Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
PD 20,8%, FDI 20,1%, M5S 16,2% , LEGA 15,5%, FORZA ITALIA 8,3%, AZIONE+EUROPA 3,7%
Secondo l’ultimo sondaggio di Quorum/YouTrend per Sky TgG24 i dem si attestano sul 20,8% e staccano Fratelli d’Italia di sette decimali. Il Carroccio soprassato dal M5s, mentre un ipotetico “grande centro” – frutto dell’unione tra Forza Italia, Azione, Italia viva e Coraggio Italia, arriverebbe al 15,2
La prima forza politica del Paese è il Pd, che supera la soglia dei venti punti percentuali. Secondo l’ultimo sondaggio di Quorum/YouTrend per Sky TgG24 , che si riferisce al periodo fra l’8 e il 10 febbraio 2022, i dem si attestano sul 20,8% e staccano Fratelli d’Italia di sette decimali.
Il partito di Giorgia Meloni, infatti, è al 20,1. Seguono i 5 stelle che col 16,2% supererebbero la Lega, sprofondata a quota 15,5%: quasi un punto di differenza.
Staccata Forza Italia, all’8,3 percento, seguita da Azione /+Europa che è al 3,7, Italia viva di Matteo Renzi al 2,3% e Coraggio Italia che sfiora il punto percentuale.
Un ipotetico “grande centro” dunque sarebbe al 15,2%.
Da segnalare che secondo YouTrend Italexit di Gianluigi Paragone è accreditato al 2,8%. Sotto la soglia del tre percento anche Sinistra Italiana (2,7%), Articolo Uno (2,4%), Verdi (2,2%).
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
GRADIMENTO GOVERNO AL 60%
La rilevazione si riferisce al periodo fra l’8 e il 10 febbraio 2022 e dunque prima delle dichiarazioni del premier, che ha negato interesse per un futuro in politica. All’esecutivo in carica viene assegnato un 60% di gradimento, più alto rispetto ai Governi Conte 1 e 2 ( 50% e 52%)
Secondo gli italiani il governo di Mario Draghi arriverà a fine mandato. Ma non solo: il 43% degli intervistati dice di essere favorevole a un governo di larghe intese guidato dallo stessp Draghi dopo le prossime Politiche, mentre il 37% è contrario a un’ipotesi simile. E’ quanto emerge dal sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca Quorum/YouTrend per Sky TgG24
La rilevazione assegna all’esecutivo in carica un 60% di gradimento, più alto rispetto ai Governi Conte 1 e 2 ( 50% e 52%). Il 56% del campione intervistato è inoltre convinto che il Governo arriverà a fine mandato, mentre il 43% si dice favorevole ad un ipotetico nuovo governo di larghe intese con a capo l’ex banchiere centrale.
Dopo la seconda elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica, il sondaggio ha indagato anche la tenuta della maggioranza che sostiene il Governo Draghi ritenuta solida come e più di prima dal 42% degli intervistati. Nel dettaglio, è ritenuta tale per il 53% degli elettori di centrosinistra, per il 49% degli elettori del centrodestra e per il 48% degli elettori del M5S.
Per quanto riguarda il giudizio sui vari ambiti d’intervento, il 71% degli intervistati dà voti superiori al 6 per quanto riguarda la campagna vaccinale.
Seguono Green pass, gestione fondi Pnrr e ripresa economica. Meno successo hanno avuto le politiche in tema di scuola. creazione di nuovi posti di lavoro, inflazione e aumento dei prezzi, energia e caro bollette.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
MA E’ INIZIATO LO SCONTRO FINALE
Che tra Conte e Di Maio, là in cima ai 5 stelle, uno sia di troppo è evidente da almeno un anno, da quando nacque il governo Draghi su spinta dei governisti del ministro degli esteri e contro le resistenze degli orfani dell’esperienza precedente.
E così per dodici mesi: con Di Maio come un pesce nell’acqua dell’attuale esecutivo e l’ex premier e i suoi sostenitori di lato, a rivendicare l’eredità e a sollevare dubbi.
Lo showdown sul superbonus 110%, misura-bandiera del Movimento e del Conte2, apertamente criticata da Draghi e Franco, e difesa a spada tratta da Fraccaro, Buffagni e dal ministro Patuanelli, nel silenzio di Di Maio, è solo l’ultima fotografia di una situazione esplosiva
Nelle stesse ore una voce velenosa attribuiva al ministro degli esteri, ex capo politico, una qualche responsabilità nel non aver disinnescato la bomba a orologeria poi esplosa con l’ordinanza di tribunale di Napoli, che accogliendo il ricorso di alcuni iscritti di fatto ha decapitato il vertice del M5s, e cioè Conte. Repubblica ha titolato stamattina: «I sospetti di Conte, Di Maio sapeva come fermare il ricorso».
La smentita dell’ex premier è stata dura e netta. Anche perché la due giorni di Beppe Grillo a Roma ne ha rafforzato la posizione, e Conte non ha nessun interesse a rendere velenoso il duello con Di Maio, contando sul fatto di aver presto di nuovo il partito in mano. Ma i suoi sono inquieti, perché non riescono a leggere il gioco dell’altro duellante. Cosa ha in animo Giggino, e cosa ha in tasca? Chi sta dalla sua parte? Chi gli dà sponda?
La verità è che la frattura è politicamente insanabile dal “venerdì nero” che segnò la sconfitta (mai ammessa) di Conte nella partita del Quirinale.
Vale la pena di ricordare, orologio alla mano, cosa accadde. Erano le otto in punto della sera, l’ora dei tg, quando il capo politico annunciò, dieci minuti dopo Salvini, che l’Italia avrebbe avuto una donna presidente. Subito dopo Conte contattò Beppe Grillo, e gli confidò che l’accordo era chiuso sul nome di Elisabetta Belloni. Entusiasta, Grillo volle essere il primo a esplicitare il nome, e lanciò quel tweet-boomerang, alle 21.34: «Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #Elisabetta Belloni». Tre quarti d’ora dopo una secchiata di acqua gelida si rovesciò su Conte e Grillo, sotto forma di una nota firmata Luigi Di Maio:
«Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso. Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza di governo. Tutto ciò, inoltre, dopo che oggi è stata esposta la seconda carica dello Stato. Così non va bene, non è il metodo giusto».
Belloni disse addio al Quirinale, e cominciò il duello finale…
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA CRISI MOSCA-KIEV IN OTTO DOMANDE E RISPOSTE
Come nasce la crisi? Il conflitto tra Mosca e Kiev vedrà davvero l’invasione
dell’Ucraina da parte della Russia o è un bluff di Putin nel suo disegno geopolitico? Quale ruolo per l’Europa? Abbiamo provato a rispondere ad alcuni degli interrogativi di queste ore
L’escalation della crisi russo-ucraina sembra non arrestarsi: la Russia ha ammassato nelle ultime settimane circa 135mila soldati ai confini e nelle aree occupate. Le esercitazioni militari congiunte delle forze russe e bielorusse sono iniziate anche sul confine occidentale, vicino all’Ucraina e agli Stati Nato Polonia e Lituania. Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha lanciato l’allarme: l’aggressione russa all’Ucraina potrebbe avvenire in qualsiasi momento e potrebbe coinvolgere bombe e missili: «È probabile che inizi con bombardamenti aerei e attacchi missilistici che potrebbero ovviamente uccidere i civili». Molti analisti ed esperti continuano a ritenere quella in corso “solo” una guerra di parole e vedere nella strategia di Mosca un “bluff” per rafforzare le richieste avanzate (da anni) all’occidente. Ma nel frattempo le ambasciate di Regno Unito, Corea del Sud, Israele, Lettonia, Estonia, Stati Uniti, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Giappone e Italia hanno invitato i loro civili a lasciare immediatamente Kiev causa sicurezza. E l’ipotesi di un’invasione, dopo un momento di distensione che nei giorni scorsi aveva fatto intravedere uno spiraglio per il lavoro di diplomazie e negoziati, prende nuovamente piede.
Mentre a Kiev si parla di richiamare 2 milioni di riservisti, il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ha davanti a sé due opzioni: risanare i rapporti con l’Europa o andare avanti nelle sue pretese. Il segretario alla Difesa americana Lloyd Austin ha detto alla CNN che Washington ha ordinato ad altri 3mila soldati dell’82a divisione aviotrasportata di schierarsi in Polonia, unendosi ai 1.700 già presenti: dovranno, dicono gli Stati Uniti, aiutare i cittadini americani che potrebbero tentare di lasciare l’Ucraina. «Non c’è mai stato un momento in cui la mia comprensione della Russia – in 15 anni di reportage su Russia e Ucraina – è stata così in contrasto con quella degli Stati Uniti», scrive su Twitter Simon Shuster, giornalista della rivista Time. «Spero di avere ragione, e che loro abbiano torto». Sia il presidente Usa Joe Biden che quello francese Emmanuel Macron dovrebbero sentire al telefono Putin nelle prossime ore. Di seguito abbiamo cercato di riassumere in otto domande e risposte alcune delle questioni fondamentali relative alla crisi che preoccupa da giorni tutto il mondo.
1. Come nasce la crisi russo-ucraina?
L’Ucraina, i cui attuali confini sono relativamente giovani, è un Paese dalla storia eterogenea e complessa, ben raccontata anche dall’evoluzione della cultura e della religione nell’area. Oggi nel Paese la lingua ufficiale è l’ucraino, ma la maggior parte della popolazione è perfettamente bilingue e nelle zone a sud-est, più o meno dichiaratamente filo-Mosca, nonché nel Donbass con i due stati separatisti non riconosciuti – la Repubblica popolare di Donetsk e la Repubblica popolare di Luhansk – il russo continua a essere la prima lingua. Lo stesso nazionalismo ucraino oggi ne ricorda le origini: culla della cultura russa moderna, con il Paese che dal IX secolo d.C. è stato il nucleo della Rus’ di Kiev, Stato monarchico medievale nato lungo le sponde del fiume Dnepr e che si estendeva fino alla Bielorussia e alla Russia. Qui domina ancora oggi la chiesa ortodossa, affiliata al patriarcato di Mosca, sancendo di fatto la comunanza di valori con la madre Russia. Repubblica dell’ex Unione Sovietica dal 1923 fino al 1991, l’Ucraina era il “granaio dell’URSS”. Dall’indipendenza, appunto nel ’91, in poi i suoi rapporti con Mosca sono stati complessi anche a causa, ricorda l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), «di un’alternanza tra governi più filo-russi e altri più vicini all’Occidente (seppur nel quadro di una politica multivettoriale volta a sfruttare la rivalità tra i due schieramenti), come quello di Viktor Juščenko, nato dopo la “rivoluzione arancione” di fine 2004, o quello attuale guidato da Volodymyr Zelenskji».
L’Ucraina, insomma, resta sospesa tra Unione Europea e Russia, e avanzano le divisioni interne. Nel 2014 scoppia quella che viene conosciuta a livello internazionale come “crisi di Crimea”. La popolazione della penisola di Crimea, presa sotto il regno di Caterina II, «russificata ed eletta ad hub strategico fondamentale dagli zar», ricorda ancora l’Ispi, e poi ceduta da Nikita Krusciov nel 1954 all’Ucraina per questioni di politica interna, è per maggioranza di etnia russa: nel 2014 viene separata nuovamente da Kiev dopo che, a febbraio di quell’anno, l’allora presidente ucraino Viktor Janukovyč e il suo governo vengono esautorati in seguito alle violente manifestazioni pro-europee dell’Euromaidan, contrarie alla svolta filorussa che ne aveva caratterizzato l’operato: al suo posto arriva un governo filoeuropeo non riconosciuto da Mosca. Vladimir Putin risponde annettendo la Crimea e incoraggiando la rivolta dei separatisti filorussi nella parte sud orientale del Paese. Un referendum organizzato dal governo locale crimeo vede l’opzione indipendentista vincere con più del 95% dei voti: Unione europea, Stati Uniti e altri 71 Paesi dell’Onu – al contrario della Russia – non ne hanno mai accettato l’esito, ritenendolo in violazione del diritto internazionale e della Costituzione dell’Ucraina.
2. Perché proprio adesso?
Nelle scorse ore due navi da guerra russe sono arrivate nel porto di Sebastopoli in Crimea: la Georgiy Pobedonosets e la Pyotr Morgunov. E un’esercitazione su larga scala, con più di 30 navi della marina russa, è iniziata nel Mar Nero. L’Ucraina protesta ma il Cremlino spiega di volersi tutelare da un allargamento della Nato ad est: e il porto di Sebastopoli, base della Marina russa e della Flotta del Mar Nero, era ed è un nodo cruciale per Mosca a livello militare. Dopo il collasso dell’Urss, l’espansione della Nato ha incluso anche Paesi che la Russia storicamente considera parte della sua sfera di influenza. Che l’Ucraina entri davvero nella Nato nel futuro prossimo resta un’ipotesi poco realistica a detta di molti osservatori. Se ne parla almeno dal 2008, ma l’Alleanza atlantica non può accettare nuovi membri coinvolti in conflitti. Inoltre, per l’ammissione, all’Ucraina è richiesto di mettere in campo una efficace lotta alla corruzione e avviare un percorso di riforme politiche e militari. Di certo però il Paese dal 2014 ha ricevuto 2,7 miliardi di dollari di aiuti dagli Usa. Ed è, spiega Vox, un palcoscenico per la Russia per cercare di riaffermare la sua influenza in Europa e nel mondo, e per il presidente russo Vladimir Putin per cementare la sua eredità. Putin infatti rivendica apertamente il «diritto storico» di Mosca su Kiev e parla di Russia e Ucraina come «una nazione».
3. Quanto è probabile un conflitto?
L’Ucraina condivide con la Russia un confine di 2.200 chilometri. I soldati schierati da Mosca la circondano ora su tre lati: sul confine orientale dell’Ucraina, vicino alla regione separatista e filorussa del Donbass, in Crimea e in Bielorussia, ufficialmente per un’esercitazione congiunta con Minsk. Sulla carta Mosca ha ora in campo forze sufficienti almeno per conquistare il Donbass – non abbastanza, probabilmente, per l’invasione dell’intero Paese. Il premier britannico Boris Johnson ha parlato nei giorni scorsi dell’ipotesi di una «guerra lampo» per conquistare la capitale Kiev ma il sospetto, da più parti, è che Putin stia di fatto bluffando per alzare la posta con l’Occidente per il suo lungo elenco di richieste che vanno oltre l’Ucraina. Il numero di vittime di una guerra, anche tra i civili, è potenzialmente molto elevato e lo stesso popolo russo non sarebbe favorevole al conflitto: a detta del New York Times, potrebbe portare fino a 50 mila morti tra i civili e 33 mila tra i soldati.
4. Qual è la posizione degli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti hanno parlato di sanzioni in caso di invasione dell’Ucraina, che a sua volta ne ha chiesto invece di preventive. Sull’entità, comunque, pesa il disaccordo con gli alleati europei della Nato, che nel caso subirebbero le più pesanti ripercussioni. Paolo Magri direttore dell’Ispi, parla di «guerra di parole» americana: «Escalation, colpo di stato, invasione, l’invito a lasciare il Paese. È la risposta della Casa Bianca all’altra escalation: quella di uomini, armi ed esercitazioni sul terreno messa in campo dalla Russia attorno all’Ucraina». E vuole dare, per Magri, «il senso di un’America che prende sul serio la minaccia ed è pronta a reagire con fermezza, nonostante Biden abbia già escluso l’ipotesi più estrema: il coinvolgimento militare Usa o Nato per sostenere l’Ucraina attaccata». La «guerra di parole», per il direttore dell’Ispi, ha quindi tre obiettivi: «Rafforzare la posizione Usa nel negoziato, che continua. Mostrare agli americani un Biden forte e determinato, riducendo lo spazio dei repubblicani nell’attaccarlo come inadatto ad affrontare crisi. Lanciare un messaggio chiaro alla Cina su future tensioni con Taiwan». Ma le guerre di parole «surriscaldano il clima, accendono le opinioni pubbliche e danno agio a Mosca di parlare di “pericolosa retorica da Guerra Fredda”». E «rischiano di complicare invece che aiutare. Di dare ragione a chi sostiene che può ferire più la lingua che la spada». E oggi il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dice: gli avvertimenti degli Stati Uniti su una possibile invasione russa dell’Ucraina «causano il panico».
5. Qual è la posizione della Russia?
Nel 2021 la Russia ha presentato agli Stati Uniti una lista di richieste: la Nato, per Mosca, deve fermare la sua espansione verso est, negare l’adesione all’Ucraina e annullare il dispiegamento di truppe nel blocco di Paesi – da quelli baltici ai Balcani, ovvero buona parte dell’Europa orientale – che si sono uniti dopo il 1997. Ultimatum rigettati da Usa e Nato e definiti da Michael Kofman, direttore della ricerca nel programma di studi sulla Russia presso la CNA, un’organizzazione di ricerca e analisi ad Arlington, in Virginia, «un tentativo non solo di assicurarsi l’interesse in Ucraina, ma essenzialmente di riconsiderare l’architettura di sicurezza in Europa».
Gli Stati Uniti e l’Europa hanno «ignorato» le richieste della Russia sulla sicurezza, dice oggi il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov al segretario di stato americano Antony Blinken in un colloquio telefonico secondo quanto dichiara una nota di Mosca. Per Lavrov le affermazioni di Washington su un’invasione russa dell’Ucraina sono delle «provocazioni» e un modo di fare «propaganda» anti-russa.
6. A che punto sono i negoziati?
Al momento, dice il dipartimento di Stato Usa, solo il 6% dei confini russi tocca Paesi dell’Alleanza Atlantica. Ma la Nato doveva evitare di avvicinarsi così alle frontiere con Mosca? Ascoltare Putin ora potrebbe dargli il potere di intervenire nei processi decisionali della Nato e sulla sicurezza europea? La via diplomatica «resta aperta», dice oggi Blinken a Lavrov. Ma è necessaria una «de-escalation». In un’intervista a Qn l’ambasciatore Ettore Sequi, segretario generale della Farnesina, invoca «fermezza sui principi ma apertura e disponibilità al dialogo con Mosca». «Riteniamo che ci sia spazio per la diplomazia. La posizione comune è di rimanere fermi sui principi dell’integrità territoriale dell’Ucraina e del suo diritto di determinare il proprio destino in termini anche di alleanze, ma allo stesso tempo vogliamo mantenere la porta aperta al dialogo con la Russia», dice Sequi.
Nelle scorse settimane i negoziati, definiti «non semplici», hanno visto un nulla di fatto nei colloqui di Parigi tra i consiglieri politici di Russia, Ucraina, Francia e Germania. La «base del lavoro» resta negli accordi di Minsk, il cessate il fuoco firmato da Mosca e Kiev nel 2015 che prevedeva anche le elezioni nelle regioni separatiste e il ritiro delle forze filo russe. Un protocollo mai del tutto implementato. In un colloquio telefonico, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha invitato il segretario di Stato Usa Blinken a «prendere sul serio» le «ragionevoli preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza». La Cina infatti guarda con attenzione alla crisi russo-ucraina e alle reazioni dell’Occidente: sta infatti valutando i rischi di reincorporare Taiwan. Dalla Germania è arrivato l’avvertimento sulle possibili sanzioni alla Russia, che coinvolgerebbero anche Nord Stream 2, il gasdotto che trasporta il gas naturale dai giacimenti russi alla costa tedesca: 1230 km sotto il Mar Baltico, è il più lungo gasdotto del mondo pensato per potenziare il gas già fornito dalla Russia all’Europa e raddoppiare il tracciato del già esistente Nord Stream, parallelo al nuovo progetto. «Se la Russia invade l’Ucraina in un modo o in un altro, il gasdotto Nord Stream 2 non andrà avanti», ha detto nei giorni scorsi anche il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price. Completato a fine 2021, non è ancora in funzione. Osteggiato dagli Usa da sempre e voluto da Germania e Russia, il suo percorso evita gli Stati baltici, i paesi di Visegrad (ovvero Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria), l’Ucraina e la Bielorussia, spuntando loro le armi nelle negoziazioni con Mosca. D’altro canto, il 40% del gas europeo arriva da Mosca: la Russia vuole dimostrarsi un interlocutore commerciale affidabile, ma se dovessero arrivare le sanzioni Nato potrebbe minacciare una riduzione delle forniture che avrebbe un impatto diretto sull’Europa.
7. Qual è il ruolo dell’Unione europea nel conflitto?
Da Euromaidan in poi l’Ucraina appare sempre più vicina all’Europa, e la spinta arriva anche dalle generazioni più giovani. L’attuale presidente Volodymyr Zelensky, eletto nel 2019, è vicino all’Occidente. Nei giorni scorsi il capo della diplomazia dell’Unione europea Josep Borrell ha spiegato di non ritenere il rischio di un’invasione russa imminente. Nella notte, Björn Seibert, capo di gabinetto della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Usa, hanno avuto un colloquio telefonico in cui si è parlato del «coordinamento transatlantico nella preparazione di un robusto pacchetto di sanzioni che andrebbe applicato rapidamente in caso di ulteriore aggressione militare dell’Ucraina da parte della Russia», dicono dalla Commissione europea.
E si è parlato anche, a proposito di gas, «della partnership Ue-Usa sulla sicurezza energetica» e dei passi da fare «in caso di interruzione delle forniture per l’Europa».
8. Come viene percepita la crisi in Ucraina?
Dal governo ucraino, in questi giorni, è arrivato l’appello alla popolazione a mantenere la calma e di evitare il panico. «Al momento è cruciale restare calmi, uniti all’interno del Paese, evitare azioni destabilizzanti e che creino il panico», si legge in una nota del ministero degli Esteri. Il panico è il «migliore amico» dei nemici dell’Ucraina, dice ancora oggi Zelensky secondo quanto riporta la Cnn dopo aver assistito ad esercitazioni militari nei pressi di Kherson, nel sud del paese. Deve «analizzare tutte le informazioni» sulle minacce ai confini, dice, e «la verità è che abbiamo informazioni diverse». Il pericolo di un’invasione, almeno fino a qualche giorno fa veniva accolto tra le strade di Kiev – ma anche nei Paesi vicini alle frontiere – con un misto di incredulità e rivendicazione. «Se dovessero arrivare, siamo qui». Ma ora la tensione sembra salire. E non sono poche le persone ad avere pronta una valigia per poter scappare da un momento all’altro. Di certo la storica «amicizia tra tre popoli fraterni» – russo, ucraino e bielorusso – sembra ora un ricordo lontano.
(da Open)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
SE NON PRESIEDI QUALCOSA SEI UNO SFIGATO
Semel presidente, semper presidente. Variante repubblicana della regola benedettina. «Presidente!», si sente chiamare nel centro di Roma. «Si girano in quindici», esordisce Michele Ainis, costituzionalista pop, nel saggio Presidenti d’Italia. Atlante di un vizio nazionale (La nave di Teseo, 224 pp). Non solo in quindici.
Non solo a Roma. L’Italia è una Repubblica di presidenti, «della più varia risma: ogni autorità pubblica ne ha uno, spesso più di uno». E come la dignità di abate, anche il titolo di presidente resta a vita, a decenni di distanza dalla cessazione della carica. Tanto che, per distinzione, è ormai invalso il «supertitolo» di presidente emerito, sebbene mandasse su tutte le furie il dimissionario presidente della Repubblica Giovanni Leone. «Sapete come si dice a Napoli? Emerito stronzo!», protestava con gli addetti al cerimoniale.
Il saggio di Ainis dalla dottrina giuridica e dalla politologia sconfina nell’antropologia. La famelica antropologia dei «posti da presidente, tanti come gli appetiti perché c’è un’intera nazione da sfamare». Senza concorso: per le presidenze vale la regola ruffiana della nomina, del circuito ristretto, delle conventicole come denunciava un inorridito Sergio Castellitto nel film di Virzì Caterina va in città (Roma, ça va sans dire). E dire che «la malattia presidenziale non accompagna la storia italiana dai suoi albori. È un fenomeno più tardo, un disturbo dell’età senile».
Nell’antica Roma il presidente del Senato era chiamato Princeps senatus. Di presidenti se ne trova traccia per la prima volta in Boccaccio, nel XIV secolo, ma con eccezione di leadership di gruppo. Oggi «il culto del presidente è diventato una religione nazionale». Frutto (degenerato?) della democrazia pluralistica.
Molte istituzioni, molti incarichi, un potere diviso e quindi reciprocamente controllato. Ma anche fabbrica di competenze sovrapposte, ambiguamente deresponsabilizzanti. Tutti generali senza truppe, in un paese in cui qualche anno fa la Corte dei conti stimava quasi 240mila dirigenti pubblici, quanto l’intera popolazione di Venezia.
Almeno 70714 presidenti
Quanti sono dunque gli italiani che possono a buon diritto girarsi di scatto sentendo chiamare «Presidente!» in via del Corso?
La ricerca di Ainis, condotta con Andrea Carboni, Antonello Schettino e Silvia Silverio, arriva a contarne 70174 «ma è un numero approssimato per difetto giacché il censimento non comprende una miriade di istituzioni minori, che altrimenti l’avrebbero trasformato in una biblioteca di Babele, senza inizio e senza fine».
In questo «paesaggio multiforme, spesso abitato da creature eccentriche e bislacche», Ainis sguazza come un bambino il primo giorno di mare, incasellando i presidenti in una galleria di profili (comprensivi di poteri, staff e stipendi) non di rado simile a un bestiario repubblicano che costa al contribuente 390 milioni di euro l’anno.
Dagli 11,36 euro di indennità mensile lorda del presidente del tribunale regionale delle acque pubbliche ai 432mila euro annui del presidente della Corte costituzionale. Troppi soldi, troppi posti, troppe leggi: è la malattia del troppo, della superfetazione che incrina la solidità delle istituzioni.
Dall’Aeroclub al Colle
Altro che Quirinale: l’Italia dei presidenti non si staglia sugli alti colli, ma sopravvive negli interstizi del potere. Negli anfratti meno illuminati si scrive quotidianamente un’autobiografia nazionale. Aero Club d’Italia, prima voce del dizionario presidenziale di Ainis: ente di promozione delle attività aeronautiche a carattere turistico-sportico, istituito nel 1911, ente morale sotto il fascismo, dal 1954 ente pubblico.
Primo presidente Ludovico Spada Veralli Potenziani, futuro governatore di Roma e senatore del Regno. Mandato presidenziale di 4 anni, rinnovabile due volte. Quindi in tutto massimo 12 anni. Nel 2018 Giuseppe Leoni, ex presidente ed ex commissario che aveva cumulato ben 17 anni di mandato, fu commissariato (il commissario commissariato!) dal governo.
Ne seguì una polemica furibonda, con inevitabile strascico giudiziario fino al Consiglio di Stato. E dire che l’incarico di presidente è a titolo gratuito, mentre quello di direttore generale (indicato dal presidente) vale 128 mila euro annui. Bizzarria? No, sovente regola.
Con paradossi come quello dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa, negli ultimi due anni diventata centrale nella lotta al Covid), dove il presidente non riceve emolumenti, trattandosi di un professore universitario in pensione, mentre il direttore generale nel 2016 aveva percepito la bellezza di 647mila euro.
La Repubblica presidenziale (nel senso patologico di Ainis) è anche una immaginifica fucina di acronimi: Ales, Ansv, Anvur, Arera, insieme ai più noti Anac, Anpal, Anas, Anci, Apt, Aran e Art per citare solo quelli di una pagina del libro. Sarebbe interessante un quiz tra i parlamentari: quanti saprebbero indicarne l’esatto significato? Eppure ogni sigla ha una storia, una struttura, un perimetro di competenze, una carta intestata, un usciere e naturalmente un presidente.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
IL LANCIO DELLA MASCHERINA IN ARIA AL GRIDO DI “VIVA LA VIDA“
Ieri l’infettivologo televisivo Matteo Bassetti, nell’abituale percorso da casa
all’ospedale San Martino di Genova, ha aspettato di trovarsi nei pressi di una siepe e colà, letta l’ultima circolare ministeriale, si è trovato nell’impellenza di liberarsi della mascherina FFP2 lanciandola in aria.
Fortuna che chi passeggiava nel parco con lui ha immortalato lo storico gesto con uno scatto, subito postato su Instagram dal professore-influencer: atletico, in fresco di lana e cravatta rossa da collegamento con Barbara D’Urso, egli appare nell’atto che testimonia l’impossibilità di infettarsi all’aperto ex lege a partire dall’11.02.2022, non si sa bene a che ora.
Una scritta al neon celeste, da concorrente in pectore di Ballando con le Stelle, dice: “Viva la Vida”.
La didascalia è da manuale dei “normalizzatori del virus”: “Oggi finalmente lanciamo via (sic, ndr) l’obbligo delle mascherine all’aperto nell’attesa di farlo anche al chiuso… Bisogna tornare a uscire a cena, a viaggiare, a divertirsi, a ballare e a pensare al futuro in maniera positiva (sic, ndr). Viva la vita!!!!”.
Bassetti è quello che a giugno 2020 disse: “Non credo che avremo una seconda ondata”, che ingiungeva in Tv: “Basta terrorismo”, che a settembre voleva riempire le discoteche al 100% (“Ideologico il no alla riapertura”), che alla quarta ondata è diventato mezzo rigorista per poi ridiventare lassista, ancora più discotecaro e amante della vita (mentre, si sa, chi indossa la mascherina la odia), in simultanea col prevedibile “Sto pensando di entrare in politica” (avesse chiesto a noi, lo avremmo dato per certo già a maggio 2020) e alla nuova profezia: “A primavera saremo fuori dalla pandemia” (il che, ipso facto, diminuisce le probabilità che ciò accada).
Il nostro sistema immunitario è stato sollecitato tre volte contro il virus e speriamo funzioni, ma chi ci salva dal degrado deontologico e pure estetico di questa stagione? E, soprattutto, dai 4 punti esclamativi?
(da Il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
UNO PUO’ ANCHE PRENDERE UN NOBEL E POI SOSTENERE TESI CAMPATE IN ARIA, SE NE FACCIANO UNA RAGIONE
Giovedì pomeriggio è arrivata l’ufficialità di quella notizia rilanciata il giorno prima dal quotidiano France Soir. Il premio Nobel per la Medicina del 2008 Luc Montagnier è morto all’età di 89 anni.
Il medico, dopo esser apparso di recente in Italia per partecipare a una manifestazione contro il Green Pass (e il vaccino anti-Covid) a Milano insieme a Gianluigi Paragone, era sparito dalla circolazione e da giorni non si sapeva più nulla di lui.
Poi una serie di voci e la conferma del suo decesso. Una morte raccontata così da Famiglia Cristiana sui social.
“È morto a 89 anni Luc Montagnier, Premio Nobel per la Medicina nel 2008 per le sue ricerche sul virus dell’AIDS. Negli ultimi tempi si era distinto per prese di posizione polemiche e senza basi scientifiche”.
L’ultima frase che accompagna il tweet del settimanale di ispirazione cattolica ha fatto arrabbiare e non poco i no vax sui social che si sono scagliati contro Famiglia Cristiana per aver messo in evidenza come il Premio Nobel, di recente, si sia reso protagonista di posizioni smentite dalla scienza sui vaccini.
Posizioni che lo hanno reso un personaggio di riferimento per la fronda no vax a livello mondiale.
In tanti, infatti, hanno deciso di affidarsi alle sue teorie facendo riferimento a quell’onorificenza ottenuta con merito nel 2008 per i suoi studi e le ricerche sull’AIDS e il virus HIV. E se molti hanno criticato la scelta di Famiglia Cristiana, altri sottolineano come la vittoria di un premio Nobel possa essere in linea anche con successive (parliamo di 14 anni fa) teorie errate.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA MORAL SUASION DI DRAGHI SU MATTARELLA NELLE ORE CONCITATE DEL VOTO SUL QUIRINALE
Da ieri restano orfani quanti speravano di fondare un partito di Draghi senza Draghi,
trasformando il premier in un brand per il loro merchandising elettorale. Ma se l’ex capo della Bce non sarà di nessuno, è perché fino al 2026 sarà di tutti.
Il voto dell’attuale Parlamento sul Pnrr ha posto infatti un’ipoteca sul futuro Parlamento, siccome il Piano – in base ai trattati – rappresenterà la parte più rilevante del prossimo governo e avrà un valore vincolante per le Camere, le Regioni, persino per la Pubblica amministrazione.
Così anche quanti vogliono sbarazzarsi del premier e non vedono l’ora di riprendersi ciò che considerano loro, saranno costretti a fare i conti con la sua eredità. Perciò ieri Draghi ha fatto Draghi. Escludendo un impegno politico durante e dopo il voto, è rimasto agganciato al suo ruolo istituzionale. E tenendosi lontano dalle beghe dei partiti ha iniziato a proteggere il suo governo dalle beghe che verranno in campagna elettorale.
D’altronde, fin dall’inizio della sua esperienza si mostrò guardingo davanti alle espressioni festanti che il Palazzo gli tributava: «Anche di una colf si dice bene nei primi sette giorni», sorrise con una delle sue solite battute. Con il passare del tempo ebbe contezza di essere vissuto «con fastidio» dai partiti e il passaggio del Quirinale è stato emblematico.
Al di là degli errori commessi nella vicenda – anche per l’assenza di un regista politico che gli evitasse un’esposizione diretta – Draghi è rimasto amareggiato per il fatto che non gli sia stato riconosciuto il ruolo svolto proprio nell’ultimo tornante della corsa per il Colle: quando cioè rappresentò a Mattarella il «pericoloso livello di confusione» che si era prodotto e gli chiese di rivedere i suoi progetti personali.
«Cosa faresti al mio posto?», gli domandò il capo dello Stato. «Dovresti restare». Adesso – come racconta un autorevole ministro – «è tornato sulla palla, perché è suo e nostro interesse che l’azione di governo vada a buon fine».
Per farlo, Draghi ripropone il metodo applicato fin da quando è entrato a palazzo Chigi: se c’è qualcosa che non va, lo dice. In passato ha fatto così con Letta e più volte con Salvini. Ieri è stato il turno di Conte e dei grillini, additati per le falle nel progetto del superbonus che hanno prodotto «azioni fraudolente per oltre due miliardi». E poco gli importa se i Cinquestelle siano insorti: la sua priorità è tutelare la crescita del Paese minacciata da quelle nuvole nere di cui aveva parlato con il presidente della Repubblica: la fiammata inflattiva e il balzo dei costi dell’energia, che minano la ripresa. Immaginando di diventare sempre più il bersaglio dei partiti con l’avvicinarsi delle urne, Draghi ha preso ad attaccare per difendersi e portare a compimento il progetto del Pnrr: la sua vera scommessa.
Ecco il motivo per cui ha reagito dinnanzi all’ennesima punzecchiatura, stavolta giunta da Tajani. Tra i due ci sono vecchie storie tese, risalgono alla formazione del governo, quando il premier non accolse la richiesta di Berlusconi d’inserire il dirigente forzista nella lista dei ministri. «Non posso farlo, perché lui è un leader di partito», spiegò Draghi. «Il leader sono io», rispose piccato il Cavaliere. Ieri Tajani, parlando dell’ex capo della Bce, ha detto di vederlo come «un eccellente presidente del Consiglio europeo o della Commissione europea». Una sorta di promoveatur ut amoveatur.
«Ringrazio i molti politici che con straordinaria sollecitudine mi candidano per tanti posti», ha replicato Draghi: «Ma se decidessi di trovarmi un lavoro lo farei da solo». Il modo tranciante con cui ha sgombrato il campo da ogni futura prospettiva politica – «lo escludo, sono stato chiaro?» – rende di fatto impraticabile qualsiasi ipotesi che possa immaginarlo ancora a palazzo Chigi.
Draghi tiene al suo profilo istituzionale. E un conto è aver fatto il presidente del Consiglio perché chiamato dal capo dello Stato a formare un gabinetto di emergenza nazionale «senza colore politico», nel finale di una legislatura.
Altra cosa sarebbe guidare subito dopo le elezioni un gabinetto retto da una maggioranza parlamentare, pure se fosse di larghe intese. Il rapporto con i partiti sarebbe diverso, anche in Consiglio dei ministri: dove da primus super pares, che è il suo status attuale, diverrebbe un primus inter pares. Insomma, gli orfani di Draghi si dovranno rassegnare a non poterlo strumentalizzare.
Gli altri potranno prepararsi a sostituirlo con un «premier politico», sapendo tuttavia che dovranno muoversi nel solco delle scelte fatte dall’attuale governo. In questo senso va interpretato il tour per l’Italia che il premier ha iniziato, e che serve – spiega un rappresentante dell’esecutivo – a «rafforzare la sua immagine nell’anno di campagna elettorale». Perché i partiti – per quanto malmessi – stanno già iniziando la competizione. E la sfida si giocherà attorno al perimetro di palazzo Chigi. Oggi con la riforma del Csm, domani con la Finanziaria.
(da il Corriere della Sera)
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Febbraio 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI SI SMARCA DALLA CONSULTAZIONE REFERENDARIA (PUR CONDIVIDENDO 4 DEI 6 QUESITI SULLA GIUSTIZIA): “LE RIFORME LE FACCIA IL PARLAMENTO”
Le parole di Giuliano Amato sono un raggio di sole nell’orizzonte referendario. Martedì la Consulta si esprimerà sui sei quesiti sulla giustizia promossi da Lega, Radicali e nove consigli regionali governati dal centrodestra e le parole del neo presidente sembrano una buona premessa: «Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile, il voto popolare», ha detto salutando gli assistenti di studio, aggiungendo poi, «è banale dirlo ma i referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare ad ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino».
Quello che deciderà la Consulta non si sa, ma intanto Matteo Salvini ringrazia Amato «per il suo manifestato impegno a consentire il voto dei cittadini sui referendum, a partire da quelli importantissimi sulla Giustizia, evitando scorciatoie tese a ostacolare questo percorso di democrazia». Il segretario della Lega conclude così: «Sarebbe grave se qualcuno pensasse di ostacolare o rallentare una urgente, necessaria e condivisa riforma della giustizia». Il messaggio di Salvini potrebbe avere più destinatari, chi può «ostacolare» la consultazione popolare?
Ovviamente i giudici della Consulta, ma non solo. Matteo Renzi dice che voterà sì, «ho firmato nel nome di Enzo Tortora», ma nel centrodestra, «sciolto come neve al sole» (copyright Salvini), c’è qualcuno pronto a intraprendere anche in questo campo strade diverse: Fratelli d’Italia, pur condividendo la maggior parte dei quesiti, non sembra intenzionato partecipare alla campagna referendaria in primavera.
Giorgia Meloni, che ha firmato quattro dei sei quesiti di Lega e Radicali, ha una strategia diversa: «Troviamo incomprensibile che questi temi, nell’acclamazione trasversale del discorso di Mattarella, non possano trovare rapida soluzione legislativa in Parlamento, facendo risparmiare centinaia di milioni di euro agli italiani», ha detto in un’intervista a La Stampa. Da qui la mossa: «Depositeremo in questi giorni una mozione in tal senso e vedremo chi ci sta o meno».
In sostanza Fratelli d’Italia vuole impegnare il governo a legiferare, accogliendo i quesiti (esclusi quelli sugli abusi della carcerazione preventiva e sull’abolizione della legge Severino) evitando di ricorrere alle urne, «se tutti sono d’accordo come dicono, votiamo in parlamento – dice Andrea Delmastro, responsabile giustizia di FdI -. Il nostro non è un boicottaggio del referendum, anzi, proprio quella prospettiva ha sortito un effetto positivo, sfruttiamolo».
Ma nella Lega questa posizione suscita molti sospetti, i referendum sono un’occasione troppo importante per rilanciare un’agenda riformatrice, per cancellare i brutti ricordi delle trattative del Quirinale e per lanciare la corsa verso le amministrative di primavera (il voto dei Comuni potrebbe coincidere con quello referendario).
Così tentare di far saltare l’appuntamento viene visto di fatto come un sabotaggio, anche perché «non c’è il tempo per affrontare queste materie – dice Jacopo Morrone, avvocato e deputato leghista, uno dei più attivi nelle raccolta delle firme la scorsa estate -, i referendum sono uno strumento utile perché consentono a tutti di potersi esprimere. Mi stupirebbe molto se qualcuno volesse boicottarli».
Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega, aggiunge: «I quesiti toccano questioni costituzionali, non si possono certo cambiare con un emendamento votato dal Parlamento». La sensazione di molti esponenti del Carroccio e di Forza Italia è che anche in questo caso Fratelli d’Italia voglia spaccare la maggioranza, mettendola davanti le proprie contraddizioni, viste le posizioni assai diverse tra centrodestra di governo e M5S (e in parte il Pd) su temi come la separazione delle carriere. Ora tocca alla Consulta, poi ci sarà tempo per dividersi.
(da La Stampa
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