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PUTIN È IN PIENA FASE PARANOICA: NON SI FIDA DI NESSUNO E NON SI MUOVE DALLA RESIDENZA ESTIVA DI NOVO-OGAREVO, PROTETTO DA MURA ALTE SEI METRI

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

HA UN ASSAGGIATORE DEL CIBO, NON ASCOLTA NESSUNO E SI SPAZIENTISCE SUBITO. QUANDO VUOLE PARLARE CON QUALCUNO PREFERISCE FARLO VIRTUALMENTE. COSÌ PUÒ BUTTARE GIÙ LA COMUNICAZIONE, COME HA FATTO QUALCHE GIORNO FA CON LA GOVERNATRICE DELLA BANCA CENTRALE, NABIULLINA, CHE GLI SPIEGAVA CHE L’ECONOMIA RUSSA STA ANDANDO “GIÙ PER LO SCARICO”

Il presidente russo Vladimir Putin non si fida degli elicotteri e preferisce muoversi in auto. Prima della guerra in Ucraina, il suo corteo passava sul Kutuzovsky Prospekt, il lungo rettilineo che conduce al Cremlino.
Circa un’ora prima, la strada veniva letteralmente sigillata dalle forze di sicurezza: davanti a ogni edificio c’era una guardia che impediva agli abitanti di uscire. Nessuno poteva avvicinarsi ai 18 veicoli, tra i quali c’erano una decina di limousine dai vetri oscurati e persino un’ambulanza.
Putin è sempre stato sospettoso, ma è diventato paranoico con la guerra in Ucraina, dicono gli osservatori del Pentagono e dei servizi di sicurezza britannici.
Ora non va quasi mai al Cremlino, sta sempre nella residenza estiva di Novo-Ogarevo a ovest di Mosca, un edificio tranquillo protetto da mura alte sei metri in una zona abitata da oligarchi e cantanti rock. Vive circondato da guardie del corpo e personale di servizio, compreso un assaggiatore del suo cibo.
Quando desidera parlare con qualcuno lo manda a chiamare, ma lo desidera sempre meno. Già con l’epidemia di Covid aveva scoperto la praticità delle conferenze in video, che non ti obbligano a sentire stupidaggini e a ribattere: quando non ne puoi più, chiudi il collegamento. Accade molto spesso, ormai.
a presidente della Banca Centrale, Elvira Nebiullina, gli aveva detto che la guerra stava mandando l’economia russa «giù per lo scarico», e lui ha cliccato sul tasto chiudi conversazione. Il capo negoziatore con l’Ucraina, Dmitri Kozak, gli aveva domandato il permesso di esprimere un parere personale, e lui ha risposto spegnendo il computer.
Non ascolta più nessuno: il primo ministro Michail Miustin gli stava parlando preoccupato dell’economia, e lui giocava con la penna. Tratta il capo di stato maggiore Valery Gerasimov come un aiutante e non come un consigliere, ed è molto duro con il ministro della Difesa Sergei Shoigu: sopravvissuto a tutti i cambiamenti politici dalla fine dell’Unione Sovietica, Shoigu sarà alla fine un capro espiatorio del pasticcio ucraino.
Putin continua a svegliarsi tardi, nuota in piscina, fa colazione e poi riceve i rapporti. Li vuole su carta, come ai tempi del Kgb. Prima quello del Sfv sulla situazione internazionale, poi quello del Fsb sullo stato delle cose in Russia e infine quello del Fso, dedicato agli oligarchi e ai nemici interni, figure che spesso coincidono.
Non ha pietà per i traditori. Pensa che in politica e in guerra combatti il nemico, ma poi ci fai la pace. Con i traditori la pace non puoi invece farla, devi solo spazzarli via. Gli ucraini sono traditori e vanno spazzati via, per creare la nuova Russia con la Bielorussia e passare alla storia per averlo fatto. Nel 2024 ci saranno le elezioni e Putin non vuole annoiarsi parlando di pensioni e costo della vita, vuole arrivarci da ri-conquistatore di una terra che apparteneva alla Russia.
Il professor Mark Galeotti, docente di studi sull’Est Europa all’University College London, ha scritto un approfondito articolo per il Daily Mail sulle paranoie di Putin e lo ha paragonato a Hitler chiuso nel bunker di Berlino, impegnato a dare ancora ordini ai suoi generali.
Alcuni storici inglesi si sono domandati se sarebbe stato meglio cercare di uccidere Hitler nei primi mesi della Seconda guerra mondiale, ma hanno concluso che se il paranoico Führer fosse stato ucciso, il comando militare sarebbe passato a qualcuno più competente, che forse avrebbe vinto la guerra.
Da questo punto di vista Putin potrebbe rivelarsi il miglior alleato degli ucraini, ma c’è sempre il pericolo che, messo alle strette dall’andamento del conflitto, decida di allargarlo alla Nato. In ottobre compirà 70 anni, è malato, e potrebbe diventare ancora più pericoloso. Ma Galeotti conta sul fatto che allora qualcuno a Mosca lo fermerà. Hitler era circondato da nazisti che lo adoravano: nessuno dei collaboratori di Putin sembra invece disposto a prendersi una pallottola per lui, e nessuno di loro piangerà quando uscirà di scena.
(da il Messaggero)

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DOMENICO QUIRICO: “AZOVSTAL È STATO UN GRAVE ERRORE DEGLI UCRAINI. AVER SACRIFICATO I COMBATTENTI PIÙ PUGNACI IN UNA DIFESA INUTILE E SENZA SPERANZA, INVECE DI FARLI FUGGIRE QUANDO ERA POSSIBILE”

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

“MA È IN PRIMO LUOGO UNA DISFATTA NELLA COMUNICAZIONE, LORO CHE FINORA L’HANNO UTILIZZATA CON PERIZIA”

Mescolo immagini, le sovrappongo e le confondo, ciò che importa non è contare le carcasse dei carri armati distrutti, i villaggi presi e perduti, le dichiarazioni dei politici, quello che conta è cogliere il senso segreto di questa guerra, mettere in luce il suo particolare inconfondibile carattere. Scelgo le immagini della resa ucraina a Azovstal e quelle di un villaggio a due passi del fronte dove sono rimasti donne vecchi e bambini che non sanno dove andare.
Allora tutto mi sembra più chiaro: questa è l’ennesima guerra della povera gente, in divisa e non, l’unica guerra vera nel mare delle bugie, la guerra e il dolore. Quelli di Azovstal, i vinti di Azovstal, terribile nome di ferro e di sangue. Adesso che è finita senza gloria ma soltanto con immenso, inutile sacrificio mi appare davvero una Giarabub ucraina: migliaia di uomini tagliati fuori dalla battaglia che conta, ma usati come propaganda, gli irriducibili… quelli che non si arrendono…che impediscono ai russi di avanzare.
Propaganda per nascondere errori strategici e sconfitta come quando ci inventammo, in Africa settentrionale, travolti dagli inglesi, la epica resistenza di una remota, inutile oasi libica che il nemico trascurava perché non valeva neppure la fatica di attraversare il deserto.
Adesso escono in lunghe file, si rovesciano fuori dalle macerie dei loro rifugi nella catacombe della acciaieria in gruppi stanchi, urtandosi disordinatamente prima di incamminarsi verso il nemico che li attende. C’è un immenso silenzio intorno, interrotto solo dai comandi dei soldati russi che ordinano di deporre gli zaini e di mostrare i tatuaggi alla ricerca di quelli del reggimento «fascista», e dal rumore del vento.
Le raffiche passano su quegli uomini esausti, feriti, umiliati come un’onda. I vinti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dalla dolce onda del vento.
In quel sibilo che sembra poter piegare non solo i fili d’erba ma anche i ruderi e rottami sparsi nella strada dove si svolge il rito della resa, il respiro, le parole rauche di vincitori e vinti assumono un suono grave. Ora che hanno perso la battaglia e sono lisi dalla fame e dalla fatica, avvolti in uniforme sporche e lacere li guardo: fronti dure, ostinate, sì sono una razza nuova, una razza dura, modellata già da otto anni di guerra.
Marciano poi ordinati, in doppia fila verso gli autobus che li porteranno via verso un destino molto incerto, marciano per fame, per stanchezza, per restare vicini ai loro compagni di ottanta giorni di agonia.
Con il passare dei giorni si dirada, tra quelli che si consegnano, il numero dei feriti che si appoggiano a stampelle di fortuna o sono trasportati dai compagni sulle barelle. Si direbbe che non soffrano, forse il dolore non può nulla su quegli animi distratti dallo strazio della sconfitta, su quegli animi assenti, segretamente assenti. Passano volti pallidi dalle grandi occhiaie di aizzati dalla fame, di una tristezza dura. Hanno l’aria più di meccanici al termine del pesante turno di lavoro che di soldati.
Ai russi alcuni volgono un sorriso così strano, così umiliato che quasi vorresti li guardassero con odio. Pensano alla loro solitaria, triste, disperata lotta sottoterra. Certo qualcuno a scuola ha letto la ritirata di «Guerra e pace», la ritirata nel bagliore degli incendi, sulle vie ingombre di fuggiaschi, di feriti, di armi abbandonate. Non questo è toccato loro.
Non c’è nel loro campo di battaglia nessun Andrea Wolkonski disteso nel grano, come nella motte fatale di Austerlitz. I loro morti immagino siano rimasti sepolti nelle catacombe: anonimi, segreti, invisibili. Mi sembra che le rovine dell’acciaieria dovrebbero mettersi a gridare, che da tutte le ferraglie e le strade e i raccordi ferroviari dovrebbe alzarsi un urlo. Invece c’è solo il sibilo del vento.
È questa una resa che lascia nell’aria la vuota, fredda, deserta atmosfera dei cortili delle fabbriche dopo uno sciopero fallito. Qualche indumento, qualche zaino abbandonato, qualche carcassa di binari o di capannoni. È logico sia così: in questa mischia di Mariupol la fabbrica, i suoi macchinari e recessi hanno agito come corpi vivi, quasi come persone e soldati. Un urto meccanico, industriale, acciaio contro acciaio, e la loro morte di uomini è così un fatto illogico, un assurdo.
I soldati di Azovstal fissano con uno sguardo pieno di stupore e di rimprovero i nemici che gettano fuori dai loro zaini stracci e oggetti che sull’asfalto cadono con leggeri rumori di metallo. Come se venissero a carpire un loro segreto, a profanare, toccando e gettando quelle povere cose, l’orrendo e sacro mistero della battaglia e della morte.
Quando si sfilano, a un ordine, le magliette e compaiono i tatuaggi, ecco: solo allora con l’uniforme sembrano aver perduto ogni sicurezza di sé. Quel silenzio perfetto sembra per la prima volta stupirli, allarmali. Non è lo stesso delle interminabili settimane sotto terra quando si attendeva l’inevitabile rombo del bombardamento. È un silenzio che sta per tradirli, che riserva terribili sorprese.
I russi, che devono aver ricevuto istruzioni severe, di interpretare bene questa straordinaria occasione di propaganda, si muovono, alcuni, interminabilmente pazienti e annoiati, altri svogliati e torbidi come a un noioso posto di blocco. Come se facessero un banale lavoro della guerra. Eppure si sente fischiare l’odio come l’acqua su un focolare rovente.
Azovstal è stato un grave errore degli ucraini. Aver sacrificato i combattenti più pugnaci in una difesa inutile e senza speranza, innanzitutto, invece di farli fuggire quando era possibile.
Ma è in primo luogo una disfatta nella comunicazione, loro che finora l’hanno utilizzata con perizia, a cominciare dal presidente.
Le sequenze di questi soldati vinti, esaltati per ottanta giorni come impavidi, invincibili eroi, la falsa metafora della «operazione umanitaria» con cui si è cercato di nascondere il disastro, pesano molto di più che le immagini delle carcasse dei carri armati o dei mezzi russi distrutti. Questi sono uomini vivi, i loro volti i loro corpi, i gesti parlano dolorosamente.
Un rottame di ferro non dice nulla, un uomo che si arrende è già un simbolo. Metto accanto le immagini degli abitanti di un villaggio del fronte, la telecamera gira tra le isbe di una povertà che sembra più antica e irrimediabile di qualsiasi guerra, anche di questa, c’è quasi visibile un odore di antica consunzione, bambini e donne e vecchi ci sbarrano gli occhi addosso, alcuni così magri che a toccarli verrebbe il timore di romperli. La guerra si è trasferita in loro.
Una nera, appassita mano di vecchio apre la porta della sua casa. I vetri fracassati, i buchi aperti dalle bombe nel tetto sembrano lì da sempre. Si sovrappongono immagini del 1941. Tolgo da quelle di oggi solo le ciabatte di plastica, i mitra dei soldati. Ecco i cinegiornali con le truppe italiane che avanzano nel bacino carbonifero del Donbass: gli stessi luoghi, le stesse isbe, la stessa paziente disperazione. Hanno creduto di aver pagato il loro debito con la storia una volta per sempre. Si sono ingannati. Una donna che ha figli piccoli ma è già vecchia, consunta, piangendo grida: restiamo qui perché non abbiamo altro luogo dove andare.
Domenico Quirico
((da La Stampa)

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“UCCISO IN UCRAINA IL NIPOTE DI UN VICEMINISTRO DEL CREMLINO”

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

LA NOTIZIA SUI MEDIA INDIPENDENTI RUSSI

L’ufficiale Adam Khamkhoev, nipote del viceministro della Difesa russo Yunus-bek Yevkurov, sarebbe stato ucciso la scorsa notte durante i combattimenti in Ucraina.
A riportare la notizia è il giornale indipendente russo Novaja Gazeta, che cita il media locale The Magas Times. Khamkhoev, faceva parte degli ufficiali di uno squadrone d’assalto aereo a guida dell’Inguscezia, la Repubblica russa da cui proveniva e di cui lo zio, il viceministro Yevkurov, era stato presidente.
Khamkhoev era il figlio della sorella del viceministro Yevkurov e, prima di combattere in Ucraina, si era diplomato alla Ryazanskoye Vozdushno-Desantnoye Komandnoye Uchilishche (l’Accademia militare e per il l’addestramento avanzato delle forze aviotrasportate, ndr), per prestare poi servizio nell’esercito nella città russa di Ulyanovsk.
Secondo quanto riportato da Magas Times, «nelle forze di aviazione il nome di Adam era ben noto ed era conosciuto come un brillante ufficiale e un comandante competente».
(da agenzie)

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MASSACRO DI BUCHA, LA POLIZIA TROVA ALTRI DUE CADAVERI

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

“UNA DONNA ANZIANA E SUO NIPOTE, GIUSTIZIATI DAI RUSSI”

Sono stati riesumati altri due cadaveri nel villaggio di Buzova, nel distretto di Bucha, il primo luogo da cui è emerso il massacro dei civili ucraini dopo il ritiro della truppe russe a fine marzo scorso.
Gli investigatori della polizia di Kiev che sta indagando per la procura ucraina sui crimini di guerra commessi dai russi in quelle zone hanno annunciato su Facebook, citati da Ukrainska Pravda, di aver «riesumato i corpi di due residenti del villaggio di Buzova. I civili – spiegano gli inquirenti – sono stati uccisi dagli occupanti durante i combattimenti nella regione di Bucha».
I corpi ritrovati dalla polizia ucraina sarebbero di una donna anziana «uccisa a fine febbraio durante i bombardamenti nel proprio cortile». All’inizio di marzo, invece, i soldati russi avrebbero ucciso anche il nipote 27enne dell’anziana.
«I parenti – ha aggiunto la polizia – hanno seppellito i morti nel cimitero locale». Finora dalla sola zona di Bucha sarebbero emersi 1290 vittime civili, morte durante i combattimenti nella regione di Kiev.
(da agenzie)

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IL SOLDATO SCAPPATO DA AZOVSTAL PRIMA DELLA RESA: “I MIEI COMPAGNI ORA SOTTO TORTURA, TORNO PER VENDICARLI”

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

IL COMANDANTE ERA STATO CHIARO: “O VE NE ANDATE O RESTATE FINO ALLA FINE”…. “ORA STANNO TORTURANDO I MIEI FRATELLI”

«Lui ora lo stanno torturando e gli stanno strappando le unghie. Lui invece è morto. Lui è tornato come me. Di lui invece ne ho perso traccia da un mese. A lui invece hanno sparato cinque proiettili nella gamba». Robert K. ha meno di trent’anni. E’ un militare del battaglione d’Azov. Apre il telefono, mostra un’immagine. Un gruppo di sei ragazzi in divisa. Sono i suoi compagni. Erano i suoi compagni. «È l’ultima foto che ci siamo fatti tutti insieme».
Robert ha gli occhi azzurri, i capelli ricci, meno di 30 anni. «Dopo aver combattuto in Donbass ho lasciato la mia città, facevo sicurezza privata. Poi a febbraio sono tornato con il battaglione». Seduto in un bar di Zaporizhzhia racconta la sua storia. Ma prima di iniziare chiede: «Sono ancora in servizio, quindi non pubblicate il mio nome per intero».
Quando ha lasciato Mariupol?
«E’ stato il 15 di marzo. Il comandante ci ha detto: avete due opzioni, o restate e combattete fino alla fine. O andatevene vestiti da civili, se volete salvarvi. Io avevo la mia famiglia dentro. Erano chiusi in uno scantinato da settimane senz’acqua e senza cibo. Dovevo metterli in salvo. E dovevo salvare me stesso».
Cosa era successo nelle settimane precedenti?
« I russi hanno mandato in avanti gli ucraini che erano riusciti ad arruolare. Li hanno usati per individuare le nostre posizioni, come carne da macello. Poi hanno iniziato a bombardare. Artiglieria e aerei. Ogni mezz’ora. Colpivano di tutto, obiettivi civili, militari, non importava».
Quale era il vostro compito?
«Avevamo l’ordine di proteggere la popolazione. E evacuare il più alto numero di civili possibile. Erano tutti terrorizzati. Dalle bombe ma anche dalla voce che in città stessero arrivando gli uomini di Kadyrov. Inoltre c’erano tre navi russe piazzate nella baia. Dal 10 marzo sono iniziati i corridoi ma i russi bombardavano anche quelli».
Quando avete capito che le cose si stavano mettendo davvero male?
«Quando i russi sono entrati dentro il distretto 17. Ci siamo asserragliati dentro l’ospedale numero 2 per proteggere i civili. I chirurghi operavano sotto i bombardamenti. C’erano anche dei giornalisti e dei fotografi che abbiamo aiutato a scappare. Un deputato ucraino della città anziano è venuto da noi. Lo mandavano i russi. “Arrendetevi”, ci ha detto”. Poi hanno fatto irruzione nell’ospedale e hanno sparato ai militari feriti nei loro letti”
Quando ha deciso che era il momento di lasciare?
«Mentre eravamo diretti alla base, i russi con i droni hanno individuato il punto esatto e l’hanno bombardata. Solo per un caso non c’era dentro nessuno. Ma hanno distrutto tutti i nostri rifornimenti, non avevamo più niente. Armi, cibo. Poi hanno bombardato l’obitorio. Era pieno di cadaveri fino al soffitto. Te lo immagini? Fino al soffitto. I pezzi dei corpi sono finiti ovunque. Mariupol, la mia città, era diventato l’inferno».
Come ha fatto a mettere in salvo la sua famiglia?
«Quando il comando ci ha lasciato liberi di scegliere sono corso da loro. Erano stravolti, non dormivano da giorni. Ho detto: abbiamo un’ora di tempo. Mi sono tolto la divisa e siamo partiti con un convoglio di auto. Lungo la strada verso Zaporizhzhia abbiamo passato 14 checkpoint russi. Ci hanno fermato 20 volte».
Non aveva paura di essere riconosciuto?
«Sì, è stata solo fortuna. Controllavano i tatuaggi. Ne ho uno sulla spalla destra. Ma non l’hanno visto perché guardavano solo il petto e le braccia. Una volta mi hanno portato fuori dalla macchina e mi hanno messo con la faccia al muro. Pensavo fosse finita. Invece no, mi hanno preso il telefono, ma avevo tolto tutto. Foto, numeri di telefono».
Dove si trova ora la sua famiglia?
«Prima siamo stati a Leopoli ospiti di un amico. Ora loro sono all’estero. Ma io sono tornato per combattere due settimane fa».
Cosa prova di fronte alle immagini dei suoi compagni che si sono arresi ai russi dopo l’assedio dell’Azovstal? Pensa che torneranno indietro?
«Ho parlato con molti di loro fino a cinque giorni fa. Alcuni, per me, sono come fratelli. Hanno vissuto l’inferno e ora è anche peggio probabilmente. Ma sono sicuro che torneranno indietro. Il bene deve vincere sul male.
Robert distoglie lo sguardo. Un suo compagno si avvicina al tavolo. E’ ora di andare.
Si è pentito di aver lasciato Mariupol?
«No, perché ho messo in salvo i miei cari. E ora posso tornare a combattere e vendicare i miei compagni».
(da il Corriere della Sera)

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IL NEGOZIATORE RUSSO NEGA L’APERTURA ALLO SCAMBIO DI PRIGIONIERI TRA RUSSI E I SOLDATI DI AZOV: “SONO BANDITI DA PROCESSARE”

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

QUANDO MAI I CRIMINALI RUSSI MANTENGONO LA PAROLA, TEMPO PERSO TRATTARE CON DEI DELINQUENTI

Dietrofront del deputato della Duma Leonid Slutsky sull’ipotesi di scambio di prigionieri tra i combattenti ucraini del battaglione Azov e l’oligarca filorusso Medvedchuk.
Il negoziatore russo, capo della Commissione Esteri della Duma, ha negato su Telegram di aver mai aperto all’ipotesi di scambio, dando la colpa ai media di aver citato le sue dichiarazioni fuori contesto. Citato dall’agenzia russa Tass, Slutsky ha chiarito: «La mia opinione non è cambiata: non ci dovrebbe essere uno scambio con i combattenti dell’Azov, che sono banditi nella Federazione russa, ed il loro destino dovrebbe essere deciso dal tribunale».
L’agenzia Interfax aveva citato le dichiarazioni di Slutsky, secondo cui Mosca «stava valutando» l’ipotesi di scambiare i soldati ucraini che si sono arresi dopo tre mesi di resistenza nell’acciaieria Azovstal a Mariupol con l’oligarca Medvedchuk, arrestato lo scorso aprile dagli agenti dell’intelligence di Kiev.
Su Telegram poche ore dopo, Slutsky ha precisato che tutte le questioni relative al politico ucraino Viktor Medvedchuk dovrebbero essere discusse da «coloro che hanno la competenza appropriata».
(da agenzie)

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“ANCHE NEI MOMENTI PIÙ TRAGICI, IL CREDITORE È COSÌ PREMUROSO DA NON LASCIARTI MAI SOLO”

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

SULL’OSTINATA POSIZIONE PRO-PUTIN DI BERLUSCONI, L’IMPRESSIONE È CHE IL NUOVO ZAR SIA IN CREDITO DI QUALCOSA, ALTRIMENTI NON SI SPIEGHEREBBE TANTO MALCELATO PUTINISMO DA PARTE DI ALCUNI LEADER ITALIANI”

Com’ è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. Senza giri di parole, venerdì Silvio Berlusconi ha consigliato all’Ucraina di arrendersi: «Io credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin». Riferita a problemi così drammatici, la parola «domande» assume un suono grottesco.
La presa di posizione di Berlusconi (tardivamente corretta sabato) ha lasciato esterrefatti molti esponenti storici di Forza Italia. Giuliano Urbani, uno dei fondatori del partito, ha criticato duramente il filoputinismo del vecchio leader.
«Berlusconi ha pronunciato quelle parole ambigue senz’ altro per il rapporto di amicizia che lo lega ancora a Putin». Irritata anche Mariastella Gelmini: «Dannose le ambiguità pro Putin. Ci siamo chiamati in passato “Popolo della libertà”, per la quale gli ucraini stanno combattendo».
A pensarla come Berlusconi è rimasta solo Licia Ronzulli. O viceversa. Lasciamo perdere la vecchia amicizia e i racconti stravaganti sul lettone regalato da Putin, ma l’impressione è che il nuovo zar sia in credito di qualcosa, altrimenti non si spiegherebbe tanto malcelato putinismo da parte di alcuni leader italiani. Anche nei momenti più tragici, il creditore è così premuroso da non lasciarti mai solo.
(da agenzie)

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“L’OPERAZIONE MENTASTI POTEVA SUSCITARE QUALCHE DUBBIO”: VITTORIO MINCATO, AD DI ENI DAL 1999 AL 2005, PARLA DEGLI AFFARI TRA BERLUSCONI E PUTIN

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

QUANDO GAZPROM CERCÒ DI CONVINCERLO A COMPRARE GAS

Vittorio Mincato, lei è stato amministratore delegato all’Eni dal 1999 al 2005, Si è parlato tanto del rapporto tra Berlusconi e Putin. Lei che li ha visti da vicino, crede che la loro amicizia potessero contemplare interessi economici personali?
«Né Berlusconi, né Putin mi hanno mai parlato di loro affari personali e non ho mai avuto l’impressione che ci fossero, almeno per quanto atteneva l’Eni. Anche se l’operazione Mentasti, che rifiutai categoricamente di fare, qualche dubbio poteva suscitare».
Nella famosa cena al Westin Palace del 2003, quando le fu prospettato il contratto per lasciare 3 miliardi di metri cubi l’anno di gas russo a Mentasti, si dice che lei abbia detto ‘Col c…gli do il gas a questo’. Perché i russi insistevano su di lui? Fu anche il governo italiano a insistere?
«In realtà, dopo la cena del 2003 e un paio di brevi colloqui con Mentasti nel mio ufficio all’Eur, non mi curai più di tanto di quella richiesta. Solo nei primi mesi del 2005, alla fine di qualche mio colloquio a Palazzo Chigi, in cui si era parlato d’altro, Berlusconi mi disse che Putin a quell’accordo teneva molto, ma non si parlava più di Mentasti, bensì della Gazprom».
Il memorandum tra Eni, Gazprom e Mentasti fu siglato il 10 maggio 2005 dal direttore generale dell’Eni Sgubini. Lei non lo firmò e Paolo Scaroni prese il suo posto all’Eni. Ci fu una correlazione tra la sua uscita e la sua contrarietà a quell’affare?
«Non vorrei ricordare male, ma il memorandum di Vienna non parlava di Mentasti. All’epoca i media misero i due fatti (le mie riserve sull’accordo e la mia sostituzione al vertice dell’Eni) in un rapporto di causa ed effetto. Chissà, forse fu così o forse fu più in generale la naturale conseguenza della mia conclamata idiosincrasia nei confronti di certa “politica affaristica”. La mia storia all’Eni è piena di episodi in cui ho disturbato questa politica».
In quegli anni i russi cercavano di comprare attività estrattive e distributive di energia in Europa: un obiettivo strategico più per la geopolitica di Mosca che per le major come Eni. Lei ha mai avuto richieste in questo senso? Gliele fecero i russi o, anche, le istituzioni italiane?
«Soltanto verso la fine del mio mandato all’Eni, durante un colloquio con Alexey Miller a Sochi, sul Mar Nero, mi fu proposto di acquisire giacimenti petroliferi della Yukos in Russia, in cambio di giacimenti petroliferi dell’Eni in Occidente, ipotesi che scartai subito. Da nessuna istituzione italiana mi giunsero sollecitazioni in tal senso».
(da La Repubblica)

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RENZI INSEGNA LA POLITICA AI LEGHISTI, COSÌ MAGARI SCENDONO AL 2 PER CENTO

Maggio 22nd, 2022 Riccardo Fucile

MATTEUCCIO VA ALLA SCUOLA DI FORMAZIONE DELLA LEGA E LA PLATEA LO APPLAUDE PURE… LONTANI I TEMPI IN CUI SALVINI DICEVA “MEGLIO ‘BESTIA’ CHE RENZI”

Di Matteo, ieri alla scuola di formazione politica della Lega ce n’era uno solo. Renzi.
Il padrone di casa, Matteo Salvini, ha confessato alle agenzie di essere all’oscuro dell’invito: «Non lo sapevo. Lo ringrazio. Renzi è stato gentile ad accettare». Una versione che però non combacerebbe con la realtà dei fatti. «L’invito ufficiale me lo ha fatto Siri – ha detto il leader di IV ai suoi – ma è stato Salvini a dirmelo in Senato».
È un piccolo antefatto, ma serve per inquadrare il gioco di specchi che è andato in scena ieri in casa della Lega dove Renzi, intervistato dal direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, ha strappato diversi applausi alla platea leghista nonostante quello tra i due Matteo sia un rapporto altalenante.
Alti e bassi. Distanze come sul reddito di cittadinanza – «L’avete votato voi. Va abolito. Non solo è sbagliato ma è profondamente antieducativo» – sulla riforma del catasto – «Non condivido la vostra battaglia» – , ma anche convergenze come sui referendum sulla giustizia: «Sicuramente, io voto a favore. Che passino o no i referendum, il tema della giustizia non finisce comunque qui».
Attacchi sui «calci di rigore» sbagliati dal Matteo leghista nelle elezioni del presidente della Repubblica, ma anche riconoscimento dell’avversario. «Salvini una volta ha detto “meglio bestia che Renzi”. Ce le diamo e continuiamo a combattere, qualche volta insieme, spesso divisi». Punti di contatto? «Il nome di battesimo sulla carta d’identità».
Non si erano ancora conclusi gli applausi della sua entrata in scena che Renzi ha subito messo in campo le sue arti retoriche individuando un nemico comune. «Non sono venuto qui per lisciarvi il pelo – attacca l’ex premier – non sono qui a dirvi che sono un populista come ha fatto Conte. Io non sono un populista».
È proprio il leader dei Cinque Stelle il convitato di pietra di questa lectio renziana. «Nel centrodestra avete qualche tensioncella. Nel centrosinistra se il campo largo è quello con i Cinque Stelle, mi pare che non ci sta nemmeno il Pd. Si stanno accorgendo che Conte è inaffidabile, ci hanno messo un po’ ma
«Noi di sinistra chi?» chiede Sangiuliano: «Sono venuto dalla Lega solo per dire che sono di sinistra. Non potevo certo farlo alla festa di Leu», replica Renzi suscitando le risate della platea.
Esattamente come quando parlando di fisco ha citato il codice da inserire nella dichiarazione dei redditi per assegnare il due per mille a Italia Viva: «Non avrei mai immaginato che un giorno sarei venuto qui a chiedere il 2 per mille per IV. È troppo anche per me».
Torna serio. Rivendica quando Bossi gli disse «sei stato l’unico che ha fatto qualcosa per i miei». «I tuoi chi?». «Gli imprenditori del Nord». Attacca ancora una volta Conte sulle armi agli ucraini: «Le armi sono state fondamentali, ora serve un’azione diplomatica. Conte si è scoperto pacifista all’improvviso perché ha letto un sondaggio».
Alla fine lancia la sua proposta di riforma elettorale: «Facciamo una legge elettorale come quella del sindaco d’Italia, ci si scontra, poi si va al ballottaggio e chi vince, governa per 5 anni. Su questo mi piacerebbe che ci ritrovassimo». Sipario. Applausi.
(da “La Stampa”)

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