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MAGGIORANZA FERMA AL SENATO A 154 VOTI CERTI, ALTRI 5 POSSIBILI, MA TUTTO SI DECIDERA’ ALL’ULTIMO

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

L’ASTENSIONE ANNUNCIATA DA RENZI BLOCCA LA FUGA E IL TIMORE DELLE URNE.. UN DEPUTATO DI ITALIA VIVA PERO’ TORNA AL PD

I costruttori non crescono. Il gruppo di senatori che dovrebbe rimpiazzare il vuoto di Italia Viva e garantire una nuova stabilità  al Conte Due stenta a decollare.
Al Senato, il governo è ancora lontano dalla maggioranza assoluta di 161 voti. Intanto, però, nella ‘controparte’, quella dei renziani, si avvertono scricchiolii.
Insomma, i giochi sono ancora aperti ma oggi si respira meno ottimismo. Martedì a Palazzo Madama ci sarà  la conta: con l’astensione annunciata di Italia Viva, al momento il governo è in grado di superare la prova. La compagine dei costruttori si va delineando più per esclusione che per aggiunte.
L’Udc, che può contare su tre senatori, si è tirata fuori. Anche il sottosegretario agli Esteri Riccardo Merlo (Maie), fondatore del gruppo di Italia 2023 che dovrebbe raccogliere adesioni pro-Conte a Palazzo Madama, non ha nascosto le difficoltà : «Noi siamo ottimisti e la fiducia passerà  – ha spiegato – ma sui numeri lo sapremo martedì. Ci sono dei colleghi che stanno riflettendo. Fino all’ultimo momento non sapremo».
Al Senato, il pallottoliere della maggioranza al momento è fermo a 154, un cifra data dalla somma dei senatori del M5s (92), del Pd (35), del Maie-Talia 23 (4), di Leu (6) e delle Autonomie (8, sono 9 ma uno non vota). A questi si sommano i senatori a vita Renzo Piano, Liliana Segre, Carlo Rubbia e Mario Monti.
E poi ci sono i costruttori: Sandra Lonardo (ex FI, moglie di Mastella), gli ex M5s Maurizio Buccarella e Gregorio de Falco, e poi Sandro Ruotolo (Misto). Il conto include anche Riccardo Nencini (Psi, che ha dato il simbolo a Renzi per formazione del gruppo al Senato), che però è ancora fra gli incerti.
I costruttori non hanno perso le speranze di imbarcare anche gli ex M5S Lello Ciampolillo, Luigi di Marzio e Marinella Pacifico. Mentre non hanno ottenuto garanzie da altri due ex cinquestelle: Mario Michele Giarrusso e Tiziana Carmela Rosaria Drago. Insomma, i costruttori vanno a rilento.
E’ cauto perfino un vecchio navigatore della politica, Clemente Mastella, che era riuscito a ritagliarsi un ruolo di reclutatore: «Mi chiamo fuori – ha detto – perchè, dopo aver cercato di dare consigli su come risolvere la crisi, sono stato attaccato sul personale».
Il suo pronostico è che ci sarà  «un Conte ter con un rimpasto e un rientro di Italia Viva», e non «un governo Conte sostenuto da un’altra maggioranza con l’ingresso di responsabili». Visto come si stanno mettendo le cose, per Italia Viva sarebbe una mezza vittoria. La rottura non ha infatti convinto tutti. «Avrei volentieri evitato l’aprirsi di una crisi al buio» ha scritto in un post il senatore di Iv, Eugenio Comincini, che ha chiesto «un patto di legislatura nel perimetro dell’attuale maggioranza».
Ma c’è anche chi, fra i renziani, è andato direttamente allo strappo. Il deputato Vito De Filippo ha annunciato il suo ritorno nel Pd e che lunedì alla Camera voterà  per il governo.

(da “La Stampa”)

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PER I DUE MATTEO LA POLITICA COME LA PLAYSTATION

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

PRIMA DISTRUGGI E POI CERCHI UN ACCORDO

Martedì in Parlamento si decide chi ha vinto e chi ha perso, in questa crisi. Nella vigilia della battaglia si cerca sempre il compromesso, questo è noto.
Ma c’è qualcosa di incredibile nel tentativo di ricomposizione della maggioranza messo in atto dai messaggeri di Italia Viva.
Nell’idea cioè che — non prima e non dopo, ma proprio mentre infuria la battaglia — si possa anche pensare di rappacificarsi: ti tendo una mano mentre con l’altra, pronto a colpirti, impugno il coltello dietro la schiena.
Il vero momento in cui Giuseppe Conte ha iniziato la partita della sua vita — lo abbiamo scritto — è stato proprio quello in cui ha cancellato la subordinata dell’accordicchio, il momento in cui ha detto molto grande nettezza: “Se Renzi esce dal governo non ci può più tornare”.
Questa è oggi la linea, non solo sua, ma del governo, di Nicola Zingaretti, del M5s e del Pd. Non potrebbe essere altrimenti, se si segue il codice minimo della morale politica, viene da dire: ma evidentemente non è così, o il codice della morale non appartiene a tutti. E così ieri parla l’ex ministra Elena Bonetti e lancia messaggi concilianti dai microfoni di Sky, parla Teresa Bellanova e tenta di dialogare, parlano persino i pretoriani come Luciano Nobili, che in questa vigilia di battaglia finale usano per la prima volta paroline dolci.
Emergono ipotesi strampalate, come quella secondo cui i renziani in Aula potrebbero addirittura astenersi nel voto di fiducia: dal momento che qualsiasi altro voto li porterebbe a spaccarsi.
Ma se io ho appena detto di un premier che mette a rischio la democrazia, e che può esserci un altro “tizio” al suo posto (parole di Renzi, solo 48 ore fa) come posso poi immaginare di dargli via libera
Davvero la linea può cambiare solo in base alle convenienze del momento? E qui, a far scattare un interrogativo non è il classico e sempre valido adagio: “Timeo Danaos, et dona ferentes”, e cioè che bisogna diffidare dei nemici soprattutto quando dicono di voler portare dei regali. Ma la singolare coincidenza tra il modo di agire dei “due Mattei”, che accomuna nel momento estremo delle crisi sia Salvini che Renzi.
Si tratta di un nuovo moderno ossimoro della politica italiana, quello per cui, mentre provo ad ammazzarti, cerco contemporaneamente anche ad usarti come rete di sicurezza. Così un anno e mezzo fa Matteo Salvini, proprio mentre provava ad accoppare il M5s al Senato, offriva la presidenza del Consiglio a Luigi Di Maio.
E così oggi Matteo Renzi, proprio mentre prova ad accoppare Conte al Senato, gli spiega che ci si potrebbe anche rimettere allegramente insieme in un Conte ter.
Così uno tiene la poltrona, l’altro salva la faccia, e tutti sono contenti. Mi viene in mente, mentre associo questi due tic politicistici, che “i due Mattei” rivelano una affinità  anagrafica e culturale, e quindi anche politica.
Non a caso hanno esordito entrambi nella palestra dei quiz televisivi. E non a caso hanno una idea della politica che pare fondata più sui social e sulla Playstation, che sulle idee.
Il social non ha memoria lunga, perchè è un frutto che rinasce ogni giorno: puoi avere successo anche sostenendo posizioni contrapposte, se nessuno ti ricorda la tua incoerenza. E il videogame è fondato sull’idea che tu hai tre o cinque vite, che al contrario di quella reale, puoi giocarti in modo diverso, e ogni volta ricominci: una per morire nel burrone, una per imparare ad usare un’arma.
Come in quel film con Tom Cruise che muore e risorge nella stessa battaglia — “Vivi, muori ripeti” — Renzi pensa che se una volta salti su una mina girando a destra, quella successiva puoi salvarti girando a sinistra.
Ecco perchè ai giocatori di playstation di Italia Viva non sembra un assurdo uccidere e rappacificarsi, perchè il gioco non pone vincoli di valore.
Fai solo quello che ti diverte, o che ti permette di passare ad un altro quadro.
Sarebbe meglio che Conte e Zingaretti non cadessero in questa tentazione. Il mondo e la politica si reggono su regole antiche: in una lotta fratricida tertium non datur: se sopravvivi hai vinto, se muori ha perso.
E se martedì Renzi fallisce nella sua congiura di Palazzo, non c’è un altro quadro in cui giocare, c’è solo il Game over.

(da TPI)

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BERSANI: “CON ITALIA VIVA IN MAGGIORANZA TRA 15 GIORNI SIAMO DA CAPO”

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

“NON HO SENTITO LAMENTELE QUANDO UNA VENTINA DI TRANSFUGHI ARROGANTI SI RACCOLSERO E FECERO CAMBIARE CASACCA A TRE MINISTRI”

Una netta chiusura per superare i tentennamenti del Pd, dove c’è un’anima renziana che non vorrebbe rompere con l’ex leader.
“Ricercare adesso un rapporto con le nuvole di fumo di Italia viva? Ma se questo garantisse stabilità , ma non la garantisce, da qui a 15 giorni siamo da capo. Se ancora non abbiamo capito, chiediamo alle tv di fare brevi lezioni sul renzismo, dopo anni di esperienza”.
Così Pierluigi Bersani, intervistato da ‘L’Ospite’ su Sky Tg 24.
Ha “poi aggiunto il fondatore di Mdp-Articolo 1: “Italia viva non si è presentata agli elettori, come sarebbe questa operazione tra ‘responsabili’ e ‘costruttori’. Naturalmente è necessario che chi ha buon senso ce lo metta e in questa fase certamente non sarebbe sufficiente avere una maggioranza di raccogliticci. Bisogna avere, in una breve prospettiva, un nuovo patto politico, una soluzione politica che possa avere anche, perchè no, una gamba di centro democratico, chiamiamola come vogliamo, e che faccia un patto per mandare avanti le operazioni”.
E infine un attacco a Renzi e ai suoi: “Non ho sentito geremiadi quando improvvisamente si raccolsero una ventina scarsi di transfughi, si fece cambiare casacca a tre ministri”, creando “una forza che risulta basarsi sullo scarso 3 per cento di elettori e pretende di dettare il compito, operazione di transfughi e di arroganti”.

(da agenzie)

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POI SI LAMENTANO DELL’ITALIA: IN GERMANIA PAGATO SOLO L’8% DEGLI AIUTI E IL 4% DEI RISTORI

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

QUANDO SALVINI DICEVA CHE “I RIMBORSI SIANO CERTI E IMMEDIATI COME IN GERMANIA”

“Fate come la Germania”: qui in Italia, per tutta la pandemia Berlino è stata indicata come il modello da seguire per garantire i ristori alle imprese colpite dalle chiusure per via del coronavirus.
“I rimborsi siano certi e immediati come in Germania”, diceva il 23 dicembre scorso il leader dell’opposizione, Matteo Salvini, commentando le restrizioni natalizie. “Non facciamo paragoni con la Germania perchè loro danno i soldi alle piccole e medie imprese mentre noi stiamo morendo di fame”, dice lo chef Gianfranco Vissani all’Adnkronos, rilanciando la protesta “Io apro” indetta per il 15 gennaio dai ristoratori.
In Germania, però, i ristori non sono nè certi nè immediati.
Anzi, uno studio dell’Institut der Deutschen Wirtschaft (Iw) mostra che le imprese tedesche citate da Vissani hanno ricevuto in realtà  appena l’8% dei fondi stanziati questo autunno per gli àœberbrà¼ckungshilfe I e II (gli aiuti-ponte, ovvero i rimborsi di una parte dei costi fissi delle imprese, introdotti da settembre).
E ancora peggio è andata sul fronte dei ristori promessi per i mesi di novembre e dicembre: a destinazione è arrivato solo il 4% del totale previsto.
I motivi sono da una parte un pasticcio burocratico che ha costretto il governo a modificare in corsa le condizioni di accesso, dall’altra una lentezza — dovuta anche a problemi informatici — che sembra essere stata risolta solo negli ultimi giorni.
E le imprese tedesche? Sono sul piede di guerra e preoccupate, perchè il paradosso è che alcune rischiano anche di dover restituire parte dei soldi ricevuti.
Il quotidiano economico Handelsblatt denuncia la rabbia di tutte le aziende, dalle piccole e medie imprese ai grandi colossi della ristorazione.
Solo da martedì 12 gennaio hanno iniziato a ricevere gli aiuti promessi a novembre, quando la cancelliera Angela Merkel annunciò il semi-lockdown e le conseguenti chiusure, inasprite poi a metà  dicembre.
Ci sono stati anche dei problemi con la piattaforma online per la presentazione delle domande. I bug informatici però spiegano solo in parte la lentezza della macchina che dovrebbe distribuire gli aiuti.
I dati raccolti da Iw, uno dei principali istituti economici tedeschi, mostrano che solo il 76% dei fondi stanziati per gli aiuti immediati a piccole aziende, autonomi e liberi professionisti sono stati utilizzati.
Dei 24,6 miliardi di euro disponibili per gli aiuti-ponte, invece, ne sono stati pagati appena 2,1 miliardi (l’8%).
I ristori di novembre e dicembre invece sono fermi al 4%: appena 1,5 miliardi versati a fronte di 39,5 disponibili. In totale, riassume Iw, nel bilancio 2020 erano previsti 42,6 miliardi di euro di ristori, ne sono stati erogati 15,8 miliardi, solo il 37%. “Un aiuto credibile non deve essere solo mirato e sufficientemente ampio, ma deve anche essere fornito in tempo utile“, conclude l’istituto nella sua analisi.
Il ministro delle Finanze tedesco, il socialdemocratico Olaf Scholz, ha spiegato questi numeri sostenendo che “la situazione economica di molte aziende si è sviluppata più favorevolmente di quanto si temesse e gli affari sono ripresi rapidamente“.
Stefan Genth, presidente dell’associazione dei commercianti tedeschi, a Die Welt l’ha definita un’affermazione “oltraggiosa“. Le imprese denunciano infatti come dietro ai pochi ristori incassati ci sia una complessità  burocratica eccessiva, che sta mettendo in crisi anche i consulenti fiscali.
“Veloce e non burocratico: questo era stato promesso dai politici. Purtroppo, l’impegno non è stato mantenuto. Anzi”, è il commento all’Ard di Hartmut Schwab, presidente della Bundessteuerberaterkammer (l’organismo di autogestione professionale dei consulenti fiscali tedeschi, ndr).
Al contrario dell’Italia, dove i ristori previsti per la seconda ondata vendono distribuiti direttamente dall’Agenzia delle Entrate con lo stesso meccanismo varato in giugno con il decreto Rilancio, il governo tedesco ha invece previsto diversi tipi di aiuti, calcolati mese per mese sulla base del confronto con l’anno precedente.
Il principale pasticcio burocratico di Berlino ha riguardato però gli aiuti-ponte, ovvero i rimborsi di una parte dei costi fissi delle imprese. Introdotti da settembre, prevedono un contributo pari a un massimo del 90% dei costi fissi mensili, che varia in base al crollo delle vendite avuto in confronto allo stesso mese del 2019.
Però, per adeguare la legge ai paletti stabiliti dalla normativa europea sugli aiuti di Stato, il governo tedesco ha dovuto successivamente correggere il provvedimento. I costi fissi sono diventati quindi “Ungedeckte Fixkosten“: sono rimborsabili solo i costi fissi non coperti dai ricavi o da altre forme di sussidio. In altre parole, deve esserci una perdita di bilancio nel mese per cui si chiede il ristoro e la somma garantita dallo Stato arriverà  a coprire al massimo questa perdita, non di più. Chi ha già  fatto richiesta, rischia ora di dover restituire parte degli aiuti. Oppure, di doverla rifare da capo.
“Questi piccoli cambiamenti hanno conseguenze drammatiche per noi “, dice all’Handelsblatt Olaf Stegmann, che con la sua azienda di famiglia gestisce sette teatri da Brema a Monaco. Anche i criteri di accesso ai ristori di novembre e dicembre sono stati modificati successivamente, sempre in modo restrittivo. Il risultato è che le aziende possono contare su meno aiuti di quanto avevano inizialmente previsto. Stefan Romberg, ristoratore di Essen, sempre all’Handelsblatt riassume la situazione: “Siamo ormai al terzo mese senza alcun aiuto. Finora per novembre è stato versato solo un anticipo di 10mila euro”.
Per le grandi imprese parla Mirko Silz, capo della catena di pizze e pasta L’Osteria che gestisce circa 130 ristoranti in Germania. E’ la testimonianza della complessità  del sistema di ristori tedesco: la sua società  non ha ancora richiesto alcun aiuto perchè i suoi consulenti fiscali e revisori dei conti non sono stati in grado di calcolare l’esatto importo a cui avrebbe diritto.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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NIENTE VACCINI CONTRO IL COVID PER L’AFRICA, UN PROBLEMA CHE CI RIGUARDA TUTTI

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

USA E UE HANNO GIA’ ACQUISTATO DOSI DI VACCINO PER VACCINARE IL DOPPIO DI ABITANTI, MA L’AFRICA E’ RIMASTA SENZA

Vivono in Africa, e no, non sono loro che non vogliono vaccinarsi al Covid-19: siamo noi che abbiamo deciso di lasciarli senza: l’Occidente e i Paesi del mondo ricco, si sono presi tutto.
L’Unione Europea, da sola   ha già  comprato abbastanza dosi per vaccinare per due volte l’intera popolazione del continente. Lo stesso vale per gli Stati Uniti d’America, per il Regno Unito, per l’Australia e per il Cile. Il Canada , addirittura, ha ordinato abbastanza vaccini per vaccinare tutta la sua popolazione per cinque volte.
In Africa la situazione è molto diversa. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità , solo un quarto di tutti i Paesi africani ha la disponibilità  finanziaria per una campagna vaccinale adeguata.
E anche dove questa disponibilità  esiste, ci sono difficoltà  logistiche enormi.
Ad esempio, nessun Paese africano ha la possibilità  di gestire la catena logistica del vaccino Pfizer Biontech, che dev’essere conservato a meno 80 gradi. E, per il momento, ci sono siringhe abbastanza per vaccinare poco più di un terzo della popolazione africana, così come manca il personale sanitario necessario che inoculi materialmente il vaccino.
Le previsioni più ottimistiche parlano di un 3% della popolazione africana vaccinata entro marzo. E di un 20% della popolazione vaccinata entro il 2021.
Questo accadrà  — se accadrà  — perchè Russia e Cina hanno accettato di fornire dosi del loro vaccino a diversi Paesi africani, a patto che la loro popolazione partecipi in massa alla sperimentazione clinica.
Succederà  in Kenya, Sudafrica, Marocco ed Egitto. Noi vi diamo il vaccino, se voi accettate di diventare le nostre cavie. Non fa una piega.
E noi? Noi possiamo voltare la testa dall’altra parte, come facciamo sempre. Possiamo far finta che non sia un problema nostro, anche se sappiamo benissimo che più il virus corre, più muta, e che prima o poi potrebbe arrivare anche da noi una nuova mutazione resistente agli anticorpi.
E possiamo pure decidere di alzare muri ancora più alti contro gli africani che ci portano le malattie che noi abbiamo portato loro, negando loro ogni cura.
Però questa pandemia ci ha insegnato una cosa. Che siamo tutti collegati, Che se ne esce solo se se ne usciamo tutti. E che ne usciamo tutti solo con la cooperazione e con la generosità . Ecco perchè il vaccino contro il Covid in Africa è un problema di tutti.

(da Fanpage)

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VIENNA, DIECIMILA NEGAZIONISTI IN PIAZZA AL GRIDO “LA STAMPA E’ BUGIARDA”

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

PRESENTE L’EX CANCELLIERE SOVRANISTA STRACHE… SETTEMILA MORTI NON FERMANO GLI UNTORI

«Dimissioni del governo», «la stampa è bugiarda!». Sono alcuni degli slogan urlati a gran voce dai circa diecimila austriaci che hanno manifestato oggi, 16 gennaio, a Vienna, contro le misure anti-Covid.
Per le strade sono confluiti diversi cortei, ma tutti protestavano contro un unico nemico: le restrizioni imposte da marzo dal cancelliere Sebastian Kurz alla popolazione nel tentativo di arginare l’epidemia di Coronavirus.
Il malcontento nasce dopo gli sviluppi arrivati a fine dicembre, quando il governo austriaco ha decretato un terzo lockdown. Come per le serrate di altri Paesi, anche qui i negozi non essenziali, i luoghi culturali, le palestre, le scuole e le facoltà  sono stati chiusi.
Durante la manifestazione, le cifre sui decessi registrati dall’inizio della pandemia sono stati definiti fasulli, «spazzatura».
C’era anche chi negava la malattia, opponendosi alla somministrazione del vaccino. Tra i manifestanti, la maggior parte dei quali non indossava la mascherina, sventolava la bandiera nazionale. Manco a dirlo, quasi mai è stato rispettato il distanziamento sociale e alla protesta ha preso parte anche l’ex vice-cancelliere di estrema destra Heinz-Christian Strache.
L’Austria, che conta 8,9 milioni di abitanti, finora ha registrato 7.053 morti attribuite alla Covid-19. Le autorità  sanitarie hanno già  chiesto al governo austriaco di non revocare le restrizioni, come previsto il 25 gennaio. Alla base della richiesta, ci sarebbe l’aumento dei contagi e la variante Covid identificata in Gran Bretagna che intanto guadagna terreno. Il consiglio scientifico nazionale ha quindi raccomandato di rendere obbligatorio il telelavoro e di estendere il confinamento.

(da agenzie)

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BIELORUSSIA, 160 GIORNI DI PROTESTE TRA ARRESTI E TORTURE

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

LA GIORNALISTA LIUBAKOVA: “L’EUROPA NON PUO’ RESTARE A GUARDARE, DEVE AGIRE ORA”

Nel gelido inverno di Minsk, mentre la neve scende sulle strade della capitale, le proteste contro il risultato dell’elezione e il regime di Aleksandr Lukashenko sono arrivate al loro 160esimo giorno. E in questi mesi sono migliaia le persone scomparse, detenute arbitrariamente nelle carceri del governo. Al prolungarsi delle proteste, il presidente bielorusso ha risposto con una repressione sempre più brutale e violenta, come quella usata contro Raman Bandarenka, il manifestante di 31 anni picchiato a morte dalle forze di polizia bielorusse dopo essere stato prelevato dal cortile della sua abitazione per aver esposto una bandiera bianca e rossa pro-democrazia.
«Il livello di violenza è folle, ma ce lo aspettavamo». A parlare a Open è Hanna Liubakova, giornalista indipendente bielorussa e ricercatrice dell’Atlantic Council che domani — domenica 17 gennaio — sarà  anche ospite del festival di Internazionale per l’edizione straordinaria «Europa e disuguaglianze».
Liubakova, lei ha detto che vi aspettavate questa violenza. Perchè?
«Nei mesi che hanno preceduto l’elezione c’erano stati diversi segnali. Poco prima del voto Lukashenko ha fatto riferimento al massacro del 2005 ad Andijan, in Uzbekistan, quando la polizia sparò sulla folla uccidendo almeno 187 persone. Lukashenko ci aveva in qualche modo avvertito che la sua risposta sarebbe stata ancora più dura. Avevamo tutti paura, per mesi abbiamo vissuto in un clima di terrore, e fin dal primo giorno si è visto che Lukashenko avrebbe mantenuto le sue promesse».
Cosa è successo?
«Il 9 agosto, il giorno dell’elezione, mi trovavo con alcuni colleghi giornalisti in un appartamento affittato nel centro di Minsk per seguire il voto. Le strade erano piene di veicoli blindati, militari e la polizia aveva circondato il palazzo presidenziale. Avevamo subito intuito che la risposta di Lukashenko sarebbe stata violenta e quello che abbiamo visto fino ad oggi è uno dei più duri livelli di repressione che siano avvenuti in Europa da decenni. E Lukashenko non ha intenzione di fermarsi. In questi giorni è stato fatto trapelare un video in cui si sentono le autorità  suggerire di costruire dei veri e propri campi di detenzione per i manifestanti dove rinchiuderli e farli lavorare fino a quando la situazione non si sarà  “calmata»”.
Sono più di cinque mesi ormai che le proteste vanno avanti. Per quanto tempo pensa che i cittadini resteranno in piazza?
«Se perdono l’iniziativa è finita. La popolazione avverte che deve continuare a combattere perchè se si fermerà  ci sarà  una reazione perfino più volenta da parte delle autorità . Più tempo le persone rimangono in strada, più possono mostrare a Lukashenko, e al mondo, che non è finita. Ovviamente c’è ancora tanta paura, e i cittadini sono disgustati dalle azioni di Lukashenko. Ma non c’è altro da fare, vogliono che se ne vada».
Ha detto che la violenza della polizia ha raggiunto livelli «folli». Fin dove pensa sia disposta a spingersi?
«L’unica cosa che possono fare, e che faranno, è essere ancora più duri nei confronti della popolazione. E ce lo aspettiamo tutti. Aumentare la repressione, e fare affidamento sulle forze di sicurezza, è l’unico modo che ha Lukashenko per rimanere al potere. Per questo si sta assicurando che la polizia gli rimanga fedele e infatti nessun caso è stato aperto contro di loro per eccesso di violenza, torture e abusi».
C’è poi anche il ruolo di Vladimir Putin. Ha supportato Lukashenko dall’inizio, per quanto continuerà ?
«Il rapporto tra il presidente russo e Lukashenko non è cosi semplice come sembra. Da una parte è chiaro che per Putin non è di beneficio continuare a sostenerlo, ma dall’altra parte arrivati a questo punto non si può tornare indietro. Putin non può permettere alla popolazione di vincere, perchè il successo bielorusso sarebbe un esempio anche per i cittadini russi».
La leader dell’opposizione, Svetlana Tsikhanouskaya, sta facendo molti viaggi in Europa nelle ultime settimane. C’è l’aspettativa che Bruxelles possa fare qualcosa di più?
«L’Unione Europea è una di quella organizzazioni internazionali a cui i bielorussi guardano in cerca di aiuto. Sono esausti e usano ogni strumento che hanno a disposizione per uscire da questa situazione, che altro possono fare? Se l’Europa si dimentica della Bielorussia allora dimentica anche i suoi valori. Se Bruxelles continua a lasciare che vengano violati diritti ai suoi confini c’è da chiedersi molto su sullo stato dell’Europa. Ogni giorno che passa aumenta la probabilità  di avere più vittime e più violenza. Questo è il momento per agire e non si può aspettare perchè sempre più bielorussi stanno guardando all’Europa per avere risposte e giustizia. Più l’Europa aspetta, più i bielorussi si gireranno verso la Russia. I bielorussi stanno dicendo all’Europa che si sentono europei e che vogliono far parte della famiglia europea».
Anche molti giornalisti sono stati detenuti, e lo sono ancora. Nelle ultime settimane si è spesa molto per Ihar Losik…
«Sì. È un blogger molto influente in Bielorussia. È anche un amico e un collega. Si trova in prigione da giugno, quindi da prima dell’elezione. È stato arrestato dopo aver pubblicato diversi articoli sulla malagestione della pandemia e la grave crisi economica. Da un mese, però, ha deciso di iniziare uno sciopero della fame e siamo tutti molto preoccupati. Di lui non sappiamo più niente, non conosciamo le sue condizioni. Sua moglie gli ha chiesto di interrompere lo sciopero, ma non lo farà , non vuole arrendersi. Lukashenko l’ha incarcerato semplicemente perchè ha paura di lui, come di tutte le persone che provano a dire la verità ».
In questa situazione quali sono i rischi che corre una giornalista come lei?
«Quando si parla di libertà  di stampa, quello che sta accadendo in Bielorussia è una delle peggiori situazioni della nostra storia contemporanea. Tutti i giornalisti, specialmente quelli indipendenti, temono per la loro sicurezza e chiunque può essere arrestato, detenuto e picchiato. È successo anche a due mie colleghe che si sono occupate della morte di Bandarenka. Possono decidere di arrestarti da un giorno all’altro. Ma in questo clima di terrore, ci sono però degli aspetti positivi».
Quali?
«Non c’è competizione tra le redazioni e, a differenza di quanto succede in Europa e nel resto del mondo, le persone non hanno perso fiducia nei media. Anzi, ci sostengono. Se stiamo seguendo una protesta ci proteggono così che la polizia non possa arrestarci; ci aprono le porte delle loro case così che possiamo usare il loro wi-fi quando i nostri vengono disattivati. Le persone hanno capito che se proteggono i giornalisti, è poi il giornalismo a proteggere loro. Sanno che è una delle forze trainanti di queste proteste».

(da Open)

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IL CAPO DEL PENTAGONO ALLA FINE AMMETTE: “L’F-35 E’ UN AEREO DI MERDA”

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

SONO COSTATI DA 82 A 103 MILIONI, NE HANNO SBOLOGNATI OLTRE 90 ALL’ITALIA  

Dopo mesi di polemiche, la mazzata sugli F35 arriva proprio dai più accaniti sostenitori.
Hanno fatto infatti scalpore le parole di Christopher Miller, l’attuale ministro della Difesa ad interim, che tra quattro giorni lascerà  il suo incarico.
Se la stampa Usa si sofferma sull’affermazione dell’attuale capo del Pentagono, “non vedo l’ora di andarmene”, segnale di una ormai acclarata disaffezione per l’attuale Amministrazione, a preoccupare gli alleati occidentali di Washington dovrebbero essere i suoi commenti sul caccia multiruolo F-35, definito “un aereo di m… “.
Il tutto, per un costo unitario che varia, a seconda delle diverse versioni, da 82 milioni a 103 milioni di dollari ad aereo.
Tutto nasce dalla trascrizione di una chiacchierata informale avvenuta giovedì con i cronisti, resa pubblica dal dipartimento della Difesa.
Di ritorno da un viaggio in Nebraska, Tennessee e Colorado, l’attuale numero uno del Pentagono si è lasciato andare ad una serie di commenti sopra le righe.
A Miller viene chiesto proprio dell’F-35, il programma militare più costo della storia, che tra i Paesi costruttori (attraverso Leonardo) e utilizzatori conta anche l’Italia.
“Beh…. non vedo l’ora di lasciare questo lavoro, credetemi”, è stata la sua premessa.
Poi, quella che è sembrata una bocciatura senza appello del nuovo caccia: “Abbiamo creato un mostro, ma questo lo sapete”.
Il capo del Pentagono è sembrato poi abbandonare del tutto i freni inibitori. “Ieri stavo parlando con un tenente colonnello, o colonnello, gli ho chiesto, ‘su cosa vola?. Mi ha detto, ‘F-35’, gli ho risposto, ‘quello è un pezzo di… e lui… si è messo a ridere, e io gli ho detto, ‘no, seriamente, me ne parli”, è la trascrizione delle sue parole con i cronisti.
Un altro commento di Miller che ha fatto alzare più di un sopracciglio a Washington, è quello in risposta alla domanda di un altro giornalista che gli chiedeva cosa ne pensasse delle attività  ostili della Russia.
“Buon per loro”, la replica dell’uomo che al momento è ancora a capo delle forze armate più potenti del Pianeta.
Un funzionario della Difesa si è subito affrettato a precisare che il ministro “usa spesso un linguaggio informale e spiritoso con i giornalisti e lo staff durante i suoi viaggi” e che il tono “non traspare bene dalle trascrizioni” delle sue chiacchierate.
Miller è stato nominato ministro della Difesa il 9 novembre scorso, al posto di Mark Esper, ‘licenziato’ via Twitter da Donald Trump.

(da agenzie)

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INAUGURAZIONE MERCOLEDI’, BIDEN COSTRETTO A RINUNCIARE AL TRENO PER MOTIVI DI SICUREZZA

Gennaio 16th, 2021 Riccardo Fucile

TRUMP ANDRA’ VIA DALLA CASA BIANCA IL MATTINO DELLA CERIMONIA… WASHINGTON PRESIDIATA DA 25.000 AGENTI

Sale la tensione in vista dell’Inauguration Day di mercoledì, quando il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden si insedierà  ufficialmente a Washington.
Le misure di sicurezza sono state ulteriormente rafforzate, con il Pentagono che ha autorizzato il dispiegamento fino a 25 mila uomini della Guardia Nazionale, a difesa della cerimonia del giuramento. I militari inizialmente previsti per le strade della capitale federale erano 21 mila.
Il presidente eletto dovrà  rinunciare al viaggio in treno di 90 minuti per raggiungere la capitale federale dalla sua Wilmington, in Delaware. Un viaggio simbolico che era stato pensato per emulare i suoi 36 anni di pendolarismo, quando da senatore ogni giorno andava a Washington in treno. Covid e preoccupazioni legate alla sicurezza sono le cause del cambiamento di programma
Donald Trump lascerà  la Casa Bianca mercoledì mattina, alcune ore prima la cerimonia dell’Inauguration Day, rinunciando ad accogliere il suo successore alla Casa Bianca come prevede la tradizione.
Secondo fonti citate dai media americani, il Marine One, l’elicottero presidenziale, porterà  Trump alla base di Andrews dove ad attenderlo per l’ultimo volo da presidente ci sarà  l’Air Force One, a bordo del quale si sposterà  in Florida nella sua residenza di Mar-a-Lago, a West Palm Beach. Sulla pista della base verrà  organizzata una cerimonia di addio con tanto di red carpet, banda militare e 21 salve di cannone.
Nei giorni scorsi l’Fbi aveva lanciato l’allarme su possibili proteste armate, nella capitale degli Usa come pure in altri Stati. Anche per questo Facebook ha annunciato che bloccherà  chiunque userà  la piattaforma social per organizzare eventi o raduni attorno a Capitol Hill.
La decisione durerà  fino a mercoledì. Il social ha spiegato in un post che si tratta di una misura decisa per limitare il rischio di nuove violenze dopo l’assalto al Congresso nel giorno dell’Epifania.
I membri Congresso che hanno aiutato i manifestanti, potrebbero essere incriminati. Lo riporta il sito The Hill. Da giorni crescono le voci dei Democratici convinti che i loro colleghi repubblicani avrebbero aiutato i sostenitori trumpiani a orientarsi dentro Capitol Hill. Il sospetto nasce dalla testimonianza di una rappresentante dem, che sostiene di aver visto alcuni manifestanti girare per i corridoi del Congresso il giorno prima dell’assalto. Ad accompagnarli erano alcuni repubblicani. Il leader della minoranza, il conservatore Kevin McCarthy ha chiesto l’istituzione di una commissione bipartisan per indagare.

(da agenzie)

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