Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile LA LORO CRISI E’ STRATEGICA, SONO FUORI SINCRONO RISPETTO AL PAESE
Va bene i candidati, a partire dal goffo Michetti, che in conferenza stampa si
presenta col “cappotto”, che è un indumento ma anche il titolo di giornata, come il cinque a zero per il Pd.
Va bene pure che, parliamoci chiaro, la competizione tra i due rampolli del sovranismo è stata più forte di quella con l’avversario, preoccupato l’uno che non vincesse l’altra e l’altra che non si rafforzasse l’uno, nella chiave di chi guiderà la coalizione in futuro.
Va bene il tema della leadership, del federatore che non c’è: una figura come fu Berlusconi ai tempi della discesa in campo, capace di tenere assieme diavolo e acqua santa e di instaurare una robusta connessione col paese.
Ma c’è qualcosa di più in questo risultato che amplifica tutte le tendenze già emerse al primo turno, aggiungendo elementi nuovi: alla debacle di Roma il risultato severo di Torino e la mancata riconquista di Varese, dove è nata la Lega e anche suo attuale governatore della Lombardia e dove Salvini è andato quattro volte nell’ultima settimana.
E ancora: Trieste vinta di un soffio, perse Latina e Cosenza, città del governatore della Calabria eletto solo due settimane fa.
Di sconfitte ce ne sono di vari tipi, questa certifica una crisi politica di fondo, che investe il tribuno pop Michetti ma anche l’imprenditore pragmatico Damilano, che piace tanto a Giorgetti. Strategica.
E l’immediato tentativo di rimozione da parte di Salvini e della Meloni, nelle conferenza stampa dopo il voto sono parte di questa crisi: colpa della Lamorgese e delle forze dell’ordine, dei perfidi giornalisti che hanno orchestrato una campagna sul fascismo, della sinistra che criminalizza l’avversario (lo diceva anche Berlusconi, ma su questa “criminalizzazione” spesso vinceva pure), colpa di tutti fuorché di se stessi, nell’ambito comizietti per le proprie curve più che analisi di ciò che non ha funzionato e non funziona nel rapporto tra centrodestra e paese.
Sullo sfondo un discorso autoconsolatorio, che suona più o meno così: le politiche sono un altro film, l’una ha più o meno il venti per cento, l’altro poco meno, il vecchio Silvio più o meno il sette, se la somma fa il totale, è fatta.
E dunque, “al voto, al voto” come propone Giorgia Meloni a Salvini, che al voto però non può andare ma asseconda le sue pulsioni di “opposizione”.
Tutto facile, e poco importa che, se i tre leader del centrodestra salissero domani su un palco per le politiche suonerebbero tre musiche diverse e la cacofonia qualche effetto lo fa: chi rivendicherebbe di aver salvato il paese con Draghi, chi accuserebbe Draghi (e dunque l’alleato) di averlo rovinato, chi metà e metà.
La crisi è strategica perché il voto certifica che il centrodestra non è una coalizione politica e infatti al primo turno regge, trainato dalle liste, al secondo non ha un popolo che si mobilita, anzi perde proprio perché un pezzo del popolo, protagonista della “rivolta” ha abbandonato (per ora il populismo): quello pentastellato che prometteva “tutti a casa” e dopo essere stato con tutti pur di non andare a casa vince solo a Pinerolo, quello sovranista che, in tempi di pandemia, non è sensibile ai nemici artificiali – come l’Europa e gli immigrati – perché ha scoperto un nemico reale, e si è vaccinato nella sua stragrande maggioranza.
Non tiriamola per le lunghe: il Re è nudo, sotto l’abito del populismo il nulla.
Il che non vuol dire che è finito, ma nelle forme in cui si è manifestato, ha perso la sua anima nel paese reale.
E se è evidente che c’è un problema a valle della classe dirigente – i famosi civici, a proposito: in Toscana e in Emilia andò male anche con i politici – a monte la questione è più complessa, di sfasatura rispetto alla spirito del tempo: non è solo rispetto governo, ma rispetto alla principale questione di questo tempo il fuori sincrono: la pandemia, che ha mutato l’agenda più di quanto i leader abbiano compreso.
Ed è già scontato il film che andrà in onda nei prossimi giorni, fatto di recriminazioni, tra alleati, lotte politiche dentro la Lega tra chi accuserà Salvini di non essersi calato nel governo e chi darà le colpe della disaffezione proprio alla presenza troppo condiscendente dal governo e spinte per un altro assetto, chiedete a Berlusconi che già lo ha detto che “quei due sono unfit”.
Però è tutto maledettamente complicato rispetto alla tentazione, con un occhio al pallottoliere, di vedere in questo risultato il trailer delle politiche.
In un eccesso di comprensibile entusiasmo Enrico Letta ha dichiarato che “al Pd converrebbe andare a votare”, ma avendo a cuore l’interesse nazionale “sosterrà il governo fino al 2023”. Mica tanto, perché, fuor di propaganda, l’Ulivo 2.0 non c’è ancora e il centrosinistra, che pure ha un solido perno, ha il problema del deserto attorno.
Solo la più rumorosa sconfitta altrui rischia di oscurare il dato di una crisi, altrettanto di fondo, che il doroteismo di Conte non ha risolto da quelle parti. Sarà anche “popolare” in piazza, ma alla sua prima da leader non ha tradotto la popolarità in consenso e prospettiva
Più in generale, il tema, per un partito che si chiama democratico, è come costruire una alleanza col paese in una fase di crisi della democrazia. Il paese non è un grande porto di Trieste, ma le urne suonano per tutti la sinistra campana della scissione tra sistema politico e popolo.
Mai si era vista in Italia il sindaco di Roma eletto col 40 per cento dei partecipanti e nessuno sa in che forme si risveglierà quella protesta andata in sonno, se addomesticata nell’ambito della ricostruzione del paese o incattivita in conflitti vecchi e nuovi.
Se cioè si è infettata la democrazia o se, questa la sfida, i tradizionali canali di rappresentanza possano di nuovo essere percepiti come vaccini utili. Ci sta uno spumantino a piazza Santi Apostoli, ma senza esagerare.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile TRE PARTITI DISTINTI E DISTANTI, LA COALIZIONE E’ FANTASMA: “I NOSTRI ELETTORI SONO DISORIENTATI”
“Buonasera per modo di dire… “ è l’esordio della conferenza stampa di Giorgia Meloni. In cui, a differenza di Salvini, fa autocritica.
Riconosce che “il centrodestra esce sconfitto, ne siamo tutti consapevoli, avere tre posizioni differenti ci penalizza e disorienta gli elettori”.
A dire: è tempo di uscire da questo governo ingrato, se la sinistra ci sta lei è pronta per votare. Aleggia un’inevitabile freddezza reciproca.
Tre partiti distinti e distanti, il fantasma di una coalizione, l’astensionismo crudele. Lo spoglio dei ballottaggi ritrae un centrodestra (a trazione sovranista) in crisi di nervi. Comprensibile: a Roma Gualtieri ha conquistato il Campidoglio con venti punti di vantaggio su Michetti, a Torino il civico moderato Damilano, dalla paternità contesa tra salviniani e giorgettiani, torna a casa con percentuali analoghe.
Vantaggi al primo turno che si capovolgono in sconfitte: nella Varese feudo del ministro Giorgetti, nella Latina dove tanto si è speso il “proconsole” leghista Durigon, nella Savona in cui correva il civico Schirru sostenuto in primis dal Carroccio.
Con buona pace della “surreale” (copyright Letta) conferenza stampa improvvisata da Salvini in partenza da Catanzaro, dove “la matematica non è un’opinione” dunque “abbiamo più sindaci di prima”, Lega e FdI perdono dappertutto.
A vincere nelle grandi città sono solo candidati forzisti e dintorni: dopo Occhiuto in Calabria, ce la fa (più faticosamente del previsto) per il quarto mandato Dipiazza nella Trieste degli scontri con i portuali, evitando il “cappotto” alla sua coalizione. Praticamente un eroe, e pazienza se con i No Green Pass coccolati dagli alleati è men che tiepido.
A Benevento si conferma Clemente Mastella con una linea ferocemente anti-sovranisti.
Berlusconi sente spirare il vento moderato e finanche forzista, ascolta l’ala del suo partito che vorrebbe i “ragazzi” più “generosi, inclusivi, temperanti”. Si prepara a scendere a Roma per incontrare gli altri due leader già questa settimana: battere il ferro finché è caldo, (ri)trovare un terreno comune.
E’ un pomeriggio di down, silenzi, imbarazzi, dichiarazioni a mezza bocca, accenni di recriminazioni, leader latitanti, telecamere in attesa.
Meloni segue lo spoglio “da casa”, Salvini è in Calabria, il Cavaliere ad Arcore. Il tribuno radiofonico da “Michetti chi” diventa a lungo “Michetti dove”: al suo comitato c’è lo staff, ci sono i cronisti, ma lui no. Si manifesta alle 18, non si toglie nemmeno il giaccone per far capire che è di passaggio: “L’esito è laconico, grazie a tutti, auguri al sindaco per un lavoro difficile, buona giornata”.
Sull’avventura che doveva riportare la Capitale ai fasti del Cesarismo uniti alla competenza di Bertolaso e alla cultura di Sgarbi cala uno sbrigativo sipario.
Tra i leader è Salvini il primo a metterci (un pezzetto di) faccia: colpa dell’astensionismo, “i sindaci eletti da minoranze sono un flop per la democrazia”, certo era meglio vincere a Roma (vero, Giorgia?), ma alla fine quello che conta è il voto politico. Dove, Lega e FdI, hanno ancora il 40%: il punto sarà capire se hanno ancora una strategia comune.
Marcello Pera, che pure gli vuole bene, pone il tema dell’identità: “Il caso Varese è emblematico, il centrodestra decida se è carne, pesce o cous cous…”.
Dietro le quinte il brivido che serpeggia è quello: “Gli elettori di destra non sono andati a votare in massa – ragiona un abbacchiato dirigente meloniano – C’è da capire bene perché prima di fare altre mosse…”.
Per mezza giornata, entrambi i leader hanno fischiettato
Poi la leader FdI prova a giocare d’attacco: “E’ una sconfitta, la debacle è di M5S, ma per i prossimi candidati meglio profili politici”.
Rimarca che FdI è primo partito, pronto per il voto politico. Batte sul tasto della campagna elettorale resa dalla sinistra “lotta nel fango” e basata sulla “criminalizzazione dell’avversario” che ha allontanato i moderati: “Nessuno può gioire se il sindaco di Roma è eletto dal 25% degli aventi diritto, la sinistra vuole gestire il potere sulle macerie, noi no”.
Si riparte da uno a cinque, ma il derby interno con Salvini è invenzione giornalistica: “Noi al mattino ci scriviamo e commentiamo questa cosa surreale”. La leadership tuttavia resta tabù: “In questa fase serve più coordinamento”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile LO RUSSO HA AMPLIATO IL SUO BACINO ELETTORALE: 26.000 VOTI IN PIU’ RISPETTO AL PRIMO TURNO
Dopo una pausa durata cinque anni e targata M5s, il centrosinistra si riprende
la città di Torino conquistando anche tanti elettori grillini.
Stefano Lo Russo vince con quasi venti punti percentuali in più sul candidato di centrodestra Paolo Damilano. Ma a balzare all’occhio è un altro dato. Quello dei votanti assoluti.
Se al primo turno il nuovo primo cittadino, professore di Geologia del Politecnico ed ex assessore all’Urbanistica del sindaco Fassino, aveva ottenuto 140 mila voti, oggi ha oltrepassato le 166 mila preferenze.
Ben 26 mila voti in più rispetto a due settimane fa. Ciò significa che ha ampliato il suo bacino elettorale. Come?
Da capogruppo uscente del Pd ha sempre fatto battaglia all’ex primo cittadino Chiara Appendino, la quale, come Virginia Raggi, non ha fatto alcun endorsement. Eppure, secondo la pancia del Movimento 5 Stelle torinese, i voti a Lo Russo sarebbero arrivati anche dal mondo pentastellato.
Non tutti ovviamente, in questi casi non è possibile fare un semplice travaso matematico, ma buona parte delle quasi 29 mila preferenze che la candidata Valentina Sganga aveva ottenuto al primo turno potrebbero essere andate sul candidato di centrosinistra.
Un parlamentare della città della Mole, ben informato, fa notare a taccuini chiusi che in fondo “il nostro elettore ha un’estrazione di centrosinistra. Parlo per Torino, ovviamente. In altre città arriva invece da tutt’altro elettorato. Ma qui la città propende storicamente per il centrosinistra”.
Il voto quindi ha riportato il capoluogo piemontese nei canoni tradizionali. E tanto ha pesato in questi anni la delusione che i grillini torinesi hanno vissuto per l’alleanza sul piano nazionale tra M5s e Lega, il partito per eccellenza a favore della Tav, che grazie ai voti degli altri partiti di centrodestra ha approvato l’accordo a favore dell’alta velocità Torino-Lione a fine 2019. Così tanti pentastellati hanno lasciato il partito tornando a sinistra mentre altri, rimasti fedeli, in occasione del ballottaggio non hanno avuto dubbi.
Non può che esserci soddisfazione nel comitato elettorale di Lo Russo dove ad attenderlo c’erano militanti, esponenti di partito e gli ex sindaci Valentino Castellani, Sergio Chiamparino e Piero Fassino, che lo hanno seguito durante tutta la campagna elettorale e che lui ha ringraziato. “Vi prenderò a modello – dice – pur nella vostra specificità, per la vostra capacità di essere persone perbene, per il bene che avete fatto alla città. Spero di essere all’altezza del vostro mandato”.
Un riferimento poi all’alto tasso di astensione, qui come in tutta Italia. Non a caso Lo Russo dice che il suo “primo compito sarà quello di essere inclusivo soprattutto di quanti non sono andati a votare. L’obiettivo sarà quello di cercare di ricucire il rapporto con i cittadini perché fra 5 anni ci siano più torinesi ad andare a votare”.
E per i primi cento giorni ribadisce che il suo obiettivo sarà “la pacificazione della città”. Con Chiara Appendino si vedrà nei prossimi giorni per il passaggio di consegne: “Il nostro stile – aggiunge – sarà quello di chiedere la collaborazione di tutte le forze dell’opposizione e di non scaricare le responsabilità. Oggi è il momento della costruzione della città”. Costruzione dopo la parentesi grillina che Lo Russo ha sempre contestato ma ora una parte di elettorato ha scelto lui.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile “A TORINO CI SARA’ UNA DELLE SORPRESE PIU’ BELLE”
Erano partiti per vincere a mani basse ma sono tornati con la coda tra le gambe. Noi ce lo ricordiamo Capitan Nutella mentre pensava che prendendosela con i migranti, dando sponda politica a no-vax e fascio-negazionisti potesse bastare per intortare gli italiani come ai tempi del Papeete.
E cosa diceva poco tempo fa Salvini? “A Torino ci sarà una delle sorprese più belle: dopo settant’anni di sinistra e 5 Stelle avremo finalmente un sindaco che guarda avanti, che pensa al futuro e che sceglie i sì al posto dei no”.
E ancora: “Paolo Damilano può vincere al primo turno e la Lega, che qui ha sempre fatto un po’ fatica, può ottenere un risultato straordinario grazie a una lista fortissima”, ha aggiunto il leader del Carroccio.
“Oltre alle Olimpiadi e al Salone dell’Auto – ha aggiunto Salvini – la Giunta grillina ha portato via ai torinesi anche i fuochi d’artificio di San Giovanni sostituendoli con i droni. Votare Pd e Movimento 5 Stelle è la stessa cosa perché sappiamo già che si metteranno d’accordo: per questo mi auguro di vincere al primo turno”.
(da agenzie)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile SI E’ RIVELATO IL PRINCIPE DEGLI SFONDONI, REGALANDO AL PD LA VITTORIA SU UN PIATTO DI ARGENTO
Ve la ricordate quando in pompa magna annunciava di avere l’asso nella
manica? ”Ci sono dei profili che non sottovaluterei. E direi che anche un certo accanimento della sinistra, in questi giorni, per esempio sul professor Michetti, tradisce un nervosismo”.
Così parlava Giorgia Meloni quando pensava di avere il vento in poppa e i sondaggi le davano quella carica di aggressività che alla fine ha stancato.
“Forse anche loro si rendono conto che la partita non è così facile, soprattutto se metti in campo qualcuno che ne sa più di loro su come si risolvono i problemi della Capitale. Michetti è un avvocato amministrativista: è per intenderci quello che i sindaci chiamano per risolvere i problemi dei Comuni. Chi è che mi può salvare? Michetti…” dice la leader di Fdi.
”Michetti – aggiunge – è uno che ha un curriculum con cui mi devo confrontare. Lei si ricorda di Pulp fiction il film di Tarantino? Si ricorda di ‘Io sono Wolf, risolvo i problemi’. Ecco, Michetti risolve i problemi dei sindaci…”.
Visti i risultati e soprattutto gli sfondoni il mister Wolf della destra più che risolvere i problemi ne ha creati molti alla destra. E meno male che è finita: altrimenti chissà quanti altri sfondoni sarebbero saltato fuori rileggendo le parole in libertà che diceva negli anni passati.
(da agenzie)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile SCONFITTO IL CANDIDATO DI SALVINI, ZAIA E MELONI
Fabio Chies è il sindaco di Conegliano. Ha sconfitto la “corazzata Garbellotto” che si presentava a capo di una coalizione formata da Lega, Fratelli d’Italia e Libertà civica e popolare Conegliano al centro.
Con Chies Forza Italia, Forza Conegliano e Avanti tutta, ma soprattutto l’elettorato Pd che era rimasto escluso dal ballottaggio.
Il voto di Conegliano ha anche un interessante risvolto per la politica regionale, visto che con Garbellotto e la Lega c’è ovviamente Zaia mentre con Chies si è schierato il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. La sconfitta dell’esponente “zaiano” può far riflettere sulla tendenza dell’elettorato coneglianese in vista delle prossime regionali.
Nato a Vittorio Veneto il 6 luglio 1973, residente a Ogliano, frazione collinare di Conegliano, ingegnere civile libero professionista con studio in centro città, Fabio Chies è al suo secondo mandato da sindaco.
Da sempre esponente di Forza Italia, di cui attualmente è segretario provinciale, Fabio Chies è stato in passato anche assessore, dal 2002 al 2007, e presidente del consiglio comunale dal 2012 al 2016.
In questa tornata elettorale era sostenuto da tre liste: Forza Italia, Forza Conegliano e Avanti Tutta Chies sindaco. Nei giorni scorsi, pur senza apparentamento formale, ha stretto un’intesa col Pd (“Patto per Conegliano”).
In una zona in cui il Carroccio conosce maggioranze bulgare, il candidato Pietro Garbellotto, patron della plurititolata Imoco Volley, sconfitto dal sindaco uscente Fabio Chies, costretto a dimettersi un anno fa a causa del “fuoco amico”. E in Consiglio comunale entrano solo due leghisti su 24 seggi: è il primo sonoro schiaffo elettorale per Zaia, spesosi in campagna elettorale e nato a qualche chilometro di distanza dal paese
La guerra fratricida in seno al centrodestra a Conegliano ha segnato una delle sconfitte più amare per Matteo Salvini, Giorgia Meloni e anche per il governatore veneto Luca Zaia. Fabio Chies era il sindaco, la sua maggioranza era andata in crisi ed era stato costretto a dimettersi un anno fa. Ma siccome riteneva di essere vittima del “fuoco amico” non ha rinunciato a candidarsi con Forza Italia, il suo partito, e con due liste civiche Forza Conegliano e Chies sindaco.
Dall’altra parte una vera corazzata, se si pensa che in questa zona la Lega conosce maggioranze bulgare. Inoltre, lo stesso Zaia non solo è nato all’ospedale di Conegliano, ma è originario di Bibano di Castello di Godego, a pochi chilometri di distanza. Questa è la sua terra, da cui provengono molti dei suoi collaboratori più stretti, anzi dell’area del prosecco ha fatto una griffe politica.
(da agenzie)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile “NOMI DEBOLI E CLASSE DIRIGENTE NON ALL’ALTEZZA”
“Le tendenze erano previste, ma un distacco di questa ampiezza a Roma no. Il
centrodestra ha schierato candidati debolissimi per l’assenza di una classe dirigente all’altezza. Ma mentre la crisi di Salvini è cominciata dal Papeete, Meloni ha vissuto un momento d’oro dovuto alla buona stampa e alla sua funzione anti-salviniana cavalcata dal Pd”.
La politologa Sofia Ventura analizza per Huffpost il flop elettorale di Michetti, e le ricadute sulla sua principale sponsor, la leader di FdI. Che da Re Mida dei consensi, si è infranta contro il Campidoglio: “Con queste amministrative si è capito che Salvini è un cavallo zoppo e ci si è preoccupati tardivamente della Meloni. Mentre ammiccamenti al fascismo dentro FdI e Lega esistevano già da tempo. Per lei l’ombra del fascismo è una zavorra, ma superarla è un passo difficilissimo da compiere”.
Le prime tendenze per il Campidoglio, poco dopo le 15, vedono il candidato meloniano Michetti quasi venti punti sotto Gualtieri. Più che uno stacco, un abisso, se si confermerà. Se lo aspettava?
Che le tendenze fossero in questa direzione si sapeva. Ma nessuno si aspettava questa ampiezza.
Roma, su cui si erano concentrate attese e speranze del centrodestra, verso il diluvio. E prima Milano persa secca – con Bernardo voluto da Salvini e sonoramente respinto – insieme a Napoli e Bologna. Proviamo a riavvolgere il nastro di queste amministrative. Meno di due mesi fa Meloni e Salvini sembravano i padroni del mondo, sul piano dei voti, e invece. Che cosa è successo?
Queste amministrative hanno rivelato un fattore importante: Lega e Fdi non hanno una classe dirigente all’altezza né sono in grado di attrarne. Salvo eccezioni, i candidati sono stati disastrosi per la mancanza di personale politico adeguato. E’ la principale spiegazione di un risultato così deludente: la scelta di nomi debolissimi.
Il pediatra-gaffeur con la pistola imposto da Salvini. Il tribuno radiofonico Michetti prontamente ribattezzato “ll cavallo d Caligola di Giorgia”. La scelta dei candidati è stata residuale, frutto avvelenato di veti reciproci. Colpa della “hubris” da sondaggi?
Sì, il gioco competitivo tra Meloni e Salvini ha pesato in modo fortissimo. Erano talmente presi dal problema della rispettiva popolarità e del proprio peso nel centrodestra che il tema delle elezioni è stato completamente travolto.
L’inchiesta di Fanpage ha influito? Il boom di Rachele Mussolini a Roma e dell’avvocata Valcepina, immortalata nel video sembravano dare indicazioni diverse…
Servirebbe un’analisi dei flussi per capire se l’elettorato moderato è stato a casa. Io però ho un’altra idea. Mentre Salvini era precipitato nei consensi già da un bel pezzo, direi a partire dalla crisi del Papeete, il caso Meloni è diverso. Ha approfittato moltissimo della crisi del leader leghista. E’ apparsa – dall’opposizione – più ragionevole meno aggressiva e più elaborata su alcuni temi del covid.
E allora, cosa è cambiato nella percezione della Meloni da parte degli elettori?
E’ semplice: ha smesso di godere di buona stampa. E’ cambiato il mainstream mediatico. Vede, Meloni ha scritto un libro a tratti inquietante e tutti parlano solo del lato pop e dell’infanzia triste. Tv e grandi giornali hanno creano un personaggio che tranquillizza i moderati. Meloni ha goduto di un momento d’oro dovuto alla logica dei media e alla sua funzione anti-salviniana, su cui il Pd ha giocato parecchio.
Quando si è rotto il meccanismo?
Con le amministrative si è capito che Salvini è un cavallo zoppo e ci si è preoccupati tardivamente della Meloni.
Di mezzo, però, ci sono ammiccamenti ai “para-nazisti”, inni a Hitler, fascisti orgogliosi, fino all’assalto alla sede della Cgil organizzato da esponenti di Forza Nuova. Non hanno contato nulla?
L’assalto alla Cgil è di una gravità inaudita. Ma saluti romani, cene per festeggiare la marcia su Roma e affermazioni discutibili trovano casa da tempo sia nella Lega che in FdI. Come mai non sono stati presi sul serio prima?
Crede anche lei alla tesi del complotto?
No, sono strutturalmente avulsa da questo tipo di teoremi. Vedo grande superficialità, tatticismo da due soldi, povertà di idee nel centrosinistra, fino a questa scoperta da verginelli e pure in ritardo.
Nel tracollo dei sovranisti, non ha avuto un ruolo il volersi testardamente intestare il movimento No Green Pass, proprio mentre grazie ai vaccini l’Italia riapre e l’economia riparte?
Questo è verissimo, ho partecipato a un gruppo di studio internazionale e nessun partito sovranista è riuscito a sfruttare elettoralmente la pandemia. Lega e FdI hanno voluto cavalcare la dimensione anti-sistema, ma non ha funzionato: alla fine la gente ha più paura del covid che degli sbarchi a Lampedusa. Il mondo No Vax è uno zoccolo duro ma numericamente piccolo.
A conti fatti, per Meloni l’ombra lunga e nera del fascismo è una comfort zone o una zavorra?
E’ chiaramente una zavorra, un handicap che la confina nel 20% oltre cui non riesce ad andare. E la rende inadatta a governare, come pensano molti e come ha detto di sfuggita anche Berlusconi. Il problema è se Meloni sarà capace di essere qualcosa di diverso, di fare un salto. Ho la percezione fortissima che lei si senta parte di un mondo alternativo al mainstream politico-culturale.
Quale mondo alternativo può esistere nel 2021? E a cosa?
Meloni non appartiene al contesto dominante liberal-democratico, che ritiene porti con sé una menzogna da cui si sente soffocata. Si è sempre sentita “altro da”, parte di un mondo separato e non legittimato. Il vero problema per lei è che dovrebbe riconoscere una cultura politica che non le appartiene, e questo passo le riesce difficilissimo. Per questo rimuove il fascismo.
Secondo lei, Meloni e Salvini dovevano essere in piazza sabato con i sindacati contro il fascismo? O era chiedere troppo?
E’ difficile rispondere. Era una piazza antifascista, ma era anche altre cose. Anche Calenda ha espresso critiche.
La risposta è facile: lui può permetterselo.
Basterebbe che Meloni dicesse qualcosa in più che togliesse ogni dubbio. Poi può benissimo sostenere che in quella manifestazione c’erano elementi di parte. Se ci fosse andata sarebbe suonato strano: non si passa da zero a mille così. Certo però, due paroline in più sul fascismo poteva dirle.
Tipo: votiamo sì alla mozione per sciogliere Forza Nuova?
Sì. Non servirebbe a nulla scioglierla, ma è giusto dirlo. Meloni ha parlato di “orrore nazifascista” a proposito del rastrellamento nel ghetto di Roma, ed è un passo avanti. E’ un tema per lei molto complicato.
Lega e FdI escono con le ossa rotte da questo voto autunnale. A febbraio potrebbero decidere che è meglio dire basta?
Vediamo. Sono in crisi, certo, ma hanno ancora il 40% dei voti. Non credo però al voto anticipato: Meloni ci gioca, è anche il suo ruolo; ma dubito che Salvini farà saltare il governo. Perderebbe mezzo partito e tutto il Lombardo-Veneto. Sarebbe la sua fine, e lo sa.
Ultima domanda: perché, secondo lei, Berlusconi e Forza Italia – il sedicente centrodestra liberale e moderato – sul fascismo non si sono smarcati?
Quel che resta di Fi oscilla tra posizioni contraddittorie. E’ un partito morente che cerca spazio a volte all’insegna del liberalismo e altre inseguendo i due principali partiti del centrodestra. Quella sulla mozione mi è sembrata una scelta tattica.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile NELLA CITTA’ DI MARONI E GIORGETTI, DOVE SALVINI E’ ANDATO 4 VOLTE NELL’ULTIMA SETTIMANA, VINCE GALIMBERTI CON IL 53,78%… LEGA SCONFITTA ANCHE A CARONNO PERTUSELLA
Con l’affluenza finale al 47,39%, i risultati delle Amministrative a Varese vedono il primo cittadino uscente Davide Galimberti raggiungere il 53,78% delle preferenze, rispetto al 46,22% dell’avversario, il leghista Matteo Bianchi
L’alleanza tra Pd e M5s tiene e conferma il trend nazionale di un largo centrosinistra vincente nelle principali città al voto.
Nella sede varesina del Carroccio di piazza del Podestà, lì dove la Lega all’inizio degli anni Novanta veniva fondata da Umberto Bossi, nato a sua volta a Varese, c’è sconforto.
La città natale anche del ministro dello sviluppo economico e vicesegretario federale della Lega Giancarlo Giorgetti e di Roberto Maroni, di cui proprio Bianchi ha preso il posto nella corsa a sindaco dopo la sua rinuncia, è già da cinque anni amministrata da Galimberti. Il sindaco del centro sinistra nel 2016 faceva cambiare colore alla storica “roccaforte” dopo ben 23 anni.
Per Galimberti questo risultato è un premio per cinque anni di lavoro “fatto bene”, come dichiara. “Credo che questo dato confermi una fase assolutamente negativa della lega, che qui è nata ed è cresciuta” e questo, ha aggiunto, nonostante la presenza di “Salvini per giorni e giorni in questa città”.
A Varese il dato dell’affluenza rispetto al primo turno non è crollato e anche le preferenze ottenute dai due candidati hanno confermato i dati di due settimane fa, quando Galimberti era al 48% e Bianchi al 44,89%.
Nell’unico altro Comune in provincia di Varese presente ai ballottaggi, Caronno Pertusella, Marco Giudici, sindaco uscente sostenuto dal Pd, è stato confermato primo cittadino con il 53,7% delle preferenze superando Valter Galli del centrodestra, fermo al 46,3%.
(da agenzie)
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Ottobre 18th, 2021 Riccardo Fucile IL CENTROSINISTRA FA IL PIENO NEI CAPOLUOGHI: STRAPPA SAVONA, COSENZA E ISERNIA E TIENE LATINA E VARESE
La partita delle amministrative finisce otto a uno per il centrosinistra. I
candidati sindaci dem alle amministrative hanno battuto quelli di centrodestra in 8 sui 10 capoluoghi richiamati a votare al secondo turno.
La sinistra infatti si prende Roma, Torino, Cosenza, Savona e Isernia e di nuovo Varese e Caserta.
La destra invece si riconferma solo a Trieste, perché a Benevento vince Clemente Mastella con una coalizione sostenuta più da liste civiche che dal centrodestra.
A Cosenza Franz Caruso, candidato del centrosinistra, ha battuto il suo omonimo, Francesco Caruso con un largo distacco ottenendo il 57,8% dei consensi, rispetto al 42.19% dell’avversario. Dopo dieci anni di amministrazione targata Forza Italia con Roberto Occhiuto, la città ritorna a sinistra.
Anche Savona cambia colore con Marco Russo, in vantaggio consolidato con il 62,25% contro il 37,75% e una tendenza che conferma quella del primo turno.
Stessa sorte per Isernia. I risultati del primo turno – Piero Castrataro (centrosinistra) 41,66% e Gabriele Melogli (centrodestra) 42,88 – annunciavano un ballottaggio all’ultimo voto, invece non è andata così. Castrataro, 46 anni ingegnere nucleare, ha trascinato l’elettorato imponendosi sull’avversario già dopo un’ora dallo scrutinio. Non hanno fatto la differenza i candidati delle liste: 7 a sostegno di Melogli e 5 per Castrataro. Al ballottaggio non c’è stata storia: Castrataro ha superato il 57% travolgendo l’ex sindaco.
Il centrodestra perde poi anche a Latina, feudo elettorale dell’ex sottosegretario leghista Claudio Durigon, lo stesso che l’estate scorsa proponeva di intitolare il parco cittadino al fratello minore di Benito Mussolini, Arnaldo Mussolini, e non più a Falcone e Borsellino.
Infatti qui è stato riconfermato Damiano Coletta, sindaco dem uscente, che ha superato lo sfidante di centrodestra Vincenzo Zaccheo, già sindaco del capoluogo pontino per i due mandati precedenti allo scorso: 65% di preferenze contro il 45,8%.
(da agenzie)
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