Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile “ERA UN MAROCCHINO, PUNTO. OGGI IL MONDO E’ UN POSTO UN PO’ PIU’ PULITO”….”LA VITTIMA E’ L’ASSESSORE ARMATO CHE AVRA’ LA VITA ROVINATA DA QUESTO RIFIUTO UMANO”
“Chi era il marocchino ucciso l’altro giorno a Voghera? Nessuno”. Anzi, “un
autentico rifiuto umano”.
Sono le parole pronunciate da un consigliere comunale di Porcari, in provincia di Lucca, Massimo Della Nina, che hanno scatenato una bufera di polemiche e la dura reazione del sindaco della cittadina.
Porcari, consigliere di opposizione e appartenente alla lista civica “La Porcari che vogliamo” sostenuta dal centrodestra alle amministrative del 2017, ha pubblicato su Facebook un post su quanto accaduto alcuni giorni fa nel Comune di Voghera, dove l’assessore alla sicurezza Massimo Adriatici ha sparato un colpo di pistola contro Youns El Boussettaoui, cittadino marocchino di 39 anni, uccidendolo.
Le dichiarazioni shock del consigliere comunale
“Vediamo di fare chiarezza sulla vicenda e capire chi era il marocchino ucciso a Voghera”: inizia così il post del consigliere. “Si da il caso che fosse marocchino. Si può dire o qualcuno si offende? Era un marocchino. Punto. Ora spostate pure l’attenzione sull’assessore armato che avrà, lui sì, la vita rovinata da questo autentico rifiuto umano”.
Non solo, Della Nina ha anche aggiunto: “Oggi, il mondo è un posto un po’ più pulito. E se proprio lo volete fare, indignatevi per un carabiniere ucciso in servizio o per un padre di famiglia ammazzato dalla mafia. Non per questa feccia. Lo ripeto, l’altro giorno a Voghera, non è morto nessuno»
(da agenzie)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile DOPO L’ARRESTO DI DUE DIRIGENTI EMERGONO COSE INAUDITE: ORARIO DI LAVORO DI 12 ORE AL GIORNO PER 7 GIORNI, NIENTE RIPOSI, MALATTIE E FERIE, NIENTE MISURE DI SICUREZZA E I LAVORATORI DOVEVANO RESTITUIRE PARTE DELLO STIPENDIO UFFICIALE
Caporalato in una fiorente azienda del Nordest. Ci sono alcune pagine del giudice per le indagini preliminari Domenica Gambardella che integrano il capo d’imputazione e sintetizzano le accuse non solo a carico di nove pakistani oggetto di misure di custodia cautelare, ma anche di due dirigenti di Grafica Veneta finiti ai domiciliari per sfruttamento di lavoro. “
Giornate lavorative di circa 12 ore per 7 giorni su 7… assenza di giornate di riposo… mancato riconoscimento di ferie… mancato riconoscimento di eventuali giornate di malattia… pausa pranzo da svolgersi all’interno del luogo di lavoro senza che fosse destinato alcuno spazio specifico (quale refettorio o sala mensa)… sorveglianza a vista continuativa durante lo svolgimento delle prestazioni lavorative… mancata messa a disposizione dei lavoratori dei fondamentali Dispositivi di protezione individuali, quali scarpe antinfortunistiche o protezioni per i rumori”.
Ma c’è anche, per i lavoratori, “l’obbligo di retrocessione di parte dello stipendio formalmente erogato in conformità alle buste paga, così da ridurre la retribuzione oraria all’importo di 4,5/5 euro all’ora, ben al di sotto di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro…”, poi “il mancato riconoscimento della tredicesima mensilità, l’obbligo di pagamento di un importo ricompreso tra euro 120 ed euro 150 per l’ospitalità in camere con almeno tre persone ed uso promiscuo di servizi igienici e cucina, il tutto mediante detrazione diretta dello stipendio”.
E’ uno scenario impressionante, che riguarda l’azienda stampatrice con 700 dipendenti (500 in Italia, 200 negli Usa dopo la recente acquisizione di Lake Book Manifacturing) e un fatturato di 200 milioni di euro all’anno. Tre anni fa il titolare Fabio Franceschi, padovano, aveva lanciato un appello: “Non riusciamo ad assumere 25 persone perché i giovani non vogliono fare i turni. Abbiamo ricevuto solo 4-5 candidature, gli altri che abbiamo contattato si sono tirati indietro. Rinunciano per i turni troppo pesanti”. Adesso l’amministratore delegato Giorgio Bertan e il direttore dell’area tecnica Giampaolo Pinton sono sospettati di complicità con l’organizzazione asiatica che agiva dietro il paravento della società B.M. Services sas, con sede a Lavis in provincia di Trento, gestita da Arshad Mahmood Badar e dal figlio Asdullah.
Due date-chiave
Ci sono due date attorno a cui ruota l’inchiesta. Il 25 maggio 2020 un giovane pakistano fu trovato con le mani legate dietro la schiena, dopo essere stato picchiato, lungo la Statale 16, a Piove di Sacco (Padova). Poco dopo un suo connazionale, nelle stesse condizioni, fu trovato a Loreggia. Idem, per un terzo uomo, in provincia di Venezia. Il numero dei casi era poi salito a cinque, mentre altri cinque asiatici si erano presentati al pronto soccorso di Camposampiero, denunciando: “Siamo stati picchiati, seviziati e rapinati”. Il pestaggio sommario, che secondo le vittime era stato messo in atto dall’organizzazione, indirizzò verso le condizioni di lavoro a Grafica Veneta. Ed ecco la seconda data, il 7 luglio 2020, giorno in cui i carabinieri si presentarono nello stabilimento di Trebaseleghe.
“L’azienda sapeva” – “Grafica Veneta è perfettamente consapevole del numero di ore necessarie per svolgere il lavoro che appalta e non a caso, disponendo delle timbrature dei dipendenti Bm Service, ha fatto di tutto per non consegnarli alla Polizia giudiziaria”.
Così scrive il gip nell’ordinanza anticipata da alcuni quotidiani locali, avvalorando la tesi del pm Andrea Girlando. Il procuratore di Padova, Antonino Cappelleri, ha rincarato la dose durante la conferenza stampa seguita al blitz: “La particolarità di questo caso di caporalato è la complicità, che credo siamo riusciti a dimostrare in pieno, dell’azienda italiana con quella gestita dai pakistani, nonostante le solide condizioni economiche e la possibilità di operare in maniera regolare. Sono riusciti a delocalizzare un settore nella loro stessa sede, appaltando manodopera a prezzi bassissimi”.
E ancora: “È inquietante come da una parte l’azienda si sia dimostrata sensibile ai temi sociali, ad esempio fornendo mascherine nel pieno della pandemia, quando non ce n’erano, e dall’altra agisse in modo irrispettoso non solo dei diritti dei lavoratori, ma del genere umano”. Il riferimento è all’autoproduzione consegnata alla Regione Veneto, che distribuì le mascherine ai cittadini nella prima fase del Covid. Franceschi partecipò anche a una conferenza stampa del governatore Luca Zaia, che elogiò il genio e la creatività veneta.
I testimoni
Formalmente i contratti sottoscritti con Grafica Veneta sono regolari, nel senso che indicano un impegno settimanale di 40, 30 e 20 ore. Quindi, al massimo 8 ore al giorno. Ma gli operai hanno descritto una situazione ben diversa. “L’orario poteva variare da 10, 12 a un massimo di 16 ore al giorno”. Un altro: “In busta paga vengono contabilizzate soltanto 8 ore”. Un terzo: “Non era prevista giornata di riposo e neanche le ferie”. Infine: “Lo stipendio mensile era di 1.100 euro, ma mi veniva accreditata una somma inferiore in quanto si trattenevano l’affitto di 120 euro e ulteriori 200, 300 o 400 euro”. Quest’ultimo si riferiva a chi lo aveva reclutato.
Sulla questione dei soldi pagati, il gip annota: “Nel mese di maggio la Bm Service ha fornito circa 3.000 ore di manodopera al prezzo di euro 30.000, che Grafica Veneta ha pagato euro 10 per ogni ora. Considerando che la busta paga di un lavoratore con contratto a tempo pieno prevede una paga oraria oscillante tra i 7 e gli 8 euro, appare evidente che l’importo pagato da Grafica Veneta sia del tutto disancorato dalla realtà, in quanto non consentirebbe alla Bm Service nemmeno di rientrare dei costi della manodopera”.
La conseguenza? “L’unico modo che la Bm Service ha di recuperare i costi è quella di dimezzare nei fatti la paga degli operai, facendoli lavorare il doppio delle ore, senza riconoscere i festivi, le malattie, le tredicesime, il lavoro straordinario…”.
Il depistaggio
Tra le prove raccolte anche intercettazioni. Ad esempio tra Bertan e Mahmood Badar. Secondo il gip, “è l’amministratore delegato che indica il numero di persone da assumere, soffermandosi anche sulle tipologie di contratto da utilizzare e sull’attività di vigilanza che pretende sia fatta sui dipendenti”.
Inoltre, il giorno dell’arrivo dei carabinieri, l’analisi delle telefonate tra Bertan e Pinton, relative agli ingressi e alle presenze degli operai, “dimostra che i due fanno di tutto per non comunicare quei dati in quanto avrebbero provato il loro pieno coinvolgimento nello sfruttamento dei lavoratori”.
Il gip: “Addirittura, vi sono state telefonate in cui i dirigenti della Grafica hanno detto al proprio tecnico di non consegnare nulla e cancellare i dati, disperandosi una volta appreso che la Polizia Giudiziaria era comunque riuscita ad acquisire un dato parziale”. Bertan a Pinton: “Mi raccomando con le timbrature”.
Bertan addirittura invita il titolare pakistano di B.M. Services a parlare “ai suoi operai affinché rispondano bene”. Bertan chiede a Pinton: “Noi gli abbiamo dato le timbrature?”. E si sente rispondere: “No…se le sono prese loro dal computer per quanto riguarda gli ingressi e le uscite. Nell’aprire il programma hanno visto tutto”.
A quel punto Bertan usa una frase inequivocabile: “Ci siamo inculati da soli”. In parte Pinton lo conforta: “Siamo riusciti a tagliare dal 26… hanno preso da maggio in poi”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile LA DENUNCIA DELLA ONG CHE HA INFORMATO LE AUTORITA’ EUROPEE… UNA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE A CUI ABBIAMO REGALATO PURE LE MOTOVEDETTE PER COMMETTERE REATI
La Guardia costiera libica è LA stessa organizzazione che lo stato italiano continua
a finanziare nonostante siano note le loro violazioni e il loro approccio inaccettabile.
Ora, come è stato denunciato dalla Ong – i libici hanno minacciato di arrestare in acque internazionali l’equipaggio di soccorso. E per intimidire la “Sea Watch 3” la cosiddetta Guardia costiera libica ha avvertito di essere pronta a usare “ogni mezzo”.
L’episodio è accaduto nel Canale di Sicilia, al di fuori delle acque territoriali e di pertinenza libiche, nella cosiddetta “Sar”, la zona di ricerca e soccorso nella quale i libici hanno competenza per gli interventi, ma non in via esclusiva
In una serie di tweet, i responsabili dell’ong scrivono: “La cosiddetta Guardia costiera libica ha minacciato di arrestare l’equipaggio di Sea-Watch 3. Millantano di avere giurisdizione sulla zona Sar libica ma è solo l’area in cui hanno la responsabilità di salvare vite. Acque internazionali in cui noi abbiamo il diritto di operare”.
L’organizzazione di ricerca e soccorso denuncia una “gravissima violazione della Convenzione sul diritto del mare”.
Secondo l’ong, impegnata nel salvataggio delle persone che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, “invece di adempiere all’obbligo di salvare vite nella zona Sar di sua competenza, la cosiddetta Guardia costiera libica minaccia di ‘ricorrere a tutti i mezzi disponibili’ per costringerci ad andarcene. Se non ci fosse un interesse europeo a proteggere la sistematica violazione del diritto internazionale marittimo da parte delle autorità libiche, questo comportamento porterebbe a una crisi diplomatica. Le autorità tedesche ne sono state informate”.
(da agenzie)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile SI LAVORA AL COMPROMESSO MENTRE FORZA ITALIA TENTA INVANO LA SORTITA SULL’ABUSO D’UFFICIO
Tra la drammatizzazione grillina e la manovra forzista per rinviare tutto a settembre, la riforma Cartabia prosegue il suo accidentato percorso. E sembra aver “scollinato” in direzione di un’intesa che deve arrivare entro giovedì, se il Governo vuole riuscire ad approdare nell’aula di Montecitorio il giorno dopo.
Mentre il Csm si prepara a far licenziare dal plenum il parere, che si annuncia critico, proprio in tempo per quell’appuntamento.
Indossati i panni del mediatore “costruttivo”, Conte ostenta i muscoli di fronte ai suoi deputati: “Non voglio nemmeno considerare l’ipotesi che non venga modificato il testo della riforma, votarla così sarebbe difficile”.
L’ex premier rassicura, chiede ancora qualche giorno, giura che “i margini di manovra sono strettissimi ma ce la sto mettendo tutta”, ventila una consultazione online della base M5S.
Ma i margini per l’accordo ci sono già: l’esclusione dei reati di mafia e terrorismo dal perimetro dell’improcedibilità, oltre alla norma transitoria proposta dal Pd che differisce di tre anni l’entrata in vigore.
È il canovaccio che stanno limando Draghi e Cartabia, che ieri è stata due volte a Palazzo Chigi. In parallelo, va avanti il percorso in commissione Giustizia, dove è fallito il tentativo del centrodestra di allargare il perimetro della legge ai reati di ufficio, con il no di “Coraggio Italia” e l’astensione di Lupi.
Al mattino parte il “confronto” di Conte con i deputati, ordinatamente divisi per commissioni (vedrà la Giustizia mercoledì). Si incrociano gli impegni che l’ex premier ha preso con il suo successore con le istanze storiche del Movimento, i timori che interi maxi-processi finiscano al macero, gli allarmi di Gratteri e dell’Antimafia. Finale in stand-by. Ma lontano dalla scena, è a buon punto.
Il concetto chiave resta quello degli “aggiustamenti tecnici”: non solo la versione originale del testo Cartabia già prevedeva l’estensione dei tempi dei procedimenti per mafia e terrorismo (quelli puniti con l’ergastolo sono già improcedibili), ma queste fattispecie di reato hanno uno “status particolare”. E processi con imputati detenuti, che hanno già priorità.
In sostanza, Palazzo Chigi e via Arenula ritengono di poter andare incontro alle esigenze di M5S senza snaturare la riforma né aprire il vaso di Pandora delle rivendicazioni partitiche perché si tratta di “ampliare l’ambito di garanzie preesistenti”.
Disinnescata (forse) quella mina, resta la ghigliottina dei tempi.
Senza accordo anziché un emendamento unico, si voterebbe sui singoli articoli e servirebbero 4 o 5 fiducie. Il presidente M5S della commissione Perantoni ha avvisato l’esecutivo: “Intesa entro giovedì se si vuole rispettare il timing”.
Un altolà frutto anche di quanto accaduto con la (inattesa) impuntatura di Forza Italia che oggi ha tentato fino alla fine di far rientrare nella riforma gli emendamenti sull’abuso d’ufficio per i sindaci e sulla riqualificazione della nozione di pubblico ufficiale. Prima respinti dall’ufficio di presidenza, sono stati poi dichiarati inammissibili “per estraneità di materia” dal presidente della Camera Roberto Fico.
A quel punto, il capogruppo Zanettin ha chiesto l’allargamento del perimetro del provvedimento: manovra che, se fosse riuscita, avrebbe comportato la riammissione di tutti gli emendamenti sui reati contro la Pubblica Amministrazione, con l’inevitabile rinvio a settembre.
Un blitz che ha fatto infuriare (e ballare) Pd e M5S, fallendo di poco: 25 no e 19 sì per la richiesta forzista, 23 no e 21 sì per quella analoga di Alternativa C’è. Grande paura, ormai alle spalle. C
on un corollario: la deputata e magistrata Giusi Bartolozzi lascia polemicamente Forza Italia e approda al Misto. Intenzionata a votare contro la proposta dei suoi, è stata fulmineamente rimossa dalla commissione Giustizia e promossa (pare a sua insaputa) capogruppo della Affari Costituzionali, e non ha apprezzato.
Ostacolo superato, ma restano scorie. Tajani protesta contro “il ritorno dell’asse giustizialista Pd-M5S”. Anche il capogruppo alla Camera Occhiuto è scontento: “Dispiace che la maggioranza si sia divisa sui nostri emendamenti, vedo troppa attenzione a farsi carico delle richieste M5S. La fiducia? Vedremo il testo finale”.
Se ci sarà la fiducia “la voteremo convintamente – è la linea del dem Verini – Sono certo che la sintesi finale del Governo terrà in piedi certezza e durata ragionevole dei processi, effettivo rafforzamento degli uffici giudiziari e delle Corti più in difficoltà, esigenza di far giungere a piena conclusione in tempi certi procedimenti per gravissimi e gravi reati”.
Se sarà davvero così, lo si capirà nelle prossime 48 ore.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile CASO CAMICI, IL GOVERNATORE LEGHISTA FONTANA VERSO IL RINVIO A GIUDIZIO PER “FRODE IN PUBBLICHE FORNITURE”
Si è appena conclusa l’inchiesta che ha visto al centro delle indagini la fornitura di
dispositivi di protezione individuale, tra cui 75 mila camici, da consegnare in piena pandemia alla Regione Lombardia.
La procura di Milano ha stabilito che il governatore leghista Attilio Fontana deve andare a processo per l’ipotesi di reato di concorso in “frode in pubbliche forniture” sotto il profilo dell’inadempimento di un contratto con l’amministrazione pubblica.
La vicenda, stando a quanto ricostruito nell’indagine, si sarebbe conclusa con la consegna da parte di Dama S.p.A. solo di 50mila camici, perché nel frattempo, quando venne a galla il conflitto di interessi, la fornitura fu trasformata in donazione, con la conseguenza che l’ordine non venne perfezionato per la mancata consegna di un terzo del materiale. Inoltre, il presidente della Lombardia è intervenuto con il tentativo di risarcire, per il mancato introito, il cognato Andrea Dini, titolare al 90% della società Dama S.p.A. ( società di cui la moglie di Fontana, Roberta Dini, aveva una quota del 10%) con un bonifico di 250 mila euro da un conto in Svizzera, poi bloccato in quanto segnalato dalla Banca d’Italia come operazione sospetta.
Da qui è scaturita anche un’indagine autonoma per autoriciclaggio e falso in voluntary su Fontana.
Nell’avviso di conclusione delle indagini, la procura di Milano scrive: “Ci fu un accordo collusivo” intervenuto tra Andrea Dini e Attilio Fontana, suo cognato, “con il quale si anteponevano all’interesse pubblico, l’interesse e la convenienza personali del Presidente di Regione Lombardia”, il quale da “soggetto attuatore per l’emergenza Covid” si “ingeriva nella fase esecutiva del contratto in conflitto di interessi” sull’ormai nota fornitura di camici e altri dpi trasformata in donazione”.
Il governatore ha sempre ribadito la correttezza del proprio operato e, attraverso i suoi legali, ha depositato anche documenti e memorie per difendersi. In alcuni atti già noti dell’inchiesta i PM si parlava del “diffuso coinvolgimento di Fontana” nel caso “accompagnato dalla parimenti evidente volontà di evitare di lasciare traccia del suo coinvolgimento mediante messaggi scritti”.
I legali di Attilio Fontana, gli avvocati Jacopo Pensa e Federico Papa, commentano così la chiusura della indagini: “La notifica di oggi consentirà di assumere le iniziative previste dalla legge per dare un contributo di chiarezza allo sviluppo dei fatti che così come descritti non corrispondono al vissuto del Presidente”.
Il governatore lombardo, chiariscono, “non si riconosce” nell’“articolato capo di imputazione” per “come è stata ricostruita la vicenda”.
Dopo la conclusione delle indagini e il deposito degli atti, le difese avranno tempo per chiedere gli interrogatori o depositare memorie.
La Procura poi deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio per portare il caso in udienza preliminare davanti ad un gup, che si esprimerà sul rinvio a giudizio o meno.
(da agenzie)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile NON ESISTE ANCORA IL REATO DI LESA MAESTA’
Scusate, ma per parlare del caso del giorno – “il caso Travaglio” – purtroppo bisogna entrare negli automatismi del vernacolo. Se uno dicesse: “Quello è un figlio di puttana”, tutti capirebbero che l’oggetto dell’insulto è il figlio, non la madre. Quando si dice “figlio di puttana”, anche nell’accezione più positiva – che esiste – si parla di uno spregiudicato, di un furbastro, di un dritto. Non certo della professione materna e della virtù del suo “genitore uno”.
Ed ecco perché, dovendo entrare in quello che ormai è diventato un caso mediatico-politico di rilievo bisogna persino spiegare alcune banalità di automatismo della lingua italiana: “figlio di papà”, giusto o sbagliato è un rampollo, un campione delle élite, cresciuto in un ambiente protetto in mezzo ai suoi simili.
Del padre questo lemma dice poco, o nulla, del figlio dice tutto. È certo che Marco Travaglio sbagli nel dire che Mario Draghi è “solo un curriculum” (avercelo, direbbe Totò): non è vero che Draghi non capisca “un cazzo”, ma è certo che ha pasticciato sui vaccini. E non poco: il punto era quello.
E non c’è dubbio alcuno che, senza che questa debba essere considerata una colpa, Draghi sia figlio delle élite. È figlio di una farmacista (borghesia agiata) e di un padre che lavorava in Banca d’Italia e che aveva lavorato come dirigente nel mondo del credito. E che ha fatto la sua carriera in Banca d’Italia e nel mondo del credito: figlio – appunto – di suo padre, nella scelta vocazionale di una vita.
Ecco perché la cosa più penosa che si è letta, ieri, era l’argomentazione (non a caso l’ha utilizzata Matteo Renzi) che Draghi sia orfano. Anche Renzi è “un figlio di papà”, indipendentemente dallo stato di salute di papà Tiziano. È cresciuto nell’azienda di famiglia, non ha mai lavorato un minuto in vita sua, prima della politica: prendeva la paghetta dalla ditta di papà e mamma Renzi, poi gli abbiamo dato uno stipendio noi, la collettività. E di certo Renzi è più “figlio di papà” di Draghi.
Ma quando si parla dell’ambiente del liceo Massimo a Roma, quello dove ha studiato l’ex governatore, non a caso si dice: “Quella è una scuola per figli di papà”. Lo si fa senza scomodare anagrafi e certificati di morte: è – ancora oggi – il liceo delle élite, dove la classe dirigente romana iscrive i figli che non vuole sottoporre alle incertezze della scuola pubblica.
La categoria di cui si parla – dunque – è quella dei figli protetti, che frequentano persone di pari censo, non quella dei padri facoltosi e dei loro mestieri. Sarebbe come se parlando di qualcuno dandogli del “figlio di puttana” si ribattesse: “Ma guarda che sua madre fa la crocerossina”.
Tuttavia, seguendo il filo dell’incongruità, e dell’invettiva contro Travaglio si è arrivati a criticare persino Articolo uno, il partito che organizzava la festa in cui il direttore de Il Fatto Quotidiano ha parlato.
Come se una festa in cui si dibatte delle idee, dovesse garantire una sorta di certificazione conformistica: come se tutte le idee dovessero essere uguali. Ma allora di cosa si dibatterebbe nelle feste dei partiti? Roberto Speranza non dovrebbe essere chiamato a dissociarsi da Travaglio, ma dovrebbe di certo dargli una medaglia: perché il mondo ha scoperto grazie alla polemica sui figli di papà che esiste la festa di Articolo uno, e subito dopo che Articolo uno ha una platea non conformista.
Dunque il tema di questi dibattiti non è il padre, ma il conformismo intorno al governo Draghi, un certo clima culturale. Il tema non è l’iperbole ingiuriosa, ma il tabù di Mario Draghi.
Adesso bisogna fare ordine: di Palmiro Togliatti si scriveva che era un servo di Mosca. Di Alcide De Gasperi che fosse un servo degli austriaci. Di Antonio Segni che fosse stato un presidente golpista. Di Giulio Andreotti si diceva che fosse stragista e mafioso (ben prima del suo processo). Dei democristiani (tutti) che erano un regime. Di Aldo Moro che fosse pazzo e (anche) sessuomane (rivedersi Todo modo, se presi da qualche dubbio). Di Silvio Berlusconi si disse e scrisse qualsiasi cosa. Mentre Romano Prodi veniva chiamato dalla stampa di destra “Mortadella” (a lui il soprannome piacque). Amintore Fanfani era un mostro con tentazioni dittatoriali. Giorgio Almirante un “fucilatore fascista”. Bettino Craxi un “cinghialone”, ma anche “Bokassa”, come il dittatore africano che amputava gli oppositori, con ferocia tribale, a colpi di machete.
Solo oggi il conformismo dei giornali, e l’Italia del 90 per cento (dei media) sono intonati a una sola voce, e si pone il tema del reato di “lesa maestà”.
In una democrazia si critica, in una autocrazia si omaggia il sovrano. Il premier, dunque, diventa un monarca intoccabile, che non va disturbato, sbeffeggiato e (soprattutto) irriso.
Ma mi faccio questa domanda: i giornali che fino a sette giorni fa dipingevano la riforma Cartabia come se fosse perfetta e inemendabile, e che secondo copione esaltavano il consenso imposto da Draghi nella votazione in Consiglio dei ministri, cosa scrivono ora quando devono dare la notizia che per volontà di Draghi e della ministra la riforma cambia in modo sostanziale? Non è un contrordine? Era scritta male? Erano giuste le critiche? Se fosse passata come la proponeva il sovrano sarebbero andati in fumo i processi di mafia e di terrorismo? E non ha detto persino Paolo Mieli (ieri, a In Onda) che è stato un errore sospendere gli Open Day vaccinali?
Marco Travaglio ha libertà di opinione, non è eletto, non ha ruoli istituzionali, può dire dei leader politici quel che vuole. Giusto o meno lo giudicano i suoi lettori.
Chi non condivide è libero, a sua volta, di criticarlo. Io non condivido l’iperbole dell’invettiva, non sottoscriverei mai il “non capisce un cazzo”. Ma ho scritto su questo sito che Draghi sulla campagna vaccinale ha sbagliato due volte.
Chi oggi fa polemica su Travaglio ha staccato la spina della criticità ed è questo il tema del contendere. I troll leopoldini (e dintorni) che ieri erano scatenati sui social (e sui giornali) contro il direttore de Il Fatto per le sui opinioni, non hanno detto una parola sul vero assurdo della politica in queste ore. E cioè che Matteo Renzi, ancora una volta, ricatta Enrico Letta dicendogli che se vuole candidarsi alla Camera deve abiurare alla sua linea politica.
Il che – comunque la si pensi – è a dir poco folle. Come se un alleato minore del centrodestra – che ne so Lorenzo Cesa – dicesse che Giorgia Meloni o Matteo Salvini non si possono candidare alla Camera nella loro coalizione.
Questo è l’editoriale che manca, tra i maestri del coro. Questo il corsivo desaparecido. Quello sul figlio di papà di Rignano, beniamino dei direttori, che con l’uno virgola, pretende ancora di dare le carte nella politica italiana.
(da TPI)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile LA MOGLIE DEL DETENUTO: “E’ VENUTA AL BAR”
Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha
sospeso dalle funzioni di direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato – a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione – sulla scorta di un’informativa della Dda di Lecce, secondo la quale la direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso.
L’informativa firmata dai finanzieri guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci, che ilfattoquotidiano.it è riuscita a visionare, Baldassarri si sarebbe presentata in almeno due occasioni nel bar gestito dai familiari di Michele Cicala, il boss arrestato ad aprile perché ritenuto dal pm Milto De Nozza della Direzione distrettuale antimafia di Lecce a capo di un clan mafioso che aveva avviato con gruppi campani e lucani un redditizio contrabbando di gasolio agricolo e reinvestito parte dei proventi in una serie di attività commerciali nel Tarantino. Secondo i finanzieri, in quelle “visite” al bar, la direttrice Baldassari avrebbe avuto colloqui con i parenti del presunto boss riportando informazioni e invitando a chiamarlo.
A certificarlo secondo gli investigatori sono state le intercettazioni tra Cicala e la moglie: quest’ultima infatti in almeno due colloqui avrebbe raccontato al marito “è venuta la direttrice al bar: ‘scrivigli mi raccomando così sta meglio’… no ma era gentile… cioè è venuta buona e ha detto ‘che sei molto fiducioso che stai bene’”.
Per le Fiamme gialle “sebbene il bar Primus Borgo si trovi lungo uno dei possibili percorsi che la direttrice può percorrere per raggiungere la propria abitazione, considerate le circostanze – si legge nell’informativa – non si comprendono le ragioni per le quali dovesse necessariamente fermarsi presso il predetto locale fornendo rassicurazioni sull’umore del Cicala”.
Per gli investigatori è “singolare e di particolare premura l’attenzione riservata dalla direttrice della Casa Circondariale di Taranto verso il detenuto Michele Cicala, la quale recandosi presso una delle attività riconducibili al predetto e sottoposte a sequestro, raccomanda ai familiari del Cicala di scrivergli per esprimergli conforto, tenuto presente che nel periodo di detenzione, causa anche della situazione pandemia il Cicala, alla stregua di tutti gli altri detenuti, ha avuto molteplici modi per comunicare mensilmente: 3 colloqui in presenza; 6 videochiamate Whatsapp e 4 chiamate telefoniche”.
Tra gli addetti ai lavori, però, c’è chi sostiene che questi episodi siano in realtà la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La gestione Baldassarri, in carcere, infatti, era finita soprattutto negli ultimi anni al centro di una serie di vicende anche giudiziarie. Il carcere ionico, infatti, era finito al centro della cronaca quando indagini delle forze dell’ordine avevano scoperto un significativo traffico di droga all’interno delle celle. In alcuni casi, gli stupefacenti venivano consegnati addirittura con l’utilizzo di droni che dall’esterno della struttura penitenziaria raggiungevano in volo le finestre delle celle di alcuni detenuti.
Non solo. In questi anni altre indagini hanno portato all’arresto di alcuni agenti della polizia penitenziaria che, secondo l’accusa, in cambio di denaro svolgevano le funzioni di postino per i detenuti.
Infine anche la gestione dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia aveva scalfito la direzione: nel carcere di Taranto – tra i più sovraffollati d’Italia con 689 detenuti a fronte di una capienza massima di 304 persone – circa un mese fa, era stato individuato un focolaio Covid.
Eppure della sua capacità di gestione del carcere, Stefania Baldassari ne aveva addirittura fatto un cavallo di battaglia durante la campagna elettorale del 2017 che la vedeva candidata alla carica di sindaco. A capo di una serie di liste civiche, Baldassari aveva riunito intorno a sé anche l’intero centrodestra ionico, ma la sua corsa si è arrestata al ballottaggio che ha visto la vittoria del centrosinistra con Rinaldo Melucci.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile “PER TE VERRA’ LA VENDETTA DI NORIMBERGA, STAI ATTENTA QUANDO CAMMINI PER STRADA”
Le parole sono state pronunciate in un audio inviato su Whatsapp. Destinataria Samantha Grossi, infermiera di Treviso, colpevole, a parere di chi la minacciava, di aver sostenuto apertamente i vaccini: “Per te verrà la vendetta di Norimberga. Stai attenta quando cammini per strada, abbiamo perecchie cose da dirti”.
La minaccia vocale a Samantha è solo l’ultima di una lunga serie, da quando è apparsa su una tv locale e ha invitato le persone a sottoporsi alla vaccinazione. Lei conosce chi l’ha contattata: si tratta di un’operatrice socio sanitaria che lavora nella sua stessa azienda.
Si legge su Repubblica:
“Ti auguriamo la peggiore delle morti: un tumore”; “Il vaccino che tu vuoi far fare agli altri ti deve far morire”; “Tu con il vaccino porti la morte agli altri, se cammini per strada guardati le spalle”; “Ti auguro che ti cada qualcosa in testa”: sono solo alcuni dei messaggi ricevuti sui social e via mail da Luciano Clarizia, 59 anni, infermiere da 33, che gestisce l’area di emergenza, a capo del 118, a Pordenone, dove presiede pure l’Ordine di categoria.
“Siamo tornati al Medioevo – ha pensato Clarizia quando li ha letti – . Questi no vax sostengono che la peste, quando c’era, ha fatto i morti che doveva. E che alla fine, così com’è venuta, se n’è andata. Per loro il Covid è la stessa cosa”.
Le minacce arrivano anche dagli stessi colleghi sanitari, che si oppongono al vaccino.
La percezione di un clima sempre più teso è arrivata anche alla presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche. Barbara Mangiacavalli si mostra risoluta: ”È nostro dovere intervenire – avverte – per tutelare i colleghi presidenti e professionisti e come infermieri per garantire ai cittadini di essere sempre in prima linea per garantire la loro salute. Abbiamo fin dall’inizio invitato tutti i professionisti a rispettare la norma di legge e da parte nostra continueremo a sensibilizzare rispetto all’importanza della vaccinazione”. “Per un infermiere – prosegue – è un dovere verso i cittadini, verso i colleghi e anche verso la scienza in cui crediamo.
(da agenzie)
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Luglio 27th, 2021 Riccardo Fucile LA PICCOLA ERA STATA CONTAGIATA DALLA SORELLA DI RITORNO DA UN VIAGGIO IN SPAGNA
E’ morta la bambina di 11 anni ricoverata all’ospedale Di Cristina di Palermo che si
trovava intubata dopo aver contratto la variante Delta del coronavirus. Alle 13 il cuore della piccola, affetta da una malattia metabolica rara, ha smesso di battere. Sta meglio invece il neonato di due mesi, anche lui positivo, ricoverato in Terapia intensiva neonatale all’ospedale Cervello.
La bambina era stata contagiata dalla sorella maggiore di ritorno da un viaggio in Spagna. Tutti i componenti della famiglia non sono vaccinati e sono risultati positivi al virus.
“Sono no-vax”, aveva dichiarato il presidente della Regione Nello Musumeci, sottolineando l’importanza delle vaccinazioni per prevenire le forme gravi della malattia.
“I bambini e i soggetti fragili saranno protetti solo quando si svilupperà l’immunità di comunità – aveva già dichiarato Desiree Farinella, referente sanitario dell’ospedale “Di Cristina”- Ricordiamo che si possono vaccinare tutti i bambini dai 12 anni in su, sia presso la nostra struttura dedicata ai bambini che presso i centri vaccinali. In caso di soggetti fragili che non possono vaccinarsi è necessario che i nuclei familiari siano immunizzati a loro protezione”.
(da agenzie)
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