Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
COGNATI, SORELLE, GABBIANI, EX CUBISTE RAMPANTI, EX DI ALEMANNO, AMICI DI DURIGON: COME FRATELLI D’ITALIA E LEGA SI PREPARANO A SPARTIRSI LE POLTRONE CHE CONTANO
Su Enrico Michetti, il semisconosciuto candidato della destra per la scalata a Palazzo Marino, ci sono ad oggi tre certezze.
La prima, figlia di gaffe e surreali digressioni sulla Roma dei Cesari, è che il tribuno lanciato dalle trasmissioni su Radio Radio sembra del tutto inadeguato al ruolo di sindaco della capitale.
La seconda è che Michetti, sondaggi alla mano, è avanti rispetto ai rivali, e salvo sorprese arriverà al ballottaggio. La terza evidenza è che, dovesse vincere il duello finale contro Virginia Raggi, Carlo Calenda o Roberto Gualtieri, il docente a contratto dell’Università di Cassino, conterà poco o nulla.
Non solo perché privo di qualsiasi esperienza politica, ma perché scevro di consenso personale (che appare inferiore a quello delle liste che lo appoggiano) e forza politica reale. La macchina elettorale che sostiene lui e la sua vice Simonetta Matone, al contrario, è ben oliata.
Ed è guidata da uomini di Fratelli d’Italia e della Lega: in caso di successo della coppia saranno i loro dante causa, dunque, ad appaltare e smistare le poltrone di assessorati e partecipate. Con il rischio (altissimo) di rivedere Roma in mano a raccomandati assortiti e volti già protagonisti dei fallimenti delle giunte di Gianni Alemanno e Renata Polverini.
Un universo che dopo i disastri dei primi anni dieci si è inabissato dividendosi in fazioni diverse e litigiose, e che oggi è tornato a rioccupare posizione di vertice non solo del partito lepenista della Meloni, ma anche della Lega di Matteo Salvini, guidata a Roma dal nostalgico Claudio Durigon.
Andiamo con ordine. Se ad ottobre il Cavalier Michetti (uno che paragona i vaccini anti Covid al doping della Germania dell’Est) riuscirà nell’ardua impresa, in tanti scommettono che il Campidoglio sarà militarizzato, in primis, dai colonnelli della Meloni.
Il più influente, ad oggi, è Francesco Lollobrigida. Cognato della “capa” (ha sposato la di lei sorella Arianna, la prima ad aver segnalato a Giorgia il tribuno radiofonico come possibile candidato civico) oggi è capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera.
Già assessore ai Trasporti con la Polverini, “Lollo”, come lo chiamano gli amici, è diventato il suggeritore più ascoltato dalla Meloni. Non solo per via della parentela stretta, ma anche per la decisione di rivoluzionare insieme la strategia politica del partito.
I due, di fatto, hanno ucciso freudianamente il “padre” e mentore Fabio Rampelli, rinnegando la visione dell’ex capo della sezione di Colle Oppio e della corrente dei “gabbiani” e aprendo il partito ad alleanze e pezzi della società civile dentro e fuori di Grande raccordo anulare.
Chi scambia Lollobrigida per un moderato, però, si sbaglia di grosso
Michetti sa che dovrà ascoltare – direttamente o indirettamente – i consigli non solo del cognato, ma anche la sorella della Meloni.
La moglie di Lollobrigida, Arianna, formalmente è una dipendente precaria della Regione Lazio, assunta e riassunta da lustri dai vari gruppi consiliari della destra: l’attuale incarico è quello di responsabile della segreteria della presidente della commissione Trasparenza, la meloniana Chiara Colosimo.
Tutti sanno, però, che la sorella minore del leader è una dei consiglieri esterni più ascoltati nel partito. «Faccio politica del 1993 a prescindere dalle parentele, non ho mai avuto bisogno di essere raccomandata da alcuno», ha detto lo scorso settembre a chi la accusa di nepotismo.
Lei, in effetti, sembra preferisca raccomandare: nel 2007, quando a Viterbo fu arrestato l’assessore di An Mauro Rotelli perché accusato di aver assegnato la gestione delle mense scolastiche a una società (la Euroservice catering) in cambio dell’assunzione di alcune persone, i magistrati esibirono documenti e fax inviati da Arianna in persona alla stessa società in cui si segnalavano nomi di persone da assumere nei servizi di fornitura pasti di alcune carceri.
Al tempo dei fatti la Meloni senior era impiegata del gruppo An alla Regione Lazio, per poi approdare alla segreteria di Rampelli
“Ritengo che tutti coloro che fanno politica segnalino tramite i partiti persone che hanno bisogno di lavoro. Non credo che possa essere considerato un crimine», disse candidamente, aggiungendo che l’amico Rotelli «uscirà alla grande dalla vicenda in cui si trova coinvolto».
In effetti Rotelli, ex consigliere giuridico della Meloni quando era ministro della Gioventù e oggi fedelissimo deputato di Fratelli d’Italia, fu scarcerato dopo due mesi, mentre le accuse di abuso d’ufficio e turbativa d’asta finirono in prescrizione nel 2014. La Corte dei Conti nel 2018 lo ha però condannato a pagare 70 mila euro di risarcimento d’anni al Comune di Viterbo, che un anno fa ha notificato all’onorevole l’ingiunzione a pagare.
Al netto degli imbarazzi sui fax, un’altra vicenda giudiziaria ha creato ad Arianna qualche grattacapo: lei e il marito Lollobrigida furono infatti accusati dai magistrati di Piazzale Clodio di corruzione, nientemeno per aver favorito il costruttore Paolo Marziali nel 2009 in cambio di utilità. Per fortuna della coppia in ascesa nel 2016 la stessa accusa chiese l’archiviazione dell’inchiesta, perché gli episodi contestati ai due coniugi erano ormai troppo distanti nel tempo per l’esercizio dell’azione penale.
Assai voce in capitolo, vincesse Michetti la corsa al Campidoglio, l’avrà anche la Colosimo, la donna forte di Fratelli d’Italia nella Capitale.
Per anni organizzatrice della kermesse politico-tolkeniana di Atreju, originaria della Garbatella come l’amica Giorgia, qualche incontro di pugilato alle spalle e una breve carriera da “fascio-cubista” alla discoteca Gilda, è oggi potente consigliere alla Pisana
Intelligente e scaltra, collanina con la croce celtica portata per anni accanto al crocifisso, qualche giornale a maggio aveva addirittura ipotizzato una sua candidatura a sindaca.
Congettura accantonata subito dalla Meloni. Così come quella di incoronare candidato il mentore di tutti i “gabbiani” (Colosimo compresa), cioè Rampelli in persona. Fondatore di Fdi e principale fautore con Guido Crosetto dello strappo con il Pdl nel 2012, il maestro sa bene che i rapporti con l’apprendista si sono raffreddati da tempo, ma sperava che l’allieva gli concedesse almeno il classico promoveatur ut amoveatur, candidandolo al Campidoglio.
La leader ha deciso altrimenti, non tanto perché considera Michetti più valido dell’ex precettore, ma soprattutto per evitare scontri di potere interni al partito e consentire a Lollobrigida di giocarsi le sue carte per la sfida, tra due anni, per la presidenza della Regione Lazio.
Rampelli nega screzi e autocandidature, e per ora dissimula il malcontento. Sa bene, però, che il pacchetto di voti che controlla a Roma è ancora rilevante, e sa che in caso di una vittoria di Michetti potrà piazzare i suoi fedelissimi in qualche posto di peso.
Come già accaduto nel 2019 con Marco Marsilio, gabbiano doc e suo braccio destro storico diventato governatore dell’Abruzzo, nonostante vecchie polemiche sulla moglie Stefania Fois, che fu lambita dagli scandali sulle parentopoli di Alemanno perché contrattualizzata in Atac.
Trionfasse Michetti, alla costituzione della sua squadra metteranno bocca certamente anche Andrea “Peo” De Priamo, ex rampelliano di ferro e oggi amico personale della Meloni, senza dimenticare l’ex assessore di Alemanno Fabrizio Ghera e Federico Mollicone, il deputato di Fdi che due settimane fa ha seminato il panico tra i commessi della Camera che tentavano invano di strappargli di mano i cartelli contro il Green pass. «Visto? Ho ancora i riflessi da cestista», ha detto.
Ma anche Federico Rocca potrebbe dire la sua: candidato nelle liste meloniane insieme a Rachele Mussolini (nipote di, ovviamente), in molti credono possa fare un’exploit di preferenze e prendersi un assessorato di peso.
Dietro il moderatismo sornione di Michetti e Matone, però, non c’è solo l’estremismo dei “gabbiani”, che hanno riaccolto tra le loro fila lo stesso ex nemico Alemanno, assolto di recente dalla Cassazione per le accuse di corruzione ma non per quelle di traffico di influenze e finanziamento illecito da parte di Salvatore Buzzi della sua fondazione Nuova Italia, condanna confermata dai giudici della corte suprema.
Ma pure il blocco ex missino finito nelle file della Lega di Salvini.
Gran cerimoniere dei sovranisti laziali è, ca va san dire, Claudio Durigon. Quanto conterà il sottosegretario all’Economia finito nella bufera prima per i rapporti personali con personaggi legati alla criminalità organizzata dell’area pontina e poi per la proposta di intitolare il Parco “Falcone e Borsellino” ad Arnaldo Mussolini (fratello del Duce e principe del regime, di cui curò la propaganda fascista su giornali e radio) dipenderà anche chi, alle amministrative romane del 3 ottobre, vincerà il derby tra nostalgici e sovranisti.
La Lega alle ultime comunali del 2016 aveva raggiunto appena il 2 per cento dei voti, contro il 12 della meloni. Nelle ultime europee del 2019, però, a Roma Salvini è arrivato al 25 per cento delle preferenze, mentre Fratelli d’Italia è rimasta ferma all’8 per cento. Percentuali, dicono gli analisti, destinate tra due mesi ad invertirsi di nuovo.
Si vedrà. Di sicuro Durigon – vincesse Michetti anche grazie a un’affermazione delle liste leghiste – chiederà per i suoi almeno due-tre assessorati di rilievo, senza parlare dell’assalto alle partecipate capitoline come Ama, Atac e Acea.
Ex segretario dell’assessore della Polverini Mariella Zezza, il latinense è un ex dell’Ugl, il sindacato di destra di cui divenne vicesegretario, e da commissario romano del Carroccio ha usato le relazioni con l’organizzazione dei lavoratori per creare una rete di potere di tutto rispetto.
Il sottosegretario in bilico non si candiderà direttamente al Campidoglio, ma la compilazione delle liste saranno cosa sua e dei suoi sodali nel partito di Via Bellerio. Tra questi ci sono Alfredo Maria Becchetti, un notaio e semisconosciuto giudice della Figc diventato a sorpresa nuovo responsabile della Lega a Roma dallo scorso fine dicembre, Fabrizio Iadicicco e l’altro ex meloniano Maurizio Politi, vicino ai movimenti di destra pro-life e al movimento “Generazione Popolare” guidato da Edoardo Arrigo, nipote di Alemanno.
Ma la Lega, a Roma, ha anche il viso più rassicurante di Barbara Saltamartini. La deputata leghista è a capo di una corrente diversa da quella di Durigon, e ha deciso di candidarsi al Campidoglio su richiesta di Salvini in persona. È l’emblema del vecchio che avanza saltando di palo in frasca: in politica da 25 anni, ha cominciato con Azione giovani e nel 2008 è stata eletta alla Camera – anche grazie al rapporto strettissimo con Alemanno – nelle file del Pdl. Si distingue negli anni per le battaglie contro l’aborto, il divorzio breve, l’eutanasia.
E per il sodalizio familiare e politico con il marito Pietro Di Paolantonio (ex alemanniano di ferro e celebre come ideatore della manifestazione di musica celtica “Fairylands”), che nel 2013 fu promosso assessore regionale dalla Polverini. I due passano nel Nuovo centro destra di Angelino Alfano, ma la Saltamartini chiede asilo alla Lega quando il progetto salta.
Anche lei, in realtà, sognava una candidatura a sindaca di Roma. Ma ora deve sdebitarsi con Salvini che l’ha accolta a braccia aperte, e deve appoggiare il Cavalier Michetti senza se e senza ma.
Sapendo che – vincesse davvero il tribuno delle gaffe – sarebbero lei e gli altri ex sparpagliati tra i partiti di destra (non va dimenticata l’area forzista che fa capo a Maurizio Gasparri) a dare le carte e a gestire il potere.
(da Domani)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
MOVIDA SENZA REGOLE MA CASANOVA E’ COPERTO DA TUTTI I PARTITI, COMPRESO IL PD
Sabbia rovente, mare petrolio. Gli ombrelloni e i lettini sono sold out, ma al Papeete Beach non c’è aria di festa. Siamo nello stabilimento più famoso di Milano Marittima, pioniere degli happy hour e tempio del salvinismo balneare, dove si fanno e disfanno governi. Il padrone è Massimo Casanova, l’amico a cui Matteo ha donato un seggio a Bruxelles.
A inizio agosto, quasi in contemporanea con la festa della Lega, a Milano Marittima è arrivata anche la Guardia di finanza. I pm di Ravenna hanno sequestrato oltre mezzo milione di euro a due società dei Casanova (intestate alla sorella Rossella) per un giro di fatture false. Lui ovviamente accusa i magistrati, ma sul suo impero di sabbia inizia a soffiare un vento minaccioso.
Milano Marittima è diventata insofferente verso il modello economico e turistico inaugurato al Papeete ormai vent’anni fa. Le transumanze alcoliche dei ragazzi che sciamano lungo la III Traversa – quella dello stabilimento dei Casanova – sono quasi quotidiane nonostante la pandemia.
Le chat private e le pagine pubbliche sui social sono piene di video e foto inclementi. File di giovani ubriachi a fare la pipì sul marciapiede, un minorenne in svenimento etilico accasciato per strada, un giovane completamente nudo che corre dallo stabilimento verso la reception dell’Hotel Miami (sempre dei Casanova). Comitive assembrate e senza regole.
È l’“indotto” del Papeete, un modello che a Milano Marittima è diventato egemone. Il turismo giovanile e alcolico ha integrato e sostituito quello familiare, benestante e pacioso.
Il sindaco di Cervia (di cui Milano Marittima è frazione) si chiama Massimo Medri ed è stato eletto con il Pd grazie anche a un programma sul decoro urbano, che prometteva il rispetto delle regole da parte dei balneari. È rimasto sulla carta.
Chi non ama Casanova fa notare che la Polizia cittadina si dimentica sempre della III Traversa, specie negli orari critici e malgrado copiose segnalazioni.
L’ex assessore alle Attività produttive Michele Fiumi, nominato da Medri con l’obiettivo di “ripulire” Milano Marittima, si è dimesso lo scorso agosto dopo un solo anno di mandato. “Era come lottare contro i mulini a vento”, dice oggi. “Non c’è alcuna volontà politica di cambiare le cose. Ho provato a far rispettare le regole ai gestori delle spiagge, sistematicamente violate. Ho scritto un regolamento apposito ed è stato bloccato dallo stesso Pd. Né il sindaco né il suo partito mi hanno difeso dagli imprenditori delle spiagge”.
Malgrado la militanza leghista, Casanova coltiva rapporti trasversali, eccellenti, con tutta la politica e l’amministrazione romagnola.
L’elenco è corposo. Il proprietario del Papeete è tra i 100 imprenditori romagnoli che hanno sostenuto pubblicamente la candidatura di Michele De Pascale, sindaco dem di Ravenna, in corsa per la rielezione a ottobre.
L’avvocato del comune di Cervia – la stessa figura che dovrebbe risolvere eventuali controversie con i gestori dei lidi – è Silvia Medini, è tra le migliori amiche di Rossella Casanova ed è una collaboratrice occasionale del Papeete.
Il segretario della Lega a Cervia è il consigliere comunale Simone Donati, “beach manager” del Papeete fino al 2020. L’ex assessore alla Sicurezza era invece Gianni Grandu (Pd), che si è fatto fotografare sorridente in occhiali da sole alla consolle dello stabilimento di Casanova, dove ha lavorato da barista anche il figlio Roberto. Una grande famiglia.
Fiumi si sfoga: “Questa economia arricchisce pochi imprenditori e impoverisce la città. Però è coperta da destra a sinistra”. Ricorda un aneddoto clamoroso: “Una volta ho dovuto accompagnare personalmente i vigili alla III Traversa, perché nonostante mi fossi raccomandato di presidiare quella via, si erano messi da un’altra parte. Quando siamo arrivati è uscito Casanova, mi faceva un video con il cellulare e mi chiedeva cosa diavolo stessi facendo”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
IL COMMENTO DI PADRE FORTUNATO: “HA AVUTO IL CORAGGIO DI SPORCARSI LE MANI PER AIUTARE GLI ULTIMI E DIFENDERNE LA DIGNITA’, COME INSEGNA IL VANGELO”
Il bene che Gino Strada ha vissuto, seminato e donato, ora lo incontra. Sono sicuro che oggi Gino abbia incontrato il Sommo Bene, così come lo chiamava Francesco.
Sono state molte le occasioni di incontro con i Francescani: dalla recentissima battaglia per la liberalizzazione dei brevetti per i vaccini Covid, agli incontri al Cortile di Francesco nella Basilica Superiore di Assisi, dove Gino ricordò a noi tutti il dovere dell’accoglienza e lo scandalo delle guerre.
Gino Strada ha avuto il coraggio di sporcarsi le mani per aiutare gli ultimi, di dedicare la vita agli altri. Come disse Papa Francesco in visita ad Assisi: “un buon pastore non si vergogna della carne, toccare la carne ferita, come ha fatto Gesù”.
E tu Gino questa carne l’hai toccata ascoltata e difesa. Se dovessi dire la tua più grande lezione: la difesa della dignità della persona. Una difesa che si fa attraverso le opere, non attraverso i proclami: il mondo non ha bisogno di maestri, ma di testimoni e tu lo sei stato.
Quella di Gino Strada era un’intransigenza e un rigore morale che nascevano dall’esperienza delle sofferenze che aveva visto infliggere agli innocenti e agli inermi. Tutta la sua vita non è stata altro che una caparbia lotta contro guerre che sembrano una fatalità e invece sono uno scandalo, così come scandalosa è la vendita di armi, questa infame compravendita del dolore.
A volte ho sentito parlare di Gino Strada come di un Don Chisciotte, di un illuso, che credeva che davvero le guerre potessero essere cancellate dalla faccia della terra. Ma dire questo è ingiusto, Gino Strada non ha combattuto i mulini a vento, ma l’ingiustizia, i signori della guerra, l’ipocrisia e gli interessi economici che calpestano i diritti umani. Chi gli rimproverava di essere un illuso voleva solo offuscarne la luce. Caro Gino, ti saluto con Pierpaolo Pasolini che in Lettere Luterane diceva: «T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece».
(da agenzie)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
IL RICORDO DELL’AMICO ERMETE REALACCI: “AVEVA UN CORAGGIO DA LEONE”
“Qual è stato il giorno più intenso della tua vita?”. È notte, nella casa romana di Ermete Realacci, fondatore di Legambiente e Fondazione Symbola, e poi deputato della Margherita e del Partito Democratico, quando Gino Strada – fondatore di Emergency, deceduto oggi, 13 agosto 2021, all’età di 73 anni – pone al suo ospite questa domanda: “Gino Strada era un personaggio che fa onore all’Italia non meno degli atleti che vincono medaglie alle olimpiadi, lo ricorda Realacci.
Sul tavolino, ricorda, una bottiglia di whisky che i due amavano degustare prima di andare a dormire, mentre parlavano per ore delle loro vite e si interrogavano reciprocamente sul loro impegno civile e sulle loro scelte di vita: “Gino Strada si fermava spesso da me a dormire su un soppalco della mia abitazione, su un materasso a terra, quando passava da Roma – ricorda Realacci a Fanpage.it -. Era spesso ospite da Maurizio Costanzo, dove lavorava come autrice la nostra comune amica Luisella Testa, anch’essa oggi scomparsa, e ricordo con nostalgia e affetto quelle lunghe conversazioni notturne”.
E proprio in una di quelle conversazioni, Strada racconta a Realacci un’episodio che aveva particolarmente segnato la sua vita: “Lui in particolare mi raccontò di un’episodio che tesitimoniava il suo forte legame con l’Afghanistan. Mi parlò di un giorno a Kabul durante l’invasione sovietica – spiega Realacci -. Quel giorno, come ogni giorno, doveva fare il suo mestiere di chirurgo e operare un uomo”.
Quel giorno, però, poco dopo aver iniziato l’operazione e avergli già aperto il petto, le bombe cominciarono a piovere su Kabul: “Lui, come da manuale, trovò riparo sotto il tavolo operatorio al centro della stanza – continua Realacci -, ma nonostante la sua vita fosse in pericolo, ebbe la lucidità, il coraggio e l’altruismo di alzare il braccio e di appoggiare la mano sul cuore del paziente, per controllare che battesse ancora”.
Quando il bombardamento cessò, Gino Strada riprese l’operazione da dove si era interrotta:
“Viveva la vita intensamente, con un coraggio da leone”, chiosa Realacci. E forse non c’è episodio che definisce meglio Gino Strada, chirurgo e uomo di pace.
(da agenzie)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
COMBATTENTE E SEMPRE DALLA PARTE DEI PIU’ DEBOLI… SENZA GUARDARE IN FACCIA NESSUNO, DA FASSINO A SALVINI
Adesso, nel momento in cui i talebani conquistano l’Afghanistan e realizzano la sua ennesima profezia, chiedetegli scusa.
Non scrivete in suo nome bei pensierini, per Gino, non santificatelo in morte, e soprattutto se siete fra quelli che fino a ieri lo bollavate come “estremista”, o, peggio ancora “amico dei terroristi”, regalatevi un minuti di decoroso silenzio.
Perché Gino Strada non fu un personaggio ecumenico, non fu un santone buonista, non fu un pacifista da vetrina. Fu un leader, un savonarola, un polemista, un combattente. E basterebbe leggere le righe sul triage di guerra nel suo bellissimo “Pappagalli Verdi” (un best seller senza recensioni benevole) per capire che per Gino, tutta la sua storia personale – dai movimenti ad Emergency – era scandita da una sola costante: stare da una parte.
Non voler piacere a tutti. E soprattutto: “Stare dalla parte – come diceva lui – di chi paga il prezzo delle guerre, sotto le bombe, e di chi non ha voce”.
Gino Strada iniziò a diventare un personaggio mainstream in Italia, in corrispondenza con l’era di quelle che sarcasticamente definì “le guerre dei buoni”.
Ed a partire da allora Gino Strada divenne il più fiero oppositore delle guerre condotte in nome delle bombe e delle sante alleanze. E la sua organizzazione umanitaria – “Emergency” – la bandiera di chi si rifiutava di prendere parte nei conflitti.
Fu in quelle polemiche che Gino divenne un riferimento culturale per tutto il mondo pacifista, “Gino”. A partire dalla prima guerra in Iraq cominciò a schierarsi contro la propaganda delle “Bombe intelligenti”, a denunciare i crimini di guerra, a organizzare mobilitazioni.
Fu contestato perché spiegava: “Quando si cura qualcuno, negli ospedali di Emergency, non si guarda la divisa che ha addosso. Chiunque entri in un nostro ospedale la depone, insieme alla armi”. Apriti cielo. Lo accusarono di fiancheggiare gli estremisti, di schierarsi contro l’Occidente.
Ed invece lui teneva il punto, e raccoglieva ovunque i fondi per sostenere una associazione umanitaria internazionale basata in Italia, con una forza e un prestigio senza precedenti, che era presente in tutti i teatri di guerra.
Strada si batteva per la riabilitazione delle vittime dei bombardamenti delle mine antiuomo e, dalla fondazione di Emergency in poi – si vantava con legittimo orgoglio – “dalla sua nascita nel 1994 sino alla fine del 2013, noi abbiamo fornito assistenza gratuita a oltre sei milioni di pazienti in sedici paesi nel mondo”.
I “pappagalli verdi” erano un altro simbolo della sua controinformazione: ovvero gli ordigni camuffati da giocattoli per diventare oggetto della curiosità dei bambini.
Nel 2003, con la seconda guerra dell’Iraq, Strada divenne un vero e proprio leader nazionale dei movimenti per la pace insieme a tre preti anticonformisti come Don Andrea Gallo, padre Alex Zanotelli e Don Luigi Ciotti.
Si schierò contro la guerra nel Kossovo, incorrendo negli strali della sinistra ufficiale, contestò il segretario del Pds Piero Fassino, che pretendeva di partecipare alle manifestazioni per la pace contro quella seconda guerra dell’Iraq, pur avendo preso posizione contro l’Intervento: “Farebbe bene a restarsene a casa”, dichiarò Strada, e Fassino (malgrado una sciarpetta arcobaleno al collo) fu letteralmente cacciato, a via Amendola, a Roma, dai manifestanti che lo scorrevano gridando: “Vergognati! buffone!”.
Il leader di Emergency dopo quel giorno finì nel mirino, accusato di essere un ispiratore della cacciata. Gli fu chiesto di dissociarsi. Rispose con un sorriso: “Non ritratto nemmeno una parola. Sono Fassino, e il suo gruppo dirigente che si dissociano dalla maggioranza del paese, con i loro distinguo e inaccettabili”.
Erano i giorni in cui quasi in ogni balcone d’Italia era esposta una bandiera arcobaleno, in segno di protesta contro la guerra. Strada rincarò la dose e disse: “Quando gli eserciti che adesso si impiegano in una guerra Santa in nome dei supremi valori di libertà dell’Occidente se ne andranno, i loro alleati si squaglieranno come neve al sole e in Afghanistan tornerà al potere chi c’era prima”. Ovvero i talebani.
A chi gli rimproverava di essere un “pacifista utopista” senza contatti con la realtà rispondeva con un’altra battuta destinata a far discutere: “Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra”. Poi inventò un altro slogan destinato a diventare celebre: “Noi siamo contro tutte le guerre, senza Se e senza Ma”.
Oggi quel cerchio afghano si è chiuso, proprio mentre Strada ci lascia. Ma Gino scese in campo anche ai tempi del governo gialloverde, nell’estate degli sbarchi e di Matteo Salvini ministro: “Non è un leader politico. È uno che sequestra bambini”.
Mobilitò Emergency nel Mediterraneo, venne in Televisione a dire: “Salvini spero che si tolga dai coglioni!”. Poi un lungo silenzio. Poi la notizia della sua morte improvvisa, che arriva come un fulmine a ciel sereno.
Si poteva condividere tutto i nulla delle sue idee, ma non negare che Gino rischiava sempre la pelle per difendere quelli che lui considerava i più deboli. A questa Italia semi-anestetizzata del tempo dei governissini unanimi, la sua voce ribelle mancherà.
(da TPI)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
“IL PROFITTO DI POCHI NON PUO’ PREVALERE SULLA SALUTE DI TUTTI: CHIEDIAMO UN VACCINO PER LE PERSONE, NON PER IL PROFITTO”
“Cosa vorresti fare da grande? Quando ero un ragazzino, rispondevo ‘il musicista’ o ‘lo scrittore’. Ho finito col fare il chirurgo, il chirurgo di guerra per la precisione. Le guerre, tutte le guerre sono un orrore. Non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere le facce di quanti soffrono in silenzio”. Per te che arrivavi quando tutti scappavano. Per te, Gino Strada, che sei andato via in punta di piedi, nel silenzio della calura di un’estate da dimenticare.
Moni Ovadia, nella prefazione del tuo libro “Pappagalli Verdi”, scriveva di te: “Mette in piedi ospedali di fortuna, spesso senza l’attrezzatura e le medicine necessarie, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori, bambini e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi. I vecchi afghani li chiamano pappagalli verdi”.
Quel tuo sguardo sempre fermo, quel fare combattivo e la determinazione di chi non ha tempo per parlare, “c’è da fare” dicevi.
C’eri sempre, c’eri da quando hai deciso che nessuna speranza fosse disperata.
C’eri in Afghanistan quando curavi i bimbi feriti dalle mine giocattolo. C’eri in Ruanda, in Eritrea, in Palestina, in Algeria, in Kosovo, in Angola, in Libia, in Nicaragua, in Sri Lanka, in Cambogia e in moltissimi altri Paesi del mondo da quando avevi fondato Emergency.
E ci sei stato qui, in Italia, a dare pasti e beni ai bisognosi, ad affrontare questo o quel ministro a muso duro per riconsegnare un po’ di giustizia a un Paese ricurvo su sé stesso. Sempre più affamato e stanco.
Sei stato un pioniere, un uomo coraggioso e ostinato. Un uomo per bene. Un gran lavoratore. Ci sei stato in Calabria dove, in piena pandemia, hai offerto il tuo aiuto mettendo a disposizione della Regione le forze di Emergency per risollevare le sorti di una terra che a inizio anno mostrava tutta la debolezza di un pessimo sistema sanitario.
Senza presunzione o superbia, ti sei sempre rimboccato le maniche anche quando il mondo intorno imperversava col suo inutile chiacchiericcio. Non hai ceduto alle provocazioni e hai dato l’esempio. Questo sopra ogni cosa. Hai mostrato cosa può la volontà. E noi ti siamo debitori.
Voglio ricordarti, e perdonami se ti “uso”in questo senso, quando qualche settimana fa hai parlato dei vaccini e dei popoli che non possono accedervi.
“Il profitto di pochi non può prevalere sulla salute di tutti: chiediamo un vaccino per le persone, non per il profitto”. L’hai detto prima di tutti, se la parte fortunata del mondo non aiuterà con i vaccini i Paesi poveri non usciremo da questa pandemia.
Per dimostrarlo avevi portato l’esempio dell’Hiv: “Ha provocato una quantità di morti impressionante. Solo con la liberalizzazione dei farmaci i prezzi si sono abbassati e si è riusciti a controllare l’infezione. Lo stesso vale per il Covid. Se i vaccini non verranno liberalizzati temo che ci saranno ancora tantissimi morti”.
(da TPI)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
A BORDO DELLA ONG C’E’ LA FIGLIA CECILIA: “STAVO SALVANDO VITE, COME MI HANNO INSEGNATO MIO PADRE E MIA MADRE”
La nave ResQ People, della ong ‘ResQ- People saving people’, il cui presidente onorario è l’ex pm del pool di Mani Pulite Gherardo Colombo, ha appena soccorso circa 85 persone in zona Sar libica che si trovavano su una piccola barca di legno e ha deciso di dedicare a Gino Strada, la cui figlia Cecilia era a bordo della nave, le vittime soccorse.
Luciano Scalettari, presidente di ResQ dichiara: “La scomparsa di Gino Strada coincide con il primo salvataggio di 85 persone avvenuto oggi. Come ResQ dedichiamo a lui queste 85 vite umane, che porteremo in un luogo sicuro”
“Gino – prosegue – è stato una grande figura nell’ambito dell’aiuto umanitario e ha fatto cambiare molte cose grazie ad Emergency e tutto quello che ha fatto. Ha sempre sostenuto concretamente che non c’è essere umano preferito ad un altro, e l’ha dimostrato con i fatti. È stato un grande pacifista, ha sempre curato i feriti e condannato le guerre. Noi di ResQ abbiamo l’onore di avere tra di noi la figlia Cecilia Strada, che in questo momento non può essere lì affianco a lui perché si trova in mezzo al mare a salvare le persone come suo padre e sua madre hanno sempre fatto”.
La figlia Cecilia Strada ha scritto sui social dalla nave: “Amici come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perchè sono in mezzo al mare e abbiamo fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere… beh ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre. Vi abbraccio tutti, forte, vi sono vicina, e ci sentiamo quando possiamo”.
(da agenzie)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
GLI AMERICANI SE NE VANNO LASCIANDOSI DIETRO UNA SCIA DI DISASTRI COME IN VIETNAM
Chi ha più di 60 anni ricorda il disastro Vietnam: nel 1975, quando gli Usa se ne andarono, arrivò una dittatura comunista che dura tuttora e produsse milioni di profughi (fra cui i boat-people, con 250mila annegati) più una guerra contro la Cina.
In Cambogia, peggio: ecco Pol Pot e il più grosso genocidio della storia umana, in proporzione agli abitanti: tre milioni di cambogiani ‘borghesi’ sterminati su 7,5 milioni di abitanti in soli tre anni e mezzo.
Ora i talebani stanno per prendere Kabul. Non in sei mesi, come prevedevano gli americani, ma in pochi giorni. Sempre attendibile, la Cia.
L’Afghanistan diventerà un altro stato islamista da incubo come quello Isis in Siria e Iraq fino al 2017? O una nuova base mondiale per i terroristi, come ai tempi di Al Qaeda?
Non ci resta che auspicare un incubo minore: la solita teocrazia islamica già al potere negli anni 90 fino al 2001, donne schiavizzate in casa, monumenti non musulmani distrutti, un simpatico medioevo solo un po’ peggiore di Iran e Arabia Saudita.
Ma almeno senza ambizioni di esportare la loro ‘guerra santa’ nel mondo. E se proprio i talebani dovessero debordare (chi li arma?), speriamo che la prossimità geografica li indirizzi più contro Russia (remember Beslam?) e Cina (poveri uiguri) che verso l’Occidente.
Ah, grazie presidente Bush junior per questi vent’anni di guerra e occupazione inutili, cui ha contribuito anche l’Italia (con otto miliardi di euro e 55 morti, il doppio della strage irachena di Nassiriya).
Tutti lo avvertivano che l’Afghanistan è da sempre indomabile, come dimostrato dalle sconfitte inglese e sovietica.
Niente da fare: il complesso militare industriale Usa non poteva lasciarsi scappare un’occasione così ghiotta di spesa militare (mille miliardi di dollari) e profitti immensi, dopo la fine della guerra fredda.
Ci dispiace per le giovani afghane delle splendide foto di McCurry, che erano uscite felici di casa e avevano cominciato a studiare.
Ricorderemo con ammirazione almeno estetica, se non politica, il primo presidente dell’Afghanistan (per troppo poco) democratico, Karzai: elegantissimo, un vero signore.
Purtroppo naufragano le velleità degli ‘esportatori di democrazia’, in buona (con Emma Bonino ci avevo creduto anch’io) e cattiva fede (i neocon Usa). Hanno vinto i burka. E Massimo Fini, solitario fan italiano del mullah Omar.
Unici indifferenti, i coltivatori di papaveri. Quelli hanno continuato tranquilli a produrre oppio sotto qualsiasi regime: sovietici, talebani, americani.
(da Huffingtonpost)
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Agosto 13th, 2021 Riccardo Fucile
“IL MANCATO CONTROLLO AL CONFINE CON IL PAKISTAN E POCHI UOMINI: QUESTI I PIU’ GRAVI ERRORI MILITARI”
Non aver “sigillato in modo determinante il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan”. E aver “centellinato le risorse, mettendo troppi pochi uomini su terra”.
Il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare e della Difesa spiega ad Huffpost quali sono stati, a suo parere, i più gravi errori militari compiuti dalle truppe occidentali in Afghanistan.
Errori che hanno contributo all’escalation di conquiste territoriali da parte dei talebani nel Paese. L’ultima notizia è che il gruppo di fondamentalisti islamici ha raggiunto Logar, capoluogo della provincia meridionale di Pul-e-Alam.
Gli insorti proseguono la loro marcia inarrestabile verso Kabul e sono a 50 chilometri dalla capitale. Dopo aver riconquistato vari capoluoghi del paese gli insorti provvedono da subito a riorganizzare le istituzioni, come è successo nella città di Kandahar, conquistata solo ieri. “Non ci metteranno molto ad arrivare anche a Kabul – afferma Camporini – e allora lì occorrerà prevedere giuste precauzioni per le missioni di sicurezza che sono presenti nella capitale. Tuttavia ora non resta che trattare con i talebani”.
Generale, a proposito della situazione in Afghanistan si è parlato tanto di errori politici, ma meno di militari. Quali sono stati?
Di errori ce ne sono stati tanti. Il primo errore è stato quello di non sigillare in modo determinato il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Era lì che loro erano più presenti è lì infatti ci sono state le battaglie più intense. Aver trascurato questo confine ha permesso a loro di alimentarsi, di sopravvivere in attesa di tempi migliori. E i tempi migliori sono arrivati quando i Paesi occidentali si sono stancati di spendere quattrini e vite umane e hanno scelto di andarsene dal Paese. Il secondo grande errore è stato quello, invece, di centellinare le risorse e quindi avere pochi uomini su terra. L’Afghanistan ha un territorio molto vasto, le vie di comunicazione sono scarse e scadenti. Per andare da un punto A a un punto B spesso bisogna passare per un punto C, che si trova però a 90° rispetto ai primi due. Questo, dal punto di vista militare, crea oggettive difficoltà di comunicazione soprattutto per quanto riguarda lo spostamento delle truppe. Un territorio del genere, per essere controllato, ha bisogno di soldati su terra. Durante questo ventennio il massimo della presenza militare sul territorio è stato invece sulle 140, 145 mila unità. Se si fa il rapporto tra la superficie del Paese e il numero di uomini, ci si rende subito conto della situazione precaria (la superficie dell’Afghanistan è di 652.860 km2 , dunque la densità di uomini era di circa uno ogni 4,5 km2 ). Faccio sempre un paragone, con il Libano, dove c’è la missione della Nazioni Unite Unifil, un’area cuscinetto tra la Blue Line e il fiume Litani. Se noi avessimo ora in quella zona, dove attualmente stazionano 15 mila uomini, la stessa densità di uomini che c’era in Afghanistan, avremmo non 15 mila, ma 15 uomini.
Come mai si sono impiegate così poche risorse allora?
Purtroppo oggi come oggi le forze armate occidentali hanno serie difficoltà a mettere insieme i numeri necessari. Durante la prima guerra del Golfo, quando c’è stata l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, c’erano schierati 600 mila uomini. Questo significa che quando si vogliono fare le cose sul serio si impiegano anche risorse adeguate. In Afghanistan la situazione è andata meglio quando il generale David Petraeus, tra il 2009 e il 2012, è riuscito ad ottenere da Obama un surge, ovvero un incremento delle truppe. Ma fu una cosa temporanea.
Gli errori delle truppe italiane sono gli stessi?
L’Italia ha dato il suo contributo in modo più che soddisfacente e anche con buoni risultati. La zona di Herat, l’area di responsabilità italiana, un’ampia regione dell’Afghanistan occidentale, è stata la zona più pacificata, quella in cui c’erano meno episodi di violenza. Penso che noi abbiamo fatto il nostro dovere. In generale però ci sono stati tanti errori, anche veniali, ma con il senno di poi importanti. Spesso il comportamento delle truppe occidentali non è stato sufficientemente rispettoso delle usanze locali. Per ignoranza, per mancanza di formazione e preparazione delle truppe. I nostri soldati, prima di partire per l’Afghanistan, sono stati sottoposti ad un indottrinamento molto ampio su ciò che si poteva fare o non fare e su ciò che si poteva guardare o meno. Anche uno sguardo a una donna islamica, in Afghanistan, poteva essere considerato offensivo da parte del marito del clan. Se la cultura locale non è abbastanza conosciuta da parte dei militari, si possono verificare problemi che in effetti ci sono stati. L’insegnamento per il futuro è quello di inviare i nostri soldati a combattere solo dopo averli indottrinati adeguatamente sulla cultura del posto.
E invece, per quanto riguarda le truppe afghane, come mai non sono riuscite a resistere all’assalto dei Talebani? Non sono state addestrate in modo adeguato?
No, non è cosi. Le truppe afghane sono ben addestrate, solo che anche qui si devono tenere in considerazione le abitudini locali. All’epoca del raccolto aumentavano le diserzioni, perché la gente tornava a casa per coltivare i campi. Lo sforzo di addestramento è stato notevole e i risultati sicuramente non pari allo sforzo, ma dal punto di vista tecnico sono state ben addestrate. E gli esiti all’inizio si sono visti. Finché c’è stata la presenza occidentale nel Paese le sorti della guerra erano a nostro favore. Fino a un anno e mezzo fa le truppe occidentali partecipavano ai combattimenti. Da un po’ di tempo a questa parte invece le truppe occidentali facevano solo addestramento e lasciavano che le attività operative venissero compiute dagli afghani. Ad esempio il contingente a Herat nell’ultimo periodo faceva solo addestramento, ma il controllo del territorio era affidato solo a delle truppe afghane, che erano moralmente sostenute dal fatto che gli occidentali fossero presenti nella capitale. Dal momento in cui, invece, le truppe dell’Occidente se ne sono andate, i combattenti afghani si sono sentiti abbandonati e la maggior parte di loro è tornata a casa.
Le ultime notizie dicono che gli insorti hanno raggiunto anche Logar, capoluogo della provincia meridionale di Pul-e-Alam a 50 km dalla capitale. Quanto manca, secondo lei, alla caduta di Kabul?
Dipende esclusivamente dalla volontà di avanzare, ma non credo ci vorrà molto molto. Anzi, direi pochissimo. Occorrerà avere molta cura nel prevedere precauzioni per le missioni di sicurezza che sono presenti nella capitale, perché si tratta di fondamentalisti e bisogna stare molto attenti.
Lei si aspettava una caduta così veloce dei capoluoghi afghani in mano ai talebani?
No, pensavo che ci sarebbe stata una reazione più efficace da parte dell’esercito afghano e anche delle popolazioni, perché è gente che ha goduto di una liberalizzazione delle attività che prima non conosceva. Ha potuto toccare con mano il vantaggio del regime in vigore. Di fronte ai talebani, che vogliono sciogliere il governo, dovevano resistere. Chi non poteva resistere si è invece schierato dalla parte dei vincitori.
Siamo davanti ad un’avanzata dei talebani che sembra inarrestabile. Come muoversi ora?
Quando si ha a che fare con qualcuno che detiene il potere si cerca di parlare con lui cercando soluzioni. Sono convinto che Il passo successivo sarà trovare canali di comunicazione e di incontrare i vertici di questa ‘organizzazione’. Io la chiamo così, perché stiamo parlando di una costellazione di formazioni diverse che hanno un unico scopo comune che è quello di cacciare il governo. Per il resto sono popoli pronti a scannarsi uno contro l’altro. Sono l’espressione delle diverse etnie locali che si sono combattute nei secoli, con alcuni tra di loro che venivano schiacciati dagli altri. Ad esempio la popolazione autoctona è stata tenuta in condizioni di quasi schiavitù dalle altre etnie. Io immagino anche che, dal momento in cui il potere a Kabul sarà conquistato, inizierà quella che è sempre stata la storia dell’Afghanistan: una lotta senza quartiere tra i vincitori, che è una prospettiva molto triste per il popolo afghano. Con questi fanatici bisogna necessariamente parlare. Anche perché l’importanza strategica di quel paese è troppo grande per essere abbandonato. E in più abbiamo il dovere di trovare soluzioni per salvare le vite di coloro che sono stati coinvolti nelle missioni occidentali di questi 20 anni e saranno sicuramente presi di mira dai vincitori.
(da Huffingtonpost)
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