Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
“DRAGHI? PRIMA O POI AVRA’ PROBLEMI DI SCELTE”
Lucia Annunziata, il Parlamento si divide intorno al ddl Zan, che è diventata una
sorta di cartina di tornasole dei problemi della maggioranza. M5s, Leu ma soprattutto il Pd di Enrico Letta hanno deciso di voler andare a vedere le carte, che idea ti sei fatta?
Credo che Letta faccia bene a misurarsi in Aula, questo per il Pd è un tema che attiene profondamente alla sua identità, per cui è molto difficile trovare compromessi.
Ma così potrebbe rischiare una sonora sconfitta.
Il vero motivo per cui sono d’accordo con la decisione di Letta è la scelta di volersi misurare con i voti, perché mette in conto la vittoria, ma contempla anche la sconfitta. Bisogna uscire dalla logica che a sinistra ogni sconfitta sia vissuta come un dramma, il Pd ha sempre voluto evitare di perdere, e questo per anni lo ha indebolito. Letta dimostra di non aver paura degli eterni giochi di Renzi, e mi sembra che questa sia una bella novità.
Al di là delle tattiche, anche Renzi fa un discorso simile: i numeri non ci sono, proviamo a vincere in un altro modo, con un compromesso che fino a qualche tempo fa sembrava indigeribile alla destra.
Renzi utilizza le stesse modalità da tempo e su tutto, si guardi alla questione governo, ha determinato lui la permanenza di Conte a Palazzo Chigi, è stato lui a destituirlo. È un eterno tattico, e oggi quella perizia la può usare ancora al Senato, anche grazie ai parlamentari eletti con lui nel 2018, e gioca brillantemente su quei numeri. La conta è un bene anche per questo, per chiarire una volta per tutte quali siano le parti in campo.
Rimaniamo ancora un attimo sul ddl Zan: la giornalista e filosofa Ida Dominijanni, ha sempre avvertito che “non è utile pensare di compensare un vuoto politico con un pieno giuridico”.
Sono d’accordo con Ida, e a maggior ragione è così che bisogna pensare se si perde, e hai scoperto quanto retrivo sia il Parlamento. Le leggi si fanno e si disfano, nessuna sconfitta è definitiva, la legge Zan non risolve il problema in sé, il cambiamento è culturale e sociale.
Da questo punto di vista il dibattito che ha suscitato è stato ampio e ha tracimato dal Palazzo. E non penso solo a Ferragni e Fedez, ma a una discussione pubblica che nelle ultime settimane si è molto accapigliata sul tema. È stato un bene o ha contribuito solamente a polarizzare ancor più le posizioni?
È stato sicuramente molto aspro e radicale, d’altronde questi sono temi più divisivi. Penso che dall’identità sessuale, alla parità delle donne fino all’immigrazione ci sia nel paese un’impostazione culturale molto difficile da cambiare. Tu sei giovane, e non ricordi, ma nel ’74 il divorzio vinse eppure quella campagna fu una cosa incredibile e violenta: la Dc diceva che le donne sarebbero state tutte lasciate, che non si sarebbe arrivati nemmeno al matrimonio, determinò uno scontro culturale devastante. E la nostra è tutt’ora una società cattolico-conservatrice. Per questo dico: meglio essere chiari e perdere e ricominciare domani. Da Monti in poi la sinistra ha paura, paura del voto per non aprire la strada alla destra, il Pd su questo ha dato il sangue. Non si possono non fare le cose perché altrimenti vince Salvini. Se vince si ricomincia e si prova a rivincere- questa è la democrazia.
Il Vaticano, che ha suscitato polemiche per la nota contro il ddl Zan, ha ancora un ruolo così centrale nelle dinamiche della politica?
Mi limiterei a dire che sentir dire in Parlamento da un premier che il nostro è uno stato laico e dunque decide in maniera indipendente mi ha riempito il cuore.
Il ddl Zan è un po’ una cartina tornasole dello stato attuale dei partiti e delle politica?
Da Monti in poi quadro politico è incistato delle sue anomalie. Abbiamo avuto 7 governi e 6 premier, nessuno espresso da una vittoria alle elezioni politiche generali. Anche Renzi, pur con grande consenso alle spalle, arrivò a Chigi avendo solo vinto le primarie. Siamo ormai da anni in una situazione in cui il rapporto dei cittadini si è fatta flebile. Sembra una strada senza uscita.
Quali sono le ragioni principali?
Su tutte l’esplosione dei 5 stelle che hanno rotto lo schema bipolare. Ma la crisi dei partiti era preesistente, e i 5 stelle si sono nutriti anche di questo, così come per un periodo anche Renzi, per non parlare di Salvini. Ma la cosa importante da dire è che la conseguenza del nei partiti ha indebolito l’istituzione del Presidente del consiglio.
Perché pensi questo?
Perché è saltato il rapporto tra maggioranze e premier. Il baricentro si è spostato da lì, per 20 anni di bipolarismo c’erano Prodi e Berlusconi, vince l’uno o l’altro, poi siamo entrati nel kamasutra di nomine e Cencelli. Enrico Letta fu una scelta di compromesso, Renzi arrivò sull’onda delle primarie, Gentiloni fu scelto da Renzi. Poi Conte, che non aveva nulla a che fare con la politica, da avvocato fu chiamato a gestire un contratto, poi è diventato per le prima volta nella storia un presidente di due maggioranze opposte. Questo ci porta a vivere in una situazione assurda. Si sono rivelati tutti governi deboli, caduti alle prime difficoltà, alle prime elezioni magari locali.
Lo storytelling su Draghi ci descrive l’uomo giusto al momento giusto per risolvere le cose. Ma secondo quello che mi stai dicendo non è una prosecuzione dello stesso schema?
Anche se è il top gun dei tecnici prestati alla politica, questa dinamica vale anche per lui. Arriva in situazione specifica, con una missione specifica: gestire il Pnrr. La sua forza è essere stato chiamato da specialista a gestire una cosa da specialisti. Come chiamare il migliore dei chirurghi a fare una difficilissima operazione a cuore aperto. Questa è la sua forza. A Draghi è stata data in mano la ricostruzione, ma su tutto il resto? Prima o poi avrà problemi di scelte. Su Zan ha lasciato sostanziale libertà ai partiti, ma nel lungo periodo non sarà sempre così.
Intravedi le prime difficoltà?
Mi domando: che orizzonte ha Draghi? Più rimane in sella più dovrà misurarsi con scelte, consenso, rivendicazioni sociali. All’inizio ha scelto un profilo molto defilato, poi ha iniziato a parlare perché si accorto di avere bisogno di un contatto diretto con il paese. Man mano è naturale che la sua sfera d’azione politica si allarghi e presto sarà in mezzo tensioni politiche.
Pensi che possa succedere a Mattarella al Quirinale?
Cosa farà Draghi dipende da lui, le sue scelte e la sua disponibilità. Nessuno pensava che avrebbe accettato di fare il premier, quindi difficile a dirsi. Il problema è cosa si vuol fare del Quirinale?
In che senso?
Sento i discorsi su un’eventuale proroga di Mattarella in maniera poi di eleggere Draghi quando la legislatura finirà. Sono affermazioni semplicemente offensive, per questi due uomini e per noi cittadini. Il Colle è l’estrema garanzia delle nostre istituzioni, i mandati durano appositamente 7 anni per non coincidere con le legislature, perché l’istituzione non venga avviluppata dal gioco delle elezioni. Abbiamo avuto la prosecuzione di Napolitano, che lui ha sofferto perché era un uomo delle istituzioni. Accettò perché pensava che il declino dell’era Berlusconi dovesse essere gestito. Nella sua idea c’era bisogno di un periodo di raffreddamento del clima di venti anni di scontri, pensava infatti a una grande coalizione stile tedesco. Ma fu comunque una sgrammaticatura, si parlò di fallimento della politica, e in effetti il Parlamento anche in quell’occasione fallì.
E se, data la geografia dei gruppi molto frammentata, fosse impossibile ogni altro accordo?
E dovrebbe pagarlo Mattarella? Secondo me lui sa perfettamente che se l’allungamento del mandato del Presidente si ripete per due volte di seguito sarebbe un default della Presidenza stessa. Certificherebbe il collasso del sistema, anche l’ultimo organo di garanzia sarebbe prestato alla politica e non a tutela del paese e della tenuta della Repubblica. Sono discorsi che non andrebbero nemmeno fatti. I partiti si prendano le loro responsabilità. Vogliono Draghi? Lo eleggano! Oppure scelgano chi vogliono, ma non giochino.
C’è qualcosa che ti dà la speranza che alla fine non sia così? Che malgrado tutto da qualche parte si possa ripartire?
Mi piace la politica perché è l’avventura più ambiziosa degli uomini, il desiderio di auto organizzarsi, la competizione per il potere. Per sua natura la politica è sempre borderline e un po’ disfunzionale. La via d’uscita sono la chiarezza e la trasparenza. I giochi di Palazzo, se reiterati all’infinito, fanno male a chi li fa. In una dinamica non tossica le istituzioni cambiano, non sono scolpite sulla pietra, l’importante è dire la verità su quel che si fa e prendere decisioni consapevoli.
Credi che la pandemia abbia contribuito a farci arrivare dove siamo arrivati?
È stata un acceleratore delle debolezze del sistema. Ma l’impatto più importante che ha avuto è sulla percezione che il mondo occidentale ha di sé, segnalandoci che non è vero che la scienza ha sconfitto tutti i pericoli per la società umana. La pandemia ha distrutto la convinzione che l’uomo fosse ormai al sicuro dalle malattie infettive globali. Oggi la medicina, la società sono più forti che in passato, ma il virus ci ha fatto immaginare che la vita umana è ancora a rischio di essere sradicata dal pianeta. Questa grande paura è tornata per restare, e ci obbliga a porci dilemmi che impattano sulla vita quotidiana: il lavoro, la famiglia, le interazioni in comunità. E dilemmi etici: i vaccini, i paesi poveri e non poveri, la situazione in Africa, quelle in India e Brasile. È uno scenario che impatta anche sulla geopolitica, e lo farà a lungo. Questa sensazione di precarietà continuerà a scavare e a incidere, anche nel nostro paese. Nella pandemia siamo entrati come guerrieri invincibili e ne siamo usciti con cuore tremante. Anche per questo la politica deve essere forte, perché il mondo si è fatto più debole.
Da dove si riparte?
Teniamo presenti tre elementi: il top gun delle riserve della Repubblica chiamato al Governo, il Pnrr e l’uscita della pandemia, il rinnovo del Quirinale: sono la tempesta perfetta. Dalle decisioni che prenderemo, capiremo che direzione prenderanno il Parlamento, le istituzioni e la società che avremo nei prossimi anni.
(da Huffingotnpost)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
I CONTIANI RESISTONO DA SONO IN MINORANZA TRA I SETTE SAGGI
Continuano a lavorare assiduamente i sette saggi incaricati di ricomporre la frattura che si è creata tra il garante Beppe Grillo e l’aspirante leader del M5S, Giuseppe Conte. Lavorano quotidianamente e nell’assoluto riserbo per ricucire lo strappo i capigruppo Davide Crippa e Ettore Licheri, il ministro Stefano Patuanelli, l’europarlamentare Tiziana Beghin, il reggente Vito Crimi, Luigi Di Maio e Roberto Fico. Si stanno esercitando in un lavoro meticoloso su ogni singola parola dello Statuto.
L’obiettivo è riuscire a “non urtare” la sensibilità del garante e quella dell’ex premier in quella che è stata configurata come una battaglia di potere per la conquista della leadership dei pentastellati.
Ovvero individuare il punto di caduta per mantenere le prerogative di Grillo, senza imprigionare Conte in una diarchia per lui indigeribile. Il che significa cercare di far uscire entrambi da questa impasse salvando la dignità di ciascuno dei due.
Il lavoro certosino e il braccio di ferro tra i contiani e i grillini presenti nel comitato si sta esercitando, a quanto risulta, sull’articolo 8 dello statuto quello che definisce il garante come il “custode dei valori fondamentali dell’azione politica del Movimento”. L’avvocato, nella nuova versione che è stata rigettata da Grillo, ha cancellato un pezzo dell’articolo in questione. Il Garante è stato semplicemente relegato a “custode dei valori fondamentali del Movimento”, è saltato cioè il riferimento alla possibilità di rimanere custode dell’azione politica.
Sul resto, invece, vale a dire comunicazione, politica estera, formazione degli staff con relative assunzioni, su cui il Garante metteva bocca ora lo stesso Grillo è pronto a fare un passo indietro. Il punto è che la posizione di Conte dentro il comitato dei sette si trova in minoranza.
Con lui ci sono Crimi, Licheri e Patuanelli. Gli altri quattro (Di Maio, Fico, Beghin, Crippa) invece, pur spinti dalla voglia di mediare e riconciliare, sostengono l’irrinunciabilità per Grillo del ruolo di custode dei valori politici di quel Movimento che lui ha creato e che gli spetta quasi di diritto.
Ieri si è registrata l’ennesima battuta, nel tentativo forse di sdrammatizzare, del Garante. Proverà a ricucire lo strappo? “Sì, no, non lo so, forse, può darsi, sì! Sceglietevi una risposta”, ha replicato a Stasera Italia news, su Retequattro.
Non c’è dubbio comunque che la mediazione risulti complessa e la strada rimanga in salita.
Anche perché il Garante e l’ex premier, dalla telefonata infuocata che ha preceduto la conferenza stampa di Conte al Tempio di Adriano (qui il video), non si sarebbero più parlati.
Solo dopo aver raggiunto il punto di caduta, se ci riusciranno, i sette saggi potrebbero pensare a organizzare un nuovo incontro tra i due. Il tempo stringe e incombe sulla trattativa anche il nodo delle liste per le amministrative con la domanda su chi sia titolato per compilarle. Per saperlo occorrerà aspettare ancora un po’.
(da la Notizia)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
UNA VOLTA SI SAREBBE DETTO: “HANNO LA FACCIA COME IL CULO”, OGGI SAREBBE “DIVISIVO”
Confesso di leggere le cronache politiche con la stessa attenzione e lo stesso
trasporto emotivo con cui leggerei i risultati dell’hockey su prato.
Con qualche eccezione, perché ci sono personaggi della comédie humaine che travalicano le pagine delle cronache del potere e diventano macchiette esilaranti, caricature. A volte le metafore sono così evidenti che chiamarle metafore diventa un’offesa: la motovedetta libica regalata ai libici dagli italiani che sperona e spara su migranti indifesi è una di quelle.
E se la mettete accanto alla foto del presidente del Consiglio che si congratula per lo spirito umanitario della guardia costiera libica, vi darà un’idea di dove siamo finiti: in un gorgo in cui la realtà non c’entra niente, quel che c’entra è il raccontino della realtà, ad uso e consumo di questo e di quello (cioè di questo, Draghi, oppure di quello, Draghi).
Dunque, scorro le pagine e guardo i Tg con l’aspettativa del paradosso che esplode, è il mio Helzapoppin’ quotidiano.
Sommario su Repubblica: “Letta richiama Italia Viva alla coerenza”, che è come chiedere a un lombrico di volare.
Seguono righe e righe e righe di analisi (questo ovunque) in cui si spiega e analizza che forse i renzisti non sono così di centrosinistra come qualche poveretto ha creduto per anni, e ora – che sorpresa! – brigherebbero insieme a Salvini per portare al Quirinale un presidente della destra. Minchia, che intuizione.
E poi c’è la dietrologia, chiamata così perché “davantologia” fa brutto e bisogna far finta che per vedere la realtà si è scavato a fondo, mentre invece è lì sotto gli occhi di tutti. Che esista un asse ideologico tra i naufraghi di Italia Viva e le potenze della destra rampante e populista è conclamato da anni, ma lo si presenta come “colpo di scena”, “inaudita svolta”, “perbacco”, “ma guarda un po’”. Lo spettacolo d’arte varia di vedere arguti commentatori venir giù dal pero non ha prezzo.
Insomma, c’è da pensare che nei giornali non leggano i giornali, e allora perché diavolo dovremmo leggerli noi?
L’ultimo Tetris è quello del Quirinale, per cui si interpretano le astute mosse dei filo-sauditi di Italia Viva sul ddl Zan come una cosa che non c’entra niente con il ddl Zan, ma con il futuro presidente della Repubblica, sulla cui elezione cui i 45 di Italia Viva potrebbero fare l’ago della bilancia.
Eletti col Pd, speranzosi di finire in doppia cifra (in effetti, a parte la virgola, 1,5 è doppia cifra), sempre in prima linea per tentare di far vincere la destra (Scalfarotto candidato in Puglia con l’appoggio della “bracciante” Bellanova, ah, che spettacolo!), vengono intervistati come fossero Cavour redivivo, e tutto questo senza scoppiare a ridere, che sarebbe a ben vedere la reazione più sana.
Naturalmente, ogni volta che Renzi fa il suo salto della quaglia c’è chi la prende alla larga e ci spiega con il ditino alzato che ogni compromesso è un compromesso al ribasso, e che bisogna piantarla di fare gli estremisti.
Sono gli oliatori, i facilitatori, gente che dalla legge sul divorzio avrebbe tolto l’articolo uno, ma anche il due, il tre, il quattro e così via, perché sono “divisivi”. Se poi alzi gli occhi dalla prima pagina pensando “ma questi sono scemi”, ti prendi dell’ideologico, che secondo loro è una parolaccia tranne quando sono ideologici loro, sempre al servizio occulto di baciatori di salami e di baciatori di pantofole (principesche e saudite).
Il vecchio Cuore avrebbe titolato: “Hanno la faccia come il culo”, oggi non si può, sarebbe “divisivo”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
ORMAI SIAMO ALLA FOLLIA, CHIESTE LE SUE DIMISSIONI
Perché dire no al ddl Zan contro l’omotransobia? Perché la sua approvazione potrebbe aprire le porte al sesso con i bambini o con gli animali.
L’affermazione è stata avanzata dalla garante per l’infanzia della Regione Umbria, Maria Rita Castellani. Arrivando da una figura istituzionale, la presa di posizione ha suscitato immediate polemiche che sono approdate in una richiesta formale da parte di associazioni e partiti di opposizione che chiedono la rimozione della garante dal suo incarico.
Maria Rita Castellani (che il senatore ultrà cattolico Simone Pillon definisce «una cara amica») prende di mira l’articolo del disegno di legge Zan in cui si parla di identità di genere (punto che ha determinato la rottura della mediazione tra partiti di maggioranza). «Il concetto d’identità cambia –è la considerazione di Castellani – si potrà scegliere l’orientamento sessuale verso cose, animali, e/o persone di ogni genere e, perché no, anche di ogni età, fino al punto che la poligamia come l’incesto non saranno più un tabù».
La presa di posizione è stata stigmatizzata in una lettera nella quale si chiede alla governatrice umbra Donatella Tesei di rimuovere la garante per l’infanzia.
Partita dalle associazioni per i diritti Lgbt, la richiesta ha via via raccolto l’adesione di partiti, sindacati, associazioni per i diritti delle persone, di medici, psicologi, studenti. «Castellani ha realizzato un’acrobazia pericolosa in bilico fra propri convincimenti personali, pregiudizi inqualificabili…dimostrando un’ignoranza colpevole per chi ricopre il suo ruolo…rappresenta una realtà fantascientifica, inesistente nel mondo delle cose concrete e non scritta nel Ddl Zan».
I firmatari invitano a considerare, piuttosto, gli episodi di violenza, di bullismo e aggressioni «ai danni di ragazzi appartenenti alla comunità Lgbtq».
(da agenzie)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
FDI PUNTA SULLA PAURA DELLE PERSONE E DICE FALSITA’
Si torna a discutere di educazione gender nelle scuole, a rilanciare le paure è
stato il capogruppo del partito di Giorgia Meloni al Senato Luca Ciriani ai microfoni del tg Rai: “Al Senato Fratelli d’Italia farà un’opposizione molto dura al ddl Zan che vuole introdurre l’obbligo dell’educazione gender persino ai bambini delle scuole elementari”.
Il punto intorno al quale il dibattito si è sviluppato è stato sempre l’articolo 7 del disegno di legge.
La paura che vorrebbe far passare Fratelli d’Italia è quella di un indottrinamento nelle scuole, immaginate nella narrazione dei partiti di centrodestra come un luogo che sarà di formazione per omosessuali e transessuali.
Nonostante di questo non si parli in nessun modo nel disegno di legge, e nemmeno nella propaganda che accompagna l’iter politico.
Nonostante le parole che l’opposizione spende nei confronti del Disegno di Legge, l’obiettivo del testo scritto dal deputato Zan è chiaro: sensibilizzare i bambini fin da piccoli ad accogliere le diversità. L’obiettivo, oltre le interpretazioni, è ben definito nel testo del fantomatico articolo 7.
Nel primo comma è scritto così:
“Al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contra stare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari”
Una linea che non può essere fraintesa e può essere esposta solo ed esclusivamente ad una critica di tipo ideologico.
Il problema emerso in queste settimane legato “all’indottrinamento” è rivolto soprattutto a coloro i quali non hanno avuto modo di leggere il testo.
Inoltre, nell’idea di chi ha scritto il disegno di legge, nulla di tutto quello che è stato immaginato per sensibilizzare i più giovani potrà in alcun modo incidere sul loro periodo di formazione.
“La Giornata non determina riduzioni dell’orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in un giorno feriale, costituisce giorno di vacanza o com porta la riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado”
(da NextQuotidiano)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
TUTTI A FAVORE, SALVO I SOVRANISTI EGIZIANI DI FRATELLI D’ITALIA PER CUI “MEGLIO SEGUIRE LA STRADA DELLA DIPLOMAZIA”… CI VADA LA MELONI A LIBERARE ZAKI E CI PORTI IN ITALIA I 4 ASSASSINI DI REGENI INVECE DI FARE CHIACCHIERE
Con 358 voti a favore e 30 astenuti la Camera ha approvato la mozione, primi firmatari Lia Quartapelle e Filippo Sensi del Pd, per la concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano impegnato nella lotta per i diritti umani. Il ragazzo, che ha frequentato un master all’Università di Bologna, è in carcere nel suo Paese dal febbraio 2020. Gli unici ad astenersi in questa votazione sono stati i senatori di Fratelli d’Italia.
Il documento impegna il governo “ad avviare tempestivamente, mediante le competenti istituzioni, le necessarie verifiche al fine di conferire a Patrick George Zaki la cittadinanza italiana”.
Inoltre nel documento approvato è esplicitamente chiesto che l’esecutivo si impegni “a continuare a monitorare, con la presenza in aula della rappresentanza diplomatica italiana al Cairo, lo svolgimento delle udienze processuali a carico di Zaki e le sue condizioni di detenzione, a continuare a sostenere, nei rapporti bilaterali con l’Egitto e in tutti i consessi europei ed internazionali, l’immediato rilascio di Patrick Zaki e di tutti i prigionieri di coscienza: difensori dei diritti umani, giornalisti, avvocati e attivisti politici finiti in carcere solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti fondamentali”.Tutto il mondo della politica si è detto soddisfatto della votazione, dopo mesi finalmente Zaki sarà ufficialmente un cittadino italiano. Fin dai primi giorni della sua detenzione le situazione dello studente dell’Università di Bologna è sembrata critica.
Nei mesi scorsi la sola Fratelli d’Italia si era tenuta lontana dalle votazioni, motivando la loro decisione attraverso le parole del capogruppo al Senato Alberto Balboni: “Siamo convinti che per raggiungere l’obiettivo della sua liberazione la strada da seguire sia quella della diplomazia”. Ora la maggioranza di governo, sostenuta anche da LeU, si è espressa in maniera incontrovertibile: Zaki sarà presto cittadino italiano, e non sarà più accettata la condotta del governo egiziano nei confronti di un connazionale.
(da agenzie)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
IL TUTTO MENTRE LA MOGLIE DEL LEADER SOVRANISTA INVITA I TURCHI A RIDURRE LE PORZIONI DI CIBO NEL PIATTO “PER EVITARE SPRECHI”
La spiaggia privata è bianca, il mare da sogno, la villa che si erge a poca distanza
è a dir poco lussuosa: 300 stanze su un’area di 85mila metri quadri nella baia di Okluk Cove nel distretto di Marmaris, sulla costa egea meridionale della Turchia, una delle più esclusive del Paese.
La megalomania di Recep Tayyip Erdogan, l’intramontabile presidente turco, ha colpito ancora.
Dopo il «palazzo bianco» nella capitale Ankara, un complesso che copre un’area di 300mila metri quadri e ha più di mille stanze, è arrivato il «palazzo d’estate», costruito sul sito che ospitava già la residenza estiva dell’ex presidente Turgut Ozal. E un terzo è in via di costruzione nella città di Ahlat, nella provincia di Bitlis.
Tutto a spese dei contribuenti, naturalmente, che, in un periodo di forte crisi economica, mostrano di non gradire la grandeur presidenziale.
Se si pensa che recentemente la First Lady Emine Erdoğan ha invitato la popolazione a ridurre le porzioni di cibo nel piatto per evitare sprechi, si può capire come di fronte a un palazzo costato 640 milioni di lire turche (circa 62 milioni di euro), soldi presi dal budget presidenziale tra il 2018 e il 2021, i cittadini non reagiscano bene.
La residenza estiva è stata inaugurata nel 2019 ma le foto sono circolate solo ora dopo che l’architetto turco belga Şefik Birkiye, ideatore della super villa, le ha pubblicate sul suo sito web per poi essere riprese dal giornale d’opposizione Sözcü.
Il gesto del professionista non avrà sicuramente fatto piacere al presidente visto la rabbia che è montata. Eppure Birkiye è molto apprezzato da Erdogan che lo aveva scelto anche per progettare il Palazzo presidenziale di Ankara.
A insorgere sono anche gli ambientalisti perché l’area è stata sottoposta a un disboscamento massiccio per costruire altri 5 edifici di diverse dimensioni che ospitano il personale, oltre a una pista per elicotteri, mentre un’area di 10.966 metri quadrati è stata riempita con sabbia e ghiaia speciali e trasformata in una spiaggia.
La vita non è facile neanche per gli abitanti e i turisti della zona costretti a rigide regole di sicurezza. L’accesso alla baia di Okluk Cove viene spesso vietato ai pescherecci quando il presidente va nella sua villa estiva. E la sorveglianza aumenta quando capi di Stato e di governo esteri arrivano in visita come è stato per il primo ministro albanese Edi Rama e per il presidente azero Ilhan Aliyev.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
NEL PROGRAMMA SANZIONI ECONOMICHE E RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI PER PAESI COME L’ITALIA
“Occorre ripristinare rapidamente le regole fiscali del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact e svilupparle ulteriormente senza indebolirle”. Non solo: “Vogliamo sviluppare ancora il Mes. Per far fronte a Paesi colpiti da una crisi economica e/o finanziaria, abbiamo bisogno di processi ordinati fino alla procedura di insolvenza per gli Stati”.
Ancora: “Il Next Generation Eu è una tantum e temporaneo, non ci sarà mai una unione dei debiti in Europa”.
Il programma elettorale della Cdu-Csu è un concentrato di tutti quei princìpi comunemente ricondotti sotto la denominazione di austerità fiscale che molti in Europa, forse con troppa fretta, pensavano di essersi lasciati alle spalle per sempre, anche dopo la pandemia. Non è così.
Martedì il partito della cancelliera oggi guidato da Armin Laschet ha aperto ufficialmente la sua campagna per le elezioni del Bundestag. Il testo del suo programma elenca temi classici del partito come la sicurezza e la stabilità economica, uniti a impegni politici più moderni e attuali, come la lotta al cambiamento climatico presentata come una grande opportunità per l’economia e per il lavoro.
Ma è sul fronte dei rapporti con l’Unione Europea che il partito favorito alle urne del 26 settembre sembra invece ripiombato nel passato, con slogan e affermazioni di principio che ricordano il rigido orientamento dei falchi tedeschi ai tempi della crisi del debito della Grecia.
Si parla apertamente di ristrutturazione dei debiti per i Paesi più gravati come quelli del Sud Europa, di un rapido ritorno al consolidamento fiscale da parte di tutti gli Stati Ue, di netto rifiuto verso qualsiasi logica di condivisione dei rischi, di sanzioni certe per chi non rispetta le regole. Un messaggio chiaro: appena sarà passata l’emergenza Covid – e a detta dei tedeschi avverrà presto – ci sarà il ritorno all’austerità e non sarà un pranzo di gala.
Dopo un avvio di campagna elettorale controverso, ora i sondaggi danno l’Unione Cdu-Csu costantemente in testa col 30% dei consensi mentre segnano un graduale calo dei suoi avversari più temuti, i Verdi guidati da Annalena Baerbock al 19%.
Uno scarto di ben undici punti, eppure appena un mese fa alcune rilevazioni avevano indicato un clamoroso sorpasso della formazione ambientalista, sull’onda della candidatura di Baerbock, adesso in declino.
La leader ambientalista è stata travolta dalle polemiche a causa di presunti plagi che sarebbero contenuti in un suo libro e dalle critiche per la mancata segnalazione di alcuni introiti extra agli uffici amministrativi del Bundestag.
I Verdi sembrano aver dissipato in poche settimane quel prestigio elettorale che aveva fatto pensare a un possibile stravolgimento del collaudato assetto politico, caratterizzato da anni di alleanza di Governo tra l’Unione e i socialdemocratici dell’Spd, una volta uscita di scena la cancelliera Angela Merkel dopo 16 anni di potere.
Allo stato attuale resta ancora improbabile che le trattative politiche per formare la futura maggioranza al Bundestag possano escludere i Verdi.
Ma molto del potere contrattuale del partito ambientalista dipenderà dall’evoluzione della campagna elettorale, oggi caratterizzata da toni politici e mediatici molto accesi, soprattutto nei confronti della leader Baerbock.
Da giorni il tabloid Bild l’attacca a tutto spiano con una serie di articoli sui presunti plagi, lo Spiegel ha scritto di “chiodi sulla bara della candidatura alla cancelleria”, mentre il quotidiano Die Tageszeitung ne ha chiesto a chiare lettere un passo indietro: “Annalena, è finita!”, ha scritto il giornale di sinistra, affermando che la quarantenne è stata vittima delle sue stesse ambizioni. E la Zeit parla di partito “nel panico”.
Il clima in Germania è così incandescente da aver indotto il presidente della Repubblica Federale a esprimere la preoccupazione che queste elezioni possano trasformarsi in “una lotta nel fango”.
Nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente televisiva “Zdf”, Frank-Walter Steinmeier ha invitato i partiti ad applicare “misure e ragione” nella competizione. Il ministro delle Finanze Olaf Scholz e candidato alla cancelleria per i socialdemocratici – dati al 15%, quattro punti in meno rispetto ai Verdi nei sondaggi – ha difeso la sua avversaria, affermando che nel modo in cui viene trattata diverse cose non sono né giuste, né corrette”. Anche il ministro dell’Interno conservatore Horst Seehofer ha espresso vicinanza a Bearbock.
Il declino dei Verdi fotografato dai sondaggi non è una buona notizia per i Paesi del Sud Europa e per l’Italia in particolare. Come nota su twitter l’economista ed ex consigliere di Emmanuel Macron, Shahin Vallée, “i Verdi potrebbero essere abbastanza deboli da rendere necessaria una coalizione a semaforo e dare al partito liberale Fdp un’influenza smisurata sull’accordo di coalizione”.
Il “semaforo” attualmente appare poco probabile ma in vista del voto i liberali hanno già posto un veto su un ministro delle Finanze dei Verdi.
Da quando si sono affermati sulla scena politica, d’altronde, i Grünen hanno espresso posizioni in ambito economico diametralmente opposte a quelle conservatrici e liberali sia a livello nazionale che europeo.
In patria, vogliono riformare il freno all’indebitamento che vige per le casse pubbliche federali e inserito in Costituzione, introducendo una golden rule per la spesa in investimenti. In generale, contestano apertamente l’ossessione dei Conservatori per una politica fiscale rigida e contraria a priori verso ogni idea di indebitamento, causa secondo gli ambientalisti di anni di sottofinanziamento di infrastrutture e ricerca. E in Europa sono promotori di una riforma profonda delle norme che spazzi via alcuni totem, considerati ormai dal mondo accademico vetusti e superati dall’esperienza, come il tetto al debito e alla spesa in deficit.
È l’esatto contrario di quanto scrivono i conservatori nel loro programma. Nel capitolo dedicato all’Europa si legge infatti l’intenzione di “voler ripristinare rapidamente le regole del Patto di stabilità e crescita e del Fiscal Compact dopo la pandemia del Covid e svilupparle ulteriormente senza indebolirle. Vogliamo limitare il margine di discrezionalità nella procedura per i disavanzi eccessivi e rafforzare il principio di condizionalità. Le violazioni dei criteri di stabilità devono essere sanzionate in modo coerente”.
I Trattati europei, d’altronde, “parlano chiaro: ogni Stato membro è responsabile dei propri debiti. Continuiamo a rifiutare l’idea di mettere in comune i debiti o i rischi degli Stati membri. Perché vogliamo una vera unione di stabilità e non un’unione di debiti e oneri”.
Secondo i Conservatori, le raccomandazioni specifiche per Paese, che per l’Italia prevedono tra le altre cose aggiustamenti strutturali annuali – cioè tagli di spesa e/o aumenti delle entrate – “dovrebbero riguardare settori chiave, in particolare le riforme strutturali e il consolidamento fiscale”.
Ancora: nel passaggio dedicato al Meccanismo Europeo di Stabilità, il fondo Salva-Stati che interviene in caso di crisi finanziarie con aiuti in cambio di pesanti condizionalità macroeconomiche, si legge che per affrontare le crisi degli Stati membri “abbiamo bisogno di procedure ordinate fino alla procedura di insolvenza per gli Stati”. Tradotto: il default del debito pubblico. È proprio quanto prescrive la riforma del Mes, al momento approvata a livello politico dai Paesi dell’area euro e ormai entrata nella sua ultima fase, con l’avvio dei procedimenti di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. La riforma interviene nell’ampliare i poteri del Fondo di diritto lussemburghese guidato dall’economista tedesco Klaus Regling quando un Paese entra in crisi, anche nella valutazione della sostenibilità del suo debito, e rende più semplici e rapidi le decisioni in materia di ristrutturazione attraverso una modifica delle Clausole di azione collettiva (le cosiddette Cacs a maggioranza unica).
Quando si parla di debito, l’Italia è osservata speciale.
Secondo la Commissione Europea, il debito pubblico italiano continuerà a salire nel 2021 “a causa del protrarsi del sostegno pubblico” all’economia, toccando la quota monstre del 160% del Pil.
Ad aprile ha segnato il nuovo record a 2.680,5 miliardi di euro registrando un aumento di 29,3 miliardi rispetto al mese di marzo. ”È molto probabile che, per diverse ragioni, questa fase di crescita del debito, pubblico e privato, non sia ancora terminata”, ha detto qualche giorno fa il premier Mario Draghi. “Dobbiamo fronteggiare l’emergere di nuove e pericolose varianti del virus. Rimaniamo pronti a intervenire con convinzione nel caso ci fosse un aggravarsi della pandemia tale da provocare danni all’economia del Paese”.
Attualmente le rigide norme fiscali sono sospese a causa dell’emergenza Covid e c’è un accordo politico in Europa sul fatto che non verranno riattivate prima della fine del 2022. Dopo, però, c’è il buio.
Per i rigidi Paesi del Nord Europa che sembrano aver ritrovato in Berlino la loro guida, non c’è spazio per modifiche che le rendano più morbide, mentre per quelli del Sud, rappresentati da Parigi e indirettamente supportati nell’esecutivo Ue dal Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, c’è da intervenire con l’accetta sull’impianto normativo per evitare che gli errori del passato commessi in Grecia possano ripetersi: “Dobbiamo essere cauti sulla politica fiscale e riformare le regole”, ha ripetuto Gentiloni nel suo intervento al Brussels Economic Forum pochi giorni fa. “Non sarà facile perché dobbiamo costruire un consenso ma ci servono regole comuni utili alla nostra transizione. Dobbiamo lavorare a questo per evitare altre crisi”.
Un primo segnale arriverà dalla Banca Centrale Europea. I falchi dell’Eurotower, capeggiati dal governatore tedesco Jens Weidmann, quello austriaco Robert Holzmann e quello olandese Klaas Knot, spingono affinché il programma pandemico di acquisto titoli da 1850 miliardi lanciato a marzo 2020 da Christine Lagarde dopo l’avvento del Covid scada a marzo 2022 per non essere più prorogato. In assenza di altri aiuti da Bruxelles per tutta la durata della pandemia (i primi soldi del Recovery Fund sono attesi solo nelle prossime settimane), solo il soccorso monetario del Pepp ha evitato che la crisi economica del Covid sfociasse in una nuova crisi finanziaria, con spread fuori controllo e attacchi speculativi sui titoli di stato dei Paesi più a rischio. Un ruolo “interventista” della Bce che i falchi tedeschi non hanno mai digerito. Non a caso nel programma della Cdu c’è un richiamo al rispetto del ruolo statuario dell’Eurotower e il netto rifiuto di ogni forma di finanziamento statale.
Il dibattito su come cambiare il Patto di Stabilità entrerà nel vivo nelle prossime settimane con la proposta di riforma della Commissione attesa alla fine dell’anno, ma già in questi giorni se ne inizierà a discutere al Parlamento Ue. I Popolari, primo gruppo dell’Eurocamera, spingono per una modifica delle regole che le renda più comprensibili e meno flessibili: “Il Patto di stabilità si regge su esenzioni e persino chi mastica bene i numeri fatica a capirne le procedure. Dobbiamo arrivare a un quadro più semplice e comprensibile, con regole chiare e meno esenzioni”, ha dichiarato il tedesco Markus Ferber, portavoce del gruppo Ppe nella Commissione per i problemi economici e monetari.
“A livello europeo dobbiamo ragionare su come permettere a tutti gli stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione. La discussione sulla riforma del patto di stabilità, per ora sospeso fino alla fine del 2022, è l’occasione ideale per farlo”, ha detto di recente il premier Draghi, consapevole che le attuali norme del Psc, unite alle condizionalità introdotte con il Recovery Fund, rischiano di tramutarsi nel giro di un paio d’anni in una ipoteca sul debito pubblico italiano e una zavorra sui progetti di crescita economica. Ma dovrà superare le resistenze del Nord Europa e non sarà un compito semplice. All’Eurosummit di giugno, il premier dei Paesi Bassi Mark Rutte ha detto alla Commissione Europea di aspettarsi una proposta “forte”, e che “la stabilità delle finanze pubbliche sarà molto importante perché in questo momento abbiamo un debito elevato rispetto al Pil”. Il Patto ”è lì per garantire e assicurare che l’euro sia sostenuto da forti politiche fiscali e da una forte disciplina fiscale”, ha aggiunto Rutte, e per questo “incoraggiamo la Commissione a presentare proposte” che vadano in questa direzione.
Prima dell’Eurogruppo di metà giugno era stata l’Austria a mettere in guardia la Commissione: l’Ue non deve diventare “un’unione del debito: Paesi come l’Italia e la Francia vorrebbero abolire i parametri di Maastricht, ma questo è allarmante sia da un punto di vista economico che morale”, ha avvertito il ministro delle Finanze Gernot Blumel. Vienna nelle scorse settimane ha avviato colloqui con altri Paesi per cercare sponde nella ferma opposizione all’allentamento delle rigide norme. Un dibattito già diventato incandescente, ma la Commissione Europea al momento si limita a professare calma e gesso: ”È normale che gli Stati membri comincino le discussioni ed è importante trovare un consenso tra Stati, su dove vogliamo andare con le regole, e come questo si rifletta sia sulla necessità di sostenere la ripresa che su quella di assicurare la sostenibilità dei conti”, ha dichiarato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis. È chiaro quindi che, presto o tardi, il problema di come modificare le regole fiscali che in passato hanno penalizzato gli Stati meridionali, con cavilli e parametri difficilmente osservabili (ad esempio l’output gap) si porrà. E allora saranno dolori.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 7th, 2021 Riccardo Fucile
I SOLDI DEL RECOVERY SONO VINCOLATI AL RISPETTO DELLO STATO DI DIRITTO: A ORBAN CALCI IN CULO, ALTRO CHE I NOSTRI SOLDI
La immaginate Ursula von der Leyen a Budapest a consegnare la pagella di
promozione del piano di resilienza e ripresa ungherese a Viktor Orban, così come sta facendo con gli altri leader europei?
Soprattutto in questi giorni, non è proprio aria. “È evidente che il clima europeo è cambiato intorno al premier dell’Ungheria”, ammettono fonti europee.
È cambiato dal Consiglio Europeo di maggio, oggi argomento di dibattito a Strasburgo. Il 24 e 25 maggio scorsi i capi di Stato e di governo dei paesi Ue sono rimasti per ore a criticare la legge anti-Lgbtqi di Orban, costruendo l’impianto di accusa che in questi giorni sembra si stia trasformando in vie di fatto, sia sulla legge in sé che sul Pnrr ungherese.
Due questioni separate, accomunate dalle violazioni sullo stato di diritto in Ungheria. L’Ue stringe il cerchio, provando a fermare Orban in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
Da una parte, il piano di ripresa e resilienza presentato dall’Ungheria, una spesa totale di 7,2 miliardi su cui la Commissione “non ha ancora aperto il processo di approvazione”, sottolineano fonti europee con Huffpost.
Al contrario, “ha chiesto chiarimenti” per verificare che stavolta siano rispettate le raccomandazioni ribadite ogni anno sul buon uso dei fondi di Bruxelles, non con finalità di corruzione, né di discriminazione sociale, che sia rispettata l’indipendenza dei giudici, la concorrenza. In altre parole: lo stato di diritto.
Dall’altro lato, c’è la legge anti-Lgbtqi ungherese, che oggi ha tenuto banco nel dibattito in plenaria al Parlamento Europeo.
“Parata da circo, un buon livello di imperialismo coloniale e morale, un attacco all’Ungheria e Orbanofobia!”, reagisce il portavoce di Orban. Il testo, non se ne parla, non sarà ritirato.
In aula lo difendono i polacchi del Pis, che parlano a nome di tutto il gruppo dei Conservatori e Riformisti, dove siedono anche gli eurodeputati di Fratelli d’Italia.
La linea è: il dibattito di oggi dimostra quanto sia necessario il manifesto firmato da Orban, Salvini, Meloni, Kaczynski e gli altri nazionalisti del continente (tranne i tedeschi dell’Afd e gli sloveni di Janez Jansa).
A spada tratta pro-Orban anche la Lega.
La Commissione minaccia la procedura di infrazione sulla legge anti-Lgbtqi. Particolarmente dura Ursula von der Leyen oggi in aula a Strasburgo. La legge ungherese, che tra le altre cose vieta di mostrare ai minorenni film, informazioni, pubblicazioni Lgbtqi, “è vergognosa – attacca la presidente della Commissione Ue – e avrà conseguenze sullo sviluppo fisico e morale dei minorenni. Praticamente omosessualità e transessualità vengono poste allo stesso livello della pornografia. Non serve alla protezione dei bambini, viene utilizzata per pretesto per discriminare l’orientamento sessuale delle persone”.
“Se l’Ungheria non aggiusterà il tiro, la Commissione utilizzerà i suoi poteri in qualità di garante dei trattati. Se necessario apriremo altre procedure” d’infrazione.
Sulle deviazioni dell’Ungheria a Bruxelles la misura è colma,
“La decisione sull’approvazione dei piani dei singoli Stati membri va presa dal Consiglio Ue a maggioranza qualificata e non tocca alla Commissione”, ricorda la Commissaria Vera Jourova in aula riferendosi alla riunione dei ministri delle Finanze europei (Ecofin) che il 13 luglio esaminerà i piani nazionali. La Commissione dovrà fare la sua proposta entro domenica prossima. Non è escluso che, d’accordo con il governo ungherese, l’Ecofin lasci in sospeso la scelta, riservandosi di approfondire.
Tradotto: significa che per quest’estate Orban potrebbe non ottenere il 13 per cento di anticipo dei fondi Ue che verranno dati a tutti gli Stati con i piani approvati a Bruxelles. Dunque, potrebbe non essere nelle condizioni di programmare i primi investimenti per l’autunno. La sua campagna elettorale per il voto del 2022 ne uscirebbe compromessa.
Ma da Palazzo Berlaymont, d’accordo con i maggiori Stati membri (anche Germania e Francia sono sotto elezioni) la sterzata anti-Orban è partita.
Basta con i tanti moniti per l’Ungheria e anche per la Polonia (entrambe finiscono ‘imputate’ oggi in aula a Strasburgo sullo stato di diritto) senza prendere provvedimenti.
Del resto, il tour di von der Leyen nelle capitali dell’Unione per celebrare l’approvazione dei piani nazionali di ripresa e resilienza punta proprio a comunicare ciò che è stato fatto a Bruxelles per affrontare la crisi da covid. L’obiettivo, spiegano fonti vicine alla presidente, è fare in modo che gli europei sappiano che senza l’Ue il piano di 750 miliardi non sarebbe stato messo in piedi, gli stati nazionali non ce l’avrebbero fatta da soli.
Messa così, il Next Generation Eu è risposta concreta al manifesto sovranista firmato da Orban con Salvini, Meloni e gli altri nazionalisti del continente. Ma manca la parte sui diritti.
Per rimediare a questo anello debole della catena di reazione europeista nasce la stretta intorno a Orban su un argomento particolarmente sensibile nell’elettorato europeo come i diritti Lgbtq.
E anche sul Pnrr, i cui fondi sono vincolati al rispetto dello stato di diritto. Il cerchio si stringe, entro agosto von der Leyen dovrà anche rispondere alla lettera in cui il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli la invita a rispettare la condizionalità sullo stato di diritto ed eventualmente bloccare l’erogazione delle nuove risorse europee. Le parole di oggi da parte della presidente in aula a Strasburgo sembrano fornire una risposta.
(da Huffingtonpost)
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