Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
LA FAMOSA FRASE “LO ABBIAMO MESSO NOI”… ZAFARANA E’ STATO NOMINATO DAL GOVERNO CONTE 1 SU INDICAZIONE DELLA LEGA, CON SALVINI MINISTRO … GLI UFFICIALI DELLA GDF CHE INDAGAVANO A GENOVA STRANAMENTI TRASFERITI
Il braccio destro di Salvini, Claudio Durigon, oggi sottosegretario all’economia e
alle finanze del governo Draghi, non teme le indagini sui 49 milioni della Lega.
Lo rivela lui stesso in una conversazione pubblicata nel primo episodio dell’inchiesta Follow the money, dove il deputato leghista sostiene che il generale della Guardia di finanza che svolge le indagini sui soldi truffati dalla Lega, sarebbe stato nominato proprio da Salvini.
Il generale a cui fa riferimento il sottosegretario, come viene rivelato nel secondo episodio dell’inchiesta, è il numero uno della Guardia di finanza, Giuseppe Zafarana.
“Quello che indaga della Guardia di finanza, Zafarana, il generale, l’abbiamo messo noi”, afferma Durigon, sostenendo di non preoccuparsi per il futuro del leader Salvini, nonostante l’arresto dei commercialisti del suo partito.
Giuseppe Zafarana è il comandante generale della Guardia di finanza. Viene nominato al vertice delle Fiamme gialle il 25 maggio 2019, durante il governo Conte I.
Come confermato da alcune fonti di governo di primo piano, nelle settimane precedenti la sua nomina, la sua candidatura viene avanzata dai massimi esponenti della Lega, in primis Giorgetti e Salvini, che, con l’appoggio del Movimento 5 Stelle, rendono possibile la sua nomina, salutata con favore da entrambi i partiti. A gestire le trattative per questo incarico è anche Claudio Durigon.
Zafarana diventa così, a 56 anni, il più giovane comandante generale della storia della Guardia di finanza, ed è unanimemente considerato il più titolato a ricoprire questo incarico.
“L’attuale comandante generale era del gruppo di Pollari, ma me ne hanno parlato tutti bene” – racconta l’ex viceministro Vincenzo Visco, riferendosi al legame con Niccolò Pollari, l’ex direttore del Sismi, i servizi segreti militari.
Zafarana è stato anche un uomo di fiducia dell’ex comandante generale Roberto Speciale, prima che il ministro Tommaso Padoa-Schioppa chiedesse le sue dimissioni per lo scandalo delle spigole trasportate con un aereo militare, una circostanza per cui venne condannato per peculato.
Speciale durante il suo mandato conferì a Zafarana 14 encomi e lo promosse capo del personale delle Fiamme gialle quando era ancora solo un colonnello.
Speciale, infatti, poche ore prima di lasciare il corpo (si candiderà poi con il Pdl alle elezioni del 2008), retrodatò il trasferimento di 74 ufficiali, fra cui proprio Zafarana.
In tempi più recenti Zafarana è stato capo di stato maggiore del generale Giorgio Toschi, suo predecessore al comando generale. Ed è proprio a cavallo fra la direzione di Toschi e quella di Zafarana che avviene un avvicendamento che riguarda il comando provinciale della Guardia di finanza di Genova che indaga sui 49 milioni della Lega.
L’inchiesta sui 49 milioni della Lega
Sui fondi della Lega indagano due procure, quella di Genova e quella di Milano. La prima inchiesta nasce in Liguria, quando il tesoriere del partito di via Bellerio, il genovese Francesco Belsito, viene processato per presunta truffa aggravata ai danni dello Stato, reato in seguito prescritto. La Lega di Salvini viene condannata a restituire i soldi truffati, circa 49 milioni di euro.
“I soldi truffati dalla Lega essendo provento di reato dovevano essere sequestrati, – ci racconta una fonte interna alla Guardia di finanza – ma quando i finanzieri vanno a cercarli vedono che nelle casse del partito c’era solo un milione e rotti, una roba di poco conto: i soldi erano spariti. In termini giuridici, se io vado a toccare del denaro che è stato giudicato provento di un reato, commetto riciclaggio. Quindi vi erano due esigenze: trovare il malloppo e trovare chi avesse dato l’ordine di spostarlo in giro per i vari paesi del mondo.”
A Genova il nucleo di polizia economico finanziaria, guidato dal colonnello Maurizio Cintura, su disposizione della Procura, acquisisce nel corso degli anni centinaia di documenti circa la movimentazione di questi soldi, trasmettendo una parte del materiale anche alla procura di Milano.
Nel 2018 i finanzieri genovesi arrivano così a perquisire la sede centrale della banca Sparkasse di Bolzano, alla ricerca di tre milioni di euro che dal Lussemburgo sarebbero tornati in Italia.
Dopo la scoperta dei finanzieri di Genova sui soldi della Lega, però, arriva la richiesta di trasferimento dell’ufficiale a capo delle indagini, il colonnello Maurizio Cintura, motivata dalla promessa di una promozione ad un altro incarico in un’altra regione. La procura ligure, però, si oppone al trasferimento del colonnello proprio perché ci sono le indagini ancora in corso.
L’anno dopo, nel 2019, arriva l’ordine di trasferimento del diretto superiore di Cintura, il generale Renzo Nisi, comandante provinciale di Genova e coordinatore del nucleo che indaga sui 49 milioni della Lega.
Il 13 marzo 2019, infatti, sotto il comando del generale Giorgio Toschi, con Zafarana Capo di Stato Maggiore, il neo promosso generale di brigata Vincenzo Tomei viene designato a prendere il posto di Nisi al comando provinciale di Genova.
Il trasferimento è solo annunciato e non operativo. Nel radiomessaggio interno alla Guardia di finanza che incarica Tomei del ruolo di Nisi, non manca solo la decorrenza, ma anche la destinazione di quest’ultimo.
Una circostanza giudicata da fonti interne alle Fiamme gialle assai poco frequente, soprattutto in casi come quello di Nisi, dove non c’era l’urgenza di operare un trasferimento dell’ufficiale per ragioni di incompatibilità.
Il cambio al vertice di Genova si perfeziona soltanto il 10 luglio del 2019, poco dopo la nomina del nuovo comandante generale delle Fiamme gialle, Giuseppe Zafarana, che subentra al posto di Toschi.
Con Zafarana al comando, Vincenzo Tomei prende il posto di Nisi che viene trasferito al comando del nucleo speciale beni e servizi, una posizione considerata di importanza minore rispetto a quella a cui era assegnato.
“Nella Guardia di Finanza ci sono comandi di serie A e comandi di serie Z, – spiega la nostra fonte nelle Fiamme gialle – quello a cui viene destinato Nisi è sicuramente un comando di serie Z”.
Non solo, Nisi viene anche retrocesso nella graduatoria che decide gli avanzamenti di carriera all’interno della Guardia di finanza: dal terzo posto scivola al diciassettesimo, un trattamento che, secondo le nostre fonti, viene riservato di solito a ufficiali che si sono macchiati di gravi colpe.
Eppure Renzo Nisi si era distinto meritoriamente negli anni per aver condotto alcune indagini importanti e delicate, come quella sul Mose di Venezia. Nella sua esperienza in laguna, aveva scoperto con i suoi uomini che il numero 2 della Guardia di finanza, Emilio Spaziante, quand’era vicecomandante generale rivelava agli indagati informazioni segrete sulle indagini condotte da Nisi.
Per queste circostanze il generale Spaziante venne arrestato e patteggiò una pena a quattro anni di reclusione per concorso in corruzione, venendo poi condannato dalla Corte dei conti al pagamento di un risarcimento di un milione di euro per il grave danno d’immagine procurato al Corpo.
Dopo aver contribuito all’arresto di Spaziante, Nisi arriva a Genova come comandante provinciale. Qui, oltre a coordinare il gruppo di Cintura che è sulle tracce dei soldi della Lega, Nisi si distingue per aver organizzato l’attività di indagine delle Fiamme gialle sul crollo del Ponte Morandi, ma dopo tre anni in Liguria viene trasferito e sostituito dal generale Tomei.
Vincenzo Tomei nel 2006 fu al centro di un contenzioso politico che durò circa un anno. Tomei insieme al generale Mario Forchetti, al colonnello Rosario Lorusso, e al tenente colonnello Virgilio Pomponi, fu inserito in una lista stilata dall’allora viceministro all’economia Vincenzo Visco, che ne chiedeva il trasferimento. Visco sosteneva che questi ufficiali avessero formato un centro di potere interno alle Fiamme gialle capeggiato da Spaziante.
L’allora comandante generale Roberto Speciale, infatti, aveva proposto a Visco una rotazione di quasi tutti i vertici della Guardia di Finanza, a eccezione di quello lombardo, dove Forchetti e i suoi fidati ufficiali permanevano da tempo.
“Le informazioni arrivate al mio Gabinetto – scrisse Visco a proposito della vicenda – da altre fonti interne al Corpo sollevavano ulteriori dubbi sulla permanenza degli stessi ufficiali, nella stessa sede, per l’inevitabile cristallizzazione di amicizie e di conoscenze con ambienti dell’economia, della politica e dell’informazione”.
Proprio in Lombardia Vincenzo Tomei è stato per anni allievo prediletto di Mario Forchetti, generale che dopo il suo addio alla Guardia di finanza ha ricoperto vari ruoli nelle istituzioni guidate dalla Lega.
Forchetti è stato uomo di fiducia dell’ex governatore, il leghista Roberto Maroni, che lo scelse come capo del comitato di controllo sugli appalti dell’Expo; ora componente dell’Orac, l’organismo anticorruzione regionale, difeso più volte dall’attuale presidente della regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana.
“Forchetti è stato quello che ha lanciato Tomei, gli ha consentito di andare a occupare dei posti di prestigio”, sostiene la nostra fonte. “Essendo Tomei un subordinato rispetto a Forchetti, quando succedevano le cose è chiaro che Tomei doveva riferire a Forchetti. Poi se continua a farlo ancora adesso, francamente non lo so. Loro due però hanno un legame molto profondo”.
Non sappiamo se Claudio Durigon si riferisse proprio a queste circostanze quando ha affermato di non preoccuparsi per le indagini sulla Lega.
Il sottosegretario, infatti, continua a non voler chiarire il senso di quell’affermazione, nonostante sulla vicenda ci siano state interrogazioni in Parlamento e richieste di dimissioni a suo carico da esponenti di rilievo del Governo.
Durigon e Matacena
Poco sappiamo anche dei suoi rapporti con l’imprenditore napoletano, Luigi Matacena.
La sera in cui Claudio Durigon si lascia andare a confidenze pericolose su Zafarana è a Napoli e si è appena alzato dal tavolo di un ristorante sulla riviera di Chiaia. È il settembre 2020 e il braccio destro di Salvini si trova in Campania per uno degli ultimi comizi prima delle elezioni regionali. Al tavolo, seduto accanto a lui, c’è proprio Matacena, che Durigon presenta agli altri commensali come “uno molto legato ai servizi segreti”.
Fra una portata e l’altra si discute di nomine. Si parla dell’imprenditore Alfredo Romeo e del magistrato Catello Maresca come possibile candidato del centrodestra a sindaco di Napoli, cosa che effettivamente sarebbe successa da lì a qualche mese.
Alla cena è presente anche Severino Nappi, esponente napoletano della Lega. Ma il commensale con cui l’attuale sottosegretario si intrattiene di più è proprio Matacena. Tra di loro c’è confidenza: “Lo conosco da un sacco di tempo, cinque anni sicuro, – dice Durigon quando l’imprenditore è ormai andato via – a Roma è conosciuto lui”.
Il business principale di Matacena è la fornitura di attrezzature antincendio e antisismiche a enti locali, commesse milionarie che riceve da protezione civile e vigili del fuoco, un ente che dipende dal Ministero dell’interno.
Tra gli appalti vinti dalle sue società ricorre anche il nome della Sma Campania, l’azienda dei rifiuti campana al centro dell’inchiesta di Fanpage Bloody Money. Il nome dell’uomo d’affari napoletano compare nell’elenco dei correntisti italiani della filiale di Ginevra della Hsbc, la cosiddetta lista Falciani, e nei Paradise Papers, per aver avuto una società nel paradiso fiscale di Malta.
“L’interesse di Matacena è avere amicizie importanti, una volta che lui si insinua diventa un amicone, è di una simpatia unica”, dice di lui un ex esponente del Pdl. Matacena è stato, infatti, l’animatore delle estati ischitane di personaggi di rilievo. I suoi giri spaziano dal vicepresidente di Italo ed ex ad di Terna Flavio Cattaneo e la moglie Sabrina Ferilli, agli ex generali della Guardia di Finanza Michele Adinolfi e Vito Bardi, oggi presidente della regione Basilicata.
Proprio uno dei suoi incontri con alcune alte cariche delle Fiamme gialle, nel 2011, risulta di particolare interesse per la Procura di Napoli nell’ambito delle indagini sulla presunta Loggia P4, un sistema occulto di potere che sembrava aver infettato le istituzioni.
I pm Curcio e Woodcock interrogarono Matacena su un pranzo offerto nel 2010 ad alcuni ufficiali della Guardia di finanza. L’episodio risultava significativo perché Matacena, essendo presente sulla lista Falciani, aveva avuto degli accertamenti da parte delle Fiamme gialle e aveva scudato i soldi depositati all’estero. In conseguenza di ciò, i magistrati gli chiesero conto dell’opportunità di frequentare i vertici delle Fiamme gialle, offrendo loro un pranzo e dei piccoli doni. In quell’occasione al tavolo di Matacena, oltre ai generali della Guardia di finanza Vito Bardi e Michele Adinolfi, sedevano il generale Giuseppe Grassi, l’ex ufficiale Stefano Grassi, l’allora ad del Milan Adriano Galliani, e anche il generale Giuseppe Zafarana, l’attuale comandante generale delle Fiamme gialle.
Matacena oltre a frequentare i vertici della Guardia di finanza è anche un volto molto noto negli ambienti politici vicini al centrodestra e sa come introdursi. Anche per la cena di Durigon e dei suoi commensali, infatti, Matacena si offre di saldare il conto piuttosto salato, a base di cruditè di pesce e vino bianco. “Matacena ha lasciato pagato”, ammette a fine serata l’attuale sottosegretario.
Ma l’interesse di Matacena non è solo quello di essere riconosciuto come ospite generoso.
Nella serata pre-elettorale napoletana, infatti, si siede al tavolo con Durigon per una questione politica: sta provando a portare alla Lega Luciano Passariello, ex consigliere regionale di Fratelli d’Italia, indagato dalla Procura di Napoli a partire dall’inchiesta di Fanpage Bloody Money proprio per i suoi rapporti con la Sma Campania.
Qualche settimana prima della cena con Durigon, Passariello, infatti, aveva rinunciato alla candidatura alle elezioni regionali con Forza Italia.
“Luciano l’ho portato io e so come è andata la storia con Forza Italia”, spiega Matacena agli altri commensali a proposito del passo indietro prima delle elezioni. E Durigon conferma: “Lui lo voleva candidare con noi, mi sta portando Passariello”. Matacena spiega ai presenti anche il perché sia saltata questa candidatura con la Lega: “Molteni (il coordinatore regionale della Lega in Campania, ndr) non l’ha voluto perché arrivava primo”.
I rapporti politici di Matacena non finiscono qui, come racconta lo stesso Durigon nello spiegare come inizia il loro rapporto: “L’ho conosciuto con Massimo Casanova e con il mio capo di gabinetto, Vito Cozzoli. Le prime volte che lo vedevo, dicevo: ‘Massimo, a me questo mi mette paura, c’ha un pelo sullo stomaco così’. Mi ha invitato anche a pranzo a casa sua nel periodo di Natale”.
Alla base del rapporto tra Durigon e Matacena c’è, quindi, Massimo Casanova, l’europarlamentare della Lega, proprietario del Papeete e plenipotenziario di Salvini in Puglia, che Matacena descrive come un suo amico storico.
È riferendosi a lui che Matacena si congeda dal tavolo, non prima di aver avanzato una richiesta a Durigon: “Domani vedi di vedere Massimo Casanova, che ti devo dire una cosa importante”, gli fa l’imprenditore napoletano stringendogli la mano, e invitandolo a parlarne in disparte.
Al ritorno a tavola, Durigon svela il contenuto della confidenza: “Sai che mi ha chiesto ora? Se ti serve, al parco del Gargano hanno licenziato il direttore. Quando hai un altro amico, dillo a Massimo”.
La vicenda di cui parlano in segreto è conosciuta soltanto dagli addetti ai lavori, ma ha avuto implicazioni ai massimi livelli politici. I due si riferiscono al Parco Nazionale del Gargano, il secondo parco naturale più grande d’Italia. Essendo vigilato dal Ministero dell’ambiente, le nomine delle cariche direttive del Parco sono ministeriali.
La settimana prima dell’incontro tra Durigon e Matacena, Pasquale Pazienza, presidente dell’ente, decide di licenziare la direttrice del Parco, Maria Villani, dopo soli tre mesi dalla nomina da parte dell’allora ministro dell’ambiente Sergio Costa.
Il presidente Pazienza, nominato su input della sottosegretaria leghista all’ambiente Vannia Gava, prende questa decisione scavalcando un decreto ministeriale e creando un impasse istituzionale. A seguito del licenziamento della dirigente, le funzioni di direttore vengono assegnate da Pazienza a Vincenzo Totaro, dipendente del Parco che secondo una relazione della corte d’appello di Bari del 2016, sarebbe stato incandidabile a ricoprire un ruolo pubblico perché “ritenuto persona legata da rapporti d’amicizia” con il clan della mafia del Gargano dei Macchiaioli.
“La Lega ha sempre mostrato interesse per il Parco, quando ci fu da fare le nomine, la Lega mise subito sul tavolo il Parco del Gargano – afferma l’europarlamentare del M5s Mario Furore, la presidenza fa gola a molte forze politiche. I rapporti tra la Lega e i mondi oscuri del Gargano sono notori”.
Il Parco del Gargano è un chiodo fisso di Massimo Casanova. L’europarlamentare leghista, infatti, non aveva perso occasione in passato di attaccare l’ente: “Il vero, grande problema, nella provincia di Foggia, è il Parco nazionale del Gargano che è un freno a mano tirato per tutto”.
La preoccupazione di Casanova derivava anche dal fatto che da oltre un decennio è anche il vicino di casa del Parco. Mr Papeete, infatti, ha stabilito la sua residenza sul lago di Lesina, in provincia di Foggia. La sua enorme proprietà è uno dei pochi lembi di terra che non fanno parte dell’area protetta del Parco del Gargano, pur essendo immersa dentro i suoi confini naturali.
Il presidente Pasquale Pazienza, infatti, ha un rapporto cordiale con Massimo Casanova e Matteo Salvini: “Subito dopo la sua nomina Pazienza andò a un brunch con Salvini, con una certa confidenza che mi lasciò di stucco. Lui lo chiamò pranzo istituzionale, in realtà aveva tutt’altra parvenza,” – spiega Furore foggiano e collega di Casanova a Bruxelles – “il Parco Nazionale del Gargano è un parco molto ricco, ha un bilancio che consente di dare un sacco di prebende”.
Ed è proprio di queste prebende che Matacena parla a Durigon durante la serata napoletana, mettendolo al corrente dell’opportunità di nominare un amico come nuovo direttore del Parco del Gargano e di interessare di questo Massimo Casanova.
Quando Durigon esce dal ristorante, poco prima di lasciarsi andare alla tanto discussa rivelazione sulla Guardia di finanza, il sottosegretario non perde tempo e fa una proposta a un suo amico: “Ora noi, anche in Puglia, le nomine bisogna farle… io ti posso buttare dentro su qualche nomina”.
Non sappiamo se l’incarico a cui si riferisce Durigon sia lo stesso di cui aveva parlato con Matacena solo qualche minuto prima. Dal canto suo l’imprenditore napoletano nega tutto: “Non ho nessun interesse sul parco del Gargano, in vita mia non ci sono mai stato, non so nemmeno dove sia. Durigon l’ho visto per trenta secondi in vita mia, non gli ho mai chiesto niente e non ho nulla da chiedergli. Come si usa a Napoli, per cortesia, ho pagato io la cena, senza alcun interesse e senza alcun ritorno.” E sull’accusa di essere legato ai servizi segreti, annuncia con durezza: “Durigon si beccherà una querela immediatamente”.
(da Fanpage)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
PARAGONA GLI AIUTI DEL REDDITO DI CITTADINANZA PER GLI INDIGENTI AL METADONE PER I TOSSICI
Giorgia Meloni ne ha fatta un’altra delle sue. Era in quel di Napoli a presentare il suo libro Io sono Giorgia che fa l’eco al video trash che imperversava sul web qualche tempo fa e non ce l’ha fatta a trattenersi: “Il reddito di cittadinanza è come il metadone per i tossici, va abolito”.
E come il suo personaggio preferito della saga di J. R. R. Tolkien, Gandalf il Grigio, nel Signore degli Anelli ha lanciato l’anatema. Intanto c’è da dire che paragonare un percettore del Reddito di cittadinanza a un tossicodipendente non è un paragone particolarmente azzeccato visto che si tratta oltretutto di 3,7 milioni di persone.
Poi c’è da dire che con queste uscite Io sono Giorgia si palesa per quello che veramente è: una nemica dei poveri, un’amica dei ricchi al di là del superficiale strato ideologico legato ad una fantomatica “destra sociale” che di sociale non ha un bel niente.
Semplicemente la Meloni se ne frega altamente di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, di chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese perché strozzato da pandemia e debiti.
La frase che ha detto l’ha finalmente smascherata. La Meloni è una che parla di socialità, ma invece mira a tutelare unicamente gli interessi dei poteri forti e dei benestanti. E’ la tipica destra asociale
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
“AVEVA ATTEGGIAMENTI PREPOTENTI NEI CONFRONTI DEGLI ULTIMI”… “ERA CONOSCIUTO PER I MODI DA ESALTATO”
“Lo chiamiamo lo sceriffo perché aveva atteggiamenti un po’ prepotenti verso gli
ultimi”: a rivelarlo a Fanpage.it è Gianpiero Santamaria, coordinatore di Buona Destra Voghera, commentando così la vicenda che vede come protagonista l’assessore alla Sicurezza del comune pavese Massimo Adriatici sottoposto agli arresti domiciliari per aver sparato e ucciso nella serata di ieri il 39enne Youns El Boussettaoui.
La Procura ha aperto un fascicolo per eccesso colposo in legittima difesa. L’assessore infatti, durante una lite, ha estratto la pistola. Nella versione fornita agli inquirenti ha affermato che il colpo sarebbe partito accidentalmente. Le forze dell’ordine però sono in attesa dalla perizia balistica che confermerà o confuterà la tesi: i dubbi maggiori ruotano intorno al perché Adriatici ha estratto la pistola, carica e senza sicura, contro un uomo disarmato. E soprattutto perché, nonostante avesse un regolare porto d’armi dovuta alla sua carriera da ex poliziotto, girasse armato.
E su questo punto alcuni cittadini hanno fornito un ritratto dell’avvocato: “Adriatici ha dato il daspo a una persona che chiedeva l’elemosina. Voghera – continua Santamaria – non è il Bronx”.
E in molti rincarano sul soprannome di “Sceriffo” attribuito all’assessore.
Un’altra fonte rivela a Fanpage.it che già anni fa, Adriatici era solito portare con sé l’arma: “Era conosciuto per i modi da esaltato, soprattutto i primi tempi. Da cittadino normale non puoi andare con la pistola in giro perché sei tale e quale a tutti”.
Dal racconto dell’uomo sembrerebbe che l’assessore già 25 anni, quando i poliziotti svolgevano delle retate per contrastare lo spaccio di sostanze stupefacenti, lui uscisse con la pistola.
(da Fanpage)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
ALLA RICERCA DI UNA POLTRONA SICURA MOLTI FORZISTI GUARDANO ALLA MELONI
A dominare è lo scoramento. «Senza Berlusconi al comando, Forza Italia si dissolverà…» è il lamento nei corridoi, al telefono, coperto dall’anonimato ma tanto forte da rimbombare nei palazzi della politica.
Lamento che carsicamente si leva ad ogni incidente e ogni volta che il Cavaliere scompare dalla scena, e che si fa più forte quando qualcuno taglia i ponti e se ne va, anche se da Arcore la linea è minimizzare: «Chi vuole andarsene faccia pure».
Ultimo caso, doloroso, l’addio di Lucio Malan, approdato a Fratelli d’Italia senza che alcuno ne avesse avuto il minimo presentimento. «Mi chiedo dove stia andando il partito» allarga le braccia Andrea Cangini, uno dei pochi a dare voce allo sconforto e non solo perché la sua candidatura a sindaco di Bologna – che risultava dai sondaggi la più gradita – è stata sacrificata al volere di Salvini che ha imposto un civico, Battistini. Non fa finta di niente nemmeno Gabriella Giammanco: «Credo che sarebbe costruttivo, anziché puntare il dito contro chi se ne è andato, capirne le motivazioni e cercare di risolvere ciò che non va nella gestione del partito», dice denunciando il malumore di molti per la gestione troppo accentrata del partito.
Elio Vito quotidianamente denuncia l’appiattimento di Forza Italia sugli «alleati sovranisti», mentre Renato Schifani ostenta un silenzio pesantissimo da settimane. La «dipendenza» da Salvini – sommata ai numeri, perché con il taglio dei parlamentari e il calo dei consensi registrato dai sondaggi, nella prossima legislatura forse uno su cinque riuscirà ad essere rieletto – sono un mix micidiale per gli umori degli azzurri. E spingono tanti a cercare riparo altrove.
Già nell’ultimo anno si è assistito ad una «fuga» di nomi noti – da Laura Ravetto passata alla Lega a Mariarosaria Rossi, prima al Gruppo misto e poi a Cambiamo -, di storici esponenti del partito come Michaela Biancofiore, Osvaldo Napoli, Cosimo Sibilia, gli ex coordinatori Marin, Mugnai, più nel complesso una trentina tra deputati e senatori che sono andati a formare prima la componente Cambiamo di Toti, poi il gruppo Coraggio Italia dello stesso Toti e del sindaco di Venezia Brugnaro. Ora, dopo il clamoroso passaggio di Malan, l’approdo che viene considerato più appetibile è quello in FdI, unico partito che si ritiene aumenterà e di molto il gap tra uscenti e nuovi eletti. Il problema è che non c’è posto per tutti quelli che vorrebbero abbracciare la Meloni.
Raccontano da FdI che le richieste sono «tantissime», ma che finora ci si era limitati a qualche nome «di particolare valore» sia sul territorio che in Parlamento, anche per tenere rapporti di «buon vicinato» con gli alleati. Non solo: gli aspiranti aderenti hanno dovuto sottostare a una sorta di controllo di «qualità» preventivo, rimanendo in attesa «fino ad otto mesi» prima di essere accolti. È successo con deputati in arrivo dal M5S come De Toma e Silvestri, sta succedendo per altri che entreranno a breve dopo aver lasciato FI ed essere passati per Cambiamo: come i bergamaschi – giovani, già esperti e con un forte consenso – Alessandro Sorte e Stefano Benigni, con il consigliere regionale Paolo Franco.
Ma adesso le cose potrebbero cambiare e le porte aprirsi più facilmente se tra FI e FdI continuerà la guerra armata di questi giorni, dopo lo strappo sulla Rai che, insiste la Meloni, ha «lasciato il segno» e che potrebbe portare alla candidatura autonoma in Calabria di Wanda Ferro che «sta suscitando entusiasmo anche in altri partiti del centrodestra». E comunque «dovremo pur dare una casa a chi, nel centrodestra, non vuole più stare con questa maggioranza», dicono da FdI.
I nomi restano top secret, si escludono annunci «nelle prossime ore», ma è possibile che qualcuno rompa i ponti con FI già prima della pausa estiva, magari «parcheggiandosi» al Gruppo misto in attesa di una nuova avventura.
D’altra parte, dalla Lega a Italia viva, passando per gli ex M5S, già in tanti sono approdati alla corte della Meloni. Nomi di peso come il sindaco di Verona Federico Sboarina, che era stato eletto come civico in quota FI, l’eurodeputato leghista (e compagno di Marion Maréchal, la nipote della Le Pen) Sofo, i parlamentari salviniani Vinci e Barbaro, molti consiglieri regionali dal Molise al Trentino alla Lombardia, la renziana Baffi, perfino esponenti di Cambiamo come Baldassarre. «Stanno facendo una campagna acquisti vergognosa», denunciano da FI. E siamo solo all’inizio.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
LE CRITICHE DEI MAGISTRATI: “COSI’ SALTA LA META’ DEI PROCESSI”…ECCO QIALCHE ESEMPIO
Marta Cartabia non cede di un millimetro. Durante il question time alla Camera la
ministra blinda ancora una volta la propria riforma penale, liquidando le critiche arrivate in questi giorni dalle voci più autorevoli del mondo antimafia: tra le altre, quelle del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e del capo dell’antimafia Federico Cafiero De Raho, che in audizione alla Camera hanno paragonato il ddl a un’amnistia mascherata capace di minare addirittura la sicurezza del Paese.
“Spesso in questi giorni si è detto che i processi di mafia e terrorismo andranno in fumo. Non è così“, sostiene, perché “nei procedimenti per mafia e terrorismo le contestazioni spesso riguardano reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche in seguito all’applicazione di circostanze aggravanti. Quindi si esclude ogni tipo di improcedibilità”.
La Guardasigilli sembra però dimenticare che – prese di per sè – nè l’associazione mafiosa nè quella terroristica sono punite con l’ergastolo.
E perciò l’unico “sconto” concesso a questi reati rimane l’allungamento della soglia di improcedibilità a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione, termine comunque del tutto insufficiente per i giudizi di criminalità organizzata con centinaia di imputati (come il maxi-processo Rinascita Scott alla cosca Mancuso, citato da Gratteri di fronte alla commissione Giustizia a Montecitorio).
Anche la tesi per cui “spesso” nei reati per mafia siano contestati reati puniti con l’ergastolo (ad esempio omicidio doloso o strage) è discutibile.
Per citare due casi delle ultimissime ore, né la condanna a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa all’ex senatore Antonio D’Alì nè quella a 10 anni, per lo stesso reato, all’ex sottosegretario Nicola Cosentino sarebbero mai diventate realtà con le nuove regole.
Nel primo caso, infatti, il processo d’Appello (bis) ha occupato 3 anni e 7 mesi, nel secondo ben 5 anni.
In nessuno dei due procedimenti le accuse prevedevano l’ergastolo. Ma Cartabia non cambia idea. “Il governo – dice – è consapevole di quello che fa, ed è il primo a non volere ciò che voi paventate, e che nessuno vuole che accada in questo paese. Ma vuole affrontare il tema della durata dei processi che è gravissimo“.
E aggiunge che “la riforma prevede un ingresso graduale, c’è una norma transitoria per consentire agli uffici che sono in maggiore difficoltà di attrezzarsi, di adeguarsi e di sfruttare le occasioni degli investimenti e della digitalizzazione per poter essere al passo con i tempi”.
La norma transitoria prevede che l’improcedibilità si applichi solo ai processi per reati commessi dopo il 1° gennaio 2020. Per farlo considera la nuova prescrizione alla stregua di una norma procedimentale, di cui si può “ritagliare” a piacimento la validità nel tempo.
Ma in molti tra gli addetti ai lavori sono convinti che, andando a incidere direttamente sulla punibilità, si tratti invece di una previsione sostanziale (come la prescrizione “classica”). E che quindi valga il principio costituzionale del favor rei (l’imputato ha diritto sempre alla legge più favorevole) che consentirebbe di applicarla anche ai giudizi sui fatti antecedenti a quella data (tra cui, un esempio tra i tanti, il disastro del ponte Morandi).
L’ex giudice costituzionale ha inoltre difeso il proprio testo citando il caso della Corte d’Appello di Napoli, dove “ci vogliono 2.031 giorni per i giudizio di appello, l’equivalente di circa cinque anni. Il tempo medio di trasmissione dei fascicoli dal Tribunale è di circa due anni e soprattutto ci sono 57mila pendenze già prescritte, non per effetto della riforma approvata dal Consiglio dei ministri ma per una situazione di gravità estrema che reca una violazione ai diritti delle vittime e degli imputati”. È per sbloccare questo stato di cose, sostiene, che è necessaria la rifoma, “che non è solo della prescrizione ma del processo penale”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
NESSUNO CI HA IMPOSTO LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TARGATA DRAGHI-CARTABIA… LA UE CRITICA LA RIFORMA DEL CODICE DEGLI APPALTI: FAVORISCE LA CORRUZIONE
Di fronte alla discussione sempre più infuocata in Italia sulla riforma della giustizia, a Bruxelles ancora non è scattato l’allarme.
Il cammino non appare semplice, nemmeno se inquadrato da un punto di vista europeo, ma l’Ue confida nella capacità del governo Draghi di riuscire a portare a casa la riforma. Spazio per modifiche al testo ce n’è.
L’importante, fanno notare fonti qualificate, è che raggiunga gli obiettivi riportati nelle raccomandazioni della Commissione Europea per l’Italia, ribaditi nel report sullo stato di diritto diffuso ieri, a cominciare dalla necessità di garantire tempi decisamente più celeri nei processi. Per il resto, il dibattito attiene alla sovranità nazionale.
Resta il fatto che, per la fine dell’anno la riforma Cartabia deve essere approvata. Come noto, è il primo impegno che l’Italia deve rispettare per accedere alle tranche successive di finanziamenti del piano di ripresa e resilienza di 191,5 miliardi di euro di nuovi fondi europei.
L’anticipo di 25 miliardi dovrebbe arrivare entro la fine di luglio. E qualora non fossero chiari, gli obiettivi sono reiterati nel report sullo stato di diritto, il nuovo strumento che Ursula von der Leyen ha voluto inaugurare l’anno scorso per una cornice puntuale sulla situazione in ogni paese membro. Di fatto, si tratta di un’altra modalità per inquadrare le riforme da fare, attraverso i malfunzionamenti del sistema dal punto di vista del rispetto dei diritti.
E così anche nel report sullo stato di diritto, il primo lungo paragrafo del capitolo ‘Italia’ è dedicato alla giustizia, la falla nel sistema, a dire di Bruxelles.
“La durata dei procedimenti rimane una seria sfida – scrive la Commissione – Il tempo stimato necessario per la risoluzione dei contenziosi civili e commerciali restano molto elevati. La durata per il primo e secondo grado è diminuita nel 2019, ma si è registrato un aumento presso l’Alta Corte di Cassazione, principalmente per cause fiscali e di protezione internazionale. Nel 2020, l’Alta Corte ha registrato una sostanziale diminuzione dei casi in entrata nel campo della protezione internazionale, mentre i casi giudiziari fiscali che in larga parte finiscono archiviati rimangono una sfida seria. Anche il numero di casi dichiarati inammissibili resta elevato”.
Il problema della lunghezza dei processi non riguarda solo la giustizia civile ma anche la penale. “L’Alta Corte ha segnalato un aumento generale delle cause pendenti nel 2020 – scrive la Commissione – Ciò conferma l’urgenza di misure per migliorare la situazione, soprattutto in appello. Inoltre, la metà dei processi di primo grado si concludono con l’assoluzione”.
Per Bruxelles è essenziale che la riforma segua le indicazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, sia per quanto riguarda la lunghezza dei procedimenti sia per quanto riguarda l’indipendenza dei magistrati, altro tallone d’Achille del sistema.
“In diversi Stati membri – l’annota l’organismo di Strasburgo – l’associazione dei giudici ha una certa influenza sulla selezione dei membri del Consiglio della magistratura. A condizione che non leda l’indipendenza dei lavori del Consiglio della magistratura, tale partecipazione alla selezione dei suoi membri potrebbe essere accolta con favore. Bisogna fare attenzione, tuttavia, che un tale sistema non porti alla politicizzazione dell’elezione e al successivo lavoro del Consiglio. In ogni caso, non dovrebbero esserci discriminazioni e i membri di un’associazione di giudici dovrebbero essere liberi di diventare membri di un Consiglio della magistratura a sostegno dell’indipendenza della magistratura”.
Bruxelles ricorda che “solo il 34 per cento degli italiani e solo il 29 per cento delle imprese italiane considera il sistema giudiziario equo e giusto”. I dati sono in calo negli ultimi due anni, evidentemente in concomitanza con le polemiche sui processi di nomina interni dei magistrati. Bruxelles nota però che “il Consiglio superiore della magistratura ha continuato a introdurre regole volte a favorire la trasparenza e la nomina meritocratica alle alte cariche” e “ha avviato una serie di procedimenti disciplinari”.
Ma non basta. Il malfunzionamento della macchina giudiziaria favorisce la corruzione, è la tesi di Bruxelles, diametralmente opposta a quella sostenuta dal procuratore Nicola Gratteri, critico rispetto alla necessità invocata dall’Unione di tagliare i tempi dei processi.
“Gli sforzi per combattere la corruzione continuano ad essere ostacolati da tempi eccessivi (dei procedimenti, ndr.), in particolare a livello di appello”, scrive la Commissione. Tanto più che “la pandemia ha aumentato significativamente il rischio di corruzione e reati legati alla corruzione con tentativi di infiltrarsi ulteriormente nell’economia legale italiana. Secondo la polizia, la criminalità ha beneficiato in particolare degli acquisti di piccole imprese private, come i ristoranti in difficoltà economiche a causa del Covid, e di prodotti sanitari, mascherine, dispositivi di protezione vari e gadget medici, che possono servire come mezzo per facilitare altri reati legati alla corruzione, come il riciclaggio di denaro”.
Ma la Commissione critica il nuovo codice appalti: “Il decreto legge sulle misure di semplificazione amministrativa e digitalizzazione adottato nel luglio 2020 ha introdotto anche un regime speciale per l’affidamento degli appalti pubblici. Le misure vertono su procedure rapide e aggiudicazioni dirette senza concorso ufficiale, su procedure di aggiudicazione semplificate e su sanzioni per chi sospende o rallenta l’affidamento e l’esecuzione di lavori pubblici, tutte cose che rischiano di favorire la corruzione”.
Ce n’è anche per i nuovi metodi di finanziamento dei partiti, dall’abolizione del finanziamento pubblico. “La pratica di convogliare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche prima che vengano trasferite ai partiti politici può rappresentare un ostacolo alla responsabilità pubblica, in quanto tali operazioni sono difficili da tracciare e monitorare”, scrive la Commissione.
E poi c’è la necessità di digitalizzare il ‘pianeta giustizia’. A Bruxelles seguono con attenzione il dibattito italiano. C’è ancora del tempo davanti, non tanto.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
NEL 2016 FECE UNA CONSULTAZIONE SUI MIGRANTI, MA NON RAGGIUNSE IL QUORUM
Cinque anni fa, quando lanciò il referendum anti-immigrati per dare una risposta definitiva alle insistenze di Bruxelles affinché pure l’Ungheria accogliesse una quota dei nuovi arrivati ai confini esterni dell’Ue, Viktor Orban non vinse la scommessa.
Nel senso che i no all’accoglienza furono il 98 per cento, ma il referendum non raggiunse il quorum: votò solo il 43 per cento degli aventi diritto.
A maggior ragione, può essere che oggi il nuovo referendum annunciato dal premier ungherese per difendere la sua legge anti-Lgbtq dagli attacchi di Bruxelles sia solo un modo per distrarre l’opinione pubblica dalla nuova tegola che gli si è abbattuta addosso qualche giorno fa: il caso Pegasus.
Secondo un’inchiesta condotta da 80 giornalisti di 17 media a livello globale per ‘Forbidden Stories’, organizzazione giornalistica no-profit con sede a Parigi, e da Amnesty international, Orban avrebbe usato lo spyware Pegasus, prodotto dalla israeliana Nso, per spiare dissidenti e giornalisti ungheresi.
Finora Orban non ha commentato, non una sola parola sull’ultimo caso di violazione di diritti e privacy che lo vede coinvolto.
Oggi riprende fiato deviando l’attenzione. “Bruxelles ci ha attaccato sulla legge di protezione dei bambini – dice in un video sui social – chiede emendamenti. Non approvano il fatto che noi vogliamo vietare ciò che è sdoganato nell’Europa occidentale” dove “gli Lgbtq visitano le scuole e insegnano educazione sessuale. Lo vogliono fare anche in Ungheria e questo è il motivo per cui i burocrati di Bruxelles ci minacciano e hanno avviato una procedura di infrazione abusando del loro potere. Non possiamo permetterlo. Solo la volontà popolare può proteggere l’Ungheria”.
Il ricorso al referendum avviene in barba ai Trattati che anche Budapest dovrebbe rispettare, in quanto membro dell’Unione nonché praticamente dipendente dai fondi europei.
Come quelli nuovi del Next Generation Eu, che però ora la Commissione Europea, su spinta dell’Europarlamento e guardando al voto dell’anno prossimo in Ungheria, sta usando come strumento per ottenere il rispetto dello stato di diritto, norme anti-corruzione, garanzie che le risorse europee non siano usate illegalmente.
È il motivo per cui il piano di ripresa e resilienza ungherese è bloccato per approfondimenti, come quello della Polonia, altro paese nel mirino di Bruxelles per le stesse questioni (nel caso di Varsavia, la contestazione è sulla mancanza di indipendenza della magistratura).
Il nuovo referendum di Orban rientra in questo clima da resa dei conti tra Bruxelles e Budapest. I quesiti sarebbero cinque. In sostanza si chiederà alla popolazione ungherese se sia d’accordo sul fornire un’educazione sull’orientamento sessuale ai minori senza il consenso dei genitori, se condivida l’opportunità di fornire percorsi di transizione sull’identità sessuale per minori, se sia d’accordo sul fatto che contenuti mediatici Lgbtq possano essere mostrati ai minorenni.
Ma è anche campagna elettorale in Ungheria. Non a caso, il sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, che dovrebbe essere l’avversario di Orban alle elezioni dell’anno prossimo, ha indetto una consultazione su alcune delle iniziative chiave dell’esecutivo. Tra queste, la discussa costruzione di un campus dell’università cinese di Fudan nella capitale. Un progetto contro cui sono già piovute proteste, nel timore che possa accrescere l’influenza del Dragone in Ungheria.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
SOLO IL 26% ORA HA FIDUCIA IN LASCHET… 41% PER IL SOCIALDEMOCRATICO SCHOLZ, 24% NELLA VERDE BAERBOCK
Appena il 26% dei tedeschi pensa che il candidato della Cdu alla cancelleria, Armin
Laschet, sia adeguato ad affrontare una crisi.
E’ quanto emerge da un sondaggio Civey per Der Spiegel, rilanciato da Reuters.
Il sondaggio, il primo a dare qualche indicazione su come la catastrofe alluvionale possa influire sulle elezioni legislative di settembre, indica inoltre che il 41% dei tedeschi ritiene che il suo fidante socialdemocratico, il ministro delle Finanze Olaf Scholz, possa essere un bravo ‘crisi manager’.
Per Annalena Baerbock, candidata dei Verdi, al momento dietro nei sondaggi ai conservatori, il dato non è brillantissimo perché solo il 24% dei tedeschi la riterrebbe adeguata ad affrontare una crisi.
Il sondaggio è stato svolto tra il 16 e il 18 luglio, quindi all’indomani della catastrofica alluvione ma anche dopo la clamorosa gaffe di Laschet, sorpreso dalle telecamere a ridere sul luogo del disastro; e dopo l’annuncio del ministro delle Finanze che arriveranno da subito i primi aiuti diretti e concreti alle popolazioni colpite.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2021 Riccardo Fucile
CUMMINGS ATTACCA JOHNSON ANCHE PER LA PESSIMA GESTIONE DELLA PANDEMIA
“Nessuno sa se la Brexit è stata una buona idea per la Gran Bretagna”: a esprimere questo dubbio non è uno dei tanti “remainers” britannici, ma il capo della campagna che 5 anni fa portò la maggioranza dei cittadini del Regno Unito a scegliere di lasciare l’Unione europea, Dominic Cummings.
In un’intervista alla Bbc, l’ex braccio destro del premier britannico Boris Johnson è tornato ad attaccarlo duramente su vari fronti, a partire dalla gestione della pandemia, mettendo addirittura in dubbio l’essenza stessa della loro alleanza, la Brexit appunto, e dicendo del capo del governo che “prima se ne va, meglio è: per il Paese è terribile, oggettivamente ridicolo”
Pur confermando di considerare personalmente la Brexit una cosa positiva, Cummings ha ammesso che potrebbe essere stato “un errore”. Cummings ha però difeso la contestata scelta di diffondere durante la campagna per il referendum cifre non corrette sugli esborsi destinati alla Ue da Londra. “la cifra di 350 milioni alla settimana ha fatto impazzire tutti perchè era corretta”, ha detto, anche se in realtà è stato dimostrato che non teneva conto del “rebate” e che mai il Regno Unito ha dovuto versare tale cifra a Bruxelles.
(da Huffingtonpost)
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