Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
HA LASCIATO NEL POMERIGGIO IL CARCERE DI REBIBBIA… HA COLLABORATO CON LA GIUSTIZIA ACCUSANDO GREGARI E COLLETTI BIANCHI
Ha lasciato definitivamente il carcere il mafioso Giovanni Brusca, l’uomo della strage di Capaci, l’assassino di donne e bambini che operava sotto le direttive di Salvatore Riina. Ma anche il collaboratore di giustizia che ha svelato ai magistrati di tutte le procure d’Italia segreti e retroscena di Cosa nostra, non solo dell’ala militare, ma anche di quella che ha avuto contatti con il mondo politico e imprenditoriale.
Oggi è stato l’ultimo giorno di carcere per Brusca. Le porte di Rebibbia si sono spalancate nel pomeriggio per richiudersi alle sue spalle. Ha scontato tutta la pena che gli era stata inflitta, e a differenza di altri collaboratori di giustizia, lui la condanna l’ha espiata in cella.
Adesso è un uomo libero, sottoposto a controlli e protezione, ma libero. Tecnicamente resta però sottoposto a quattro anni di libertà vigilata. Così ha deciso la corte d’Appello di Milano, l’ultima a pronunziarsi sul conto del condannato in relazione al processo più recente.
Non c’è mai stata una collaborazione con la giustizia più discussa di quella di Giovanni Brusca. Arrestato da agenti della polizia di Stato il 20 maggio 1996 in una villetta vicino ad Agrigento, dove il boss era con il fratello Enzo e le rispettive mogli e figli, ha ottenuto la “patente” di pentito nel marzo del 2000 dopo lunghe polemiche.
Quando, venticinque anni fa, venne pubblicata la notizia che la sua compagna e il figlio erano sottoposti alle misure urgenti di protezione riservate ai familiari dei collaboratori di giustizia, l’allora difensore del boss, l’avvocato Vito Ganci, rivelò di avere ricevuto dal suo assistito confidenze su un “complotto” in cui voleva coinvolgere uomini delle istituzioni.
Brusca aveva fatto al suo difensore, tra gli altri, il nome dell’ex presidente della Camera Luciano Violante. Si trattava di un piano ideato dallo stesso Brusca per screditare l’antimafia, i collaboratori di giustizia e creare difficoltà in importanti processi di mafia. Questa idea non venne mai attuata. Ma a confermare il piano del falso pentimento fu il fratello, con il quale Giovanni Brusca si era accordato a gesti durante un’udienza di un processo, affinché anch’egli si fingesse pentito e sostenesse quello che il fratello dichiarava.
In seguito lo stesso Giovanni Brusca ha ammesso la circostanza.
La collaborazione vera e propria è stata segnata da un lungo travaglio interiore. «La mia non è una scelta facile. Pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri, il giudizio che mio padre darà di me», disse Giovanni Brusca.
Suo padre, Bernardo Brusca, deceduto in carcere, è stato capo della cosca di San Giuseppe Jato, ed è stato un autorevole esponente della cupola. Giovanni ne aveva ereditato il “prestigio” mafioso.
Nei lunghi interrogatori davanti ai magistrati di Palermo, Caltanissetta e Firenze, che si occupavano anche delle stragi del 1992 e del 1993, il boss ha ammesso la sua partecipazione all’attentato a Giovanni Falcone, a numerosi delitti eccellenti e all’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il figlio undicenne del pentito Mario Santo Di Matteo strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre che aveva parlato con i magistrati.
Ha rievocato le riunioni in cui fu decisa la strategia criminale di Cosa nostra, ha accusato altri boss, ha parlato degli “aggiustamenti” dei processi. Oltre a ricostruire una lunga catena di sangue, Brusca ha parlato anche dei rapporti tra Cosa nostra, la politica e la vasta area grigia dei fiancheggiatori. Nel 2002, dopo lunghe e burocratiche autorizzazioni, il mafioso si è sposato in carcere con la sua compagna, dalla quale aveva avuto un figlio.
Negli anni passati aveva ottenuto l’autorizzazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, grazie alla “buona condotta”, di godere permessi premio di qualche giorno. Adesso per lui è arrivato il fine pena grazie ad un ultimo abbuono di 45 giorni di liberazione anticipata, deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano.
(da L’Espresso)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
OLTRE 200 PARLAMENTARI HANNO CAMBIATO CASACCA
La nascita di Coraggio Italia innesca un’altra rivoluzione negli equilibri politici e la mappa del Parlamento cambia ancora in maniera sensibile. Snocciolando i dati sui gruppi di Camera e Senato, emerge infatti che, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018, oltre 200 parlamentari hanno cambiato casacca.
Il quadro è chiaro: 138 deputati e 65 senatori non fanno più parte del partito o del movimento con il quale erano stati eletti. Un totale di 203.
Il «muro dei 200» è stato superato d’un colpo (con 23 cambi di casacca alla Camera) con la nascita di Coraggio Italia, movimento guidato dal governatore della Liguria Giovanni Toti sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, costituito in gran parte da fuoriusciti da Forza Italia.
E presto il bilancio del «trasformismo» potrebbe ulteriormente salire ben sopra quota 203, visto che, in settimana, è attesa la nascita di Coraggio Italia anche a Palazzo Madama, dove la quota minima per formare un gruppo è di 10 senatori (alla Camera è di 20), ma le regole sono più stringenti.
Da inizio legislatura, il Movimento Cinque Stelle è il partito che detiene il record di addii: 60 a Montecitorio e 33 al Senato. Una disgregazione che, oggi, ha portato i 93 ex grillini a riaccasarsi in tutti i partiti presenti in parlamento.
Forza Italia è invece al secondo posto con 37 addii ufficiali (27 alla Camera e 10 al Senato).
A ruota il Partito democratico, con 31 parlamentari persi (rispettivamente 18 e 13), confluiti in gran parte in Italia viva con Matteo Renzi.
Scorrendo l’elenco della Camera, secondo i dati di Openpolis, emerge che ci sono numerosi casi con cambi di casacca multipli, che fanno salire ulteriormente il totale dei passaggi di gruppo a 259.
Una deputata, da inizio legislatura, ha «cambiato abito» ben 3 volte. È il caso della onorevole Maria Teresa Baldini, che dopo essere stata eletta con Fratelli d’Italia è passata al Misto, poi è entrata in Forza Italia ed infine, l’altro giorno, l’ultimo salto nel nuovo spazio politico costruito da Toti e Brugnaro.
Mentre Tiziana Piccolo, nel giro di 24 ore, aveva lasciato la Lega per andare pure lei con Coraggio Italia, salvo poi tornare subito nel Carroccio.
E come non ricordare l’addio eccellente a Forza Italia di Renata Polverini, che lo scorso 21 gennaio, in mezzo alla bufera politica per tentare di formare un Conte ter, aveva traslocato con i responsabili di Tabacci. Ma poi, a Palazzo Chigi, è arrivato Draghi e l’ex governatrice del Lazio, pentita, è tornata con i berlusconiani.
Al Senato, a detenere il record assoluto di tutto il Parlamento, si registra il caso di Giovanni Marilotti, che ha traslocato per ben 5 volte: M5S, poi Misto, a seguire Autonomie, Maie-Centro democratico, poi di nuovo gruppo Misto ed infine Pd.
Quattro cambi di casacca per Gregorio De Falco (è entrato con il M5S, poi Misto, Maie e di nuovo Misto).
A pari merito, tra gli altri, la senatrice Mariarosaria Rossi, già fedelissima di Berlusconi: anche lei aveva tentato la carta dei responsabili, chiamati Europeisti, per sostenere un Conte ter (tentativo andato a vuoto). Quindi era passata nel gruppo Misto con Cambiamo e nei giorni scorsi ha seguito Toti nella nascita di Coraggio Italia.
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
E’ IL SUNTO DELLA VISITA DEL PREMIER LIBICO DBEIBAH A ROMA
Con la “nuova Libia” gli affari sono assicurati. Quanto ai diritti umani, si vedrà. E’ il sunto della visita del premier libico Abdul Hamid Dbeibah a Roma, la prima ufficiale in Italia da quando ha assunto la carica di primo ministro.
Con Dbeibah ci sono diversi ministri libici, da quello dagli Esteri all’Interno, dai Trasporti all’Economia. Nella mattinata alla Farnesina si è tenuto un Business Forum al quale, oltre al ministro degli Esteri Luigi Di Maio e alla delegazione di Tripoli, hanno partecipato una nutrita rappresentanza di imprese italiane: Snam, Saipem, Terna, Ansaldo Energia, Fincantieri, PSC Group, Italtel, Leonardo, WeBuild, Gruppo Ospedaliero San Donato, Cnh Industrial, Eni.
Sul piatto la riattivazione di alcuni macro-investimenti italiani in Libia, come la costruzione dell’Autostrada della pace inserita negli accordi siglati da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi nel 2008, o il dossier energetico.
Tutti gruppi interessati alla ricostruzione della Libia, convocati per ascoltare dal premier e dai ministri competenti le opportunità offerte dal Paese.
A condizione che prosegua quel processo di stabilizzazione, avviato a metà marzo con la nascita del governo di unità nazionale e che dovrebbe portare alle elezioni del 24 dicembre prossimo. L’ad di Eni Claudio Descalzi aveva peraltro già incontrato il premier libico durante il suo viaggio a Tripoli a fine marzo per discutere delle attività nel Paese della società, che rappresenta il primo produttore di gas nel Paese nordafricano e il principale fornitore di gas al mercato locale
Affari a gogò
“Ci troviamo ad una svolta cruciale del processo di stabilizzazione politica della Libia. Possiamo contare oggi su una Libia nuova e unita” ha affermato Di Maio, aprendo la plenaria del business forum italo-libico alla Farnesina, “le migliori forze produttive italiane vogliono essere protagoniste del rilancio del nostro partenariato industriale e del processo di ricostruzione del Paese, a partire dalle esigenze che i nostri amici libici considerano prioritarie”.
La presenza di Dabaiba, ha aggiunto, “conferisce altissimo valore a questa riunione, che costituisce un ulteriore tassello del percorso di rilancio del partenariato che Italia e Libia hanno intrapreso dai giorni successivi alla formazione dell’autorità transitoria unificata”. Di Maio ha evidenziato che l’Italia “non ha mai abbandonato la Libia e l’ambasciata ha sempre continuato ad operare anche nei momenti più difficili”, mentre adesso “siamo impegnati a rafforzare ulteriormente la presenza istituzionale italiana in Libia, attraverso l’imminente riattivazione del consolato generale a Bengasi e l’apertura di un consolato onorario a Sebha, in Fezzan. Nei prossimi mesi, inoltre, rafforzeremo anche la nostra presenza a Tripoli, con un desk promozionale per le imprese italiane e un addetto culturale presso la nostra ambasciata”.
“Il supporto che l’Italia fornisce in Ue” sull’immigrazione ”è molto importante e lo abbiamo ribadito nei diversi incontri avuti al livello italiano ed europeo” ha detto il premier libico Dbeibah. L’Italia e la Libia “al livello storico hanno sempre cooperato, l’Eni è tra i nostri partner più grandi per il petrolio” ma anche in materia di infrastrutture il rapporto con l’Italia ”è molto forte e ci dispiace che lo scambio commerciale si sia abbassato, il nostro obiettivo è incrementarlo. Dobbiamo ricostruire scuole, ospedali, infrastrutture, vogliamo tornare alla produzione di 3-4 milioni di barili al giorno e rilanciare i settori dell’economia. E il miglior partner siete voi”.
A meno di due mesi dalla visita di Mario Draghi a Tripoli, poi il premier italiano e il suo omologo libico si sono incontrati all’ora pranzo per un faccia a faccia che, rispetto all’inizio di aprile, registrerà due novità.
Lo slancio del nuovo governo libico ha subito un sensibile rallentamento tra nodi politici interni – come l’approvazione del bilancio, non ancora arrivata -, un certo attivismo dei gruppi armati e il rapporto, tutt’altro che risolto, con l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar.
Inoltre, sul fronte migranti, è massimo lo sforzo dell’Italia per rendere il dossier soprattutto europeo. Si cercherà, innanzitutto, di integrare le esigenze di due Paesi accomunati dal problema flussi.
Per la Libia la priorità è proteggere i confini meridionali, quelli del Fezzan dove, negli ultimi mesi, l’Italia sta concentrando l’attenzione. È una priorità anche italiana ed europea, sulla quale Roma sta spingendo per un impegno anche finanziario di Bruxelles.
Sul dossier da qualche giorno Draghi può contare sull’asse con Emmanuel Macron, sempre più preoccupato dalla crescente instabilità del Sahel, all’origine della partenza di migliaia di profughi. Nei prossimi giorni Di Maio si recherà proprio in Niger, tra i Paesi che presentano le maggiori criticità nella regione.
Un equilibrio precario
Sebbene dopo dieci anni di conflitto abbia trovato un nuovo equilibrio politico con l’insediamento del governo transitorio, la presenza dei mercenari e l’ingombrante figura del generale Khalifa Haftar, che sabato ha organizzato una parata militare, minacciano gli sforzi di pacificazione.
Restano le divisioni tra l’ovest e l’est, con Haftar che spera ancora di avere un ruolo nella nuova Libia e cerca di dettare l’agenda, mentre non è stato ancora approvato il bilancio unificato presentato dal governo Dbeibah, la cui adozione rappresenta un passaggio cruciale per avviare e favorire la ricostruzione ed il rilancio dell’economia libica.
E sul fronte della sicurezza rimane il problema della presenza dei mercenari stranieri che nei mesi scorsi hanno combattuto al fianco di entrambi i fronti e della presenza militare russa a est e turca a ovest.
Mentre la strada costiera Sirte-Misurata non è stata ancora riaperta, a causa della resistenza dei gruppi armati che la controllano e non vogliono lasciare la zona. In questo contesto di grande fragilità si inseriscono le difficoltà libiche nella gestione dei flussi migratori.
C’è poi il dossier sbarchi. Tema posto a Bruxelles lunedì scorso dallo stesso Draghi e che sarà in agenda al Consiglio Ue del 24-25 giugno. L’Italia è pronta ad assicurare piena assistenza alla Libia ma spinge, allo stesso tempo, per inserirla in un quadro europeo.
Quel ringraziamento di troppo
Resta poi aperto il nodo della tutela dei diritti umani di chi è trattenuto in Libia. Il ringraziamento di Mario Draghi al lavoro della Guardia Costiera libica, in occasione della sua visita a Tripoli, è suonato stridente a molti.
L’Europa cerca ancora una soluzione comune all’annosa questione dei flussi migratori che premono alle sue porte e sulle sue coste. Soluzione che a detta degli stessi leader europei non sembra a portata di mano. Sul dossier migratorio, Di Maio, in occasione della visita a Tripoli ha insistito sulla necessità di una “strategia più ampia”, che non sia incentrata esclusivamente sul controllo della frontiera libica marittima – la porta dell’Ue dal Mediterraneo centrale – ma anche su quella meridionale, nel Fezzan, da cui transitano i disperati che lasciano il Sahel. “Investire nello sviluppo economico e sociale del Fezzan è quindi un altro elemento essenziale di questa strategia. L’Unione europea può essere al fianco del governo di unità nazionale in questo percorso”, ha assicurato Di Maio. L’Italia – che ha da poco nominato un Console onorario nella regione meridionale della Libia – guida tra l’altro la missione Eubam, che partecipa proprio agli sforzi per la sicurezza dei confini libici contro i trafficanti di esseri umani e il terrorismo, oltre all’operazione Irini che dovrebbe garantire l’embargo delle armi nel Mediterraneo. La missione di Italia, Malta e Ue a Tripoli era andata così incontro alla richiesta della ministra degli Esteri libica, Najla el Mangoush, di intercettare le rotte dei migranti molto prima che arrivino a rischiare la vita in mare.
“La Guardia costiera deve essere una parte strategica della lotta al fenomeno e non una soluzione”, ha dichiarato la responsabile libica definendo le migrazioni illegali “una triste storia e un problema umanitario, di sicurezza ed economico”.
Stop al rifinanziamento
“Nelle prossime settimane – scrive Nello Scavo su Avvenire – il Parlamento italiano dovrà discutere il rinnovo del sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, costata fino ad ora oltre 800 milioni di euro, e che non di rado ha ricambiato l’interessato favore con ambigue manovre in mare, omissioni di soccorso, diverse stragi e un certo numero di raffiche sparate all’indirizzo di pescherecci italiani. Anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha insistito nel chiedere ai partner Ue di potenziare la missione navale europea Irini nel ruolo di addestramento dei guardacoste di Tripoli.
«Nella Guardia Costiera libica non sono tutti degli angeli – ha osservato il direttore del “Libya Herald” -. Inoltre riportare i migranti in Libia, dove non abbiamo la capacità di rispettare gli standard internazionali, porta ad ulteriori crimini». I clan hanno affinato le tecniche di taglieggiamento dei Paesi europei. E le frequenti partenze di queste settimane, proprio in vista del vertice a Roma con Dbeibah, fanno parte della trattativa a colpi di barconi. Un sistema di vera criminalità organizzata che Safa Msehli, portavoce dell’Oim da Ginevra, riassume in un tweet nel quale denuncia la sparizione di migliaia di persone: «Più di 10mila migranti sono stati intercettati quest’anno da “entità libiche” e sono stati portati in prigione. Ma oggi solo la metà di loro si trova in questi centri. Questo sistema è un abominio». Così Scavo, uno dei pochi che le vicende libiche e lo scempio dei diritti umani perpetrato nei lager libici, conosce veramente.
Alla Libia non occorrono corsi di formazione militare, navi o armi ma “law enforcement, capacità di tutela e promozione dei diritti umani e ripresa economica”. A dirlo a InfoAfrica è Fadel Lamen, direttore del Libyan national economic social development board, pochi giorni prima della visita di Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, primo ministro libico, a Roma.
“Per una buona relazione occorre avere obiettivi comuni” ha detto Lamen a InfoAfrica, spiegando che non sempre il nuovo corso di relazioni tra Italia e Libia, ma anche tra Ue e Libia, ha seguito questa logica. Da un lato, quello libico, la necessità di garantire la sicurezza per poter aiutare una necessaria ripresa economica e dall’altro, quello italiano ed europeo, la necessità di frenare i flussi di migranti irregolari che attraversano il Mediterraneo.
“Quello che serve è una strategia più ampia – sostiene Lamen – perché proteggere le acque e i confini non è la soluzione ai problemi comuni che dobbiamo affrontare”.
Ai libici “non occorre formazione sull’uso di armi o di imbarcazioni piccole e medie per il pattugliamento e la lotta ai trafficanti, il problema in Libia non è questo” sostiene Lamen. “Se la Libia intercetta i trafficanti, i migranti irregolari o blocca le imbarcazioni sulle proprie coste, dove pensate che finiscano queste persone? Nei centri di detenzione, che sono in pessime condizioni” e gestiti anche peggio: “Per questo non serve formazione sull’uso di armi, serve formazione sui diritti umani, sul diritto internazionale. Va adottato un piano strategico, più comprensivo ed ampio, la questione non è solo donare armi o imbarcazioni, questo è semplicistico. In Libia non c’è la capacità di identificazione dei migranti, non esiste un modo per valutarne lo status e la posizione legale, per concedere lo status di rifugiato”.
Lamen suggerisce un approccio più ampio e globale, che comprenda i diritti umani, il rafforzamento giuridico della Libia e l’economia.
Ma per l’Italia i diritti umani restano un optional. La diplomazia degli affari non li prevede.
(da Globalist)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
ATLANTIA HA ACCETTATO L’OFFERTA PER L’ACQUISTO DELL’88% DI ASPI PER 9,1 MILIARDI… LA REVOCA NON C’E’ STATA PERCHE’ SAREBBE SCATTATA LA PENALE (COME AVEVAMO SEMPRE DETTO)
Quasi due miliardi e mezzo. Tanto spetta alla famiglia Benetton, proprietaria del 30% di Atlantia, per la cessione di Autostrade per l’Italia al consorzio formato da Cassa depositi e prestiti con i fondi Blackstone e Macquarie.
Anche se i soldi resteranno alla holding che dovrebbe utilizzare la dote per investimenti o per ridurre il debito.
A dieci mesi dall’accordo del luglio 2020, l’assemblea degli azionisti della holding con una maggioranza dell’87% ha accettato l’offerta per l’acquisto dell’88,06% del capitale di Aspi.
Dopo quasi tre anni dal crollo del ponte Morandi finisce così, almeno sul fronte aziendale (il processo è ancora in corso), il braccio di ferro tra lo Stato e i concessionari autostradali che erano responsabili della gestione e manutenzione del viadotto genovese il cui cedimento ha ucciso 43 persone.
Sfumate le minacce di revoca della concessione ad Aspi arrivate dal governo Conte 1 fin dal giorno successivo alla tragedia e ribadite ancora lo scorso anno, il punto di caduta è sì l’uscita degli attuali soci dall’azienda, ma con una plusvalenza.
Non a caso il titolo Atlantia è stato maglia rosa a Piazza Affari e ha chiuso la seduta a +2,84%. Per i familiari delle vittime, che avevano chiesto fino all’ultimo di interrompere la trattativa, la decisione è un nuovo colpo.
“Siamo molto amareggiati. Non sono sorpresa dell’ok degli azionisti di Atlantia, sarebbe stato come rifiutare un terno al lotto – ha detto Egle Possetti, portavoce del Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi – Io auspico che, visto che Cdp avrà l’ultima parola, spero ci sia un ripensamento e che la contrattazione non vada avanti”.
Sul piatto 9,5 miliardi per il 100% di Aspi
Sul piatto, dopo diversi affinamenti per accontentare tutti i soci compreso il fondo speculativo britannico Tci e dopo il ballon d’essai dell’offerta di Florentino Perez, c’era una valutazione di 9,1 miliardi per il 100% di Aspi più una quota (ticking fee) del 2% annuo sul prezzo dal primo gennaio 2021 alla data del closing dell’operazione che dovrebbe cadere nel marzo 2022.
In questo modo la valorizzazione sale a 9,3 miliardi. A cui vanno sommati i ristori statali per i mancati ricavi causati dal Covid, per un totale di 9,5 miliardi.
L’88% vale così 7,9 miliardi. Di cui 2,38 spettano alla dinastia di Ponzano Veneto, che ha il 30,2% di Atlantia attraverso Edizione e tra 2009 e 2018 ha incassato 6 miliardi di dividendi mentre – ha calcolato l’ufficio studi e ricerche di Mediobanca – gli investimenti in manutenzione calavano da 1,1 miliardi l’anno a poco più di 500 milioni.
“Le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo meno facevamo … cosi distribuiamo più utili … e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti“, diceva, intercettato, l’ex ad di Edizione Gianni Mion parlando della famiglia Benetton.
La proposta di Cdp e soci è stata approvata con il voto favorevole di 1.129 azionisti, l’86,86% del capitale sociale rappresentato in assemblea, mentre in 60 hanno detto no. I tre proxy advisor (Glass Lewis, Iss e Frontis), società che consigliano i fondi su come votare in assemblea, si erano del resto espressi in maniera unanime a favore del sì all’offerta.
Anche perché, secondo S&P, a valle dell’operazione è probabile che i rating di Atlantia e Aspi vengano scorporati perché i rischi finanziari a cui Aspi è attualmente soggetta “diminuirebbero probabilmente notevolmente” (anche se “non è chiaro quanta esposizione rimarrebbe al rischio per il crollo del ponte di Genova”) e per la holding Atlantia i proventi della cessione supererebbero “di gran lunga” il suo attuale debito estero, lasciando spazio a potenziali acquisizioni.
La prossima tappa è la riunione del cda, che si terrà il 10 giugno, per dare il via libera agli accordi vincolanti con Cdp. La firma è attesa entro fine mese. Poi dovrà essere finalmente approvato il nuovo Piano economico finanziario, il cui iter è in stallo dallo scorso anno in attesa della cessione.
La revoca sfumata e le trattative sul prezzo
Nonostante la contestata norma sul taglio da 23 a 7 miliardi delle penali in caso di revoca, inserita nel decreto Milleproroghe a fine 2019, l’iter per togliere la concessione ad Aspi si è rivelato molto più complicato delle attese sul piano giuridico.
E la stessa Avvocatura dello Stato, in un parere reso all’inizio del 2020 al governo Conte 2, ha fatto presente di non poter “escludere che, in sede giudiziaria (nazionale o sovranazionale) possa essere riconosciuto il diritto di Aspi all’integrale risarcimento”.
Così la minaccia di revoca, pur sventolata ogni volta che le trattative si arenavano, ha perso credibilità. Anche perché in Atlantia, accanto alla famiglia Benetton, ci sono il fondo sovrano di Singapore Gic, le banche Hsbc e Lazard e soprattutto il fondo speculativo Tci, che si è subito appellato alla Commissione europea invocando il rispetto del contratto di concessione e ha chiarito che non avrebbe mai accettato un’offerta inferiore ai prezzi di mercato.
Così con il passare dei mesi è diventato evidente che l’uscita dei Benetton dalla società concessionaria avrebbe dovuto essere pagata cara.
Garantendo alla dinastia di Ponzano un ricco incasso. Così è stato: da una valutazione iniziale di 6 miliardi per l’intera società si è arrivati ai 9,5 miliardi complessivi di oggi passando per tre rilanci, fino all’offerta finale presentata a fine marzo.
Nel mezzo il tentativo di coinvolgere Atlantia nel salvataggio di Alitalia, inevitabilmente archiviato a inizio 2020 causa Covid, e la ricostruzione del viadotto a spese di Autostrade. L’ultimo colpo di scena sono state le lettere di manifestazione d’interesse di Florentino Perez, che dei Benetton è socio in Abertis, mai concretizzate però in un’offerta vincolante. Tanto da far sospettare di una mossa concordata per indurre Cdp ad alzare l’offerta.
Ora la vicenda si chiude con una sostanziale vittoria dei soci di Atlantia, sul piano economico.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
LA SOLITA PRETESTUOSA POLEMICA DEI FINTI DIFENSORI DELLA PRESUNTA ETICA CHE NON SANNO GUARDARSI ALLO SPECCHIO
“Spesso non sono d’accordo con le posizioni espresse da Bizzarri e non solo sulle droghe ma questo non vuol dire che non abbia diritto ad esprimerle“.
Così il presidente ligure Giovanni Toti difende il presidente di Palazzo Ducale Luca Bizzarri, oggetto degli attacchi della Lega per una frase sulla presunta assunzione di droga da parte del cantante dei Maneskin giudicata ambigua.
“Anzi – ha rimarcato il governatore – direi che il presidente di una fondazione culturale che non animasse il dibattito sarebbe qualche cosa in meno e non in più. Credo che si debbano difendere soprattutto le idee con cui non si è d’accordo e non quelle con cui si è d’accordo che risulta piuttosto facile”.
“Non ho ben capito perché un cantante debba fare un test antidroga dopo aver vinto un festival. Anche perché così Paganini non ne avrebbe mai vinto uno – aveva scritto Bizzarri – Quando la smetteremo di considerare la droga un problema etico forse potremmo cominciare a capire qualcosa della droga, ad affrontarne l’uso e gli abusi un poco più seriamente evitando il moralismo ipocrita che pervade ogni momento di questa disgraziata epoca”.
Nei giorni scorsi era arrivata la dura presa di posizione del capogruppo regionale Stefano Mai: “L’ennesimo commento sui social network di Luca Bizzarri sull’uso di droghe non lascia spazio a equivoci”.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
LA FESTA DI LANCIO A VENEZIA ALL’HOTEL CIPRIANI DOVE LE REGOLE ANTI-COVID SONO SALTATE
La scena è questa. Ci sono decine di persone in abito da sera che mangiano, bevono e chiacchierano nei giardini dell’hotel Cipriani, uno dei più lussuosi di Venezia.
Tra gli altri, fa capolino anche l’ex premier Matteo Renzi. Passano attori, vestiti con le maschere del carnevale veneziano. Invece, le mascherine anti-Covid non le ha addosso nessuno. Nessun distanziamento, buffet in piedi e poi tutti a ballare, al suono dell’orchestra. Sembrano scene di un’altra era, ma sono avvenute pochi giorni fa. Peccato, però, che non stia scritto in nessun decreto che per le mega feste private le regole anti-Covid non debbano valere più
Le immagini – facilmente reperibili sui social network – si riferiscono al party per il lancio del nuovo super yacht 1000 della Ferretti, che è andato in scena il 28 maggio scorso, alla vigilia dell’inaugurazione del salone nautico di Venezia. “Un esclusivo evento, riservato a selezionati ospiti internazionali”, viene presentato sul sito dell’azienda nautica. E forse è per compiacere i “selezionati ospiti”, che per l’occasione si è deciso di chiudere un occhio sulle norme anti-Covid.
Contattato da Fanpage, l’ufficio stampa di Ferretti Group fa sapere che “per partecipare all’evento è stato richiesto un tampone negativo allo staff a tutti gli ospiti, effettuato nelle 24 ore precedenti all’ingresso al luogo dove si è tenuta la presentazione”. Inoltre, “è stata allestita una postazione per effettuare tamponi rapidi antigenici agli ospiti sprovvisti di precedente tampone”.
Insomma per entrare al gala serviva una sorta di passaporto sanitario. Una procedura “fai da te”, potremmo definirla, visto che il Green Pass ufficiale che certifica la negatività al virus ancora non è entrato in vigore
Basti ricordare che al momento il governo ha previsto solo la ripresa delle feste a seguito di cerimonie civili e religiose e comunque non prima del prossimo 15 giugno. Ci sono ancora inoltre regole stringenti sulla somministrazione di cibo e bevande, per non parlare delle norme sul distanziamento da seguire nel caso di attività che si svolgono al chiuso. Resta poi immutato l’obbligo di indossare le mascherine
Tutte queste circostanze vengono ignorate dagli organizzatori dell’evento. Per quanto abbiamo potuto ricostruire, la serata si è articolata in due parti. Nella prima, gli ospiti si sono intrattenuti nei giardini dell’hotel, dove lo staff ha servito cibo e bevande, sullo sfondo della laguna di Venezia, dove era ormeggiato lo yacht protagonista della kermesse. Nei filmati, quasi nessuno dei partecipanti indossa la mascherina o mantiene il distanziamento minimo.
Ancora più controversa la seconda parte della serata. La festa si sposta negli spazi al chiuso all’interno dei saloni del Cipriani. Anche qui, nessuno rispetta il distanziamento e di nuovo di mascherine non si vede nemmeno l’ombra. Nella sala si esibiscono gli attori del “Ballo del Doge”, lo spettacolo più esclusivo del carnevale veneziano. Poi è il turno dell’orchestra, che tra le altre suona le note de “Il Mondo” di Jimmy Fontana, mentre gli invitati ballano un lento in pista. Peccato che le regole anti-Covid al momento non consentano questo tipo di attività.
Lo staff di Renzi conferma che il senatore di Italia Viva ha partecipato all’evento, “così come altre alte autorità civili, militari e religiose”. L’entourage dell’ex premier sottolinea che era tamponato e ha lasciato i locali prima delle 23, rispettando il coprifuoco. Da notare come l’evento sia stato patrocinato, tra gli altri, dal Comune di Venezia, con tanto di discorso dal palco del sindaco Luigi Brugnaro. D’altronde, solo pochi giorni prima della festa, lo stesso Brugnaro aveva annunciato di aver acquistato uno yacht Ferretti 1000, proprio il modello presentato durante la serata di gala.
(da Fanpage)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
L’APPELLO DELLE ASSOCIAZIONI PER I DIMENTICATI DELLA CAMPAGNA VACCINALE
Invisibili per la burocrazia. Invisibili per i vaccini.
Sono italiani e stranieri, cittadini comunitari e non, rom, clochard, minori non accompagnati, occupanti o abitanti dei ghetti, vittime di tratta o del caporalato. “Invisibili” perché irregolari, senza una casa, un permesso, un documento. Eppure “fragili” per antonomasia, per identità sociale, culturale, clinica e psichica, per ghettizzazione residenziale e abitativa. Ma esclusi al momento dalla campagna vaccinale anti-Covid.
Un censimento che dia conto dei numeri esatti non esiste. E anche in questo sta la difficoltà di inserirli nella scaletta del piano nazionale per la struttura commissariale guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo.
Gli ultimi dati Istat disponibili risalgono al 2015 e ne contano 500mila.
Ma per Salvatore Geraci, responsabile sanitario della Caritas di Roma, andrebbero aggiunti i 200mila migranti che si trovano in un limbo amministrativo, in attesa di risposta alla loro richiesta di regolarizzazione, a cui una circolare del ministero della Salute del luglio del 2020 garantisce l’iscrizione al Sistema sanitario regionale senza l’assegnazione del medico di base. O i 78mila che si trovano nelle strutture e nei centri di accoglienza. L’Istituto nazionale salute migrazioni e povertà ne stima 700 mila di “invisibili”.
A sollevare la questione nel febbraio scorso in una lettera al ministro della Salute Roberto Speranza, che non ha ancora avuto seguito, erano state anche le associazioni del Tavolo immigrazione, tra cui Asgi, Caritas, Emergency e Medici senza frontiere.
Emanuela Petrona Baviera della Società italiana di medicina delle migrazioni scriveva ancora due settimane fa: “La mancata vaccinazione di una sacca così sensibile di popolazione costituisce un rischio di inficiare la buona riuscita di tutto il piano vaccinale, in un momento in cui preservare la salute del singolo coincide con preservare la salute della comunità”.
Cosa dice la legge
La copertura normativa c’è. Non solo l’articolo 32 della Costituzione e l’articolo 35 del Testo unico sull’immigrazione. È l’Aifa a specificare che “per effettuare la vaccinazione alle persone (italiane e straniere) in condizioni di fragilità sociale può essere accettato un qualsiasi documento (non necessariamente in corso di validità)” come “la tessera sanitaria Team (Tessera europea assistenza malattia), il codice Stp (Straniero temporaneamente presente) o il codice Eni (Europeo non iscritto)”. Codici che spesso vengono respinti dalle piattaforme di prenotazione regionale che non li riconoscono. “In mancanza di documenti – prosegue comunque l’Aifa – verranno registrati i dati anagrafici e l’indicazione di una eventuale ente/struttura/associazione di riferimento”.
Al momento, solo la piattaforma informatica dell’Emilia-Romagna prevede l’inserimento di questi codici. In altre Regioni, ad esempio il Friuli Venezia Giulia, si chiede lo Spid, il codice di identità digitale o, altrove, il numero di telefono cellulare certificato. “Con tali livelli – spiega Gianfranco Costanzo, direttore sanitario dell’Inmp – i cittadini stranieri non possono dunque prenotare la vaccinazione, pur avendone diritto, e nemmeno altre persone possono farlo a loro nome”
Vaccinazione a macchia di leopardo
Ma la vaccinazione procede a macchia di leopardo. In Lombardia “le Ats contatteranno le organizzazioni che si occupano dei senzatetto per chiedere il numero di persone che assistono e capire la capacità che hanno di somministrare le dosi vaccinali. Ed entro un paio di settimane arriverà la soluzione per gli irregolari” ha spiegato Marco Salmoiraghi, dirigente dell’assessorato al Welfare di Regione Lombardia. A tutti loro verrà somministrato il vaccino Johnson&Johnson perché monodose: sarà più facile renderli immuni senza bisogno di rintracciare chi non ha nemmeno un indirizzo sicuro.
A Palermo la Caritas, racconta il vicedirettore don Sergio Ciresi, “ha somministrato le prime cento vaccinazioni ai senzatetto e ora siamo al lavoro per poter garantire i vaccini agli stranieri ‘invisibili'”. Metà giugno è la data sperata. Lo stesso ha fatto la Croce Rossa, sia a Palermo che a Catania. “La Sicilia è stata la prima Regione ad autorizzare, rispettando il target degli over 60, la vaccinazione dei marginali, difficili da intercettare, senza medico curante e che difficilmente si recano negli hub” ha sottolineato il commissario di Palermo all’emergenza Renato Costa.
Ha raccontato il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che quando il capo dello Stato, Sergio Mattarella, è andato in visita all’hub del capoluogo si è complimentato con la Regione proprio per la vaccinazione ai senza fissa dimora, a coloro che nemmeno sapevano di avere diritto al vaccino”.
E ancora in Calabria, a Lamezia Terme, è sempre la Caritas diocesana a prendersi cura di loro: in fila ci sono italiani, stranieri, cittadini di origine rom. È la carità, la solidarietà, il volontariato cattolico o laico a colmare i buchi dello Stato, per ora.
Nel Lazio il primo impulso lo ha dato Papa Francesco che da mesi in Vaticano sta portando avanti le vaccinazioni dei poveri. Secondo Aldo Morrone, direttore scientifico del San Gallicano che nella prima fase dell’epidemia, con Comune di Roma e Regione Lazio, ha gestito tamponi, test sierologici e quarantene per le fasce più deboli, sono 2mila i già vaccinati con Pfizer. “Draghi ha detto che è necessario vaccinare tutto il mondo – dice – È una dichiarazione molto bella, cominciamo dalle persone invisibili che stanno nelle nostre città”.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
“RIAPERTURE? UN RISCHIO INUTILE”… “NEL REGNO UNITO LE VARIANTI STANNO FACENDO RISALIRE I DATI”
Il professore ordinario di Microbiologia all’Università di Padova parla di ritorno da Londra, dove la variante indiana ha fatto risalire la curva di casi e ricoveri: «Vaccinare tutti gli under 15 prima che sia tardi»
Secondo Andrea Crisanti i dati incoraggianti sulla pandemia di Covid-19 alla base delle prime zone bianche e delle riaperture anticipate sono sottostimati.
«La settimana scorsa abbiamo avuto una media di 150 morti al giorno per poco meno di 5 mila casi», spiega , «anche se i decessi si riferissero a contagiati di venti giorni prima i conti non tornerebbero».
Un’accusa forte che mette in dubbio l’impegno delle Regioni nell’elaborare i numeri esatti sulla circolazione del virus.
«Non lo stanno più cercando, è sotto gli occhi di tutti», continua Crisanti, «nel momento in cui si rimuovono le misure di sicurezza bisognerebbe aumentare tamponi e tracciamento, e invece succede il contrario».
Una situazione delicata quella disegnata dallo scienziato, che teme per le riaperture in atto. «Per fortuna la vaccinazione sta facendo da scudo», spiega, «ma se finisse l’immunità o arrivasse la variante sbagliata torneremmo nei guai. E metà degli italiani deve ancora ricevere la prima dose».
«Riaperture, avete visto il Regno Unito?»
Lo sa bene il professore appena di ritorno da Londra. Le varianti sono un pericolo costante da cui difendersi, come sta succedendo nello stesso Regno Unito, nuovamente in crisi per la mutazione “indiana”, attualmente la più diffusa nel Paese.
«E’ molto più contagiosa di quella “inglese” e destinata a spostare ancora più in alto l’asticella dell’immunità di gregge» racconta Crisanti. «La pandemia non è finita e dobbiamo saperlo tutti. In Inghilterra dove si pensava alle riaperture, con il doppio dei vaccinati rispetto all’Italia, c’è una battuta d’arresto».
Il timore è che presto la variante “indiana” possa diventare anche in Italia la mutazione dominante: «Se dovesse succedere questo come minimo, essendo molto contagiosa, ci costringerebbe a vaccinare tutti i ragazzi da 15 anni in su, ma ci sono notizie allarmanti come quelle che arrivano dal Cdc», spiega il professore, «l’agenzia federale americana per la salute, che segnala casi di miocardite nei giovani vaccinati con Pfizer e Moderna».
Casi rari e lievi che secondo Crisanti non sarebbero da sottovalutare soprattutto per le conseguenze che avrebbero nelle decisioni dei governi.
«Abbiamo già assistito a un balletto simile per le autorizzazioni di AstraZeneca. Con la differenza che i bambini non si ammalano e dunque convincere loro e i loro genitori non sarà scontato».
«Rischio ragionato? No, rischio inutile»
Il rischio ragionato che il 26 aprile spinse il governo Draghi a decidere per le prime riaperture anticipate sembrerebbe essere lo stesso che negli ultimi giorni ha portato a una ripartenza anticipata per attività che avrebbero dovuto riaprire più in là.
«Penso che ancora una volta abbiamo corso un rischio inutile. Se vado in ospedale per un problema vitale e il medico mi propone due strade, un trattamento sicuro per cui bisogna aspettare qualche settimana e uno mai sperimentato ma vantaggioso per motivi economici, scelgo il primo. Dopo 126 mila morti non esiste il rischio calcolato o ragionato, ma solo il rischio inutile».
Il commento del professore alle decisioni politiche, espresso negli stessi termini già ad aprile, è lo stesso anche in riferimento alle ultime direttive. «La vaccinazione sta funzionando», aggiunge, «ma non sapremo mai quanti morti in meno ci sarebbero stati in queste settimane. E per me, come scienziato, è ciò che conta».
«Senza vaccinare tutti il circolo vizioso non finirà»
Senza il coinvolgimento della fascia di popolazione più giovane l’immunità di gregge sarà soltanto un miraggio. L’obiettivo urgente per il professore dell’Università di Padova è garantire la massima copertura vaccinale di tutta la popolazione, «in alternativa continueremo con un livello sostenuto di contagi più o meno accertati».
Il pericolo di uno scenario simile è che si permetta al virus ancora di replicarsi nonostante l’azzeramento di ricoveri e decessi. «Una situazione che andrà bene finché durerà l’immunità e non arriverà qualche variante pericolosa, che senza raggiungere l’immunità di gregge diventerà più probabile. Insomma, si finirebbe in un circolo vizioso», spiega ancora Crisanti.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
IL LIVELLO PIU’ ALTO TRA CHI VOTA LEGA E FRATELLI D’ITALIA
Sullo sfondo di una campagna vaccinale che prosegue a ritmo sostenuto, il fronte No vax continua a raccogliere consensi importanti.
I dati arrivano dal recente sondaggio di Demos & Pi illustrato da la Repubblica, che fornisce il quadro aggiornato sulle opinioni degli italiani in merito alla situazione Covid nel Paese. Ad oggi, circa il 40% della popolazione afferma di essersi vaccinato, senza distinzione di vaccino e di dose.
Dati coerenti con il monitoraggio fornito dall’Istituto Superiore di Sanità. Si attestano invece al 48% gli italiani che aspettano la possibilità di fare il vaccino, crescita rilevante rispetto a due mesi fa.
Il vero elemento di continuità, nel corso degli ultimi 6 mesi, è costituito da coloro che non intendono vaccinarsi: 2 italiani su 10 in Italia appartengono alla categoria No vax. Secondo il sondaggio, tra coloro che sono contrari all’obbligo il 40% non vuole vaccinarsi.
No vax e colore politico
Il sondaggio realizzato da Demos & Pi, poi mette in relazione l’opinione sul vaccino al colore politico degli intervistati. «Coloro che non intendono vaccinarsi per scelta personale raggiungono il livello più elevato fra gli elettori della Lega (22%) e dei FdI (16%). Un orientamento simile si osserva fra coloro che sono contrari al vaccino per principio» si legge nel rapporto.
«All’opposto, un maggior grado di resistenza al vaccino come “terapia preventiva” e come comportamento “regolato per legge” viene espresso dagli elettori del Pd» continua il report. E ancora «La base del M5S mostra un atteggiamento più incerto, sicuramente reticente».
Per il 23% la pandemia durerà ancora molti anni
Rispetto a qualche mese fa sembrerebbe invece essere scesa la percezione di paura nei confronti del virus. Quello che ora prevale è il senso di precarietà e incertezza per un tunnel di cui non si conosce la fine precisa. Oltre 3 italiani su 4 si dicono convinti che la pandemia durerà ancora a lungo, più della metà della popolazione è convinta che si proseguirà per almeno un altro anno. Il 23% per molti anni ancora.
(da agenzie)
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