che da noi sono state colpite dal virus più che altrove, con soggetti molto anziani. L’efficienza del sistema sanitario e il metodo di tracciamento, che da noi è saltato. E tanti altri fattori. Purtroppo i dati aggregati sono attendibili, ma non sono in grado di spiegare tutto».
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
ALTRI 2 MILIONI DESTINATATI ALLA MEDICINA DOMICILIARE RESTANO IN ATTESA CHE SI PONGA IN ESSERE
Secondo il Fatto Quotidiano, la Regione aveva proposto di utilizzare la somma per «altre iniziative di
carattere emergenziale», incassando il rifiuto dell’azienda
Moncler ha chiesto e ottenuto la restituzione dei 10 milioni di euro donati alla Regione Lombardia per costruire l’Astronave alla Fiera di Milano.
Come spiegato dal Fatto Quotidiano, la struttura temporanea fortemente voluta da Regione Lombardia per fronteggiare l’emergenza Coronavirus aveva richiesto lo stanziamento di circa 21 milioni di euro.
Cifra raccolta dalla Fondazione Fiera e che quindi aveva finito per non intaccare la donazione fatta da Moncler e ormai presente sul conto intestato a Regione Lombardia.
Con una lettera inviata a ottobre, la società di Remo Ruffini ha fatto sapere di pretendere indietro i soldi inutilizzati, rigettando di fatto la proposta della Regione di utilizzare il denaro donato per «altre iniziative di carattere emergenziale».
Secondo Moncler, l’intera cifra va restituita con tanto di richiesta messa per iscritto dalla giunta regionale. Giunta che, il 9 novembre 2020, ha deciso per la riconsegna della somma.
Tra l’azienda di Ruffini e Regione Lombardia c’è ora in ballo un altro accordo, relativo a un investimento da parte di Moncler di 1.999.824 euro per promuovere un programma di medicina domiciliare su tutto il territorio regionale.
Denaro che, almeno secondo le previsioni, verrà utilizzato per automezzi di supporto, camper con postazione radiologica e nuovo personale messo a disposizione dell’Ats di Milano.
Su quest’ultimo punto le 15 Usca del territorio sono ancora in attesa degli operatori, per non parlare di quelli necessari sui 15 automezzi forniti.
In generale però, riguardo la possibile presenza di ulteriori donatori e l’utilizzo specifico da parte di Regione Lombardia delle cifre relative, non trapeleranno molti dettagli.
La decisione del presidente Fontana a riguardo, espressa in una delibera di maggio, è piuttosto chiara: «La rendicontazione delle donazioni pervenute a Regione Lombardia per sostenere l’emergenza» si legge, «potrà arrivare solo al termine dello stato di emergenza nazionale deliberato dal Cdm».
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
“SI CERCANO SOLO AUDIENCE E VISIBILITA’ SULLA PELLE DI CHI SOFFRE”
“C’è in giro un servizio pseudo-giornalistico che vorrebbe dimostrare come la terapia col plasma iperimmune sia la cura a portata di mano per il COVID-1″: inizia così un lungo post dell’immunologa Antonella Viola che si scaglia contro Le Iene che qualche giorno fa in cui viene portato di nuovo alla ribalta il plasma iperimmune come cura per COVID-19. Vengono intervistati diversi medici che spiegano che nessuno tra i pazienti trattati con il plasma è deceduto.
E allora qual è il problema? Antonella Viola spiega: “Ricordiamo che questi pseudo-giornalisti (Le Iene) sono gli stessi che anni fa proposero analoghi servizi a dimostrazione (secondo i loro canoni) che Stamina, la terapia-truffa di Vannoni, funzionava”.
Perchè non ci sono cattivoni che non forniscono cure ai malati ma nessuna evidenza scientifica al momento che certifichi che il plasma funzioni.
Ecco cosa dice l’immunologa:
“Come sappiamo ormai tutti, si basa sull’utilizzo della parte liquida del sangue (che contiene anche anticorpi) di persone che sono guarite dal COVID-19. Si prende il sangue, si separa il plasma e si utilizza per i pazienti, cercando di fornire loro un’arma in più: gli anticorpi prodotti da chi è già guarito. In linea di principio, potrebbe funzionare, ma anche no. Questo perchè ci sono moltissime variabili in gioco; per nominare le più importanti: la concentrazione di anticorpi neutralizzanti nel plasma donato, la concentrazione di anticorpi nel sangue del paziente, lo stato infiammatorio/immunitario del paziente, la tempistica e il dosaggio di somministrazione, lo stadio della malattia. Per questi motivi, è molto difficile capire se la terapia funziona, perchè in assenza di protocolli standardizzati (concentrazione di anticorpi fissa, condizione del paziente, modalità e tempi di somministrazione) la variabilità è troppo alta. L’unico modo per valutarne l’efficacia e la sicurezza è attraverso i soliti studi clinici controllati randomizzati, quelli in cui c’è un protocollo ben definito e si confrontano pazienti in cui si usa il plasma con pazienti di controllo. Cosa sappiamo sulla base degli studi esistenti? Che non c’è evidenza scientifica che il plasma iperimmune sia di beneficio per i pazienti. L’analisi dettagliata di tutti gli studi effettuati finora da parte della Cochrane (un’organizzazione internazionale che ha lo scopo di valutare gli interventi sanitari) conclude che i dati non sono sufficienti per suggerire la terapia con il plasma come efficace nella cura dei pazienti COVID-19.
Secondo Le Iene, che citano anche Zaia che dice “Di certo non fa male” il problema non è l’efficacia ma la mancanza di sacche per il plasma: “Il problema è che, a detta di chi lo ha raccolto per mesi, sembra che le sacche di plasma stiano finendo. Mentre oggi, dopo un periodo di scetticismo, sono sempre di più i medici che vogliono usare il plasma per i pazienti colpiti dal Covid. “Adesso che è venuto fuori che il plasma sembra essere l’unica terapia antivirale con una certa efficacia, allora gli ospedali iniziano a chiedere il plasma, ma il plasma non c’è adesso”, dice il prof. Franchini alla Iene”.
La parola degli scettici sarebbe quella di Burioni, mostrato mentre spiegava perchè il plasma non è una cura possibile.
E la dottoressa Viola sottolinea: “Un servizio come quello trasmesso da Le Iene è quindi molto pericoloso: prima di tutto mina le basi della ricerca scientifica basata sulle prove; poi, genera aspettative e dubbi nella popolazione, che, come succedeva con Di Bella o con Stamina, vuole essere curata col plasma iperimmune e non capisce quindi perchè molti ospedali non lo utilizzino. E da qui rabbia o panico. La raccomandazione ai pazienti e ai loro familiari è di non cadere in queste trappole che hanno come unico scopo quello di fare audience e polemica. Non c’è alcun motivo per cui io o altri colleghi dovremmo negare una cura se efficace: per quanto mi riguarda, non sono mai stata pagata da un’industria farmaceutica, non ho rapporti di alcun genere con i produttori di farmaci o vaccini o anticorpi monoclonali. Saremmo tutti felici di poter dire che il plasma iperimmune funziona ed è uno strumento in più per affrontare il virus, e forse un giorno lo potremo comunicare con entusiasmo. Ma per il momento, dobbiamo basarci sui fatti e non creare false aspettative: non ci sono evidenze che questa terapia funzioni. Servono studi controllati e randomizzati per arrivare presto ad una conclusione definitiva
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
IL 42% DEI POSTI SONO OCCUPATI DA PAZIENTI COVID… I MEDICI DI FAMIGLIA DICHIARANO LO STATO DI AGITAZIONE
Eccolo, nei numeri dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas), l’affanno in cui è di nuovo
precipitato il sistema sanitario, soprattutto nell’area più critica: quella delle terapie intensive.
E’ occupato da pazienti Covid il 42% dei posti in terapia intensiva, ovvero il 12% oltre la soglia critica del 30%.
Un dato che riguarda ben 17 regioni su 21: una settimana fa erano 10. E i posti nei reparti di medicina occupati da pazienti Covid sono il 51% a livello nazionale, rispetto a una soglia del 40%: un dato che riguarda 15 regioni, a fronte delle 12 di 7 giorni prima.
A mostrare una criticità diffusa da nord a sud è il monitoraggio Agenas, aggiornato con i dati del 17 novembre: sono dati basati su una rielaborazione di quelli della Protezione Civile e del Ministero della Salute.
Per quanto riguarda le terapie intensive la soglia del 30%, individuata dal decreto del Ministro della Salute del 30 aprile 2020, risulta superata da: Abruzzo (37%), Basilicata (33%), Calabria (34%, in forte aumento rispetto al 13% rilevato dai dati del 10 novembre), Campania (34%), Emilia Romagna (35%), Lazio (32%), Liguria (53%), Lombardia (64%), Marche (45%), P.A. Bolzano (57%), P.A. Trento (39%), Piemonte (61%), Puglia (41%), Sardegna (37%), Toscana (47%), Umbria (55%), Valle d’Aosta (46%). Mentre la Sicilia è sul valore limite del 30%.
Per quanto riguarda invece i ricoveri in area ‘non critica’, ovvero nei reparti di malattie infettive, pneumologia e medicina interna, la soglia dei posti letto occupati da pazienti Covid, in questo caso definita pari al 40%, da: Abruzzo (47%), Calabria (43%), Campania (47%), Emilia Romagna (47%), Lazio (49%), Liguria (74%), Lombardia (53%), Marche (52%), P.A. Bolzano (95%), P.A. Trento (65%), Piemonte (92%), Puglia (51%), Toscana (41%), Umbria (50%), Valle d’Aosta (73%, in netto calo rispetto all’85% del 10 novembre).
E la difficoltà del sistema sanitario è testimoniata anche dai medici di famiglia, che oggi hanno dichiarato lo stato di agitazione: “Adesso siamo in stato di agitazione, anche se in questa fase di emergenza è difficile programmare uno sciopero. Ma passata la tempesta ci sarà bisogno, passatemi il termine, di una resa dei conti perchè così non si può andare avanti”, dice Angelo Testa, presidente nazionale del sindacato dei medici Snami. La conferenza intersindacale ha proclamato lo stato di agitazione perchè “lo Stato non può scaricare su di noi responsabilità che non sono nostre”.
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
IL 29% E’ RICORSO A PUNIZIONI FISICHE, L’84% HA DETTO DI AVER ALZATO LA VOCE… COSA ACCADE QUANDO NON POSSONO PARCHEGGIARE I FIGLI A SCUOLA
Un genitore su 5 ha avuto l’impressione o il timore di essere stato più aggressivo con i propri figli durante il primo lockdown. È quanto emerge da un’indagine dell’Università di Milano Bicocca che sarà presentata il 24 novembre nel corso del webinar “Genitori in lockdown. Per non sentirsi in trappola”.
La ricerca è stata condotta nell’ambito del progetto europeo DEPCIP (Digitised Education Of Parents For Children Protection) e ha coinvolto circa 1000 genitori di vari Paesi, di cui 400 italiani. I dati raccontano come, pur dichiarando di essersi sentiti pronti ad affrontare l’emergenza in corso, circa il 70 per cento dei genitori intervistati abbiano attraversato emozioni estremamente contrastanti durante il lockdown, alternando preoccupazione e ansia a momenti descritti come inaspettatamente positivi e sereni nella relazione con i figli.
Pur consapevoli della necessità di avere un’interazione positiva con i propri bambini e anche dichiarandosi contrari alla violenza, il 29 per cento dei genitori intervistati ha dichiarato di aver fatto ricorso alle punizioni fisiche qualche volta o sempre con l’intento di educare il proprio figlio e l’84 per cento ha detto di aver alzato la voce. Accanto ad ansia e paura, è emersa anche la gioia di poter dedicare più tempo ai propri figli nel 30 per cento dei casi.
Il lockdown ha fatto emergere anche la necessità di ripensare gli spazi, privati e comuni. Per il 18 per cento degli intervistati cortili, androni e balconi hanno assunto nuovi significati: sono stati visti come un’opportunità di vivere lo spazio e il tempo in modo nuovo insieme ai propri figli. Tra i luoghi che sono mancati di più durante l’isolamento forzato, il 30 per cento ha indicato parchi, palestre e scuola.
Quasi tutti gli intervistati, infine, hanno ammesso che sarebbe molto utile apprendere strategie pratiche per gestire le situazioni stressanti. Anche per questo, durante il webinar della Bicocca, sarà presentato ‘Tips for parents in lockdown’, una raccolta di spunti concreti e strategie per gestire la quotidianità con i figli nei momenti di difficoltà .
(da agenzie)
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Novembre 18th, 2020 Riccardo Fucile
PERSONAGGI DEL CLAN MISSO, ULTRAS DELLA BRIGATA CAROLINA DELLA CURVA A E MILITANTI DI FORZA NUOVA
Due uomini vicini al clan Misso. Tre ultrà della “Brigata Carolina”, che da Monte di Dio e dal Pallonetto
gestisce il tifo organizzato della curva A. Due commercianti del Rettifilo e dei Decumani con collaboratori al seguito. Sullo sfondo, ma in ruolo apparentemente separato, due militanti di Forza Nuova.
Una squadriglia mista, la punta avanzata di almeno quattrocento persone che la sera del 23 ottobre misero a ferro e fuoco via Santa Lucia e via Orsini, sostituendosi ai manifestanti pacifici che chiedevano rassicurazioni sulle provvidenze Covid (costringendoli a ripiegare) e appropriandosi della piazza con lanciarazzi, sanpietrini, mazze, cinture: tutto l’armamentario dei rivoltosi.
Sono nove le persone indagate dalla Procura di Napoli per devastazione aggravata da finalità mafiose e di terrorismo, destinatarie dei decreti di perquisizione firmati dai quattro magistrati (Antonello Ardituro, Celeste Carrano, Luciano D’Angelo, Danilo De Simone) del pool istituito dal Procuratore Giovanni Melillo all’indomani dei disordini. Altre due, non indagate, sono destinatarie dello stesso provvedimento.
Nel decreto, eseguito dagli uomini della questura di Napoli e del Nucleo operativo dei carabinieri, sono raccontati per sommi capi genesi e sviluppo della protesta: dalla chiamata a raccolta via Facebook, attraverso il gruppo “Gli insorgenti”, dei commercianti preoccupati per gli effetti della crisi, con appuntamento fissato per le 22 a Largo Sermoneta (andato deserto) e a Largo San Giovanni Maggiore.
È da questo punto, nel cuore della Napoli antica, che muove il corteo: tra le cinque e le seicento persone, arrabbiate e deluse ma civili e pacifiche.
Dopo una mezz’ora, mentre sfilavano su Corso Umberto, si inserisce il primo gruppo di infiltrati. Sono capeggiati dai titolari del “Caffè di Napoli”, all’angolo con porta Nolana e del bar “Aurgarden” di Largo San Giovanni, e da alcuni loro collaboratori.
Alle 23 la piazza cambia completamente fisionomia. Da varie parti della città arrivano circa quattrocento persone: a piedi ma soprattutto a bordo di scooter. A Santa Lucia sono attesi da gruppi di uomini incappucciati, alcuni a piedi, altri sui soliti scooter. È il via libera alla guerriglia. I manifestanti veri, intanto, sono andati via.
Tutto il resto è la cronaca documentata quella notte stessa, in presa diretta, da forze dell’ordine e da telecamere e fotografie dei giornalisti. Ma ciò che nel decreto non c’è, e verosimilmente è oggetto dell’indagine avviata poche ore dopo la rivolta, è la ragione di tanta violenza. E, soprattutto, la sua regia.
La ricostruzione sin qui fatta dagli investigatori porta ad escludere, infatti, che si sia trattato di eccessi spontanei, alimentati dalla stessa violenza di pochi infiltrati. Che, come si è visto, erano pari come numero agli stessi manifestanti, arrivati da varie parti della città , apparentemente scollegati.
Chi li aveva chiamati? E perchè? Lo schema è lo stesso dei disordini di Pianura del 2009, quando la protesta legittima degli abitanti del quartiere fu piegata a interessi criminali e affaristici grazie a quattro giorni di violenze, devastazioni, incendi. E quali interessi, questa volta, hanno armato la mano dei quattrocento infiltrati? E se è così, che ricatto hanno tentato nei confronti di Stato e Regione?
C’è l’ombra del clan Misso, dicevamo (uno degli indagati, Marco Ferrante, graviterebbe nella sua orbita: è l’uomo che a bordo di uno scooter ha capeggiato gli scontri a Santa Lucia). Ci sono gli ultrà della Brigata Carolina. Ci sono i commercianti più violenti. Ma cosa li lega? E di chi è la testa? Sullo sfondo anche Forza Nuova. Senza vessilli sulla scena del 23 ottobre, presente alla manifestazione pacifica del 25, al Vomero, alla quale almeno due militanti hanno aderito di persona (destinatari dei decreti di perquisizione ma non indagati).
Due giorni prima, su Twitter, il leader dell’organizzazione di estrema destra, Roberto Fiore, aveva dato la sua adesione alla protesta sfociata nelle devastazioni. Pochi minuti prima degli scontri, alle 22,53 del 23 ottobre, aveva scritto: «Mentre Mattarella riunisce il consiglio di guerra e De Luca prepara un vergognoso lockdown, Forza Nuova è pronta a scendere in piazza al fianco del popolo di Napoli senza paura, con il vigore tipico della nostra gente. No dittatura sanitaria».
(da Fanpage)
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