Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
PD 20,3 (+0,4), FDI 19,6 (-0,5), LEGA 18,6 (-0,1), M5S 16,4 (+0,3), FORZA ITALIA 7,4 (=), AZIONE 3,8 (+0,3), ITALIA VIVA 2,6 (+0,2), SINISTRA 2,1 (+0,2), Art.1-MDP 2,0 (+0,1), VERDI 1,9 (+0,1), +EUROPA 1,5 (=)
La Supermedia AGI/YouTrend conferma, per la seconda settimana consecutiva, il sorpasso del Pd su Fratelli d’Italia.
Sulla base delle rilevazioni effettuate da 8 istituti demoscopici diversi negli ultimi 15 giorni, i Dem sono al primo posto tra le liste e si conferma il calo del partito di Giorgia Meloni che scende sotto il 20%.
Ma è l’intera area di centrodestra ad arretrare notevolmente (solo Forza Italia si mantiene stabile), mentre il centrosinistra guadagna quasi un punto.
Tra le componenti della maggioranza, si rafforza l’area giallo-rossa, mentre tra le liste minori fa segnare un buon risultato Azione di Calenda, ormai di poco sotto il 4%.
Ecco i dati nel dettaglio: PD 20,3 (+0,4), FDI 19,6 (-0,5), Lega 18,6 (-0,1), M5S 16,4 (+0,3), Forza Italia 7,4 (=), Azione 3,8 (+0,3), Italia Viva 2,6 (+0,2), Sinistra Italiana 2,1 (+0,2), Art.1-MDP 2,0 (+0,1), Verdi 1,9 (+0,1), +Europa 1,5 (=)
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
BERLUSCONI, CONTE, RENZI E LA GAMBA CENTRISTA
“Che Draghi rimanga a Palazzo Chigi è la via prioritaria. Draghi non è fungibile”. È
Giuseppe Conte l’ultimo leader sceso dal carro che porterebbe l’attuale presidente del Consiglio al Quirinale.
Una retromarcia annunciata prima due giorni fa in tv, poi ribadita ieri davanti ai suoi parlamentari, dopo che non più di una settimana fa sul quel carro ci era salito più che volentieri.
È uno strano trio di leader quello uscito allo scoperto affinché l’ex presidente della Bce rimanga a fare quello che sta facendo.
Oltre a Conte ecco Silvio Berlusconi, “sempre più convinto” che “interrompere il buon lavoro del governo mentre la ripresa è appena avviata e l’emergenza sanitaria – pur controllata grazie al vaccino – è ancora attuale sarebbe irresponsabile”.
E poi c’è Matteo Renzi, che da Bruxelles dove è andato in trasferta per presentare il suo libro dice e non dice, ma si capisce che sta con il freno a mano tirato: “Draghi può fare tutto: il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica, della Commissione Europea o del Consiglio Europeo”. Ma quella del Quirinale “è una partita complicata e qualcuno ci ha perso l’osso del collo”.
Per tutti, per motivi diversi e in parte tangenti, non è un attestato di disistima al premier, ma di sostanziale sfiducia che l’attuale maggioranza possa reggere alla secchiata d’acqua che arriverebbe qualora l’ombrello sotto il quale si sono rifugiati venisse improvvisamente chiuso.
Insomma, con Draghi al Quirinale le urne sarebbero assai più vicine. E sono in pochi i parlamentari disposti a immolare la propria pensione – che maturerebbe solo se la legislatura durasse fino al settembre del prossimo anno – sull’altare del Migliore al Colle, nonostante lo pensino o soprattutto perché non lo pensano.
C’è una quarta gamba che si aggiunge alle prime tre in una resilienza sotterranea a che SuperMario cambi lavoro, ed è quella del gruppo Misto.
Un corpaccione di 98 grandi elettori che arriva a sfiorare il 10% di coloro che decideranno nel segreto dell’urna il prossimo inquilino del Colle.
Al Senato 26 provengono dalle fila del Movimento 5 stelle, alla Camera gli eletti con i pentastellati che ora vagolano tra i senza gruppo sono addirittura 43, 14 dei quali confluiti nei ribelli de L’Alternativa c’è.
Una pattuglia che per pregiudiziali ideologiche e pregiudiziali economiche è robustamente contraria da un lato a Draghi, dall’altro a dire addio al Palazzo, avendo tutti o quasi pochissime carte in mano per giocarsi il prossimo giro di giostra.
Il collante dello strano fronte è sopravvivere alle urne, che, complice il taglio dei parlamentari, falcidierebbero gli onorevoli elettori.
Conte lo ha subito. Quando ha provato a proporre la soluzione che prevede l’ex governatore della Banca d’Italia a succedere a Mattarella e di Daniele Franco in virtù della sua competenza e della sua terzietà a potergli fare da successore preservando gli attuali equilibri, apriti cielo.
All’interno dei 5 stelle è partita una gragnuola di sospetti: “Vuole andare al voto e mettere in lista per le prossime elezioni solo i suoi”. Uno stillicidio che lo ha costretto a una precipitosa retromarcia, completata con l’assicurazione al gruppo che “non ci sono le condizioni per una fine anticipata della legislatura”.
Le acque non si sono placate, non tutti si sono convinti della seconda versione, il corpaccione pentastellato, quello che verrà più di tutti decimato alle urne, continua a riunirsi in capannelli in cui l’argomento principe è sempre e solo questo, con tutti i corollari del caso.
Renzi rivendica di aver inventato lui la soluzione Draghi è ha buon gioco a intestarsela, e per lo stesso motivo fatica a dire un no secco all’ipotesi Quirinale. Ovviamente i suoi coltivano una certa refrattarietà a misurarsi con le urne. Dice un parlamentare che “è ovvio che a noi serve tempo per strutturarci, per allargare il campo moderato e liberale con il quale vogliamo essere alternativi ai sovranisti e al centrosinistra che ha scelto i grillini”.
Se si butta un occhio al magro bottino elettorale raccolto da Italia viva si completa il quadro. Berlusconi ha scartato dai suoi alleati: Giorgia Meloni ha detto a chiare lettere che in caso di elezione di Draghi spingerebbe per le urne, Matteo Salvini la seguirebbe volentieri, Giorgetti permettendo. Il Cavaliere frena, gioca una sua partita personale, coltiva velleità senza farsi illusioni, ma soprattutto non vuole finire schiacciato nella morsa dei populisti.
Deve inoltre tenere conto di un importante pezzo del suo partito, a cominciare dall’intera delegazione di governo, che non ha nessuna intenzione di interrompere l’esperienza di questo governo, un’adesione tale che nelle ultime settimane si sono dovuti difendere dalla poco elegante accusa dei falchi di “essersi venduti al premier”.
Una coalizione bizzarra sulla cui tenuta nessuno è pronto a scommettere, anche perché se il treno Draghi partisse direzione Quirinale non sarebbe facile farlo deragliare. Certo poi, spiega un parlamentare di lungo corso, “dipende sempre da come ci si arriva: al primo scrutinio con ovazione sarebbe un conto, al decimo con morti e feriti per strada lo scenario cambierebbe assai”.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
GIANNI LETTA LO HA CONVINTO CHE NON HA ALCUNA POSSIBILITA’ DI ARRIVARE AL QUIRINALE
In molti si sono stupiti, leggendo le cronache politiche di questi giorni, del fatto che Silvio Berlusconi ha finalmente capito quello che avrebbe dovuto essergli chiaro fin da subito: ovvero che lui ha zero chance di andare al Quirinale.
Dopo un inizio di campagna tambureggiante, basta leggere l’intervista che mercoledì 10 novembre Augusto Minzolini gli ha fatto sul Giornale per comprendere come il Cavaliere sia arrivato alla conclusione, contrastante con il suo indomito ottimismo, che per la successione a Sergio Mattarella, come dicono a Milano, “ghe n’è minga”. Non fosse altro perché né Matteo Salvini né tantomeno Giorgia Meloni hanno davvero intenzione di chiedere ai loro gruppi parlamentari di sostenere la sua candidatura.
Ma Berlusconi, che pur essendo tornato in buona forma alterna momenti di lucidità a momenti assopimento, ci è arrivato da solo a questa conclusione? No, ci ha dovuto pensare Gianni Letta ad aprirgli gli occhi.
Lui, dopo il vertice a Villa Grande, la sua nuova residenza romana che fu la dimora di Franco Zeffirelli, con gli altri due galli del pollaio del centrodestra, era davvero convinto di essere sostenuto e di avere delle concrete possibilità.
Ma dopo quella riunione, che Letta ha giudicato improvvida, il suo fidato consigliere è andato a trovarlo dicendogli senza mezzi termini che quei due lo stavano prendendo per il fondoschiena, e che lui non poteva certo concludere la sua carriera politica con uno smacco clamoroso.
Il colloquio è stato un faccia a faccia senza testimoni, ma coloro che hanno raccolto le confidenze dei due, raccontano (e le due versioni coincidono perfettamente) che mai si era visto un Letta così arrabbiato e che mai Berlusconi si era sentito dire dalla sua “eminenza azzurra” che se avesse continuato in quella direzione le loro strade si sarebbero separate.
Naturalmente i (non pochi) nemici di Letta hanno subito fatto presente al Cavaliere che giravano voci su una possibile candidatura al dopo Mattarella del suo stesso fidato consigliere, facendogli perfidamente intendere che quanto gli aveva detto era strumentale: «Gianni gioca per sé».
Ma Letta sa perfettamente di non avere possibilità, né le va cercando, e quindi non coltiva nessuna illusione. L’unica speranza che ha è di aver tolto dalla testa del Cavaliere le sue, di illusioni.
(da tag43.it)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
CHIEDONO DI ENTRARE NEL PSE SENZA FARE I CONTI CON STORIA E VALORI
Tanto per stabilire l’ordine di grandezza, a costo di paragonare la lana di allora
con gli stracci di oggi: “Beh – ci dice Achille Occhetto, io non è che ho aderito al Pse. Io sono un fondatore del Pse, ho firmato la pergamena gialla del suo atto costitutivo, lo fondammo assieme dopo il nostro ingresso nell’Internazionale socialista”.
Per l’esattezza, il 9 novembre 1992, tre anni dopo il crollo del Muro e la “svolta” dal Pci al Pds.
Trentadue anni dopo, arriva la richiesta dei Cinque stelle – sì, proprio loro, quelli che iniziarono col “Pdioti” e “Pdmenoelle” – formalmente ancora non depositata, di adesione “al gruppo” del Pse, anche se non al partito, senza tante svolte, revisioni, condivisioni teoriche.
Giravolte, quelle tantissime, da non capire più di cosa si stia parlando: “Questa sorta di unità socialista con i grillini – dice Claudio Martelli, altro protagonista di allora – meriterebbe almeno un dibattito, mica è questione di dettaglio, investe i valori di fondo da condividere viste le posizioni storicamente assunte dai Cinque stelle, che hanno bussato alle porte di vari gruppi, dai liberali ai verdi, ricevendo altrettanti rifiuti. È imparagonabile con quel che successe allora”.
Ecco, la questione è il travaglio, la sua sincerità maturata nel fuoco della storia: “Chi per convinzione – prosegue – come Giorgio Napolitano, chi per necessità, ma comunque il percorso del Pci con la socialdemocrazia durava da tempo e poi subì un’accelerazione dopo l’89, col crollo del mondo comunista”.
Giova ribadire: il paragone è ardito, ma restituisce il segno dei tempi. Sì, prendiamola da lontano: il Pci, il cui apporto alla democrazia italiana è ben altra cosa, sostanzialmente socialdemocratico lo era diventato nei fatti. Se questo non fosse un articolo ma un capitolo di un libro di storia, come tappe di una evoluzione, non sempre coerente e lineare, si dovrebbe partire dal compromesso storico, strategia sul piano interno non separabile dal primo strappo di Berlinguer sull’“ombrello della Nato”, passando per l’eurocomunismo, avversato dai sovietici, fino al Pci come “parte integrante della sinistra europea” votato al congresso dell’86. Roba durata vent’anni. Poi la svolta dell’89: “Quando arrivammo a discutere il nostro ingresso nell’Internazionale – ricorda Occhetto – il problema della condivisione dei valori era del tutto secondario, perché quelli erano diventati i nostri valori fondamentali da tempo: lo Stato di diritto, la democrazia rappresentativa, il mercato sociale. Poi c’erano politiche diverse, ma la base era posta”.
Il problema, semmai, era politico. Piero Fassino, che come responsabile Esteri del Pci di Occhetto curò proprio questo dossier ricorda, nel suo libro Per passione, nel capitolo La strada per Berlino, ricco resoconto dell’epoca: “Quando nell’aprile del ’91 discutemmo con Brandt della nostra adesione all’Internazionale, il leader tedesco è assolutamente favorevole, ma, dice bisogna creare le condizioni perché avvenga nel migliore dei modi. Ci dice: ‘Avete due questioni da risolvere: parlare con tutti i membri, per avere il consenso; il secondo è Craxi: non può porre veti, ma non potete entrare contro di lui’”.
Il viaggio a Berlino inizia così. Pare facile, ma non lo è. È una faticosa tessitura, fatta anche di spigoli, incontri rinviati, tensioni fino ad arrivare a una dichiarazione comune di Craxi e Occhetto, preparata da Fassino e Gianni De Michelis. Insomma, politica. Prima della grande slavina di Tangentopoli: “Quando Craxi incontra nel famoso camper Veltroni e D’Alema – prosegue Martelli – ottengono un doppio incasso: il superamento del veto per l’Internazionale e le non elezioni anticipate, che in verità Craxi non vuole non tanto per aiutare il neo-nato Pds ma perché ha il problema di far passare la legge Mammì dopo le dimissioni dei cinque ministri democristiani”.
Vabbè, non tiriamola per le lunghe. Ci siamo capiti.
Solo cinque anni fa, mica un secolo, i Cinque Stelle votarono con Nigel Farage, con cui condividevano il gruppo assieme alla Lega e alla Le Pen, contro la risoluzione del Parlamento europeo sulla Brexit. Altri tempi.
Però non è che gli anni successivi raccontano di una vigorosa conversione, ma di feroci contrasti con i socialisti. Solo pochi mesi dopo aver votato come presidente della commissione Ursula von der Leyen compatti, si spaccano sul nuovo esecutivo comunitario.
È il 2019, mica un secolo, anno in cui si schierano contro la proposta di una commissione speciale per far luce sulle “ingerenze elettorali straniere”, ovvero con la Lega mentre in Italia c’era già il Conte due, così come qualche mese prima, in pieno Conte 1, contribuiscono a bocciare la risoluzione sui porti aperti e a far passare, astenendosi, un progetto di regolamento che propone lo stop all’erogazione dei fondi strutturali per i Paesi che violano ripetutamente lo Stato di diritto (Polonia e Ungheria).
Morale della favola, quando Conte si presenta a Bruxelles, Udo Bullman, leader dei socialisti, così lo accoglie: “Non è questa l’Italia che conosciamo, l’Italia che conosciamo è quella di Spinelli”.
Facile a dirsi: “Se uno viene sulle mie posizioni, perché non accoglierlo?”. Che, messa così, funziona pure, finché non li senti parlare
Ma le posizioni dei Cinque stelle sono quelle del Pse, come collocazione internazionale, democrazia interna, sviluppo e infrastrutture? Boh, a occhio mica tanto.
La pratica però “istruita”, toccherà ai partiti membri decidere, ma la decisione da parte del segretario del Pd sembra abbastanza presa, nell’ottica di costruire un’alleanza in Italia, senza tanti esami del sangue o di storia né in Italia né in Europa.
Nell’ambito di un processo in cui il padrone di casa ha più fretta dell’ospite, alla ricerca di un alloggio purché sia e senza neanche i convenevoli di circostanza. Tipo una dichiarazione comune, un palco condiviso alle recenti amministrative.
Però vuoi mettere l’estetica del finale, con Grillo che neanche più la battuta sui “socialisti” può fare. Perché magari sono antenati, ma la famiglia quella è.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
“LE SPIAGGE SONO BENI PUBBLICI, SERVONO DELLE GARE”
Carlo Salvemini, primo cittadino del comune salentino, nel 2020 si era opposto alla nuova maxi proroga delle concessioni. Chiedendo un pronunciamento del Consiglio di Stato ha superato lo stallo dei partiti: “Le spiagge sono beni pubblici, servono delle gare”
Quando martedì 9 novembre il Consiglio di Stato ha deciso di prorogare la durata delle concessioni balneari soltanto fino al 2023, invece che fino al 2033 come aveva deciso il governo nel 2018, uno dei primi a festeggiare la sentenza è stato il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini. È stato lui, insieme ai suoi dirigenti, a portare l’annosa questione delle spiagge italiane all’attenzione dei giudici dopo tentativi e cause perse nei livelli intermedi della giustizia amministrativa: nessun governo, nemmeno l’esecutivo guidato da Mario Draghi, era riuscito a risolvere il problema.
La situazione delle concessioni balneari è immobile da moltissimi anni: i proprietari degli stabilimenti hanno goduto per decenni di rinnovi delle concessioni quasi automatici e di canoni di affitto molto bassi, da pochi euro al metro quadro. Il risultato è che molti stabilimenti sono gestiti dalla stessa famiglia sin dall’inizio del secolo scorso, grazie a un patto non scritto
Il Consiglio di Stato ha recepito tutte le richieste che erano state presentate dal comune di Lecce, in Puglia. La città è nota per il suo centro storico più che per i suoi 25 chilometri di litorale, eppure da anni il sindaco Salvemini, eletto con una coalizione di centrosinistra, rimarca l’importanza di tutelare un patrimonio pubblico come le spiagge attraverso un piano comunale di gestione delle coste.
Quando cerca di spiegare in pubblico la complessa e controversa storia delle concessioni balneari, Salvemini usa un paragone piuttosto efficace. «Se io da sindaco concedessi l’utilizzo di un castello per fini turistici senza procedura di affidamento e senza gara, per un lunghissimo periodo, di generazione in generazione, mi troverei la procura della repubblica, la Guardia di Finanza e la Corte dei Conti all’uscio del comune. Perché per le spiagge non devono valere le regole che giustamente bisogna rispettare per dare in concessione tutti gli altri beni demaniali?».
Per Salvemini, la conseguenza immediata della sentenza sarà la revisione del disegno di legge sulla concorrenza. «È doverosa. Spero che il governo colga l’occasione per aggiungere una questione di cui si parla poco: il paese deve avere una legge sul demanio marittimo che definisca a livello nazionale le quote di spiagge pubbliche e spiagge in concessione», dice. «È essenziale promuovere nuove iniziative di tutela del mare e delle spiagge, se vogliamo continuare a parlare di transizione ecologica».
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
IN SPAGNA, FRANCIA E GRECIA NESSUNA SPIAGGIA E’ DATA IN CONCESSIONE SENZA GARA… IN ITALIA DUE TERZI NON PAGANO NEANCHE IL CANONE IRRISORIO PATTUITO, E’ UNA VERGOGNA
Persino Flavio Briatore chiese allo Stato di poter pagare di più, imbarazzato per il
canone annuale del suo Twiga, lo stabilimento a Marina di Pietrasanta di cui è proprietario. Una struttura che occupa quasi 5 mila metri quadrati di lido per un affitto che costa 17 mila euro, a fronte di incassi intorno ai 4 milioni.
Il disagio di Briatore è l’emblema di un sistema impazzito, che avrebbe bisogno di un riordino e invece ha eluso i richiami europei alla concorrenza grazie alla pressione delle lobby del settore sulla politica.
Puntualmente la questione torna d’attualità ogni anno con la finanziaria. Stavolta è stata la legge sulla concorrenza a fare da teatro a uno scontro tra partiti, soprattutto il centrodestra, e il premier Mario Draghi che voleva mettere a gara le concessioni di balneari e ambulanti per attuare finalmente la direttiva Bolkestein del 2006.
Il risultato è stato un rinvio del nuovo assetto, confermando la proroga al 2024 del governo gialloverde. Il compromesso di Draghi – stilare una mappatura dell’esistente in vista di un futuro intervento – ha perso forza dopo la sentenza del Consiglio di Stato che dispone la validità delle concessioni solo fino al 2023.
Poi, infatti, dovranno essere rimesse a gara. Al di là dell’affidamento diretto e delle barriere all’entrata che non garantiscono la concorrenza, l’elemento più controverso è rappresentato dal gettito che lo Stato incassa dall’affitto delle spiagge. Per dirla con Briatore, è troppo basso.
Il far west italiano
Gli ultimi dati disponibili certificano 115 milioni di euro di entrate ogni anno, di cui solo 83 effettivamente riscossi. E risultano ancora da versare 235 milioni di canoni non pagati dal 2007.
Come dice Legambiente, sembra quasi che allo Stato non interessino i soldi delle spiagge. Eppure il giro d’affari dei 12.166 stabilimenti è stato stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi.
La novità introdotta con il Decreto Agosto ha innalzato il canone minimo portandolo da 363 euro a 2.500 e questo dovrebbe generare 39 milioni in più.
Nel rapporto sulle spiagge di Legambiente sono indicati gli affitti pagati dagli stabilimenti più noti, dove il costo di lettini e ombrelloni arriva a mille euro al giorno come nel caso del Twiga.
Qualche esempio: A Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa all’erario 7.500 euro l’anno, il Metropole 3.600, il Continental 1.900. A Forte dei Marmi il Bagno Felice corrisponde 6.500 euro per 4.860 metri quadri occupati.
A Punta Ala, l’Alleluja 5.200 euro per 2.400 metri e il Gymnasium 1.200 per 2.100 metri. A Capalbio, lo stabilimento l’Ultima Spiaggia versa 6 mila euro per 4.100 metri quadri. Il Luna Rossa di Gaeta ne sborsa 11.800 mentre il Bagno azzurro di Rimini 6.700.
In Sardegna, per le 59 concessioni di Arzachena, lo Stato porta a casa solo 19 mila euro.
Il Papeete beach di Milano Marittima del leghista Massimo Casanova paga 10 mila euro di affitto rispetto a un fatturato di 700 mila.
In Italia non esiste una norma che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione. Secondo gli ambientalisti oltre il 50% delle aree sabbiose è sottratto alla libera e gratuita fruizione. In Versilia si raggiunge il picco: 683 stabilimenti su 30 chilometri di costa, una media del 90% di spiagge occupate.
Il modello europeo
In Spagna nessuno affida le coste senza gare. Le proroghe sono legate agli effetti ambientali e vengono fissate condizioni per la protezione del demanio.
In Francia la durata delle concessioni non supera i 12 anni e gli stabilimenti vanno smontati alla fine della stagione perché l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno.
In Grecia si organizzano selezioni per consegnare il bene pubblico e sono i comuni a decidere per quanto tempo il privato può gestire la spiaggia. Da noi, invece, cresce la protesta delle associazioni dei balneari, sostenute dal centrodestra.
Il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, chiede alla politica «di cogliere l’occasione per inserire nei bandi elementi di premialità per i temi della sostenibilità e dell’inclusività».
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
I BENI DEL DEMANIO NON SONO MONOPOLIO DEI CONCESSIONARI CHE PAGANO QUATTRO SOLDI DI AFFITTO E PRETENDONO DI TRASMETTERLI PER GENERAZIONI, VANNO MESSI A GARA COME IN TUTTO IL MONDO CIVILE
Nella sua legge sulla Concorrenza anche il salvatore dell’euro, ovvero il premier Mario Draghi, è rimasto vittima dei veti della Lega e di Massimo Casanova, titolare del Papeete beach ed europarlamentare leghista, gran suggeritore di Matteo Salvini in tema di spiagge.
Un pressing, quello del Carroccio, che ha portato il governo a escludere la revisione delle concessioni dal suo ddl. All’indomani della sentenza del Consiglio di Stato che ha stabilito lo stop della proroga delle concessioni dal 2024, i balneari si ribellano.
“La decisione del Consiglio di Stato è una doccia gelata per il comparto turistico balneare italiano, che rischia di sancire la morte di oltre 30 mila famiglie che lavorano nel settore, decretando il blocco degli investimenti in un momento di massima urgenza di ripresa economica e rendendo fortemente instabile il futuro di circa un milione di lavoratori”, dice Casanova.
“Voglio credere che sia stato un errore, quello di lasciare una decisione così importante ai giudici del Consiglio di Stato e non piuttosto un disegno ben orchestrato. L’esecutivo ha il dovere di difenderci”, afferma Assobalneari Confindustria.
Sulla stessa linea Federbalneari che insiste sul danno che potrebbe subire il comparto e sulla necessità che il governo convochi operatori e associazioni di categoria. I partiti pronti a difenderli sono i soliti: Lega, ovviamente, FI e FdI.
“La sentenza del Consiglio di Stato è imbarazzante: dice al Parlamento di smetterla di essere Parlamento, perché la Bolkestein non si discute. Faremo di tutto per tutelare il lavoro di balneari e ambulanti”, promette Salvini.
“Accanirsi contro balneari e ambulanti in questo momento storico è un grave errore”, dichiarano da Forza Italia Roberto Cassinelli e Roberto Bagnasco.
Si dice sconcertato dalla sentenza il partito di Giorgia Meloni: “FdI non indietreggerà di un centimetro nella difesa di questo comparto, una battaglia moralmente giusta che porteremo avanti fino alla fine”.
Sul fronte opposto i giallorossi plaudono ai magistrati. “Anche l’ultima difesa è caduta. Le concessioni demaniali marittime vanno messe a gara, senza se e senza ma”, dichiara il dem Dario Stefano.
“La sentenza del Consiglio di Stato è chiara”, dicono dal M5S, “servono le gare prima di dicembre 2023, altrimenti è a rischio l’intero settore. Il governo Draghi e la politica devono regolare un settore che da 15 anni aspetta risposte. Per questo il M5S chiede a tutte le forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, di aprire un tavolo in vista del ddl Concorrenza e della Legge di Bilancio, dove si scriveranno le nuove regole a tutela dell’occupazione, degli investimenti e dell’ambiente”.
Chi ha festeggiato per la sentenza del Consiglio di Stato sono state le associazioni ambientaliste. “In Italia c’è poca trasparenza sulle concessioni, che crescono di anno e in anno, e poi c’è la questione dei canoni irrisori. Ora l’auspicio è che con questa sentenza le cose nel comparto balneare possano cambiare e migliorare”, commenta Legambiente.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
L’ALTOLA’ DEL VESCOVO: “STRUMENTALIZZAZIONE DELLA MESSA”… IL PARROCO: “NON VOLEVO FERIRE NESSUNO”: E ALLORA USA IL CERVELLO PRIMA DI FARE CAZZATE
Alla fine è prevalsa la prudenza del vescovo di Treviso, monsignor Michele
Tomasi. Il parroco di San Zenone degli Ezzelini, settemila abitanti tra Bassano del Grappa e Castelfranco Veneto, aveva programmato mercoledì 10 novembre una messa di ringraziamento per il blocco in Senato del disegno di legge Zan contro l’omobitransfobia.
Ma dai vertici della diocesi è arrivato lo stop: meglio evitare, per non creare polemiche e inasprire gli animi. “Dobbiamo certamente mantenere la preghiera perché i governanti giungano a leggi giuste, ed è la preghiera affinché le posizioni seriamente argomentate possano venire riconosciute, in un contesto di discussione democratica franco e anche serrato, senza pregiudiziali ideologiche e chiusure preconcette”, ha dichiarato il vicario generale, monsignor Giuliano Brugnotto.
Poi l’annuncio che la messa era stata sospesa “per evitare strumentalizzazioni in contrasto con la celebrazione eucaristica”.
L’idea di ringraziare in chiesa per l’affossamento del ddl era venuta dal parroco di San Zenone vescovo e martire, don Antonio Ziliotto, attraverso il bollettino parrocchiale. “I vescovi italiani ne avevano denunciato la pericolosità nel giugno 2020 e noi avevamo riportato il testo della Cei, impegnandoci a pregare nel nostro rosario quotidiano per i nostri governanti perché facciano leggi giuste secondo la volontà di Dio”, ha scritto.
“La pericolosità e ambiguità della legge – aggiungeva – stava soprattutto nell’introdurre nella legislazione italiana e nell’insegnamento scolastico, mascherata come lotta contro l’omotransfobia, l’ideologia del gender. Ma il Signore ha agito e ha sostenuto tutte le persone di buona volontà”.
Dell’iniziativa è stato avvertito il sindaco di San Zenone Fabio Marin, omosessuale dichiarato e impegnato per i diritti lgbt+: “La cosa mi ha molto stupito perchè, da credente, ritengo che la chiesa di San Zenone abbia ben altre cause per cui pregare o gioire. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il parroco e quindi ho subito voluto confrontarmi con lui”. Il chiarimento c’è stato.
“Poiché ho capito che c’è troppa confusione sulla legge, e che la confusione genera posizioni sbagliate, mi sono detto disposto a fare degli incontri pubblici per far capire davvero quali siano le nostre richieste”, spiega il primo cittadino. “Ho però esternato al parroco la mia delusione: prima di prendere una decisione del genere avrebbe potuto quantomeno interpellarmi”.
Nel frattempo un gruppo di giovani aveva organizzato un piccolo presidio in piazza. Poi la presa di posizione della diocesi. “Certamente non sembra opportuno un utilizzo strumentale della celebrazione eucaristica relativamente a una questione politica. Più che un ringraziamento, dispiace che in questo periodo non si sia attivato sul tema un dialogo aperto in Parlamento, così da produrre una legge capace di rispettare e tutelare tutte le persone. I diritti delle persone, infatti, debbono essere riconosciuti: da un lato c’è sicuramente quello di vivere senza subire violenza e discriminazione, ma dall’altro anche quello della libertà di espressione”.
Intanto parroco e sindaco si sono presentati assieme in piazza, mezz’ora prima della messa, per spiegare ai presenti le diverse ragioni, assieme alla decisione di soprassedere con la celebrazione di ringraziamento. E don Antonio ha detto: “Non volevo ferire nessuno”.
(da agenzie)
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Novembre 11th, 2021 Riccardo Fucile
HANNO TUTTI TRA I 40 E I 60 ANNI… POI C’E’ LO ZOCCOLO DURO DEI NO VAX
I contagi risalgono in Europa e l’Italia accelera per la terza dose. La conferma del ministro Speranza è arrivata: dopo immunodepressi, fragili, personale sanitario, over 60 e vaccinati col monodose Johnson&Johnson, la platea di chi riceverà il booster, si avvia a comprendere anche 40-60enni.
Eppure, soprattutto in questa fascia d’età, sono ancora tanti i “perduti” del vaccino.
Quanti soggetti saranno coinvolti in realtà dal richiamo?
La fascia 40-60 anni è composta da circa 18 milioni e 400 mila persone, ma la seconda dose o monodose (J&J) è stata somministrata a poco più di 15 milioni e 200 mila persone.
A loro, dunque, sarà somministrata la terza dose o il booster, a rimanere fuori sono oltre 3 milioni di soggetti. Tra i 40 e i 49 anni, infatti, si è vaccinato l’80 per cento delle persone, meno che tra i 50-59enni (84,6 per cento) e al di sotto della media nazionale.
Qualcuno li chiama “dispersi del vaccino”: si tratta di chi ha ricevuto la prima dose e poi non si è presentato per la seconda, non completando il ciclo vaccinale. Com’è accaduto, su larga scala, nel territorio di competenza dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale, dove sono 9.000 i cittadini che i sanitari stanno cercando di rintracciare da mesi: lo racconta il Messaggero Veneto. “Stiamo cercando di ricontattare tutte queste persone per far sì che si presentino: è un lavoro che svolgiamo con fatica, ma che è importante”, ha detto il direttore generale di AsuFc Denis Caporale.
Solo un mese fa, il governatore della Campania Vincenzo De Luca aveva lanciato l’allarme: “Non mi piacciono i dati sulle seconde dosi: sono solo 3 milioni e 600 mila i cittadini che hanno ricevuto la seconda dose e non va bene. Ribadisco il mio appello, vaccinatevi”.
Intanto crollano del 75% in tre settimane le prime dosi di vaccino ant-Covid e ancora 2,7 milioni sono gli over 50 da vaccinare.
Mentre anche le terze dosi non decollano e al palo sono anche le forniture di vaccini: è quanto rileva oggi il monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe, che chiede un “cambio di marcia per contenere la quarta ondata”.
In particolare, rileva il report, dopo aver sfiorato quota 440 mila nella settimana 11-17 ottobre, in tre settimane il numero dei nuovi vaccinati è crollato del 75,4% attestandosi a 108.497 nella settimana 1-7 novembre. Di questi, il 72,2% sono persone in età lavorativa.
Oggi Paolo Rosi, responsabile della sorveglianza sulle Terapie intensive per l’Unità di crisi regionale del Veneto, racconta al Corriere della Sera che “dal primo maggio sono stati ricoverati 68 vaccinati e 442 no vax e purtroppo sono morti 27 pazienti che avevano assunto l’anti-Covid e 84 senza protezione”.
Sulle fasce d’età, Rosi dice che tra “60/69 anni hanno perso la vita un vaccinato e 27 no vax; tra i 50enni non ce l’hanno fatta due immunizzati e 14 no vax e sotto i 50 anni sono morti cinque pazienti senza copertura”.
“Il tasso di mortalità in Terapia intensiva è del 23%, un paziente non vaccinato su 4 perde la vita. Se il Covid colpisce over 60 non immunizzati, il rischio di danni permanenti e decesso è alto”, conclude in maniera eloquente il responsabile Terapie intensive.
(da agenzie)
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