Agosto 25th, 2021 Riccardo Fucile
NON SI CANDIDA PER LA PRIMA VOLTA DAL 1993: “SCEGLIEREMO DALLA SOCIETA’ CIVILE”
“Sarò di aiuto, ma il capolista della Lega sarà un esponente della società civile”: Matteo Salvini dribbla così la domanda che ormai, con la scadenza della presentazione delle liste alle porte, non si può non fargli: sarà ancora candidato in Consiglio comunale a Milano?
Il leader della Lega, infatti, è stato consigliere comunale per 25 anni consecutivi, anche se le sue presenze a sedute e votazioni sono state spesso da sprofondo rosso, e si è dimesso nel 2018, ai tempi dell’impegno nel governo Conte.
Adesso che Milano torna al voto con il pediatra Luca Bernardo a rappresentare il centrodestra nella sfida a Beppe Sala, lui cosa farà
“Sto lavorando per tutta Italia – ha spiegato durante una visita alle case popolari del quartiere Ponte Lambro – dove voteranno 1.300 Comuni, più la Calabria. Cercherò di essere ovunque, ovviamente da milanese, la mia città ce l’ho nel cuore, però se faccio una cosa la voglio fare fino in fondo. Stiamo lavorando per una lista fortissima: stamattina abbiamo fatto alcuni incontri e avremo una lista che punta a essere la prima in città”.
Da fonti della Lega si capisce che, come già avvenuto a Roma con Simonetta Matone, la capolista sarà una donna della società civile conosciuta e apprezzata per il suo impegno per la città, i quartieri e le imprese.
L’obiettivo è arrivare “al ballottaggio con il sindaco Sala e poi ce la giocheremo, idea per idea e quartiere per quartiere”. Puntando, questa è la promessa di un partito che, con gli altri del centrodestra, ha fatto fatica per mesi a trovare un candidato sindaco disponibile, su liste aperte a volti nuovi: “Come promesso la metà dei candidati Lega saranno delle professioni, senza tessere di partito in tasca e il capolista o la capolista sarà un esponente della società civile. Fino a che non si depositano le liste e i programmi è tutto in sospeso. Ovviamente il sindaco in carica è avvantaggiato. Il 3 settembre si presentano liste e programmi e poi spiegheremo la nostra idea di città”.
(da agenzie)
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Agosto 25th, 2021 Riccardo Fucile
UN TERZO DELLE ADESIONI IN FORMA DIGITALE
Superate le 750mila firme per il referendum sula legalizzazione dell’eutanasia. Oltre 500mila sono state raccolte ai tavoli, mentre quelle digitali hanno oltrepassato le 250mila.
A queste cifre si aggiunge un numero ancora imprecisato di firme raccolte nei Comuni, nei consolati e negli studi degli avvocati e da alcuni gruppi che si sono aggiunti alla mobilitazione nelle scorse settimane. Tra le ultime adesioni raccolte, anche quelle di Roberto Saviano, Pif e Francesco Guccini.
“Ho firmato perché oggi, senza una legge che la regolamenti – afferma Saviano – l’eutanasia non è un diritto accessibile a tutti. Ho firmato perché sia libero di scegliere anche chi non può permettersi di raggiungere paesi dove l’eutanasia è legale. Firmare per promuovere questo referendum, comunque la si pensi, è un atto di rispetto per la vita e per il prossimo”.
L’obiettivo di arrivare almeno a quota 750mila in modo da mettere in sicurezza il risultato da ogni possibilità di errori nella raccolta, ritardi della Pubblica amministrazione e difficoltà nelle operazioni di rientro dei moduli, è dunque stato raggiunto. Ad oggi, le firme fisicamente già rientrate al Comitato sono 184.292, di cui 86.209 già certificate e pronte per la consegna. Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna le prime tre regioni per numero di firme in rapporto agli abitanti.
“Il risultato straordinario della raccolta firme dimostra che il referendum affronta e dà risposte a una grande questione sociale rimossa dal Parlamento e dai capi dei grandi partiti: quella della qualità del vivere e della libertà di scelte fino alla fine della vita. La raccolta firme continua, anche per inviare un messaggio ancora più chiaro e forte alle istituzioni e a tutto il Paese. Sono fiduciosa che supereremo il milione di firme”, ha dichiarato Filomena Gallo, segretario Associazione Luca Coscioni.
“I tavolini per strada e gli altri punti di raccolta firme saranno aperti per tutto il mese di settembre, trasformandosi nelle nostre “sedi da marciapiede”, cioè luoghi di informazione ai cittadini su tutti gli strumenti per vivere liberi fino alla fine, inclusi il testamento biologico, le cure palliative e il suicidio assistito, legalizzato dalla Consulta ma boicottato dal Servizio Sanitario Nazionale, come nel caso di Mario, che andremo a trovare giovedì ad Ancona”, ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere Associazione Luca Coscioni.
(da agenzie)
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Agosto 25th, 2021 Riccardo Fucile
INTERVISTA A D. HOPKINS DELLA WASHINGTON UNIVERSITY
Vent’anni fa, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti e gli alleati lanciavano la guerra in Afghanistan considerandolo un problema globale. Oggi ce ne andiamo sostenendo che è una questione regionale, di fatto lasciando un caos che può essere affrontato solo nel formato G20.
Con Benjamin D. Hopkins, grande esperto di Afghanistan e professore di Storia e Relazioni internazionali alla George Washington University, abbiamo provato a ripercorrere la genesi di un “fallimento strategico” le cui ripercussioni – su Usa, Nato, Asia centrale – fanno di questi giorni un “turning point” del 21esimo secolo.
Professor Hopkins, crede che gli Usa abbiano sottovalutato la dimensione globale del loro ritiro? Quali sono stati gli errori più grandi dell’America in Afghanistan?
“Washington ha sempre condotto questa guerra, come anche il ritiro, con in mente un interesse e una tempistica unicamente americani, pur avendo coinvolto gli alleati della Nato. L’amministrazione Biden è stata cristallina sul fatto che non estenderà oltre il 31 agosto la data prevista per il ritiro, malgrado le pressioni di alcuni partner del G7 e della Nato.
Non basterebbe il tempo per elencare gli errori dell’America in Afghanistan. Credo però che l’errore fondamentale sia stato non avere mai avuto una strategia chiara, coerente e pubblicamente articolata su cosa doveva essere questa guerra. Il fatto che dopo vent’anni stiamo ancora dibattendo sul suo significato la dice lunga. Il discorso di Biden del 16 agosto – la guerra era contro il terrorismo e abbiamo raggiunto il nostro obiettivo dieci anni fa – liquida gli ultimi dieci anni come un errore”.
Le leggo un paio di titoli: “Dopo il caos di Kabul, il secolo americano è finito?” (The Guardian); “Il Grande ritiro dall’Afghanistan segna la fine dell’era americana?” (New Yorker) Qual è la sua risposta?
“Da storico, penso sempre che sia troppo presto per individuare le implicazioni degli eventi storici. Di sicuro stiamo assistendo a un evento determinante del XXI secolo, un evento che avrà ripercussioni sia sul piano internazionale sia su quello domestico per generazioni a venire”.
Il pasticcio afghano cambierà le relazioni e gli equilibri tra Washington e gli alleati europei?
“Dopo un’amministrazione il cui motto era “America First”, gli alleati avevano accolto con sollievo il nuovo corso dell’“America is Back”. Ora è naturale che gli eventi in Afghanistan riaccendano un certo scetticismo sul ruolo della leadership americana. Dal punto di vista degli alleati, la gestione disastrosa e unilaterale del ritiro rappresenta una macchia in un rapporto che ora dovrà necessariamente ricalibrarsi.
Questa è la seconda guerra persa dagli Stati Uniti, dopo il Vietnam. Ma in pochi hanno sottolineato come questa sia anche la prima guerra persa dalla Nato. E’ stata la prima e unica guerra in cui la Nato è stata attivata in base all’articolo 5 sulla mutua difesa, ed è stata persa. Nessuno sta pensando abbastanza a quali saranno gli impatti sul futuro della Nato. All’inizio degli anni Duemila la guerra al terrorismo diede una risposta alla domanda che molti si facevano dopo la caduta del muro di Berlino: a cosa serve la Nato? Qual è la sua missione? Ora l’attenzione si è spostata verso la Cina, ma l’esito del conflitto in Afghanistan dovrebbe far riflettere sugli ultimi vent’anni e sul futuro dell’Alleanza Atlantica”.
Joe Biden ha sempre detto che la Cina è la sfida prioritaria per gli Stati Uniti e le altre democrazie. Fino a che punto il disordine afghano mina le ambizioni di Washington?
“Ho delle riserve sui vantaggi che la Cina otterrebbe dal suo coinvolgimento nel dossier afghano. Credo che le opportunità per la Cina siano più illusorie che reali. Si parla molto delle risorse minerarie afghane, ma l’accesso non è così semplice sia sul piano dei costi sia su quello politico. Ci sono dei punti interrogativi significativi, a cominciare dalla repressione cinese degli uiguri musulmani. La questione della Cina sarà delicata anche per il futuro governo afghano. L’Afghanistan è sempre stato dipendente dagli aiuti esterni, sin dall’impero britannico e durante la Guerra Fredda, sotto i sovietici e poi sotto gli americani. Questa sarà una realtà con cui i talebani dovranno venire a patti: chi mette i soldi? Loro puntano soprattutto sui cinesi, oltreché sui sauditi, ma questa rimane una domanda chiave per gli sviluppi futuri”.
Recentemente ha pubblicato un commento su Critical Asian Studies intitolato “La guerra che ha distrutto l’America: il conto afghano in arrivo”. “L’Afghanistan – scriveva – potrebbe essere la guerra che alla fine distrugge la democrazia americana come la conosciamo”. Cosa rischia l’America da questa sconfitta?
“Sono ancora più convinto di quel titolo, al punto che lo sto estendendo in un libro. Il verbo era già al passato – la guerra che ha distrutto l’America – anziché al futuro. La ragione è che abbiamo già pagato un conto enorme per quello che abbiamo fatto in Afghanistan. La cifra di cui spesso si parla – duemila miliardi di dollari – non include una serie di spese indirette che fanno lievitare il vero costo sopra i cinquemila miliardi di dollari. Ma dobbiamo interrogarci anche sul costo sociale e politico di questa guerra. George C. Marshall, il segretario di Stato americano che diede il nome al piano per la ricostruzione post-bellica in Europa, disse che “una democrazia non può sopravvivere a una guerra di 7 anni”. Noi abbiamo combattuto una guerra ventennale e non abbiamo neanche pensato al costo. Quando parlo di costi mi riferisco a un ampio spettro di dimensioni. Prendiamo il riconoscimento facciale implementato oggi su molti dei nostri smartphone. Questa tecnologia è stata usata e testata in Afghanistan, con materiali prodotti in Cina; non riusciamo neanche a immaginare la quantità di informazioni che rischiano di ritorcersi contro di noi in futuro. Un altro aspetto troppo sottovalutato è quale sarà la reazione dei veterani alle parole di Biden che rendono vano il loro sacrificio degli ultimi dieci anni”.
Cosa si aspetta per il futuro dell’Afghanistan?
“E’ la domanda che tutti si fanno. Al di là del ritiro occidentale, la guerra in Afghanistan non è finita, va avanti da 43 anni. Il punto è: qual è la posta in gioco di una guerra interna solo all’Afghanistan? Prima del 1978 il Paese era abbastanza stabile. La società afghana si basava su un contratto sociale relativamente chiaro: c’era uno Stato piccolo che governava sulle città multietniche, mentre campagne e province erano in mano alle autorità tribali. I sovietici invece vollero portare l’età moderna nelle province, scatenando immediatamente la guerra civile. Oggi i talebani si ritrovano tra le mani questo nodo irrisolto che li mette nelle condizioni di aver bisogno di legittimità politica e riconoscimento internazionale. L’Afghanistan di oggi non è quello della seconda metà degli anni Novanta. La maggior parte della popolazione è nata dopo l’invasione americana del 2001. Molti di questi ragazzi hanno aspettative precise su cosa dovrebbe garantire uno Stato: diritti civili e politici, il rispetto delle donne, la tutela delle minoranze. Ignorare completamente queste aspettative, alla lunga, può creare insidie per i governanti talebani. Riguardo alla discussione sul riconoscimento internazionale, è utile ricordare che il sodalizio con al Qaeda avvenne sulla scia della delusione per la promessa mancata del Pakistan di un’accettazione più ampia. In passato l’isolamento ha favorito la radicalizzazione: è un elemento di cui dovremmo tenere conto mentre riflettiamo sulle macerie di questi anni”.
(da Huffingtonpost)
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Agosto 25th, 2021 Riccardo Fucile
LA PRESENZA DEL PERSONALE DELLE NAZIONI UNITE ANDRA’ AVANTI
“Le Nazioni Unite lavorano per e con il popolo afghano da decenni. Continueremo a rimanere nel Paese e faremo tutto il possibile sia per la sicurezza del personale che per aiutare la popolazione afghana che ha sofferto così tanto”.
Così su Twitter il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha assicurato che la presenza del personale delle Nazioni Unite in Afghanistan andrà avanti.
Quasi il 60% degli afghani che sono stati costretti a lasciare le proprie case quest’anno sono bambini: secondo i dati diffusi dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Unocha) in Afghanistan, si legge sulla Bbc, dall’inizio di maggio più di 400.000 persone sono state registrate come nuovi sfollati a causa dell’intensificarsi dei combattimenti in tutto il Paese.
In totale quest’anno sono stati sfollati quasi 550.000 afghani.
(da agenzie)
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