Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
SOLO IL 26% DEI VOTI (CONTRO IL 28% ATTUALE) E FAREBBE SALIRE LA MELONI AL 21%
Secondo l’Istituto Demopolis se si votasse oggi per le Politiche, la Lega si confermerebbe primo partito con il 21,3%: si riduce ulteriormente il vantaggio su Fratelli d’Italia, in crescita al 19,5%, che sembra beneficiare sempre più del ruolo di opposizione. Il Partito Democratico avrebbe il 19,4%, il Movimento 5 Stelle il 16,8%. Staccata, al 6,7%, Forza Italia.
E’ la fotografia sul peso dei partiti scattata dal Barometro Politico di giugno dell’Istituto Demopolis, diretto da Pietro Vento.
Tra i partiti minori, si attestano tra il 2,6% e il 2% Azione di Calenda, la Sinistra Italiana e Liberi e Uguali. All’1,8%, Italia Viva di Renzi viene affiancata da Coraggio Italia, la nuova formazione di Toti e Brugnaro. Sotto l’1,5% le altre liste.
Nelle ultime 24 ore, l’Istituto Demopolis ha misurato l’opinione degli elettori sull’ipotesi di una federazione del Centro Destra che includa i partiti che sostengono il Governo Draghi.
La proposta, avanzata da Salvini, è apprezzata dal 70% degli elettori della Lega; più disorientati appaiono gli elettori di Forza Italia, con un 44% di favorevoli, un 31% di contrari ed un quarto che non esprime per il momento un’opinione.
Una netta contrarietà viene espressa invece dal 63% di chi vota il partito di Giorgia Meloni.
L’Istituto diretto da Pietro Vento ha realizzato un sondaggio per comprendere come cambierebbe il quadro delle intenzioni di voto se nascesse una Federazione tra i partiti di Salvini e Berlusconi: la federazione otterrebbe il 26%, con un vantaggio di oltre 5 punti su Fratelli d’Italia (che crescerebbe però di un punto) e sul Pd.
Cambierebbero soprattutto gli equilibri in seno al Centro Destra, ma se si votasse per la Camera – come rileva l’analisi di Demopolis per il programma Otto e Mezzo – con il 26% la Federazione avrebbe 2 punti percentuali in meno rispetto all’attuale somma dei consensi, il 28%, che otterrebbero oggi autonomamente Lega e Forza Italia.
(da agenzie)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
LA SPUNTA LA MELONI NELLA SCELTA DEL CANDIDATO PER LA CAPITALE
La Capitale c’est moi. Alla fine sul tavolo del centrodestra non ci sono i sondaggi da
comparare, le sudate carte, i titoli: “La parola della Meloni è stata prevalente”, riassume uno dei partecipanti al vertice.
“I nomi andavano bene entrambi. E la Matone è stata disponibile al ticket”. E’ ufficiale: il candidato sindaco di Roma sarà Enrico Michetti, avvocato, fondatore della Gazzetta Amministrativa, e soprattutto voce di Radio Radio, popolare emittente capitolina, in cui mescola colte citazioni di Seneca a pillole sulla pubblica amministrazione, poesie composte da lui a omaggi alle Forze Armate.
Soprannominato “Michetti chi?” dai detrattori, amato dai tassisti, mentre un comunicato della coalizione sanciva la scelta e il telefonino ribolliva, il candidato già ringraziava in diretta radiofonica “l’affetto della città e degli ascoltatori”.
Gaffes, dubbi dal sapore negazionista sul covid, una certa vaghezza curriculare: tutto trascorso. “Cessiamo ogni forma di odio, stringiamo le mani a tutti. Farò una campagna elettorale civilissima, parlerò solo di programmi”.
Ci sono “valanghe di messaggi”. Michetti si commuove: “E’ una scelta inaspettata, forse è emblema di pulizia e voglia di fare. Sono un civico, mi ritrovo nell’adesione ai valori della patria. Mi metto a disposizione della città”. “Per ridare orgoglio, efficienza, lavoro, futuro e decoro a Roma. Se Sgarbi farà l’assessore alla Cultura abbiamo un tridente, Michetti, Matone, Sgarbi”, ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini per ritagliarsi un ruolo da protagonista.
Finisce – o per certi versi comincia – così. Dopo Fini e Alemanno, in campo c’è Michetti. Non chiamatelo populista, è pop. E’ la prima volta che a “scegliere” il candidato è una radio. A sceglierlo davvero, però, è stata la leader di FdI. Glielo ha presentato Trancassini dopo che “il prof” ha tenuto un corso di diritto per i parlamentari FdI, lo ha annusato, apprezzato, fatto valutare al suo inner circle, quasi imposto agli alleati: “E’ il nostro Mister Wolf”. Ex ante, un paragone che appare ardito.
Come, dal lato avverso, quello di chi le rimprovera un’infatuazione, quasi un capriccio, come se avesse la testa alle Regionali più che al Campidoglio. Spingendosi all’evocazione metaforica del cavallo prediletto di Caligola, che – leggenda narra – l’imperatore avrebbe sognato console preferendolo a più titolati bipedi. Posso, dunque voglio.
Comunque la si legga, una giornatona per Meloni. Incassa il suo nome per Roma, la presidenza del Copasir che finalmente si sblocca (senza i voti della Lega: non un’intesa, ma una resa) e un sondaggio della Ghisleri che vede FdI al19,8 piazzandosi seconda dopo il Carroccio al 21.5%. E’ lei che a fine vertice si ferma a ragguagliare i giornalisti: “Siamo compatti e determinati. Sul Copasir? Spero che la Lega torni presto a collaborare”. Salvini, nel frattempo, si dedica a un post sul turismo accessibile alle persone con disabilità.
L’ennesimo round a destra si chiude con fumata bicolore. Bianca per Roma, dove il magistrato minorile Simonetta Matone sarà candidata “prosindaco”, e Torino (dove in realtà l’imprenditore Paolo Damilano è stato ufficializzato, ma si era deciso da tempo), nera per Milano.
Sotto la Madonnina, Salvini ha un nome civico che mantiene ancora coperto: uscirà in settimana, altrimenti resta favorito Maurizio Lupi. Mentre al capogruppo azzurro Occhiuto manca solo l’ufficialità per correre in Calabria.
Michetti invece è già partito. Chi lo ha incontrato a tu per tu lo racconta diverso dal “tribuno della plebe” che incarna. Furbo, empatico, accattivante: “Un democristianone”. Altro che “destra-centro”.
Ricordando che Mattarella lo ha nominato cavaliere al merito su proposta dell’allora premier Gentiloni. L’autostima non gli fa difetto: “Ho inventato una rubrica, si chiama La Pulce e il Prof” rallegrò gli ascoltatori anni fa. Adesso è il turno della “grande avventura per restituire alla Città Eterna il ruolo di Caput Mundi”.
Partenza con understatement: “Dobbiamo dare una spolverata a questa città e riportarla agli antichi fasti, al tempo dei Cesari e dei grandi papi. Farla tornare città della scienza e della cultura. Ognuno si deve sentire come San Paolo quando disse ’io sono cittadino di Roma”.
(da Huffingtonpost)
argomento: denuncia | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
TICKET CON SIMONETTA MATONE CHE SI PROPONE COME VICE (AREA LEGA)… UN PARTITO CHE VUOLE GUIDARE IL PAESE NON HA UN NOME FORTE DA PROPORRE NELLA SUA ROCCOFORTE
Enrico Michetti è ufficialmente il candidato sindaco del centrodestra a Roma. Dopo mesi di totonomi e attriti interni, i tre partiti sono riusciti a trovare la quadra nel vertice odierno che ha visto prevalere l’uomo indicato da Giorgia Meloni.
L’accordo prevede la candidatura di Michetti in ticket con il magistrato Simonetta Matone che sarà vice-sindaco. Paolo Damilano è confermato invece come candidato sindaco a Torino. Un altro tassello riguarda invece la candidatura per la Regione Calabria che, assicurano dal centrodestra, sarà ufficializzata entro la settimana. Su Milano invece ancora tutto tace.
Professore di diritto e speaker radiofonico, Michetti è anche avvocato e imprenditore: come raccontato da Il Fatto Quotidiano la Corte dei Conti del Lazio indaga su alcuni appalti milionari affidati da enti pubblici senza gara. Il suo studio legale è in via Giovanni Nicotera a Roma, sede legale anche della “Fondazione Gazzetta Amministrativa”, centro nevralgico di una florida industria di servizi per la pubblica amministrazione.
Il volume d’affari raggiunto negli anni fu tale che l’Anac mise sotto la lente appalti e convenzioni rilevando che sovente erano affidati senza gara e senza una procedura comparativa. E dunque che erano illegittimi.
Raffaele Cantone passò al vaglio le relazioni tra la «fondazione Gari» con Regione Lazio, Regione Basilicata, Asl Roma5 di Tivoli. Nel 2018 inviò le istruttorie alle sezioni della Corte dei conti competenti per territorio.
Per alcuni appalti è tuttora in corso la verifica di eventuali danni all’Erario. Insomma, per la Meloni sarebbe un “mr Wolf che risolve i problemi dei sindaci”, in realtà Michetti ne avrebbe creati a iosa agli enti che gli si sono generosamente affidati per servizi informatici, formazione e consulenze legali in ambito amministrativo. In violazione del codice degli appalti pubblici.
Tutto questo non compare, ovviamente, nel cv di 18 pagine che Michetti ha messo in rete. Di sicuro le entrature per ottenere commesse dalle amministrazioni non gli sono mancate. Come avvocato dal 1996 ha difeso centinaia di amministratori locali laziali. In una vertenza contro l’aumento dei pedaggi della “Strada dei Parchi Spa” rappresentò in una volta 83 comuni, ma tra i clienti “storici” ci sono Piero Marrazzo, la Regione , l’Atac e l’Asl dalle pretese della giustizia contabile. Che adesso picchia alla sua porta e lascia un biglietto da visita che è anche motivo di un certo imbarazzo per chi anche professore all’Università di Cassino, proprio di Diritto degli enti locali.
C’è poi il Michetti speaker e tribun
Indagini in corso e gaffe però non sembrano un problema per il centrodestra che ha superato la pregiudiziale di Berlusconi contro i “mestieranti”.
Michetti ora si descrive “contento ed emozionato, grato per la fiducia dimostrata in questi giorni, per l’affetto ricevuto”. “Ora è il momento di restituire alla città eterna quello che merita, il ruolo di caput mundi”, dice all’Adnkronos.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: elezioni | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
ECCO I NUMERI PER ELEGGERE IL SUCCESSORE DI MATTARELLA… IL PACCO DELLA FEDERAZIONE DI CENTRODESTRA RIFILATO DA SALVINI AL CAVALIERE PER ILLUDERLO SULLA POSSIBILITA’ DELLA SCALATA AL COLLE
Si racconta che, quando non ha nulla da fare e si sente bene, Silvio Berlusconi si
metta a far di conto. Non sui parlamentari di Forza Italia: quanti gliene restano e quanti rischiano di andar via. Il pallottolliere berlusconiano riguarda i voti che gli mancano per essere eletto al Quirinale.
Già, perché sul piatto della federazione unitaria di centrodestra, per invogliare ancor di più l’uomo di Arcore a dire sì, Matteo Salvini ha messo come pietanza principale proprio il Colle.
“Se arriviamo ai gruppi unici in Parlamento, la tua candidatura al Quirinale, che tutto il centrodestra sosterrà, avrà radici più solide. Si partirà da una base più forte e coesa…”, è il ragionamento che il leader leghista ha fatto all’ex premier. Cui subito è venuta l’acquolina in bocca.
È anche per questo motivo, si dice nel partito azzurro, che il leader questa volta ha detto subito sì (salvo poi rallentare), facendo scoppiare una bomba nel partito. Come andrà a finire lo sapremo nei prossimi giorni, quando (salvo nuovi rinvii) i deputati forzisti si riuniranno a Montecitorio, con intenti bellicosi. Intanto, però, il sasso nello stagno è stato gettato.
Ma davvero Berlusconi può ambire al Quirinale? A parte lui e pochissimi altri, anche tra i suoi non ci crede quasi nessuno.
Troppi sono i guai giudiziari passati dall’ex premier. Troppe le polemiche, le leggi ad personam negli anni del suo governo, i rapporti con la mafia, gli scandali sessuali, le cene eleganti, il Parlamento costretto a votare su Ruby nipote di Mubarak, eccetera. Per non parlare del fatto che verrebbe eletto al Colle l’uomo che ha diviso il Paese per vent’anni: pro o contro di lui.
Oltre che pregiudicato, plurinquisito spesso prescritto e con pesanti processi ancora in corso. Messo per un attimo da parte tutto questo, ci sono poi i problemi di salute. I sette anni da capo dello Stato sarebbero impegnativi e faticosi per chiunque, figuriamoci per un 84enne che ha passato gli ultimi mesi dentro e fuori dal San Raffaele. Ricoveri che hanno portato al rinvio di udienze e sentenze nei processi in cui è imputato.
Ma siccome tra gli ufficiali di collegamento che uniscono Lega e Fi si racconta che “al presidente mancano solo 50 voti per essere eletto…”, andiamo a vedere se l’ipotesi è reale.
I grandi elettori delle prossime elezioni al Colle saranno 1008. Il quorum da superare dalla quarta votazione in avanti (quando basta la maggioranza assoluta) è di 505 voti. Che si abbassa a 503 se si considera che, per prassi, i presidenti di Camera e Senato non votano. Il centrodestra, al momento, sulla carta conta su una forbice che va da 453 a 460 voti. Ovvero sui voti di Lega (196), Forza Italia (130), Fratelli d’Italia (56), Coraggio Italia (29), pezzi del misto (Noi con l’Italia, Maie e altri) e 34 delegati regionali (per la predominanza del centrodestra nelle Regioni).
Nell’ipotesi migliore, e considerando che davvero tutti votino per lui, a Berlusconi mancherebbero 43 voti, nella peggiore 50. Niente male. Ma comunque peggio del centrosinistra.
Se dall’altra parte fossero tutti compatti, compresi i renziani, sulla carta il centrosinistra insieme al M5S arriverebbe a 545: la soglia per l’elezione al quarto scrutinio sarebbe già superata.
A Berlusconi, come abbiamo visto, mancano una cinquantina di voti. E decisivi, in tal senso, potrebbero essere i 45 parlamentari renziani: spostandosi di qua o di là sarebbero ancora una volta l’ago della bilancia, determinanti anche per la partita del Colle.
Con quei 45 però il leader forzista arriverebbe sul filo del traguardo, al foto finish, giocandosela sul filo dei 3-5 voti di scarto. Troppo pochi davvero.
Anche perché nel segreto nell’urna sarà difficile per lui fare davvero il pieno dei suoi voti sulla carta. I franchi tiratori, in questo caso, sono sempre in agguato, come ben sa Romano Prodi. E comunque una vittoria così risicata, di misura, non si è praticamente mai vista per il Quirinale.
Ma Berlusconi ci spera. Con Renzi il dialogo da tempo è un po’ sopito, ma si può sempre riprendere. E di certo l’ex sindaco di Firenze non è mai stato un antiberlusconiano. Anzi. I due hanno sempre manifestato reciproca stima.
Ma la sfida, per l’ex Cavaliere, resta ai limiti dell’impossibile. Anche perché, nonostante una presunta saggezza da padre nobile sopraggiunta con l’età, per molti italiani Berlusconi resta sempre il Caimano.
E vederlo sul Colle più alto assomiglierebbe a una sorta di incubo, ben peggiore del finale del film di Nanni Moretti.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Berlusconi | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
ORA SCRIVE L’ENNESIMO PROGRAMMA CENTRISTA MENTRE GRILLO METTE IL VETO A DEROGHE SUL DOPPIO MANDATO
Una piattaforma per convincere i moderati. Nonostante gli evidenti tentativi di tranquillizzare l’ala più radicale del Movimento 5 stelle, nonostante la competizione a sinistra con il Partito democratico che è visto come l’interlocutore naturale del nuovo corso, Giuseppe Conte sta in queste ore stilando il programma con una bussola: manca un’offerta elettorale al centro del centrosinistra, manca un partito che raccolga l’elettorato definito moderato. Ed è lì che il M5s che si rifà l’abito cercherà le proprie fortune nel paese e alle urne.
“Non sarà un partito moderato, ma parleremo all’elettorato moderato, il che è un concetto molto diverso”, ha spiegato ieri sera a Di Martedì, nel tentativo di sfuggire comunicativamente alle ironie degli avversari politici.
“Potremo dargli la tessera come socio onorario”, dice giust’appunto Giacomo Portas che è deputato del Pd ma anche leader della formazione politica dei Moderati.
Conte è attento nel lessico, a volte fumoso, attentissimo a non sbilanciarsi, perché per quanto racconti di un Movimento “unito” e che da questo punto di vista “vi stupirà” conosce perfettamente le tante linee di tensione se non di frattura che lo attraversano: “Dice che ha un grande rapporto con i gruppi parlamentari – osserva caustico un parlamentare di seconda legislatura – e ha fatto piacere a tutti noi sentire queste parole, dato che non l’abbiamo mai visto”.
Cammina sulle uova Conte, almeno all’interno, conscio di non potersi permettere drammi o nuove scissioni. Rinvia sulla regola del doppio mandato perché spaccherebbe i gruppi, e perché Beppe Grillo, con il quale i contatti sono costanti, è fortemente contrario a incrinare uno degli ultimi pilastri rimasti dalle origini, e nelle ultime ore avrebbe posto il veto.
Ma intanto lavora a una piattaforma per intercettare un tipo di elettorato che poco o nulla c’entra con il popolo del Vaffa, con la rabbia sociale che ha portato quello che era il partito dell’anti-casta a percentuali impensabili fino a qualche lustro fa.
E così nelle linee guida che sta scrivendo saranno centrali i temi del lavoro, delle politiche attive per abbattere la disoccupazione e arginare i possibili licenziamenti, delle piccole e medie imprese, territorio vasto e per larghi tratti inesplorato sul quale lanciare la competizione a Matteo Salvini e a Forza Italia, e del fisco, argomento che diventerà caldo nelle prossime settimane e dove i 5 stelle si vogliono inserire con una doppia bussola, un abbassamento generale del carico fiscale e una più equa ripartizione delle aliquote.
Il tutto non rinnegando il filo conduttore di un’etica pubblica da salvaguardare e rafforzare, tema irrinunciabile per chiunque in questi anni abbia votato i 5 stelle.
Ma l’obiettivo è allargare il campo, con buona pace di chi storce il naso, in funzione anche della considerazione che l’appeal dell’ex premier, il suo valore aggiunto, sta proprio nella capacità di intercettare un mondo tradizionalmente impermeabile se non ostile ai 5 stelle. Spiega chi lo conosce bene che “lo abbiamo visto a Palazzo Chigi, quando gli indici di consenso personale triplicavano quelli del Movimento, e da dove ha ricevuto attestati di stima da categorie di cittadini che mai avevano appoggiato M5s”.
L’abito che gli verrà cucito attorno solo in questo modo sarebbe credibile, è il ragionamento di chi sta pianificando la discesa in campo.
Gli stessi che smentiscono però categoricamente le ambizioni di eccessivi personalismi, e dunque l’inserimento nel simbolo dell’ammiccante sigla Con-te “non è mai stata nemmeno presa in considerazione”, ma un tocco personale al logo per caratterizzare il nuovo corso, quello sì che ci sarà, forse aggiungendo la dicitura “Italia 2050”, esplicitando l’ambizione di progettare a lungo termine.
È previsto per il weekend del 26 e 27 luglio l’evento di presentazione della Carta dei valori e del nuovo Statuto, anche se si sta facendo un tentativo di anticiparlo a quello precedente, anche se la macchina organizzativa si sta realmente mettendo in moto oggi e dieci giorni sono considerati molto esigui per organizzare tutto. Un evento che si terrà in presenza, visti gli allentamenti delle restrizioni causa Covid, più probabilmente in un luogo chiuso, – una sala eventi, un teatro – anche se l’ipotesi della piazza non è ancora stata scartata.
Poi partiranno i quindici giorni di preavviso necessari alla votazione, che sarà contestualmente affiancata dal voto per confermare l’avvocato del popolo italiano in qualità di nuovo capo politico. Da metà luglio indosserà le nuove vesti, quelle di avvocato del popolo 5 stelle, con l’ambizione di allargare lo spettro del consenso. Il nuovo Movimento se non sarà moderato di nome, viene progettato per esserlo di fatto.
(da Huffingtonpost)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
E’ CAOS SULLE DOSI IN VILLEGGIATURA, MA ORA CHE C’E’ IL GENERALE VA TUTTO BENE… E SE IL VILLEGGIANTE CHE CONOSCE GIA’ LA DATA DELLA SOMMINISTRAZIONE ADEGUASSE IL CALENDARIO DELLA PARTENZA? O SE MUOVESSE IL CULO PER TORNARE IN CITTA’ IL GIORNO FISSATO?
Il calo dei contagi ci porta a sognare la vacanza, incrementando del 10% le
prenotazioni rispetto alla scorso anno nello stesso periodo.
Tutto lascerebbe sperare bene, se non ci fosse il vaccino – o il suo richiamo – a ricordarci i rischi di lasciare la Asl di riferimento con annessa struttura pronta alla somministrazione della dose nella data assegnataci.
Così, chi decide di partire – e ligiamente vuole rispondere alla tempistica del proprio ciclo vaccinale – si chiede con non poca preoccupazione: “se lascio casa alla volta del turismo made in Italy, potrò effettuare la vaccinazione nella località di destinazione o perderò irreversibilmente il mio appuntamento?”.
Ricordiamo l’essenzialità di rispettare il timing dei 42 giorni per Pfizer e delle 5-12 settimane per Astrazeneca, pena la riduzione della copertura contro il Covid (un recente studio anglosassone ci dice che, ad esempio, una sola dose Pfizer non ci proteggerebbe adeguatamente dalla variante indiana del Covid19).
FATE VOBIS
Figliuolo, che gode del vantaggio della disponibilità di vaccini che in era Arcuri ci sognavamo, se la cava calando come un asso che nascondeva nella manica il concetto di “flessibilità”, ovvero: laddove si può procrastinare il vaccino lo si procrastini, laddove lo si può fare in vacanza lo si faccia.
Per casi limitati, si intende. Tradotto, la patata bollente è nella mani delle Regioni che – ancora una volta – vanno in ordine sparso, alcune di queste sotto la guida di governatori affetti dalla ormai tristemente nota “sindrome cronica da protagonismo” che antepone la propria visibilità individuale all’interesse collettivo della comunità che si rappresenta.
Per non parlare degli stagionali che dovrebbero (a parole) godere del beneficio di essere vaccinati nel luogo ove non risiedono stabilmente ma dove lavorano per un periodo medio-lungo e che, all’atto pratico, contattando i vari cup di diverse città si sentono dire: “non abbiamo avuto disposizioni a riguardo”.
Insomma, il caos pare essere dietro l’angolo e la maggior rilassatezza derivante dalla fase calante della pandemia e dalla voglia di lasciarci questo incubo alle spalle potrebbe portarci ad essere meno rigorosi nel rush finale della campagna.
Noi italiani abbiamo il dovere di non abbassare la guardia adesso e di continuare a manifestare responsabilità come abbiamo fatto sinora, ma chi assume le decisioni per noi ha il dovere – prima di cedere a facili trionfalismi – di non nascondere la polvere sotto il Paese solo per dare nutrimento ulteriore alla narrazione del “ora che ci sono io, va tutto bene”.
(da La Notizia)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
LAMENTANO SCARSA MANUTENZIONE MA POI VOGLIONO BLOCCARE I LAVORI… L’ETERNO DERBY SICUREZZA/ECONOMIA
Alle quattro del pomeriggio le agenzie danno notizia della soddisfazione, mista a irritazione, del sindaco di Rapallo Carlo Bagnasco: gli operai di Autostrade sono finalmente intervenuti per ripristinare il viadotto dell’A12 da dove, poco più di 24 ore prima, si era staccata una piastra di metallo.
Il primo cittadino rivendica le sue “numerose ed esasperate richieste” e bolla come “incomprensibile” il fatto che si intervenga “solamente a posteriori”.
Mezz’ora dopo le agenzie riportano una notizia che arriva sempre dalla Liguria: i sindaci della Regione, dei quali fa parte anche il primo cittadino di Rapallo, chiedono la sospensione immediata di tutti i cantieri aperti sulle autostrade e si dicono pronti a sequele di ordinanze per bloccarli se la loro volontà sarà disattesa.
Forse è sfuggito, però, che i cantieri servono a mettere in sicurezza le gallerie. E a non intervenire “solamente a posteriori”, per dirla con le parole del sindaco.
Sempre i sindaci liguri dicono che i cantieri vanno bloccati per scongiurare “il default di un’economia in lenta ripartenza” e che le chiusure dovute ai lavori, anche quelle programmate, mettono in difficoltà un territorio desideroso di accogliere i turisti che vogliono visitare “le meraviglie e assaporare le eccellenze enogastronomiche di cui è felicemente pregna la Regione, da Ponente a Levante”.
Sono le ragioni, legittime, dell’economia. Forse, però, gli stessi sindaci hanno dimenticato che i nove cantieri attivi questa settimana in Liguria fanno parte di quella manutenzione straordinaria chiesta a gran voce, e altrettanto legittimamente, il 30 dicembre 2019, quando crollò la volta della galleria Bertè sulla A26.
Ancora i primi cittadini dicono che se le manutenzioni sono necessarie per la sicurezza dei viaggiatori, allora “qualcuno si deve assumere la responsabilità di certificarne l’indispensabilità”.
Qui quello che non si ricorda è che il ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture ha da tempo programmato i cantieri e l’ha fatto perché sono indispensabili per prevenire crolli e incidenti.
A meno che – ma questo dovrebbero certificarlo i sindaci – qualcuno al Governo abbia deciso di autorizzare lavori che non servono. Nel caso ci troveremmo di fronte a un inedito e davvero incomprensibile atto di autolesionismo: ci sono poche situazioni che creano problemi di consenso politico come le file sulle autostrade degli italiani che impiegano ore per arrivare in Liguria.
In ogni caso i sindaci sono determinati e, come si diceva, pronti a bloccare i cantieri con le loro ordinanze. Sarà una dimenticanza, ma è utile ricordare che potranno farlo per i cantieri sulla via Aurelia, di competenza dell’Anas, ma non su quella gestita da Autostrade per l’Italia, che risponde al ministero dei Trasporti.
Chi può bloccare i cantieri in questo caso è solo il ministero. Lo stesso ministero che dice che quei cantieri devono andare avanti spediti.
Ogni settimana si riunisce un tavolo tecnico. A questo tavolo siedono i rappresentanti del ministero, quelli di Autostrade, ancora quelli della Regione Liguria e della prefettura di Genova.
E da circa un mese tutti concordano (il ministero un po’ controvoglia) che i cantieri in Liguria si chiudono durante il week end. Alle due di pomeriggio di venerdì si fermano i lavori, si smonta tutto e si apre al traffico fino a lunedì pomeriggio.
Poi si rimonta tutto e i lavori riprendono fino al venerdì successivo. Una soluzione di buon senso per permettere un fine settimana senza disagi. I sindaci chiedono però la chiusura dei cantieri fino a novembre, tutti i giorni. Così, però, significa che la manutenzione viene rimandata di sei mesi.
Infine un piccolo ripasso sui cantieri attivi. Entrare dentro è forse il modo migliore per “certificarne l’indispensabilità”, per dirla con le parole dei sindaci.
Partiamo dal numero delle gallerie perché tante gallerie significa, a livello statistico e potenziale, che i rischi di cedimento o di incidenti sono maggiori rispetto a un territorio con poche gallerie.
La Liguria ha più del 50% delle gallerie italiane: 285 sulle 587 presenti sull’intera rete nazionale gestita da Autostrade. Sono 1/4 di quelle di tutta Europa.
E passiamo ai lavori. Autostrade ha completato i controlli di primo livello in tutte le 285 gallerie. Sono quello di tipo visivo, fatte dal tecnico con il supporto di georadar e laserscanner. Il tecnico va dentro la galleria, sale su una piattaforma, e picca sulla volta per vedere se c’è acqua o se si sono formati dei vuoti. Questi primi controlli permettono di fare interventi immediati e urgenti con il calcestruzzo o installando reti di protezione.
Quello che è in corso ora nelle gallerie della Liguria è il controllo di secondo livello: si fanno i cosiddetti carotaggi per avere una sorta di tac più affidabile dello stato di salute del tunnel.
A sollecitare questo tipo di intervento, più di una volta, è stato il ministero dei Trasporti, a ulteriore conferma che la certificazione dell’indispensabilità già c’è. Forse basterebbe solo il crollo del ponte Morandi a ricordare quanto la manutenzione è centrale. Però anche questo, forse, è sfuggito ai sindaci.
(da agenzie)
argomento: denuncia | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
LO SCOOP DEL SITO STATUNITENSE PROPLUBICA: NOTI MILIARDARI PAGANO DALLO ZERO AL TRE PER CENTO DI IRPEF
I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul
reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi.
La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%.
Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni.
L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.
Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato.
E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei.
Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.
È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.
Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.
Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.
Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.
A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.
Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.
(da agenzie)
argomento: denuncia | Commenta »
Giugno 9th, 2021 Riccardo Fucile
“VOLEVANO UCCIDERCI PER MANDARE UN SEGNALE ALL’ITALIA”
Quanto vale davvero uno di quei gamberi crudi che ci mettono nel piatto i ristoranti stellati? Vale una vita, vale un sequestro, vale un colpo d’arma da fuoco, mentre stai lavorando.
Da settembre ferimenti e aggressioni, oltre che un rapimento, hanno colpito i pescatori di gamberi rossi di Mazara del Vallo, arrivati ormai ai ferri corti con la Libia. “È un mese che ci hanno sparato addosso e nessuno ci ha spiegato ancora il perché. Volevano ucciderci per mandare un segnale all’Italia”. Come si è arrivati a questa situazione? Che interessi ci sono dietro?
Gambero di Mazara, indivia, coulis di limone e cialda alla paprika. Oppure spaghetto con gamberi rossi, liquirizia e mandorla salata. E ancora crudo di gamberi, piselli, bottarga e umeboshi.
Potrei sembrare un po’ come “Bubba”, l’indimenticabile spalla di Forrest Gump, che nell’omonimo film ripeteva in continuazione, come un mantra, solo ricette a base dei gamberi. In realtà sono semplicemente online a saltare da un menù all’altro, tra i ristoranti in cui sogno di andare ora che navighiamo verso il porto “sicuro” delle zone bianche.
E più o meno ad ogni pagina mi ripeto: ma questi benedetti gamberi rossi di Mazara del Vallo, che da qui a settembre troneggiano ovunque accompagnati da cifre da capogiro, quanto diavolo costano? Tanto.
E se anche dopo un anno di pandemia mi sentissi pronta a sfornare da me ricette da stella Michelin e andassi in pescheria, pure lì la risposta sarebbe sempre la stessa: si va dai 50 ai 60 euro al chilo.
Il motivo è semplice. Ci sono solamente un’ottantina d’imbarcazioni in Italia che si occupano di pesca a strascico del famoso gambero. E sono tutte di Mazara del Vallo. Stanno al largo anche un mese, vanno a recuperare questo oro rosso a 700 metri di profondità, per poi raccogliere un bottino che frutta 200 milioni di euro l’anno e dà lavoro a quasi diecimila persone.
Cifre che pesco direttamente dalla bocca dal sindaco, Salvatore Quinci, che sa bene che l’indotto del suo paese, 50mila abitanti, ruota praticamente attorno ai gamberi rossi.
Bello, bellissimo, penserà qualcuno: un’eccellenza da raccontare, una specialità da tutelare, un po’ come facciamo con il pomodoro di Pachino, il tartufo di Alba e così via.
Se non fosse che qui i pescatori non organizzano tour enogastronomici o attività turistiche: loro escono di casa e non sanno se ci rientreranno. Sono letteralmente dentro a un guerra che oggi è diventata insostenibile, perché ormai fuori dal loro controllo.
Si rischia di finire per esempio come Michele Trinca, pescatore di Mazara, che insieme ad altri 18 compagni per 108 giorni è stato in una prigione libica ed è tornato a casa dalla figlia Ilaria con 15 kg in meno, senza la fede nuziale (“gli hanno rubato anche quella”) e nella testa l’immagine di quando, fatto spogliare, l’hanno messo contro un muro, nudo, con i fucili puntati addosso. Solo per mettergli paura.
“Già il suo è un lavoro pericoloso, perché si vive per giorni in mare, in balia delle onde – confessa ancora Ilaria, 26 anni, la figlia di Trinca – ma mai ci potevamo aspettare questo orrore”.
Michele, una volta liberato, ha raccontato tutto, poco alla volta. “Sono stati sequestrati dai libici e spostati in tre carceri diversi, lasciati al buio per mesi, senza potersi mai cambiare. Davano loro poco o niente da mangiare: latte scaduto che ha fatto ammalare mio padre. Ha pregato che lo portassero in ospedale, ma non è stato ascoltato. Tutti qui in Italia continuavano a ripetermi di non preoccuparmi, che stava bene, che era in un albergo. Mi è bastato un secondo, appena l’ho visto tornare, per capire che le cose non erano andate proprio così”.
Ma andiamo con ordine: c’è stato quel sequestro, finito poco prima di Natale, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte che recuperano a Bengasi i nostri pescatori, come il papà di Ilaria. Distrutti e derubati. All’epoca si parlava ancora di un incidente diplomatico.
Ma sono passati pochi mesi e di nuovo ora, da maggio, è ricominciato quel clima di terrore che non fa dormire parenti e amici dei pescatori.
Poche settimane fa un’imbarcazione è stata presa a sassate, fumogeni e infine è stata speronata da motopesca turchi. E due pescherecci, l’Aliseo e l’Artemide, della famiglia Giacalone, ovviamente di Mazara, sono stati presi a mitragliate da militari libici.
“Mio padre Giuseppe – racconta Alessandro Giacalone – era al comando del nostro peschereccio, a 50 miglia dalla Libia, quando lo chiama la Marina Militare e gli dice di non fermarsi a pescare, ma di spostarsi verso Nord, direzione Grecia. Lui è tranquillo perché pensa non possa succedergli nulla, con alle spalle la Marina Militare. C’era persino un elicottero italiano che lo seguiva nella navigazione”.
Passa un’ora e una motovedetta libica gli si affianca. “Mio padre allora chiede alla Marina Militare cosa fare. Gli dicono di continuare a navigare, ma i libici a quel punto iniziano a sparare”.
Non sono colpi di avvertimento verso l’alto: “Mirano per uccidere, puntano all’altezza dell’area di comando. Colpiscono mio papà che a quel punto ferito si ferma e fa salire a bordo i militari libici”. Ma si è capito perché hanno aperto il fuoco? “No, questo qualcuno ce lo deve ancora spiegare. È passato quasi un mese, mio padre ha da poco tolto la benda bianca dalla testa, ma ancora si ripete che ha visto l’inferno, che lì solo per miracolo non è morto. Abbiamo sostituito le vetrate, le lamiere forate da almeno 80 proiettili che hanno distrutto anche diversi strumenti di bordo”. Un danno per 80mila euro, che per Alessandro Giacalone è “un chiaro segnale dato all’Italia”.
Ma cosa sta succedendo? E di quale segnale stiamo parlando? Secondo il sindaco di Mazara, “tre indizi fanno una prova” o meglio: “tre episodi simili in poco tempo, il sequestro e le due aggressioni, ci dicono che ci sono tensioni politiche troppo forti nel Mediterraneo e che i pescatori ci sono finiti in mezzo. Sono stati come bullizzati”. È appena stato a Roma per chiedere aiuto e metter fine a quella che ormai in paese tutti chiamano “la guerra del gambero”.
Va detto che la Libia è dal 2005 che rivendica quella zona di pesca a 62 miglia dalle proprie coste, in quelle che – secondo l’Europa – sono invece acque internazionali. Ma è ormai chiaro a tutti che non si sta più parlando “solo” di atti di pirateria e che i nostri pescatori, a loro rischio e pericolo, stanno navigando da mesi in acque burrascose, mosse dalle tensioni tra Italia, Libia e Turchia.
Cosa c’entri la Turchia nel rapporto Italia-Libia è presto detto: Ankara in questo momento ha una forte influenza su Tripoli e da tempo cerca di intestarsi un ruolo di primo piano sul territorio, minando così l’equilibrio precario del Mediterraneo.
Qualche settimana fa anche il ministro degli esteri Luigi Di Maio ne ha parlato in aula proprio nel corso di un’informativa sulla sicurezza nel Mediterraneo e la situazione in Medio Oriente. Le sue parole in aula fanno seguito a una risoluzione presentata alla Camera sempre dal M5S, con la richiesta che si proceda presto a un tavolo diplomatico che metta insieme tutte le parti in causa, da Mazara a Tripoli. Se ne parla da mesi, cercando di coinvolgere anche Bruxelles, senza però mai aver fissato una data.
Nel frattempo c’è stato il “sofa gate”, con l’imbarazzo generale di mezzo mondo per Ursula von der Leyen, a cui sono seguite le dure parole di Mario Draghi nei confronti del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, definito apertamente “per quello che è, un dittatore”, usando le stesse parole del nostro presidente del Consiglio. Un colpo che Erdogan ha definito “un’ascia nelle relazioni tra Italia e Turchia”. Era metà aprile. E quindici giorni dopo sono ricominciati gli attacchi ai pescherecci di Mazara che si trovavano tra Italia e Libia.
“È chiaro che i rapporti si siano deteriorati per via della Turchia che ora vuole un ruolo da leader regionale ed è in piena fase di espansione con l’obiettivo di creare nuovi equilibri nel Mediterraneo”. È la ricostruzione che fa anche il generale Leonardo Tricarico, ex Capo di stato maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della fondazione Icsa. “Ci troviamo nell’assenza e nell’inattività dell’Europa e dell’Italia in particolare, perché non andiamo oltre alle semplici dichiarazioni, ci muoviamo senza che ci sia un atto concreto”.
A questo si aggiungano gli interessi economici che da una parte e dall’altra, Turchia e Italia, hanno in gioco con la Libia. Ankara ha siglato una serie di impegni come la costruzione di tre centrali elettriche, di uno scalo aereo a Tripoli, di un enorme centro commerciale e nell’aumento del valore dell’import-export tra le due nazioni che si sarebbe assestato sui 5 miliardi.
Poi ci sono i nostri sforzi: a fine maggio Di Maio è volato per la nona volta a Tripoli e tre giorni dopo a Roma si è tenuta la tanto attesa visita del premier libico Abdel Hamid Dbeibah con la sua squadra di governo che, oltre a incontrare il presidente del Consiglio, ha incontrato anche le principali aziende italiane per rilanciare la loro presenza in Libia (Snam, Saipem, Terna, Ansaldo Energia, Fincantieri, PSC Group, Italtel, Leonardo, WeBuild, Gruppo Ospedaliero San Donato, Cnh Industrial, Eni). “Quello tra Italia, Libia e Turchia sta diventando sempre più un discorso a tre, che dovrà avere però come perno il nuovo governo libico. Chiunque si metta oggi contro la Turchia sbaglia”, chiosa Tricarico.
Davanti a tutto questo, per tornare ai nostri pescatori, mi viene in mente che la taverna dove il Gatto e la Volpe portano Pinocchio si chiama “L’osteria del Gambero rosso”. Non ho idea di cosa avesse in mente Carlo Collodi, ma a me viene da pensare che Mazara del Vallo, come quel più famoso burattino, faccia ormai parte di un “teatrino” più grande. “Eppure noi non possiamo far altro che uscire in mare: non abbiamo altro tempo, né altre opzioni. Altrimenti come li portiamo a casa i tanto richiesti gamberi rossi?”.
È arrabbiato Marco Marrone, lui è l’armatore di uno di quei due pescherecci sequestrati in Libia e per tutto il tempo del rapimento dei compagni ha alternato manifestazioni di piazza, cortei con tanto di nottate in tenda davanti a Palazzo Chigi. L’ho rintracciato per riuscire a parlare con il papà di Ilaria, quel Michele Trinca, e capire come stava ora a distanza di qualche mese dal ritorno a casa, mentre è costretto a vedere un copione che continua a ripetersi. “Mi spiace è irraggiungibile. È uscito in mare. Starà via per giorni. Ha detto che aveva bisogno di tornare a navigare per non pensare più”.
(da TPI)
argomento: Politica | Commenta »