Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile TAFFERUGLI CON LA POLIZIA VICINO ALLA SEDE DELLA CGIL, AGGREDITO UN GIORNALISTA DEL TG5 … I CORTEI NON AUTORIZZATI SI SCIOLGONO, TOLLERANZA ZERO CON CHI VUOLE DIFFONDERE LA PANDEMIA E INNEGGIA AL CRIMINALE BOLSONARO
Quattordicesimo sabato consecutivo a Milano di corteo No green pass. C’era
anche l’ex irriducibile delle Brigate rosse, il 76enne Paolo Maurizio Ferrari, alla testa del corteo partito da piazza Fontana a Milano con lo striscione «Ora e sempre resistenza». Ferrari, uscito dal carcere nel 2004, non si è mai dissociato dalla lotta armata e faceva parte del nucleo storico delle Br. Era stato poi arrestato nel 2012 e condannato a 4 anni e mezzo in un’indagine sui No Tav.
Presente per la prima volta anche una ventina di attivisti del gruppo nazifascista varesino «Do.Ra», la comunità dei Dodici raggi.
Diverse migliaia i manifestanti No pass presenti in piazza Fontana già dalle 17. Molto indossavano gadget molto diffusi nella comunità come la spilla rossa «No green pass», o magliette con identica scritta.
In piazza, tra decine di agenti di polizia e carabinieri, anche una donna con un fotomontaggio della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in accappatoio e la frase: «Come è bello far la doccia da Trieste in giù» in riferimento all’uso degli idranti per sgomberare il presidio dei portuali No green pass.
Tra i manifestanti l’immancabile coro «Trieste chiama, Milano risponde» e gli insulti a giornalisti e fotografi. Attorno alle 19 si contavano circa 8 mila persone in corteo. Alle 20 erano saliti a 10 mila.
Il corteo ha attraversato via Larga e via Mazzini per poi tornare in piazza del Duomo e spostarsi in corso Vittorio Emanuele II, piazza San Babila, corso Venezia e corso Buenos Aires. A causa della folla è stata deviata una ventina di mezzi di superficie, tra tram e autobus di linea Atm. Il traffico è andato in tilt.
La manifestazione ha poi raggiunto piazzale Loreto, dove ci sono stati alcuni momenti di tensione: un giornalista del Tg5 è stato accerchiato e spintonato mentre stava facendo alcune interviste.
Dopo una pausa, il corteo ha bloccato il traffico in viale Abruzzi e si è poi spostato in piazzale Dateo, corso XXII Marzo e piazza Cinque Giornate. La polizia si è schiarata con i blindati (dotati di idranti) all’ingresso di corso di Porta Vittoria ma i manifestanti sono riusciti a sfondare il cordone. Tensione e tafferugli vicino alla Camera del Lavoro. Poi la manifestazione è defluita in via Corridoni e si è ridiretta verso il centro città.
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile QUELLI CHE ABITANO NEGLI ALLOGGI DEL COMUNE E A VOLTE NON PAGANO NEPPURE
A Roma c’è chi vive in affitto a 13 euro al mese. E non occupa un bilocale in periferia, ma una casa in centro.
E tra i nomi degli inquilini si trovano, per esempio, il signor M.D.L., titolare di alberghi a Capri e in Valle d’Aosta ma assegnatario di un alloggio popolare.
Oppure G.A., noto proprietario di una catena di supermercati che nonostante le sue ville sparse tra Palermo e Trapani ha avuto bisogno di una casa popolare nella Capitale. E ovviamente gliel’hanno assegnata.
Storie comuni a molti, tutte uguali, oggi riportate in prima pagina da un’inchiesta del Corriere della Sera.
Ma c’è chi ha fatto da sé. Il 13% degli alloggi pubblici a Roma sono occupati abusivamente (percentuale che sale al 22% nel centro storico). E dagli elenchi risulta che al secondo piano di piazza Navona 69 ci sia un bilocale, invece si trova al 68 ed è al quinto piano. L’aspetto interessante è che chiunque lo abiti paga al Comune 13,73 euro al mese di affitto
I canoni stracciati del Campidoglio
Il corollario di una situazione surreale è che molti sono morosi. «Perché non pago? Qui tutti i lavori di ristrutturazione li ho dovuti fare di tasca mia. Vede? Ho cambiato i pavimenti, gli infissi, le porte, tutto di tasca mia. L’Ater non è mai venuta nemmeno quando è crollato il soffitto sulla testa di mia figlia piccola», spiega Rosa al quotidiano.
Il motivo è sempre il solito: «Poiché il Comune non fa manutenzione ci arroghiamo il diritto di non versargli un euro».
Non si tratta di casi isolati. In via del Gonfalone, vicino a Castel Sant’Angelo, il signor Agostino paga 42 euro al mese per un bilocale. Che gli è stato assegnato perché era il badante dell’anziana assegnataria nel frattempo morta. La zona è di grande valore. Ma secondo lui no: «Questa è una brutta zona, ormai interdetta ai più. Lo stesso appartamento era un fienile, se lo vede carino è perché l’ho sistemato io nel tempo». I prezzi per i comuni mortali sono altri: un monolocale in quella zona si paga almeno 900 euro al mese.
Senza contare quelli che mettono in affitto l’appartamento su Airbnb. Così ci guadagnano ancora di più. Promettendo ai turisti un’esperienza fantastica. A carico dei cittadini, ma questo è soltanto un dettaglio.
E non ci sono solo case sotto la lente: alcuni magazzini in via Carlo Cattaneo, vicino alla stazione Termini, sono rimasti in affitto per anni a 1,31 euro al mese. Poi li hanno venduti.
Francesco De Micheli, ex consigliere con Gianni Alemanno, ha un appartamento assegnato dal 2013. Lo ha lasciato da anni ma il nome sul citofono è ancora il suo: «Ricordo che l’amministrazione ne possedeva anche altri e già all’epoca si mormorava per i canoni molto bassi che erano stati concessi agli inquilini».
«Se è corretto l’importo indicato sulle tabelle comunali 13 euro al mese per un bilocale a piazza Navona sono ridicoli. Ristrutturato quell’immobile frutterebbe almeno 1.300 euro al mese».
(da Open)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile “IL MONDO E’ GUIDATO DA PICCOLI UOMINI CHE CON LA LORO IGNORANZA, LE LORO BUGIE E LE LORO MINACCE STANNO MANIPOLANDO LA VERITA'”
Un passo indietro nel tempo. Torniamo a quella calda estate del 2019. Il 9 agosto
Gere è sulla nave di Open Arms: “Richard Gere ci ha raggiunti a Lampedusa per dare il suo sostegno al nostro equipaggio e a tutte le persone a bordo». È quanto si legge in una nota di Open Arms, la Ong spagnola che lo scorso 1 agosto ha salvato nel Canale di Sicilia 124 persone che si trovavano su due imbarcazioni alla deriva e da otto giorni è in mare senza aver ottenuto l’autorizzazione ad approdare.
L’equipaggio attendeva il permesso di attraccare e Richard Gere salì a bordo, mentre la nave umanitaria si trovava a poche miglia da Lampedusa. Il 13 agosto del 2019 i legali della Open Arms presentarono un ricorso al Tar del Lazio, contestando il divieto firmato dai tre ministri italiani per “violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”.
Il Tar diede loro ragione, considerando le situazioni critiche a bordo del natante: i giudici amministrativi sospesero il divieto di ingresso, sostenendo che non poteva essere applicato ad una nave di soccorso con naufraghi.
“Richard Gere si trovava in vacanza in Toscana quando ha telefonato a Riccardo Gatti, il capo missione della Open Arms al largo di Lampedusa.
«Richard mi ha raggiunto – racconta Gatti – , per i migranti a bordo abbiamo acquistato qualcosa da mangiare, visto che il riso era andato a male». Ma ecco Gere, attore celebre che dice «noi» prima di «io»: «Qualcuno ha detto che alla Open Arms lavorano per soldi… La verità è che questi volontari e uomini delle ong sono angeli che si sacrificano per il prossimo».
Richard Gere, cosa l’ha spinta a agire adesso?
«I problemi sono due. Il primo è immediato. Ci sono persone che affogano in mare. L’altro riguarda coloro che scappano dalla guerra, dalle case in fiamme, cercando rifugio in Occidente. Poi scoprono che la legge va contro le loro aspettative e vengono rispediti nelle case che bruciano, da dove erano partiti. Non è un problema soltanto dell’Italia, ma della Spagna, della Grecia, di tutta Europa. L’Occidente ha grandi responsabilità, che affondano anche nel passato, su questa tragedia. Avete sentito il Papa? Non sono numeri ma hanno volti, nomi, storie. Io, le ho ascoltate».
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini le ha detto: perché Richard Gere non si porta a casa a Hollywood i rifugiati?
«La cosa più importante è essere lì con loro, e di fronte alle emergenze assumere decisioni immediate. Abbiamo avuto difficoltà a trovare un pescatore che ci portasse dove era il barcone, temevano rappresaglie politiche visto il clima ostile che si è creato. Poi un ragazzo coraggioso ci ha aiutati e sono salito a bordo. Sono stato uno di loro».
Ma il ministro dell’Interno…
«Se il vostro ministro spendesse del tempo con quelle persone, ascoltasse le loro storie, i loro traumi familiari, cambierebbe la sua visione. Lui fa di un’emergenza umana un caso politico. Ma è cattiva politica. Ho ammirato invece il ministro della Difesa Elisabetta Trenta: lei questo caso non può separarlo dalla sua coscienza».
Così al Corriere.
Gere, che appoggia la Ong da diversi anni, ha deciso di prestare il suo volto alla causa, e nell’intervista ad Avvenire del 31 agosto, ha raccontato perché il suo gesto è stato così importante, rispondendo alle critiche di chi lo accusa di strumentalizzare la vicenda per fini personali
“Guardi, ho settant’anni suonati, un discreto conto in banca e diciamo che sono abbastanza famoso. Inoltre, sono appena diventato padre di uno splendido bambino, al quale dedico volentieri tutto il mio tempo libero. Secondo lei, ho bisogno di pubblicità?”, replica Richard Gere, e ricorda che è la sua fede nei valori buddhisti insegnati dal Dalai Lama a guidarlo.
“Da buddhista non posso non fare qualcosa per alleviare la sofferenza, ovunque essa sia. Seguo da tempo gli insegnamenti del Dalai Lama, di cui sono umile seguace e sostenitore”, dice l’attore di Pretty Woman e Ufficiale gentiluomo.
Gere si batte da sempre per i diritti delle popolazioni più svantaggiate del mondo, e quella di Open Arm non è la prima causa che difende attraverso la sua popolarità.
In molti ricordano il discorso pronunciato durante la cerimonia degli Oscar del 1993, quando denunciò in mondovisione la violazione dei diritti umani del popolo tibetano da parte del governo cinese. Ora difende con convinzione il suo attivismo.
“So che ho fatto e sto facendo la cosa giusta… ci sono esseri umani che soffrono, che scappano da orrori e torture. E per fortuna ci sono “angeli” che tentano di salvarli. Bene. Io sto dalla parte degli angeli, come dovremmo essere tutti”, dice ancora la stella del cinema.
“Criminalizzare uno dei valori fondamentali, la solidarietà? Arrestare gli “angeli”? Non esiste. Qui c’è gente che ha subito ogni sorta di orrore. È come se fosse scoppiato un incendio. La gente si butta dal quinto piano, non ha scelta. E per fortuna a terra trova gli “angeli”: vigili del fuoco, guardia costiera, volontari delle Ong”.
“Ma poi si sente dire: ora ti rispediamo all’inferno. Perché la Libia è l’inferno. Ho ascoltato i racconti. Ci sono cose che non si possono inventare. Occhi che non si possono dimenticare. Quando ho saputo del decreto sicurezza ho chiamato i responsabili di Open Arms, associazione che ammiro e da tempo finanzio, e ho detto che volevo salire a bordo”, spiega l’attore, e racconta che organizzare la missione non è stato affatto facile.
“Abbiamo avuto difficoltà a trovare una barca che ci portasse sotto bordo. Ci eravamo messi d’accordo con un pescatore, ma ci ha richiamato dopo poche ore dicendo che non se la sentiva, aveva paura, era terrorizzato dalle conseguenze. C’è un brutto clima di intimidazione, di paura. Siete cambiati, voi italiani. Avete perso il sorriso, la gioia di vivere, vi siete incattiviti anche voi…”.
Afferma Gere, riferendosi al fatto che anche gli americani e gli altri popoli governati allora da leader come Donald Trump, hanno subito lo stesso cambiamento.
“Il mondo è guidato da piccoli e grandi Trump, che con la loro ignoranza, le loro bugie, le loro promesse e le loro minacce stanno manipolando la verità”, dichiara la star neo settantenne.
E quando l’autore dell’intervista, Pio d’Emilia, gli chiede se secondo lui basta solo essere più “buoni”, o aprire i confini, per cambiare il mondo, afferma:
“Il primo confine che dobbiamo spalancare è quello del nostro cuore e della nostra mente. Dobbiamo aprirci agli altri, alla sofferenza altrui. Il resto viene da sé. Dobbiamo essere più seri, più riflessivi, studiare di più. È un percorso, un cammino di conoscenza e tolleranza che abbiamo interrotto e che dobbiamo riprendere. Ed è un messaggio comune a tutte le religioni. Io sono buddhista, ma non mi risulta che Gesù abbia mai detto qualcosa come: ‘Amate il vostro prossimo, tranne gli… africani’”.
Hollywood si schiera
Per tornare a quei giorni. Il primo e più rapido supporto all’azione dei volontari è giunto dalla voce del collega hollywoodiano Antonio Banderas, che ha definito la condizione umana sull’imbarcazione della ong spagnola Proactivia un “orrore”.
E non si è fatto scrupolo di sostenere che la situazione della Open Arms, impossibilitata ad attraccare, «ha molto a che vedere con la risposta politica che si sta vivendo nel mondo». Un pianeta, ad esempio, che ha a capo degli Stati Uniti «un signore che vuole erigere un muro» ha detto ancora l’attore, per cui «esistono soluzioni possibili al tema nord-sud», ma richiedono «un’enormità di fondi e di anni, probabilmente decenni, perché la comunità internazionale pianifichi un piano Marshall per l’Africa, per esempio».
E nel disturbante silenzio dell’Europa, si è fatto sentire Javier Bardem, anche lui dalla parte di Open Arms. Ha chiesto direttamente al suo Paese, la Spagna, di intervenire e di fare pressione sugli altri Paesi europei perché i migranti possano sbarcare ed essere ridistribuiti. «Open Arms – ha dichiarato Bardem in un video – sta facendo un lavoro straordinario e necessario per la dignità umana e per salvare la vita di persone obbligate a fuggire da situazioni che noi non possiamo neanche immaginare. Hanno un unico obiettivo: dare un futuro ai propri figli e alle proprie famiglie».
(da Globalist)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile C’E’ CHI VIENE DA HOLLYWOOD E CHI DAL PAPEETE… LE INIZIATIVE: NON SOLO MIGRANTI, MA CURDI, KOSOVO, AIDS, SENZATETTO, TIBET, INDIGENI, COSTRUZIONE OSPEDALI E SCUOLE
La star di Hollywood Richard Gere testimonierà al processo della Open Arms contro il leader della lega Matteo Salvini.
“Gere è stato a bordo della nave il 9 agosto 2019 e ci può riferire quali fossero le situazioni complessive a bordo”. La chiamata dell’attore tra i teste non è stata apprezzata da Salvini, che ha irriso Gere. “Ditemi voi quanto è un serio un processo dove verrà da Hollywood a testimoniare sulla mia cattiveria Richard Gere”
La testimonianza di Gere al processo di Open Arms è una riprova del decennale impegno dell’attore americano a sostegno di cause civili. Un impegno che dura sin dagli anni ’70 e che si è focalizzato sulle tematiche più diverse: da quelle socio-ambientali a quelle sanitarie, da quelle culturali a quelle politiche.
L’impegno a favore di migranti e senzatetto
Hanno fatto il giro del mondo foto e video dell’attore pluripremiato che nell’agosto 2019, prima dello sbarco della nave bloccata nelle acque di Lampedusa con 138 persone, è salito a bordo in segno di solidarietà e per portare viveri, pagati di tasca sua. “Queste persone sono angeli. Sono sopravvissute alla Libia, alle tragedie e ai traumi, anche solo per raggiungere le imbarcazioni” ha dichiarato il protagonista di Pretty Woman.
Ma Gere ha mostrato una particolare attenzione nei confronti dei migranti già nel 2016, quando, prima di recarsi a Taormina, in qualità di presidente onorario del Taormina Film Fest, ha fatto visita a Lampedusa e nell’hotspot dell’isola siciliana ha incontrato migranti e operatori del centro d’accoglienza con i quali ha condiviso un pranzo.
Nel 2019 Gere si è poi schierato a favore del popolo curdo, aggredito dal regime turco di Erdogan, dopo l’abbandono dei soldati americani deciso da Trump e il barbaro assassinio della patriota Hevryn Khalan, co-segretaria generale del Partito del Futuro siriano.
“Come americano mi vergogno delle scelte fatte in fretta dal nostro Presidente senza tener conto delle alleanze. Sono molto imbarazzato e addolorato per quello che sta succedendo in Siria” ha detto Gere. “Il rispetto degli esseri viventi è più importante di ogni altra cosa e ci riguarda tutti. La mia è una semplice umana reazione a ciò che sta accadendo, nei confronti degli esseri umani e del pianeta” ha aggiunto.
Sentito, da parte di Gere, anche l’impegno nei confronti dei sentatetto.
Nel 2014, per il film “Time Out Of Mind” – uscito in Italia con il titolo “Gli invisibili” – l’attore si é trasformato in un senzatetto di New York, per raccontare le storie dei veri homeless della Grande Mela. Gere, grazie alla collaborazione con l’associazione Coalition for the Homeless, ha frequentato diversi rifugi e ha trascorso molte ore in strada con loro. È stato così credibile che un giorno, una turista francese, non riconoscendolo, gli ha offerto una fetta di pizza.
La battaglia contro l’Aids
Tra le battaglie battaglie prioritarie dell’attore c’è quella contro l’Aids. Fin dagli anni Ottanta il protagonista di Pretty Woman ha sempre finanziato la ricerca e ha continuato a dedicarsi ad iniziative ed eventi di sensibilizzazione, soprattutto in India, terzo Paese al mondo per numero di contagi da virus Hiv. Ha contribuito alla realizzazione di una struttura dedicata a donne e bambini affetti dalla malattia, l’Aids Care Home e ha lanciato una fondazione, la Gere Foundation India Trust.
In un’intervista a amFar (The Foundation for Aids Research) del 2010, l’attore ha detto di aver scelto di dedicarsi alla battaglia contro l’aids in India perché all’epoca “nessuno sapeva come affrontarla e perché la sua voce poteva essere in grado di mobilitare comunità influenti”. “Al di fuori delle organizzazioni non governative, molti membri della società indiana stavano essenzialmente chiudendo un occhio sulla questione. Sembrava ovvio che se avessimo mobilitato le comunità che avevano influenza, saremmo stati in grado di fare una differenza” ha dichiarato.
L’impegno per il Kosovo
Nel 1999, in occasione di una sua visita in un campo profughi del Kosovo, Gere ha sollevato a livello internazionale la questione dei rifugiati di una guerra che era allora in corso. Gere ha sollecitato un intervento della comunità internazionale in loro sostegno. “Considerando che i bombardamenti sono guidati dagli Stati Uniti e dagli inglesi, il loro impegno a prendere i rifugiati deve essere molto, molto più grande. Spetta sicuramente ai Paesi sviluppati del mondo, in particolare ai Paesi della Nato, assumersi molte più responsabilità di quante ne abbiano” ha dichiarato critico, l’attore americano.
A distanza di anni l’attore ha affrontato nuovamente l’argomento nel film “The Hunting Party”, uscito nel 2007, tratto da una storia vera. Nel film ha interpretato Simon Hunt, giornalista sulle tracce del criminale di guerra più ricercato della Bosnia soprannominato “la volpe”, ricalcato sulla storia del latitante Radovan Karadzic, poi arrestato nel 2008. Nel 2012 Gere ha ricevuto dalle mani dell’allora presidente dell’Albania, Bamir Topi, una medaglia d’onore per aver mantenuto alta l’attenzione sul Kosovo e per aver fatto conoscere al mondo il dramma dei kosovari.
Le campagne a favore dell’indipendenza del Tibet
Di fede buddista, Richard Gere ha anche supportato diverse campagne a favore dell’indipendenza del Tibet. È il cofondatore della Tibet House e presidente dell’International Campaign for Tibet, oltre ad essere un fervente sostenitore del leader spirituale del Paese, il 14esimo Dalai Lama. Già nel 1993, dal palco degli Oscar, ha denunciato l’operato del governo della Cina. Per le sue dichiarazioni non ha mai più potuto partecipare alla cerimonia come presentatore, oltre a vedersi vietato l’ingresso al territorio della Repubblica popolare cinese.
In occasione delle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, ha invitato le persone ad osservare un “boicottaggio emotivo” nei confronti del Paese asiatico. “La Cina dovrebbe subire un boicottaggio delle sue amate Olimpiadi di Pechino se gestirà male le proteste in Tibet. Il mondo non dovrebbe premiare le persone che sono così cattive con la propria gente” ha affermato l’attore in quell’occasione. Nel luglio 2020 ha parlato davanti a una sottocommissione del Senato Usa sull’impatto della censura cinese sugli interessi economici degli Stati Uniti, e in particolare sul Tibet.
L’attivista sociale è stato tra i quattro testimoni convocati per l’audizione su “La censura come barriera non tariffaria al commercio” tenuta dalla Commissione delle finanze del Senato per il commercio internazionale, le dogane e la competitività globale.
Gere ha sottolineato che “la censura della Cina funziona attraverso il suo rifiuto di dare a giornalisti, imprese e cittadini americani lo stesso grado di accesso alla Cina di cui godono le controparti cinesi negli Stati Uniti”. “Il governo cinese limita fortemente l’accesso al Tibet per gli americani, inclusi giornalisti e politici, come nessun’altra area della Cina, mentre i cittadini cinesi non affrontano tali limitazioni quando visitano gli Stati Uniti. Vanno dove vogliono” ha affermato Gere. L’attore, durante l’audizione, ha detto anche che diverse persone all’interno dell’industria cinematografica cinese gli hanno riferito di non poter lavorare con lui. Un’eventuale collaborazione con l’attore infatti metterebbe fine alle loro carriere.
L’impegno a favore dei popoli indigeni
Gere si è anche impegnato a dare voce a persone che vivono situazioni di estrema difficoltà e non riescono ad essere ascoltati dei leader mondiali.
Per questo motivo ha collaborato in diverse occasioni con l’associazione Survival International, che difende i diritti umani delle popolazioni indigene di tutto il mondo. Tra quelle ci sono stati gli Jumma, una tribù del Bangladesh alla quale il governo ha progressivamente sottratto le terre in cui vivevano, attuando una dura repressione dagli anni 70′ fino al 1997, anno della firma di un accordo di pace. Gere ha contribuito poi alla redazione delìl libro We Are One: A Celebration of Tribal Peoples, pubblicato nell’ottobre 2009. Il tema trattato dal libro è proprio la persecuzione nei confronti delle popolazioni indigene e la perdita delle loro terre e come tali ingiustizie si riflettono sul rapporto dell’umanità con la natura e sulla capacità di sopravvivere. I diritti d’autore derivanti dalla vendita del libro sono andati all’organizzazione per i diritti degli indigeni Survival International.
La costruzione di scuole e ospedali
Da chitarrista autodidatta e collezionista di strumenti, in oltre 40 anni ha messo da parte un centinaio di chitarre, di cui alcune molto rare e appartenute a musicisti e cantanti mitici quali Bob Marley e Albert King. Per finanziare la costruzione di ospedali, cliniche e scuole in tutto il mondo, nel 2011 ha messo in vendita la sua collezione, raccogliendo oltre 936 mila dollari.
Le organizzazioni umanitarie con cui ha lavorato
La filantropia di Richard Gere include il lavoro con una varietà di organizzazioni umanitarie. Tra queste Amfar, Amnesty International, medici Senza Frontiere, Human Rights Watch, J/P Haitian Relief Organisation, Croce Rossa Internazionale, Oxfam America, Movimento della Mezzaluna Rossa.
(da Globalist)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile “SARA’ UN CONTROLLO QUOTIDIANO E CAPILLARE, E’ IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA”
Roma torna ad ospitare le manifestazioni dei “No Green Pass” a due settimane
dalle violenze in strada culminate con l’assalto alla sede della Cgil.
Due i presidi autorizzati nella Capitale, entrambi nella zona del Circo Massimo. I manifestanti hanno raggiunto attorno alle 15 piazza Ugo La Malfa e, nell’attesa che prenda la parola Sara Cunial, la deputata ex Movimento 5 Stelle famosa per credere a qualunque complotto, dal palco si è già espresso Enrico Montesano, altro volto di spicco della protesta.
L’attore ha parlato del Green Pass come una misura “politica, più che sanitaria”.
“Io per sapere qualcosa – ha aggiunto – sono dovuto andare sul sito del ministero dell’ Economia. Che non si pensi che questo green pass verde verrà tolto. Dopo sarà usato per altre cose, per sapere tutto di noi. Sarà un controllo quotidiano, capillare e individuale. È il capitalismo della sorveglianza”.
Per Montesano dovrebbe terminare “la divisione tra vaccinati e non”, perché “siamo tutti uguali”. Poi si è espresso sulla protesta nel porto di Trieste, fatta sgomberare con gli idranti dalla polizia: “A Trieste sono state usate maniere eccessive contro una popolazione pacifica e inerme, io ci sono stato e l’ho visto. Erano persone che volevano solo protestare contro certe misure del governo Draghi. Ringrazio la polizia che oggi è qui ma non voglio fare un elogio proprio per quello che è avvenuto a Trieste. La polizia deve obbedire agli ordini che vengono dati. Il vero responsabile di quello che è successo è quindi chi ha dato questi ordini”.
(da NextQuotidiano)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile “A DESTRA SI PORRA’ IL PROBLEMA DELLA LEADERSHIP”
Pd e M5S sono quasi obbligati ad andare assieme. E numericamente ai dem conviene scegliere i 5Stelle che non Renzi e Calenda. Per il centrodestra si apre la questione della leadership. Per il sogno del centro crescono le quotazioni di Carlo Calenda. Questo lo scenario che si apre a livello nazionale dopo le amministrative, secondo Roberto Baldassari, direttore generale di Lab2101 e professore di Strategie delle ricerche di mercato e di opinione di Roma 3.
“Sicuramente l’asse Pd-M5S in qualche modo si rinforza ma con un titolare più accreditato e più galvanizzato dal successo elettorale. Quindi sicuramente il Pd, in questo gioco tandem con il M5S, esce più forte. Bene però la leadership di Giuseppe Conte che, non nascondendosi dietro la vittoria di Napoli, cerca di fare un’analisi profonda e di dare una nuova lettura all’elettorato che in parte lo segue da quando è premier. E dunque, in un certo senso, è un elettorato nuovo”.
Discorso diverso per quanto riguarda il centrodestra che è in una fase di forte cambiamento a prescindere dai sovranisti versus non sovranisti: “La leadership all’interno del centrodestra è nelle mani delle prossime urne. Se Matteo Salvini sembra voler giocare il ruolo di quello che si pone realmente alla guida del centrodestra anche Silvio Berlusconi ha rifatto la sua discesa in campo con un partito che è il terzo della coalizione”. Discorso diverso per Lega e Fdi che si contendono anche la leadership a livello numerico. “Sebbene Giorgia Meloni abbia subito l’aver perso Roma, il suo partito è quello cresciuto maggiormente”.
Poi c’è il discorso del grande centro. “Se vogliamo cercare una vincitore nella sconfitta al primo turno questi è Calenda che, senza un partito forte dietro, è arrivato a quota 19 e questo gli dà una spinta a livello nazionale”.
Insomma, Baldassari promuove l’operazione di restyling che Conte sta facendo del M5S e benedice l’accoppiata Conte-Letta. Probabilmente, dice, si confermerà nel centrodestra la leadership di Salvini ma “con dimensioni diverse”.
Chi beneficia invece, qualora avvenisse, della nascita di un polo di centro? A destra, secondo il professore e sondaggista, “una parte di FI capitanata da Mara Carfagna e Renato Brunetta potrebbe sganciarsi” per una formazione in cui potrebbero confluire Renzi e Calenda. “In tal caso FI cambierebbe ancora una volta veste e Berlusconi ci sembra più orientato a pensare alla partita del presidente della Repubblica che alla guida del partito”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile IL DOSSIER MAFIA-APPALTI, IL “COVO DI VIPERE”, L’ULTIMA INTERVISTA: “LA SENSAZIONE DI ESSERE UN SOPRAVVISSUTO”
“Io sono un magistrato e sono un testimone”. Era il 25 giugno del 1992 quando,
nel suo ultimo intervento pubblico, Paolo Borsellino pronunciava queste parole.
Si riferiva a quello che sapeva sulla morte di Giovanni Falcone, suo collega e amico, ucciso appena un mese prima, nella strage di Capaci.
Sottolineava la parola testimone, non per manie di protagonismo ma per una doppia consapevolezza del suo ruolo: Borsellino, proprio perché in rapporti stretti con Falcone, riteneva di essere a conoscenza di elementi utili per ricostruire le cause della strage del 23 maggio 1992.
In questo intervento di mezz’ora – fatto durante un’assemblea pubblica organizzata a Palermo da La Rete e ancora integralmente ascoltabile su Radio Radicale – il magistrato lancia accuse alle istituzioni, alla sua in primis, ma sta molto attento a non raccontare dettagli che sa bene essere destinati a un’altra sede.
In quella sede, la procura di Caltanissetta, competente sui fatti riguardanti i magistrati di Palermo e quindi per la morte di Falcone, non ci arriverà mai.
Nonostante avesse chiesto esplicitamente di essere interrogato in fretta – sapeva di essere in pericolo, sapeva, addirittura, che fosse arrivato il tritolo destinato all’attentato nei suoi confronti – quella testimonianza non riuscì a rilasciarla.
Fu ucciso in via D’Amelio il 19 luglio 1992, meno di due mesi dopo la morte di Falcone.
L’intervento del 25 giugno è tra i messaggi più importanti che Borsellino lascia prima della sua morte. Non c’è nulla, se non gli atti dei procedimenti a cui stava lavorando, di scritto negli ultimi 57 giorni del magistrato.
Non c’è perché, come ha ricordato all’Huffpost l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, qualcosa forse avrebbe potuto essere trovato nell’agenda rossa da cui il giudice non si separava mai. Ma quell’oggetto così prezioso – chi ha seguito il lungo percorso giudiziario che ha seguito questa storia lo ricorderà – sparì il giorno stesso dell’attentato.
Le indagini per capire se qualcuno l’avesse portato via e perché sono partite dieci anni dopo la strage. Un tempo troppo lungo per poter appurare una verità completa.
A poche settimane dalla pronuncia con cui la Cassazione ha messo la parola fine sul processo Borsellino quater, stabilendo, senza più possibilità d’appello, che il depistaggio dopo la morte del giudice c’è stato, e nell’attesa delle motivazioni, vale la pena ricordare le tracce orali più importanti che Borsellino ha lasciato prima di essere ucciso. Perché, come tiene a ricordare sempre la famiglia, la strada per capire davvero cosa è successo prima e dopo via D’Amelio passa anche e soprattutto da lì.
Durante l’incontro prima citato, pur stando attento a non rivelare dettagli che ancora sperava di poter dire a un pm in qualità di testimone, Borsellino non risparmia parole pesanti contro “qualche giuda” che lasciò solo l’amico.
E lancia un’accusa pesante alle toghe. “La magistratura”, dice “forse ha più responsabilità di tutti,” nell’aver isolato Falcone prima dell’omicidio. Nel non aver voluto riconoscere il valore del suo lavoro da magistrato ma anche da tecnico in forze al ministero della Giustizia.
Parlava dell’amico quella sera, ma in qualche modo parlava anche di sé. Perché, negli ultimi giorni vita Borsellino dovette combattere per poter continuare a seguire le sue piste, per mandare avanti il suo lavoro contro Cosa nostra.
A ostacolarlo non solo Cosa nostra, non solo la difficoltà della materia, ma anche un pezzo di procura palermitana. Gli scontri che ebbe con il suo capo, Pietro Giammanco, sono noti.
E se da vivo almeno Borsellino aveva la tenacia di difendere il suo lavoro, subito dopo il decesso le sue indicazioni andarono in fumo. Del dossier mafia appalti – lo vedremo meglio dopo – si perse traccia a pochissimi giorni dalla sua morte, in quella procura che lui stesso definì “un nido di vipere”.
Un’espressione forte, usata circa un mese prima di morire, che Borsellino usò parlando con l’allora giovane collega Massimo Russo, come ricordato da lui stesso in uno dei processi seguiti alle stragi di mafia. Su quelle parole, pronunciate a ragion veduta, nessuna delle tante toghe che in questi quasi 30 anni ha trattato il caso si è mai soffermata a sufficienza.
“Sarà stata una semplice confidenza affidata a un amico in un momento di rabbia e sconforto”, potrà pensare qualcuno. Possibile, certo. Il problema è che le richieste e le osservazioni fatte dal giudice prima della morte furono ignorate anche quando formulate in ben altre sedi.
Non in un momento di pausa dal lavoro, ma proprio in una riunione con i suoi colleghi. Era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita. I magistrati della procura di Palermo erano tutti insieme per un momento di confronto.
Una prassi che si ripeteva periodicamente e che in quel caso era ancor più importante perché l’ultima prima della pausa estiva. Borsellino, in quella sede, chiese esplicitamente che venisse approfondito il dossier mafia appalti.
Si tratta di una lunga informativa sugli appalti pubblici firmata da Mario Mori e Giuseppe De Donno – gli stessi ex Ros assolti poche settimane fa nel processo d’appello sulla presunta Trattativa Stato-mafia – in cui venivano evidenziati i rapporti economici tra mafia, pezzi di imprenditoria, massoneria e politica locale, andando probabilmente a lambire anche il Palazzo di giustizia.
Borsellino a quel dossier teneva molto, aveva capito che quella pista avrebbe portato a conclusioni rilevanti. L’importanza per il magistrato era tale che non solo in quella riunione propose che fosse approfondito, ma chiese anche un nuovo incontro ad hoc per valutare organizzare il lavoro. Incontro che, però, nessuno ebbe il tempo nemmeno di programmare.
Sul fatto che Borsellino volesse capire tutto il possibile ruolo della mafia negli appalti pubblici la famiglia ha sempre posto l’accento.
Convinta che fosse da cercare lì la chiave dell’omicidio. Lo ha ripetuto il legale dei Borsellino in tutte le occasioni possibili, davanti ai giudici soprattutto. Ma la richiesta esplicita di Borsellino in particolare, sono rimasti sconosciuti all’opinione pubblica fino al 2020, quando il Csm ha desecretato le audizioni fatte a fine luglio 1992, pochi giorni dopo la morte di Borsellino.
A spiegare le richieste fatte da Borsellino in riunione su mafia e appalti, in quel caso fu Nico Gozzo, allora magistrato a Palermo e, molti anni dopo, pm artefice dell’indagine che ha portato al processo Borsellino quater.
Ai rilievi del magistrato fu dato seguito dopo la morte? Neanche per idea. Anzi richiesta di archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti era già stata stilata il giorno prima della riunione, il 13 luglio. Come si legge nel documento, fu depositata il 22 luglio. Borsellino era morto da tre giorni.
La storia di tutto ciò che è seguito all’assassinio del magistrato è piena di buchi, ma se si sta ben attenti si nota come certe cose, a volte, tornano. E come i puntini, nonostante il passare del tempo, ancora possono essere riunite.
Magari non (più) per appurare responsabilità penali, ma certamente per cristallizzare una realtà storica. Ed ecco che, dopo quasi 30 anni dall’omicidio, il giudice d’appello del Borsellino quater in sostanza ritornava su quel dossier e diceva che una delle ragioni per cui il giudice era stato ucciso era la “cautela preventiva” rispetto al lavoro che avrebbe voluto fare.
Il dossier mafia appalti era in cima alla lista delle priorità del magistrato e, quindi, per il giudice del depistaggio potrebbe essere stata una delle principali ragioni per cui è stato ucciso. Per altri addetti ai lavori, invece, quelle quasi 900 pagine erano un ingombro da cestinare.
Ci misero davvero poco a farlo, per superficialità forse, o forse perché non erano riusciti a vedere fin dove Borsellino aveva visto.
Ma quello del 22 luglio 1992, il giorno in cui si decise di chiudere l’inchiesta e lasciare le carte a prendere polvere in chissà quale cassetto, fu solo il primo oltraggio alla memoria del magistrato. Quello più grande sarebbe arrivato pochi mesi dopo: qualcuno lo ha chiamato “teorema Scarantino”. I giudici, ed è questo che conta, lo chiamano “il più grande depistaggio della storia d’Italia”. Sul quale, forse, si sarebbe dovuta accendere qualche luce in più.
L’ultima intervista a Paolo Borsellino fu fatta da Lamberto Sposini, all’epoca vicedirettore del Tg5. Ne riportiamo l’ultimo stralcio. Senza premesse né commenti. Non ce n’è bisogno:
Sposini: “Si sente un sopravvissuto?”.
Borsellino: “Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio, le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e vorrei dire anche di come lo faccio. (…) Sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia e so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione, o financo dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile LA RICHIESTA AL VAGLIO DELLA GIUNTA DEL SENATO PER LA VICENDA DEI FINANZIAMENTI ALLA SUA FONDAZIONE
E Renzi invocò l’immunità. Quella che chiedeva agli altri di abbandonare così da incrociare le spade in Tribunale.
Ma in tribunale rischiano ora di finire le intercettazioni dell’inchiesta sui finanziamenti della Fondazione Open per la quale l’ex premier rischia il processo.
Per impedirlo, rivela oggi il Corriere Fiorentino, già a fine estate i suoi legali avevano presentato alla Procura di Firenze “formale intimazione di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa dall’art. 68 della Costituzione e dell’articolo 4 della legge 140/2003, nonché nell’utilizzare conversazioni e corrispondenza casualmente captate senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. In due parole, l’immunità parlamentare.
La richiesta è ora nelle mani della giunta del Senato perché il procuratore aggiunto Luca Turco, che è il titolare dell’inchiesta, ha risposto picche, spiegando che le mail e i messaggi finiti agli atti provengono da altri indagati che non godono delle guarentigie.
Non è chiaro quali intercettazioni Renzi intenda coprire, ma l’elenco degli indagati per finanziamento illecito cui nei giorni scorsi è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini è lungo: conta 11 persone tra le quali i più stretti collaboratori, da Luca Lotti alla Boschi, e diversi altri che parlamentari non sono, a partire da Marco Carrai e dall’ex presidente della fondazione Alberto Bianchi.
Nei prossimi 20 giorni potranno tutti chiedere di essere interrogati e la Procura, a quel punto, deciderà se procedere o archiviare.*
Evidentemente però nelle carte dell’indagine c’è qualcosa che disturba Renzi che di fatto ne ha chiesto la secretazione e il non utilizzo tramite l’istituto dell’immunità, lo stesso che tante volte nella sua carriera politica ha chiesto agli avversari di non utilizzare, accusandoli in caso contrario di essere di fatto dei codardi.
Esempi? Quando nel 2016 deflagra l’inchiesta sul petrolio in Basilicata il Pd querela vari esponenti dei Cinque Stelle tra i quali Sibilia, Di Maio, Catalfo per le dichiarazioni rese dentro e fuori dall’aula. Renzi in Senato si appella ai parlamentari grillini denunciati: “Rinunciate all’immunità, io non ce l’ho”.
In effetti era premier e segretario del partito denunciante, aveva dunque l’agio di sfidare chi invece l’aveva per ogni dichiarazione sgradita, vera o falsa che fosse. Tenne banco per mesi la querelle con Luigi di Maio sugli “impresentabili” tra le fila dei candidati Pd. “Se Di Maio è un uomo rinunci all’immunità”. Quando poi Di Battista vi rinunciò davvero Renzi gli fece gran complimenti: “in Parlamento ha detto cose false, ma ho apprezzato la rinuncia”.
Il tempo, si sa, cambia le cose. Nel 2018 Renzi diventa senatore della Repubblica e in quella veste non rinuncia a lanciare il guanto di sfida, stavolta all’indirizzo di Matteo Salvini. Il 24 luglio 2019 lo attacca così sui fondi della Lega: “Querelami per i 49 milioni, non userò l’immunità parlamentare”. E anche questo è vero, perché la userà ma per ben altro.
Renzi si trova ora alle prese con guai giudiziari per i quali l’immunità parlamentare gli va benissimo, tanto che – puntualmente – decide di farla valere in Senato.
Non per proteggere opinioni insindacabili espresse nell’esercizio delle funzioni. Ma se stesso e i suoi dal possibile sviluppo processuale dell’indagine sui 7 milioni raccolti da Open per finanziare la sua ascesa da sindaco di Firenze a premier in sei anni. Ma solo i fessi, si sa, non cambiano idea.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 23rd, 2021 Riccardo Fucile A PROPOSITO DI CHI VORREBBE CANDIDARE BERLUSCONI AL QUIRINALE
Forse, mi son detto, è il religioso rispetto del silenzio elettorale prima delle
amministrative che ha reso certa stampa così sbadata da non accorgersi della sentenza della Corte di Cassazione secondo cui non è un reato scrivere che la società Fininvest di Silvio Berlusconi ha finanziato Cosa Nostra ed è stata in rapporti con la mafia.
Anche perché è durato ben sette anni il processo contro il magistrato Luca Tescaroli e il giornalista Ferruccio Pinotti per il loro libro “Colletti sporchi” in cui avevano “evocato il coinvolgimento di Fininvest nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa”.
E forse sarebbe una notizia da dare quella che per l’ennesima volta viene certificata da un tribunale, ovvero la vicinanza tra Silvio Berlusconi e la mafia: quello stesso Berlusconi che qualcuno prova addirittura a spingere verso il Quirinale e che, non solo a destra, si ha molta fretta di riabilitare per poter quanto prima creare un grande centro, come melassa che torni ai fasti del “dentro tutti” per spartirsi il potere.
Un Paese che rimuove con tanta facilità che appartenenti a Cosa Nostra ricevessero da Berlusconi attraverso il gruppo Fininvest 200 milioni di lire al mese a titolo di contributo e che Riina nel 1991 disse di avere Berlusconi e Dell’Utri “nelle mani” è un Paese che difficilmente potrà risultare credibile nelle sue alchimie politiche e anti-mafiose.
C’è stato negli anni un lento processo di normalizzazione delle colpe di Berlusconi, utilissimo al centrodestra per ripulirsi senza pulirsi e al centrosinistra per evitare di fare i conti con la storia. È una pacificazione collusa, immorale e vergognosa: lo dice anche questa ennesima sentenza.
(da TPI)
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