Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
USCITA DALLA FINESTRA AI TEMPI DI CONTE, LA TASK FORCE RIENTRA DALLA FINESTRA… PER RENZI E SALVINI PRIMA ERA UNA PAZZIA, ORA TUTTI ZITTI
“La task force di Conte è una pazzia” tuonava prima di Natale Matteo Salvini. “No alle task force, sì al Mes” gridava Matteo Renzi solo lo scorso dicembre. Tre mesi dopo non abbiamo il Mes ma abbiamo una nuova task force, solo che è fatta di consulenti esterni e quindi a pagamento.
Il governo Draghi ha scelto infatti di affidare alla statunitense McKinsey la consulenza per la messa a punto del Recovery plan per l’utilizzo dei fondi europei. Eppure la lista di chi ha polemizzato contro la formula della task force, uno sui punti su cui più se battuto per attaccare il governo Conte, è lunghissima.
“Un modo per aumentare poltrone e consulenze”, secondo Teresa Bellanova. “Inutile spreco”, “No all’ennesima inutile task force” sono alcune delle dichiarazioni di alcuni esponenti del Partito democratico. Antonio Misiani, senatore Pd, in mattinata ha invitato Draghi a non disattendere l’impegno: “La governance del Pnrr è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti aveva detto Draghi al Senato. Se lo schema è cambiato, va comunicato e motivato al Parlamento”, ha scritto su twitter.
La scelta del presidente del Consiglio non sembra in effetti delle più felici, quanto meno per la tempistica.
A lungo McKinsey è stata considerata la più prestigiosa società al mondo nel suo campo, che è poi quello di suggerire ad aziende e governi come aumentare i profitti e ridurre le spese.
Ma negli ultimi tempi nubi sempre più cupe si stanno addensando sulla società statunitense. Dal coinvolgimento nella crisi dei farmaci oppioidi negli Usa, agli stretti legami con regime autoritari come quello dell’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salaman, il principe ereditario implicato nell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.
Il ruolo nella tragedia degli oppioidi
La reputazione di MkKinsey è così compromessa da aver spinto due dei più importanti quotidiani del mondo, il New York Times e il Financial Times a pubblicare editoriali in cui si invita la società ad agire per arginare la progressiva erosione di credibilità . Il mese scorso la società ha patteggiato una multa da quasi 600 milioni di dollari con 47 stati americani per il ruolo avuto nella crisi dei farmaci oppioidi.
“Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli stati più colpiti. McKinsey è stata infatti per 15 anni consulente della casa farmaceutica Purdue che commercializzava il farmaco OxyContin. Si stima che la dipendenza da questo medicinale abbia causato sinora la morte di 232mila persone. McKinsey ha suggerito tra l’altro di aumentare il dosaggio delle singole pillole per incrementare i guadagni e ha fornito indicazioni di marketing su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del medicinale delle madri di ragazzi morti per overdose di OxyContin.
“Risparmiare sul cibo per i migranti”
Tra i tanti carichi assunti dalla società c’è stato anche quello di consulente dell’ Immigration and Customs Enforcement (ICE), ente statunitense che si occupa della gestione dei flussi migratori.
Incarico per cui la società ha incassato 20 milioni di dollari. Nelle sue raccomandazioni per gestire al meglio le strutture di accoglienza McKinsey ha proposto tra l’altro di risparmiare sul cibo per i migranti e di inviarli in zone rurali del paese per minimizzare la spesa. Un trattamento che ha messo a disagi molti funzionari della struttura. Il contratto si è interrotto nel 2018 dopo che il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sulle disastrose condizioni dei centri di accoglienza.
L’associazione no profit di giornalismo investigativo ProPublica ha creato una pagina web in cui sono raccolti tutti i disastri riconducibili al ruolo avuto da McKynsey. Molto si capisce già da titoli come “New York ha pagato milioni a McKinsey per un piano per ridurre la criminalità che invece è aumentata”. Il sito ricorda anche come nell’ultimo anno la società abbia fatto incetta di contratti per aiutare i governi a rispondere alla pandemia e tracciare i contagi, con risultati molto discutibili.
Arabia e Sudafrica —
Nel 2016 McKynsey ha perso molti dei suoi clienti in Sud Africa dopo essere stata coinvolta in una vicenda di corruzione che ha portato alle dimissione del capo del governo di Pretoria Jacob Zuma. McKinsey aveva infatti stretto un alleanza con la società di consulenza Trillian della famiglia sudafricana Gupta che ha sfruttato le sue relazioni con Zuma per accaparrarsi illegittimamente commesse da 1,6 miliardi di dollari.
McKinsey ha accettato di restituire al governo sudafricano 100 milioni di dollari e si è pubblicamente scusata con la popolazione del paese. Dal 1974 è presente in Arabia Saudita con un ruolo che è andato via via crescendo nel corso degli anni. Fino alla messa a punto nel 2015 il documento “Saudi Arabia beyond oil” commissionato dal principe Mohammed Bin Salman e in cui si suggerisce come reinventare l’economia saudita spezzandone la dipendenza dal petrolio.
Il disastro Enron del 2002
Non che anche in tempi meno recenti McKinsey non sia stata protagonista di vicende poco edificanti.
Basti ricordare il crack del colosso dell’energia statunitense Enron del 2002. Fu proprio McKinsey ad aiutare Enron a “reinventarsi” da gruppo che vendeva energia e gestiva gasdotti a società specializzata nella speculazione sui prezzi energetici utilizzando sofisticati strumenti finanziari. Del resto lo stesso numero uno di Enron Jeff Skilling proveniva da McKinsey. Finì malissimo: bancarotta, 20mila persone per la strada e senza pensione e Skilling condannato a 24 anni di prigione. Il crack spazzò via dal mercato la storica società di revisione Arthur Andersen incaricata di controllare i bilanci di Enron, mentre McKinsey riuscì a defilarsi quasi indenne, grazie soprattutto agli accordi che abitualmente firma con i suoi clienti in cui specifica che quelle fornite sono “semplici opinioni”.
Il mercato globale della consulenza vale circa 150 miliardi di dollari all’anno, McKinsey non diffonde dati ufficiali sui suoi ricavi, che vengono comunque stimati intorno ai 10 miliardi di dollari. Al primo posto davanti a Boston Consulting che si ferma a 8,5 miliardi. Il gruppo ha una lunga tradizione di “porte girevoli” con governi e grandi aziende. Il ministro per l’Innovazione digitale e la transizione ecologica Vittorio Colao è ad esempio uno dei tanti “ex”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
I CONSULENTI DI MCKINSEY AFFIANCHERANNO IL GOVERNO
Il Governo Draghi ha deciso di avvalersi della consulenza della multinazionale McKinsey per
l’elaborazione del Recovery Plan. Nei giorni scorsi il Ministero dell’Economia, guidato da Daniele Franco, ha stipulato un contratto con la prestigiosa società statunitense specializzata nella consulenza strategica.
L’accordo prevede che gli esperti di McKinsey diano supporto al Governo nell’analisi dei dati e nella definizione delle stime degli impatti dei progetti al vaglio per il Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ossia il Recovery Plan).
I consulenti non affiancheranno solo i tecnici del Tesoro ma l’intero team al lavoro sul piano, coordinato da Carmine Di Nuzzo, dirigente della Ragioneria generale dello Stato.
La notizia del ricorso a McKinsey è stata rivelata da Radio Popolare. Nel pomeriggio di oggi, sabato 6 marzo 2021, il Ministero dell’Economia (Mef) ha confermato la notizia e ha fatto sapere che il contratto con la società statunitense “ha un valore di 25mila euro +Iva ed è stato affidato ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti sotto soglia”.
Secondo convergenti ricostruzioni, Draghi ha deciso di rivolgersi alla multinazionale per velocizzare i tempi, considerato che il Recovery Plan deve essere presentato alla Commissione europea entro il 30 aprile. Il premier evidentemente non ritiene la macchina della Pubblica Amministrazione all’altezza della — non facile — missione.
Ma il coinvolgimento di McKinsey sta generando polemiche. Il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, si chiede se questi privati abbiano accesso a informazioni strategica e ha annunciato la presentazione di una interrogazione. “Con tutto il rispetto per McKinsey, se le notizie fossero vere, sarebbe abbastanza grave”, attacca l’ex ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia (Pd).
Da parte sua, il Ministero dell’Economia respinge le critiche e sottolinea che McKinsey “non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr”. “Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”, precisa il Tesoro.
La governance del piano, quindi, “resta in capo alle amministrazioni competenti e alle strutture del Ministero, che si avvalgono di personale interno degli uffici”.
Nella nota il Mef spiega anche che “l’Amministrazione si avvale di supporto esterno nei casi in cui siano necessarie competenze tecniche specialistiche, o quando il carico di lavoro è anomalo e i tempi di chiusura sono ristretti, come nel caso del Pnrr”.
In particolare, concludono da via XX Settembre, “l’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali ‘Next Generation’ già predisposti dagli altri paesi dell’Unione europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”.
(da TPI)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
IL LEGHISTA VORREBBE FORMARE UN NUOVO GRUPPO SOVRANISTA CON IL PREMIER UNGHERESE, LA SORELLA D’ITALIA SPERA ENTRI NEI CONSERVATORI
C’è un derby tutto italiano che si sta giocando in queste ore sulla scia dello strappo tra Viktor Orbà¡n e il Ppe. Protagonista della partita, i sovranisti in Europa. Che si contende l’autocrate di Budapest.
Da un lato Giorgia Meloni spalanca le porte dei suoi Conservatori, partito che presiede a Bruxelles e che all’Europarlamento esprime i 60 deputati dell’Ecr, con i polacchi di Jaroslaw Kaczynski a farla da padrona.
Dall’altra c’è Matteo Salvini, che nella video telefonata di mercoledì scorso con il premier ungherese ha rilanciato il suo vecchio pallino: un nuovo partito sovranista europeo con gruppone parlamentare unico destinato a diventare il secondo dopo il Ppe.
Piccolo particolare: i Conservatori europei dovrebbero sciogliersi per dar vita alla nuova creatura. Addio Ecr, con la sua tradizione e la sua storia da destra liberista europea oggi confluita nella narrativa dei “sovranisti di governo”.
“Ma perchè mai dovremmo farlo?”, dicono sia stata la risposta di Kaczynski alla domanda degli alleati. Tanto più che proprio i polacchi hanno una pregiudiziale non da poco nei confronti dei leghisti. Perchè legati a doppio mandato all'”invisa” Le Pen e perchè entrambi, Matteo e Marine, sospettati di simpatie filo putiniane che si sommerebbero a quelle di Orbà¡n, amicissimo però del polacco con il quale ha fondato i Visegrad, spostando troppo il baricentro dell’ipotetico nuovo gruppo verso Mosca.
Insomma, un gioco di veti incrociati internazionali ma al contempo molto romani.
Lo stesso gioco che già due anni fa, a cavallo delle Europee del 2019, fece naufragare il sogno del “gruppone nero” coltivato da Salvini.
Saltato anche su questioni più terra terra: i rappresentanti della destra Ue bloccarono l’operazione reunion quando si arrivò a discutere su chi avrebbe comandato nella formazione al Parlamento europeo. E dunque avrebbe gestito cariche e soldi.
Oggi però è lo stesso Orbà¡n a far balenare di nuovo l’ipotesi del rassemblement sovranista. “Abbiamo parlato con i polacchi, con Matteo Salvini e con Giorgia Meloni – ha detto l’ungherese – serve una casa politica per chi la pensa come noi in Europa”.
Nella sua ottica il teorico della democrazia illiberale punta a spaccare i gruppi esistenti, Id ed Ecr, e crearne uno nuovo. Per intestarselo.
Una mossa mediatica da rivendere in patria e uscire da trionfatore dopo la cacciata dal Ppe. E così lascia appesi i pretendenti, Salvini e Meloni, e il destino europeo della destra italiana. Spiazzandoli, visto che il matrimonio tra Orbà¡n e l’Ecr due giorni fa veniva già dato per fatto. Con un sospetto (molto fondato) in più: che l’abile premier ungherese flirti con entrambi gli italiani per tirare il prezzo con i polacchi in vista di un suo ingresso nell’Ecr. In termini di peso politico.
Meloni intanto, stando ai racconti dei suoi a Bruxelles, fa sapere che di sciogliere l’Ecr non se ne parla, ma che potrebbero entrare tutti, ungheresi e leghisti, nel gruppo Conservatore che esiste già . Ovvero il suo.
“Difficile pensare che i nostri 27 eurodeputati possano finire senza contraccolpi in un gruppo di una sessantina di conservatori”, spiega allora uno dei consiglieri più ascoltati da Salvini. Come dire: come minimo dovremmo esprimere il capogruppo. Ed eccoci daccapo: per i polacchi, ma anche per i sei di Fratelli d’Italia, è impensabile cedere il comando all’asse Lega-Fidesz.
“Il gruppo Ecr è la vera casa dei valori conservatori. Siamo sempre stati aperti a coloro che condividono i nostri valori e che considerano il gruppo Ecr come una possibile dimora politica”, sottolineano dunque i copresidenti del gruppo Ecr Raffaele Fitto e Ryszard Legutko nel tentativo di concludere in bellezza il corteggiamento a Orbà n lasciando fuori Salvini: con gli ungheresi, l’Ecr scavalcherebbe Verdi e Id diventando il quarto gruppo a Strasburgo.
Insomma, sono fasi di impasse nel derby della destra italiana in Europa e così Salvini interpellato a margine del suo processo a Catania, frena, rimanda, prende tempo: “Ho parlato con Orbà¡n, ma il mio tempo lo sto dedicando alla ricerca di vaccini e al decreto ristori. Ne riparleremo quando l’Italia sarà messa in sicurezza dal punto di vista della salute e del lavoro”.
Un attivismo ritrovato sul fronte europeo, quello di Salvini, che al momento sembra allontanare il progetto che stava molto a cuore all’ala più europeista della Lega, quella vicina al neo ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti: l’ingresso nel Ppe.
Uscito Orbà¡n, il capo leghista è ancora meno motivato a cambiare pelle e natura per entrare nella famiglia popolare. Che però in vista delle Europee del 2024 potrebbe avere bisogno dei parlamentari italiani vista l’emorragia di voti di Forza Italia e l’addio di Orbà¡n e del suo cospicuo pacchetto di preferenze.
Regalandole la patente di un centrodestra rispettabile in giro per il mondo. A patto che ci sia una leadership leghista che dimostri un convinto europeismo e una vera svolta moderata: magari proprio con Giorgetti.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
IL LEGHISTA HA FRETTA, STRETTO TRA IL GOVERNISTA GIORGETTI E LA CONCORRENZA DELA MELONI
Matteo Salvini non ne vuole proprio sapere di tenere un profilo basso, come piacerebbe a Mario Draghi.
D’altra parte, se sei “stretto” a destra da Giorgia Meloni e a “sinistra” da Giancarlo Giorgetti (GG per gli amici), è difficile fare diversamente.
Ma ai piani alti di via Bellerio spiegano anche con altre ragioni questa loquacità del capitano leghista, a dispetto anche del “cicchetto” che già una volta si è beccato dal premier: “Punta alle elezioni tra un anno, subito dopo l’elezione del presidente della Repubblica”, dicono senza troppi giri di parole.
E sarebbe ben contento, aggiungono, se al Quirinale andasse proprio Mario Draghi (ma non ditelo a Berlusconi con il quale c’era già stata una mezza promessa; di “morire” per Silvio però a via Bellerio non ne hanno più voglia).
Insomma, al di là dei diversi stili di comunicazione, Salvini con Draghi si sta trovando bene, spiegano i fedelissimi di Matteo e non gli dispiacerebbe affatto ritrovarselo presidente della Repubblica.
Ma c’è anche un’altra ragione, molto più importante della mera stima reciproca: avere un buon rapporto con il Quirinale, cioè con colui che può dare o non dare l’incarico di formare un governo è fondamentale per le ambizioni future del leader leghista.
Ormai, almeno con la cerchia più stretta dei collaboratori, non ne fa più mistero: vuole fortissimamente fare il presidente del Consiglio. Meglio se già tra un anno.
Dopo che l’ex numero della Bce gli avrà tolto le castagne dal fuoco su vaccini e Recovery e messo in sicurezza il Paese. A quel punto sarà tutto più facile.
(da TPI)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
LO SCANDALO CONTINUA DOPO 50 ANNI… PER 183 CHILOMETRI CI SONO VOLUTI 36 ANNI DALL’APPALTO ALL’ULTIMA CERIMONIA
Stop and go. Accelerazione e frenata. La storia della Palermo-Messina è un rosario di aperture e chiusure: e dire che per costruire questi 183 chilometri di anni ce ne sono voluti 36, volendo considerare il tempo trascorso fra l’assegnazione dell’appalto e l’ultima inaugurazione. L’ultima, perchè in realtà di nastri su questa striscia di asfalto ne sono stati tagliati tanti: solo Silvio Berlusconi, che all’inizio del secolo s’intestardì a volerne consegnare la paternità alla storia, sorrise in camera due volte in pochi mesi, ma prima di lui c’erano state ben 14 celebrazioni.
Perchè, da quelle parti, il catalogo delle inaugurazioni è lungo: una nel 1972, poi tre nel 1973, altrettante l’anno successivo, due nel 1977 e una nel 1978, poi un altro spicciolo presentato nel 1988 e infine l’inaugurazione del 1992, quella del 1998 e le due finali, di Natale 2004 ed estate 2005.
Perchè, nell’era del 61 a 0, Berlusconi e il suo plenipotenziario Gianfranco Miccichè si erano fissati con l’incompiuta per antonomasia: “C’erano questi ultimi 40 chilometri – ricorda l’assessore regionale ai Lavori pubblici dell’epoca, Guglielmo Scammacca della Bruca – e si fece un forcing per rispettare i tempi. Era difficile: tutto gallerie e viadotti, quasi nulla di strada normale”.
Il risultato fu appunto una doppia inaugurazione: Berlusconi tagliò il nastro di un’autostrada che aveva uno svincolo, quello oggi soppresso a Furiano, attivo in una sola direzione.
Ma non solo: nonostante l’accordo fra i sindacati e il Consorzio Messina-Palermo, per lavorare anche di notte, alla fine in alcune gallerie mancavano gli impianti. “Accelerarono tanto sull’inaugurazione – sorride Scammacca – che io non potei essere presente”. In luglio, così, ci fu una nuova passerella: apertura di tutta l’autostrada, celebrazioni e una volata per le Politiche dell’anno successivo.
Subito dopo l’inaugurazione, però, vennero alla luce i problemi: già nel 2006 la procura di Mistretta evocò il rischio “di incidenti di vaste proporzioni” nelle gallerie, considerate sprovviste di dispositivi standard di sicurezza come l’illuminazione, le vie di fuga, gli aeratori, le colonnine per l’sos e così via.
Era il convitato di pietra che iniziava a manifestarsi: nel 2008 finì nelle carte giudiziarie una fornitura di calcestruzzo scadente per la galleria Cozzo Minneria, all’altezza di Castelbuono, nel 2011 scattò il sequestro per le gallerie Tindari e Capo d’Orlando e nel 2012 caddero calcinacci nel tunnel di Tindari e in quello di Caronia. “Quei pezzi di calcestruzzo – annotò all’epoca l’assessore ai Lavori pubblici Pier Carmelo Russo, additando l’accelerazione del decennio precedente – avrebbero dovuto essere rimossi in fase esecutiva”.
Così si arriva al presente: l’anno scorso il ministero dei Trasporti ha contestato al Consorzio autostrade siciliano 800 irregolarità (che riguardano però anche la Messina-Catania), e per rispondere a quelle contestazioni sono partiti da agosto diversi interventi. Diciassette riguardano una parte dei cavalcavia finiti sotto sequestro ieri, mentre in tre casi si stanno conducendo carotaggi sulla struttura (si tratta dei ponti numero 6, 9 e 10): il rischio è che adesso i lavori rallentino per la transizione dovuta all’inchiesta.
“Il Consorzio autostrade – osserva l’assessore regionale alle Infrastrutture, Marco Falcone – paga il prezzo di anni senza bussola con ricadute sui servizi ai cittadini. Oggi proprio il raffronto con l’eredità del passato ci consente di apprezzare l’inversione di tendenza. L’ente fornirà una relazione tempestiva”. In fretta: perchè il paradosso dell’opera-simbolo della lentezza è che si va sempre veloci. Pagando il prezzo di una frenata troppo brusca.
(da “La Repubbica”)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
LA RELAZIONE ANNUALE PUNTA L’INDICE CONTRO LA SANITA’ E IL FALLIMENTO DI ALISA CON UN DISAVANZO PEGGIORE D’ITALIA DOPO IL MOLISE
Un disavanzo complessivo di 64 milioni di euro. Con queste cifre la Regione Liguria ha chiuso il 2019. E
per la Procura Regionale della Corte dei Conti ” è il peggiore disavanzo d’Italia, secondo soltanto a quello del Molise”. Un buco per buona parte determinato dal ” fallimento del sistema sanitario della Liguria”. Su questo si impernia metà della relazione stilata dalla magistratura contabile in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che per il 2021 si tiene in remoto. Lo scorso anno era saltata, sempre per l’imperversare della pandemia
C’è di più nelle 103 pagine scritte dal Procuratore Regionale Claudio Mori: nessun ente sanitario regionale nel 2019 ha chiuso l’esercizio con utili. Tutt’altro. La mobilità extra- regionale ha un indice negativo per 71 milioni di euro, superiore a quella del 2018 che era di 58 milioni. Parliamo della fuga di pazienti verso le altre regioni, di liguri che si fanno curare fuori; di soldi che la Regione Liguria paga a Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana
Eppure la giunta regionale, presieduta da Giovanni Toti, sentita la commissione consiliare competente per materia, ha approvato un piano di efficientamento del Servizio Sanitario Regionale ” finalizzato ad ottenere, entro il 31 dicembre 2022, il pareggio dei bilanci delle Asl e degli ospedali (legge di stabilità della Regione Liguria), garantendo l’efficacia nell’erogazione dei Lea”. I Livelli Essenziali di Assistenza
Un dèjà – vu. Scrive la Corte dei Conti che ” il piano prevedeva una progressiva riduzione delle perdite totali rispetto al risultato dell’esercizio già nel 2015″. In quell’anno ( il centrodestra vinse le elezioni contro il centrosinistra) il buco era di 102 milioni di euro e sarebbe dovuto essere coperto entro il 2019
Così non è stato. Anche se per la Regione ” il punto di forza del piano era rappresentato dalla istituzione dell’Agenzia Ligure Sanitaria — istituita con la legge regionale n. 17/2016 — nuova azienda con funzioni di programmazione sanitaria e sociosanitaria, coordinamento, indirizzo e governance delle Asl e degli altri Enti del servizio sanitario regionale”.
All’agenzia è stata affidata l’impostazione della riduzione dei costi, mettendo in piedi la Centrale Unica degli Acquisti: ” una gestione accentrata che avrebbe dovuto garantire, anche puntando sulla realizzazione di economie di scala, risparmi di spesa. Ma la Procura della Corte dei Conti afferma: “Alisa non è riuscita a conseguire gli obiettivi”. ” Ed i risultati consolidati del servizio regionale per gli anni 2017-2019 sono stati tutti con il segno negativo: 56 milioni nel 2017, nel 2018 ben 56 milioni e 64 milioni di euro nel 2019″
Quindi, gli obiettivi programmati non sono stati raggiunti. ” Tuttavia — scrive il Procuratore Regionale — è fondamentale, a questo proposito, che ne vengano misurati gli scostamenti, analizzate le cause e vengano predisposte le misure correttive”. E però l’ex direttore generale di Alisa ( il commissario straordinario Walter Locatelli decaduto il 31 dicembre scorso) e quelli delle aziende sanitarie hanno avuto le retribuzioni accessorie, cioè i premi per il raggiungimento degli obiettivi. La Procura si domanda se, per il raggiungimento del pareggio del conto economico consolidato sanitario, siano stati dati precisi obiettivi in tal senso ai direttori generali… tenuto conto del mancato raggiungimento…”.
La penultima bacchettata della Corte dei Conti è sulle ” unità aggiuntive nella pianta organica di Alisa… con sottrazione di personale regionale dalla Regione o dagli enti del servizio regionale…”. Poi c’è “l’elevato stock di residui passivi della Regione nei confronti degli enti del servizio sanitario, pari a 497 milioni e 172 mila euro”. Anche se la Regione imputa tale sofferenza ” ai ritardi nelle erogazioni ed agli inadempimenti dello Stato”. Risposta che, a parere della Procura, ” non risulta del tutto attendibile, ma, soprattutto, credibile”.
(da agenzie)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
“I SOLDI CONSEGNATI IN CONTANTI DENTRO UNA BUSTA DEL PANE DAVANTI AL DISTRIBUTORE AL BAR SHANGRI-LA ALL’EUR… L’UOMO E’ IL SEGRETARIO DELLA MELONI CHE CI SALUTO’ DICENDO: “IO A VOI NUN VE CONOSCO, NON V’HO DATO GNENTE”
“Maietta ha detto alla Meloni che c’era bisogno di pagare i ragazzi presenti per la campagna elettorale e la Meloni ha risposto: ‘Dì a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario’ “.
Quei ragazzi erano quelli di un clan di Latina. Un clan che la Dda di Roma considera mafioso.
E’ un’accusa pesante quella fatta dal collaboratore di giustizia Agostino Riccardo davanti ai pm antimafia romani, Corrado Fasanelli e Luigia Spinelli, da tre anni impegnati in una serie di indagini su alcune famiglie di origine nomade radicate nel capoluogo pontino, legate a doppio filo ai Casamonica, e che per gli inquirenti hanno messo su delle vere e proprie associazioni per delinquere di stampo mafioso.
Inchieste in cui a più riprese sono emersi rapporti tra pezzi di politica e malavita e che ora vedono un pentito tirare in ballo la stessa presidente di Fratelli d’Italia, sostenendo che nel 2013 fece avere al clan
Travali, colpito nei giorni scorsi da 19 arresti, 35mila euro per comprare voti e attaccare manifesti a favore di quello che all’epoca era l’astro nascente del partito, Pasquale Maietta, commercialista, ex presidente del Latina Calcio ed ex tesoriere alla Camera di FdI, amico di vecchia data del boss Costantino Cha Cha Di Silvio, coinvolto nell’inchiesta “Don’t touch”, relativa all’organizzazione criminale messa in piedi da quest’ultimo, imputato nel processo “Olimpia”, relativo a tre organizzazioni criminali che sarebbero state costituite nel capoluogo pontino all’ombra del Comune quando era sindaco il collega di partito ed ex consigliere regionale Giovanni Di Giorgi, e imputato nel processo “Arpalo”, per cui venne anche arrestato, incentrato su un vasto giro di denaro frutto di evasione fiscale riciclato in Svizzera.
In passato Riccardo e Renato Pugliese, figlio di Cha Cha, anche lui diventato collaboratore di giustizia, parlarono dei servizi di attacchinaggio e della compravendita di voti di cui a Latina i clan di origine nomade si erano occupati a favore, oltre che di Maietta e di Di Giorgi, di Matteo Adinolfi, attuale eurodeputato della Lega, di Gina Cetrone, ex consigliera regionale del Pdl, passata poi a Cambiamo di Giovanni Toti, arrestata per tali vicende e attualmente imputata, di Nicola Calandrini, attuale senatore di FdI, e di Angelo Tripodi, attualmente capogruppo della Lega alla Regione Lazio.
Dai verbali spuntati fuori con le ultime inchieste emerge ora anche il nome della Meloni, che nel 2018 è stata rieletta alla Camera con il centro-destra nel collegio uninominale di Latina.
“Nel 2013 – ha dichiarato Riccardo ai pm Fasanelli e Spinelli – alle elezioni politiche, prima di conoscere Gina Cetrone, presentata da Di Giorgi, al bar eravamo io, Pasquale Maietta, Viola, Giancarlo Alessandrini”.
Tutti componenti del clan Travali, più volte coinvolti in vicende di estorsione, armi e violenze. “Maietta – ha precisato il pentito – ci presentò Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c’erano Rampelli e Meloni, nonchè del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta”.
Nel 2013 il commercialista pontino fece effettivamente ingresso alla Camera dopo che la Meloni e Fabio Rampelli, storico esponente della destra, tra i fondatori di FdI e attuale vice presidente della Camera, optarono per altri collegi.
A tal proposito inoltre, durante il processo “Alba Pontina”, relativo all’organizzazione mafiosa che sarebbe stata costituita a Latina dalla fazione di Campo Boario dei Di Silvio, lo stesso Riccardo ha sostenuto: “Maietta nel 2013 entrò alla Camera dei deputati dopo che noi minacciammo pesantemente Fabio Rampelli, costringendolo a optare per l’elezione in un altro collegio e a liberare così il posto”. Circostanza sempre smentita dal vice presidente della Camera.
Tornando all’incontro che alcuni membri del clan avrebbero avuto con la presidente di FdI, il collaboratore di giustizia ha poi affermato che Maietta disse alla Meloni che quei ragazzi, quelli del clan Travali, dovevano essere pagati e che lei rispose di parlarne con il suo segretario.
“Il segretario in disparte – ha evidenziato il pentito – e solo io e il mio gruppo presenti, ci ha detto: ‘Senza che usiamo i telefoni diamoci un appuntamento presso il Caffè Shangri-la a Roma’. Noi abbiamo detto che allo Shangri-la era complicato arrivarci, per cui ha detto di vederci al distributore che è ubicato dall’altra parte della strada, all’altezza dello Shangri-la. Ci ha detto di aspettare in un parcheggio lì vicino entro le ore 12”.
Il racconto si fa dettagliato: “Lui è arrivato da una strada interna e da quelle parti c’è il centro commerciale Euroma 2, e ci ha portato all’interno di una busta del pane 35mila contanti. Prima di andare via ci disse: ‘Mi raccomando, io non vi conosco. Non vi ho mai dato niente’. Noi lo rassicurammo in tal senso.
Era venuto con una Volkswagen berlina, la stessa vettura con la quale aveva accompagnato la Meloni a Latina”.
Infine Riccardo ha assicurato ai due magistrati antimafia: “Sono in grado di riconoscere questa persona”.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
IL 61% DEI BONUS NON HANNO CREATO LAVORO PER BABYSITTER MA SONO STATI DIROTTATI DALLE FAMIGLIE AI NONNI (CHE LO AVREBBERO FATTO COMUNQUE)… UN COMPENSO DI 1.200 EURO, UN TOTALE DI 664 MILIONI PER FAVORIRE I FURBETTI
Nel pieno della pandemia del Coronavirus, quando le scuole sono state chiuse dall’oggi al domani, sono
stati i nonni e le nonne a prendersi cura dei bambini, dei loro nipoti. Senza pensarci un attimo, nonostante fossero la categoria più a rischio, più esposta al Covid. L’Inps, infatti, elaborando i dati del bonus babysitter — un sostegno economico fortemente voluto dal governo Conte II per venire incontro alle famiglie che all’improvviso si sono trovate asili e scuole chiuse — ha scoperto che il 61% dei beneficiari ha oltre 60 anni.
Su 556.348 babysitter, tra marzo e agosto, ben 339.252 hanno oltre 60 anni, il che significa che presumibilmente si tratta di nonni e nonne. Complessivamente il numero di richiedenti è stato pari a circa 720 mila: la stragrande maggioranza, ovvero 621 mila, sono autonomi o arrivano dal settore privato, il doppio rispetto ai 310 mila richiedenti il congedo Covid.
A richiedere i servizi a sostegno della famiglia sono state soprattutto le donne che rappresentano il 78% di chi ha richiesto il congedo Covid.
Le donne, tra l’altro, costituiscono anche il 79% delle babysitter: sono state 437 mila e di queste quasi 100 mila risultano avere oltre 70 anni.
Gli uomini, invece, sono stati 118 mila, quasi la metà dei quali con oltre 70 anni. Per gli uomini pagati col bonus, gli over 60 sfiorano l’83% e sono quasi tutti pensionati. L’importo totale erogato, tramite la piattaforma del libretto di famiglia, è stato di 664,6 milioni di euro.
A ogni babysitter erogati (in media) 1.200 euro
Ma quanto sono stati pagati? Facendo i conti in tasca, il bonus previsto dal governo poteva raggiungere i 1.200 euro (che arrivavano a 2 mila per alcune categorie di lavoratori come i sanitari) ma, secondo l’Inps, la media del pagamento è stata di 1.195 euro.
(da agenzie)
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Marzo 6th, 2021 Riccardo Fucile
INTERVISTA A BERND LANGE, PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE UE SUL COMMERCIO
Per il New York Times l’Italia è «disperata». Il riferimento è alla decisione — presa dal governo Draghi in accordo con la Commissione europea — di bloccare l’esportazione di circa 250 mila dosi del vaccino di AstraZeneca verso l’Australia come risposta alle inadempienze dell’azienda anglo-svedese nella fornitura delle dosi del vaccino anti-Coronavirus, decisione che ha fatto alzare qualche sopracciglio tra chi teme che possa dare inizio a una nuova stagione di protezionismo vaccinale, rallentando ulteriormente la produzione, distribuzione e somministrazione dei vaccini.
«Le dosi bloccate verranno distribuite ai 27 Stati membri. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che se introduciamo divieti di esportazione, altri Paesi potrebbero fare altrettanto» dichiara a Open Bernd Lange, eurodeputato nel gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo e presidente della Commissione sul commercio internazionale.
«La produzione di vaccini è un esercizio molto complesso e un’azione del genere potrebbe portare altri Paesi, dai quali dipendiamo per ingredienti e forniture specifiche a fare lo stesso — aggiunge -. Può portare a un effetto domino e a un certo punto potremmo non essere più in grado di ottenere tutti gli ingredienti o i prodotti per produrre i vaccini. Quindi, a lungo termine, l’Ue potrebbe spararsi sui piedi».
Il problema delle forniture dai Paesi extra-Ue
Il problema è reale perchè una parte delle dosi che arrivano in Italia passa da Paesi e stabilimenti extra europei. A partire dagli Stati Uniti e il Regno Unito che, come ha ricordato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen recentemente, hanno meccanismi che permettono di bloccare le esportazioni dei vaccini anti-Covid. Come hanno spiegato gli amministratori delegati delle principali aziende produttrici in una recente audizione al Parlamento europeo, tutti hanno faticato a costruire una rete di produzione in Europa — come Moderna, per esempio, che un anno fa non avevano nemmeno uno stabilimento — e per farlo si sono dovuti appoggiare a vari partner locali.
Ma quante dosi del vaccino vengono prodotte all’estero e in quali Paesi?
Come spiegano da Farmindustria, si tratta di dati di dominio delle singole aziende farmaceutiche. Fonti della Commissione europea dicono altrettanto: queste informazioni non sono ancora state rese pubbliche a livello centrale. Non è facile sapere dunque dove e in che percentuali i vaccini vengano prodotti in Paesi extra-Ue che potrebbero bloccare la fornitura verso l’estero nel caso di ritardi o inadempienze come ha fatto l’Italia con AstraZeneca. Il rischio non riguarda solo i Paesi produttori di vaccini, ma anche delle materie prime che vengono utilizzate nei vaccini.
Il blocco americano e il Serum Institute in India
È il caso del Serum Institute indiano, il produttore di vaccini più grande al mondo su cui AstraZeneca potrebbe fare affidamento anche per produrre le dosi che spettano ai Paesi europei, se la Commissione e l’Agenzia europea per i medicinali (Ema) saranno d’accordo. Intervenendo a un panel dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’amministratore delegato dell’azienda ha detto chiaramente che il divieto sulle esportazioni degli “ingredienti”, ovvero delle materie prime usate per sviluppare il vaccino, applicato dal governo degli Stati Uniti questa settimana per facilitare la collaborazione tra due compagnie farmaceutiche — Merck&Co e Johnson&Johnson — sempre nell’ambito della produzione dei vaccini anti-Covid, potrebbe limitare la propria produzione. Sarebbe un problema, visto che oltre ad AstraZeneca anche Novavax, tra i vaccini attualmente al vaglio dell’Ema, si appoggia a loro.
(da Open)
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