Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile “MI VERGOGNO DEL MIO PAESE. CHI HA DECISO QUESTA GUERRA VUOLE SOLO POTERE E LUSSO”
«Mi chiamo Boris Bondarev, in vent’ anni di carriera diplomatica ho
assistito a diverse svolte della politica estera, ma non mi sono mai vergognato del mio Paese quanto il 24 febbraio di quest’ anno».
La lettera di dimissioni del consigliere della missione russa all’ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra esplode come una bomba nelle stanze della diplomazia di Mosca, con la defezione più altolocata e pubblica finora di un funzionario del governo, e nel grattacielo staliniano in piazza Smolenskaya rimangono a tal punto spiazzati da non riuscire a produrre una reazione immediata.
Il testo – scritto in ottimo inglese – viene pubblicato in rete, e anche sui profili social del diplomatico, ma è talmente esplicito e accusatorio nei confronti del governo che Bondarev rappresentava da far dubitare a molti della sua autenticità.
Sembrava quasi incredibile che un sottoposto di Sergey Lavrov potesse lanciare al regime russo accuse che avrebbero potuto uscire dalla penna di Alexey Navalny: «Chi ha deciso questa guerra voleva soltanto una cosa: restare al potere per sempre, abitare pomposi palazzi di cattivo gusto, navigare yacht che costano quanto l’intera marina russa, godere di un potere illimitato e di un’impunità totale. Sono pronti a sacrificare qualunque numero di vite per questo scopo. Migliaia di russi e ucraini sono già morti in nome di questo obiettivo».
Parole che molti esponenti dell’opposizione e intellettuali critici hanno pronunciato, ma che finora pochi esponenti dello Stato avevano condiviso, almeno non pubblicamente.
Fin dall’inizio della «operazione militare speciale» contro l’Ucraina si era vociferato di interi uffici in stato di choc, e di numerose defezioni di funzionari ministeriali, manager di grandi società e giornalisti delle televisioni di regime che si dimettevano, per scappare in Occidente. Pochi però hanno reso la loro fuga un atto di ribellione pubblica: «La guerra aggressiva scatenata da Putin contro l’Ucraina, di fatto contro l’intero mondo occidentale, non è soltanto un crimine contro il popolo ucraino, ma anche il crimine più grave che avesse potuto commettere contro il popolo russo, con la grande Z a cancellare tutte le nostre speranze e prospettive di una società libera e prospera», scrive Bondarev.
Nessuna indicazione sui tempi e le modalità di questa scelta, anche se appare scontato che il diplomatico si trovi al sicuro all’estero, e che chiederà asilo in Occidente, senza la possibilità di rientrare in Russia. Anche perché Bondarev non ha risparmiato critiche ai colleghi e soprattutto al suo ex principale: «In 18 anni, da professionista e intellettuale colto, stimato da molti colleghi, è diventato una persona che trasmette dichiarazioni contrastanti e minaccia il mondo (e quindi anche la Russia) con armi nucleari!».
Il consigliere ribelle è entrato nel ministero nel 2002, e ora denuncia il ventennio putiniano come quello che ha visto la trasformazione della diplomazia russa in una antenna della propaganda più aggressiva.
Una degenerazione sottovalutata perfino da molti colleghi europei. Bondarev lamenta la sostituizione di un sistema che opera con «informazioni non prevenute, analisi imparziali e pronostici prudenti» con una macchina «finalizzata a ingannare se stessa», con la portavoce Maria Zakharova che a colpi di «cliche della propaganda nello spirito dei giornali sovietici degli anni 30» è diventata uno dei volti più odiosi del regime.
«Oggi il ministero non fa diplomazia, diffonde inni alla guerra, menzogne e odio», conclude Bondarev, che ha anche invitato i suoi colleghi del servizio diplomatico a seguire il suo esempio.
In realtà, già alcuni diplomatici avevano dato le dimissioni per dissociarsi dalla guerra, e il console generale della Russia a Edimburgo l’aveva pure messo sui social (il ministero aveva parlato di account “hackerato”).
E a Mosca girano liste sempre più lunghe di funzionari e giornalisti di regime che si sono allontanati dal loro posto di lavoro e dal loro Paese, prevalentemente senza particolare clamore.
Soltanto negli ultimi giorni si è parlato delle dimissioni di quattro top manager di Rosneft, il gigante petrolifero statale, responsabili di settori cruciali come la logistica.
Molti sono stranieri e hanno abbandonato i loro impieghi prestigiosi per evitare problemi internazionali, ma altri, come diversi dirigenti della banca monopolista Sberbank e della compagnia aerea di bandiera Aeroflot sono russi, così come gli oligarchi che hanno condannato la guerra dopo essere stati flagellati dalle sanzioni.
Il vicepresidente di un’altra banca importante, quella Gazprombank dalla quale passano i pagamenti per il gas russo, Igor Volobuev, non solo si è dimesso, ma è passato dall’altra parte, arruolandosi nell’esercito ucraino. Quanti altri stanno aspettando di capire da quale parte girerà il vento, non è possibile saperlo, ma l’ex deputato d’opposizione Dmitry Gudkov li esorta da tempo a farsi avanti: «Gli ultimi a saltare giù dalla barca non avranno nessun vantaggio».
(da “la Stampa”)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile PUTIN È SEMPRE PIÙ ISOLATO E LA SUA PARANOIA POTREBBE AVERGLI SALVATO LA VITA
Solo, isolato, paranoico, forse malato. E anche scampato per un soffio alla morte. Il presidente russo Vladimir Putin sarebbe sopravvissuto a un attentato dopo l’inizio della guerra in Ucraina, sostengono diversi media locali tra cui l’Ukrainska Pravda. Che citano la fonte: Kyrylo Budanov, capo dell’intelligence del ministero della Difesa di Kiev.
«C’è stato un tentativo non molto tempo fa. Si tratta di un’informazione non pubblica e di un tentativo assolutamente fallito. Ma è successo davvero, circa due mesi fa», afferma Budanov. «Sono stati diversi gli attentati alla vita del presidente russo – rileva – di recente quello a opera di esponenti caucasici. Non si tratta di informazioni pubbliche, in ogni caso è tutto vero».
Putin non ascolta nessuno perché non si fida nemmeno dei suoi ministri, vive trincerato nella villa bunker di Novo-Ogaryovo, arriva persino a farsi assaggiare il cibo per paura di essere avvelenato, è il ritratto dettagliato di Mark Galeotti, professore onorario presso la University college London school nonché autore di 24 libri sulla Russia.
Galeotti segnala come le paranoie del leader si siano acutizzate negli ultimi anni. Non accetta consigli disallineati al suo pensiero, da quando è esplosa la pandemia ha scoperto le videochiamate che, oltre al distanziamento sociale, permettono di zittire l’interlocutore.
Di recente il capo della banca centrale, Elvira Nabiullina, gli ha illustrato l’impatto dell’invasione dell’Ucraina sull’economia russa aggiungendo il commento: «Questa guerra sta gettando l’economia nelle fogne».
E Putin ha bruscamente interrotto la linea.
In questo ambiente è progressivamente avanzata una fronda interna di gerarchi contrari all’invasione. John Kirby, portavoce del Pentagono, ha dichiarato che la Difesa americana condivide la conclusione secondo cui il presidente russo non sarebbe stato «pienamente informato dal suo ministero della difesa nell’ultimo mese», cioè dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
Per Jeremy Fleming, direttore dell’intelligence britannica, «sembra sempre più che Putin abbia giudicato male la situazione», sovrastimando le capacità dei suoi militari e sottostimando la resistenza del popolo aggredito.
L’ossessione per la sicurezza, dicono gli analisti, ha fatto perdere a Putin il contatto con la realtà. Di certo, però, gli ha salvato la vita.
Dopo l’invasione dell’Ucraina Alex Konanykhin, imprenditore russo residente negli Stati Uniti, ha messo una taglia da un milione di dollari sulla testa del presidente, mentre tra chi indica l’uccisione di Putin come soluzione per fermare la guerra c’è anche il ministro del Lussemburgo, Jean Asselborn.
Il leader del Cremlino ha alzato ulteriormente le barriere di accesso attorno a sé, soprattutto dopo che le sanzioni imposte dall’occidente hanno svelato la sua vita privata: residenze di lusso, yacht, amanti e la nuova compagna dalla quale ha avuto tre figli.
Nell’intervista concessa al regista Oliver Stone ha raccontato di essere scampato a cinque attentati nella sua vita, uno nel 1999 sventato proprio dai servizi ucraini.
Il blitz saltò perché Putin, che partecipava a un vertice informale, restò a Yalta solo poche ore invece dei due giorni previsti.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile QUANDO NEL 2019 IL PAPA LO CREÒ CARDINALE DISSE: “IL CARDINALE È ROSSO PERCHÉ DEVE TESTIMONIARE FINO AL SANGUE” – “LA CHIESA DEVE ESSERE DI TUTTI MA PARTICOLARMENTE DEI POVERI”
Chi lo conosce bene racconta che non ci sperava più di tanto nella
nomina alla guida della Cei, pur sapendo di essere insieme al cardinale Paolo Lojudice tra i favoriti.
Eppure, il Papa l’ha scelto dopo che il suo nome è stato quello più votato dai confratelli vescovi nella terna. Matteo Zuppi, “don Matteo” per tutti, 66 anni, romano, arcivescovo di Bologna, è sempre rimasto fedele alla semplicità che ha contraddistinto il suo sacerdozio prima, l’episcopato poi.
Quando nel 2019 Francesco lo creò cardinale non a caso disse: “Il cardinale è rosso perché deve testimoniare fino al sangue. Speriamo di essere buoni testimoni del Vangelo: quello di oggi è chiarissimo”. E ancora: “Dobbiamo cercare di essere sempre ultimi nell’amore e mettersi sempre al servizio degli altri”
Appartenente alla Comunità di Sant’Egidio fin dagli Anni del liceo, al Virgilio di Roma (qui conobbe Andrea Riccardi, “un ragazzo poco più grande di me – ha raccontato – che parlava del Vangelo a tanti altri ragazzi in maniera così diretta e nello stesso tempo con tanta conoscenza”), una laurea in lettere, quindi la scelta del sacerdozio a Roma, per anni vicino agli ultimi e ai poveri, viene scelto dal Papa anche per la sua capacità di unire le differenti anime presenti nella sua comunità, da quelle più vicine al pontificato in corso, fra queste la scuola dossettiana, a quelle più conservatrici che avevano visto nei vescovi suoi predecessori una loro espressione.
Ne sono un esempio, in qualche modo, gli attestati di stima che gran parte del mondo politico e religioso gli tributa in queste ore.
Zuppi, che è stato anche viceparroco di Vincenzo Paglia a Santa Maria in Trastevere, si è sempre distinto per l’instancabile azione a sostegno dei più poveri, degli immigrati, dei rom, senza escludere l’attività di diplomazia esercitata con Sant’Egidio. Arrivare a Bologna da Roma non era cosa scontata.
Ancor più non lo era diventare cardinale e poi, oggi presidente dei vescovi italiani, tenuto anche conto che da anni sulla cattedra di San Petronio si erano succeduti vescovi non contigui alla linea conciliare messa in campo dall’innovatore Giacomo Lercaro dal 1952 al 1968. Significative, in questo senso, le prime parole che Zuppi rivolse alla diocesi. Disse, citando il Concilio Vaticano II, monsignor Oscar Romero e Giovanni XXIII, che la Chiesa deve essere “di tutti, proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri”.
A Bologna Zuppi sa interpretare al meglio quella Chiesa dei poveri che ebbe in don Paolino Serra Zanetti, in padre Marella e nelle Case della carità una sua espressione. Non fin dall’inizio Zuppi ha deciso di non vivere nell’arcivescovado, ma nella casa del clero. “Ho sempre vissuto insieme ad altri – disse tempo fa – Abitare in una casa dove vivono altri sacerdoti è per me occasione di confronto in un cammino nel quale sento il bisogno di condividere”.
In lui Francesco rivede forse sé stesso, negli anni di Buenos Aires. Come il Papa, infatti, Zuppi ha sempre valorizzato quella pietà popolare che altri sacerdoti faticano a comprendere.
A Trastevere, i primi anni, fu tentato di considerare queste manifestazioni come sopravvivenze del passato. E invece, disse, “vi ho scoperto tanta profondità spirituale”.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile IL CANDIDATO SINDACO DEL CENTRODESTRA ROBERTO LAGALLA E’ FRUTTO DI UN “LODO” CHE HA VISTO COME SUOI ARCHITETTI CUFFARO E DELL’UTRI, ENTRAMBI CONDANNATI IN VIA DEFINITIVA E REDUCI DALL’AVER SCONTATO PENE DETENTIVE PER REATI DI MAFIA
Nel giorno in cui il Capo dello Stato, i ministri del governo Draghi, i vertici dei nostri apparati di sicurezza si sono inchinati a Palermo nel ricordo della strage di Capaci, Roberto Lagalla, candidato sindaco del centrodestra, ha deciso di disertare il palco del Foro Italico (spazio urbano sottratto alle mafie dalla resilienza civile e politica della parte migliore della città) per ragioni di “opportunità”.
“Per evitare – testuale – che qualche facinoroso, sensibile al fascino di certe feroci parole, potesse macchiare uno dei momenti simbolici più importanti della città con potenziali violenze”.
Le “feroci parole” – ha aggiunto Roberto Lagalla – sarebbero quelle pronunciate da Pif, nel pomeriggio di domenica, durante l’iniziativa di Repubblica dedicata alla memoria delle stragi.
I “facinorosi” sarebbero quanti, domenica, a quelle parole hanno applaudito e – si fa intendere – il giorno successivo (ieri) sarebbero potuti passare a vie di fatto “violente”.
Lagalla ha ragione. Le parole hanno grande importanza. Per chi le pronuncia o evita di pronunciarle, per chi le ascolta e per chi decide di manipolarle trasformandole in un atto politico ad alto valore simbolico.
E non solo. Domenica, dal palco di Repubblica, Maria Falcone, prima, e Pif, poi, avevano posto, con modi e lessico evidentemente diversi, un identico interrogativo.
Che, all’osso, suona così: è possibile che, a trent’ anni da Capaci e via D’Amelio, un candidato sindaco – nel caso di specie Roberto Lagalla – debba essere la risultante politica di un “lodo” che ha visto come suoi architetti e azionisti politici Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, entrambi condannati in via definitiva e reduci dall’aver scontato pene detentive per reati di mafia? È irragionevole pretendere da un centrodestra moderno, costituzionale, che si sottragga all’abbraccio di antiche consorterie e di una cultura politica che sono state l’acqua in cui hanno nuotato e sono cresciuti i peggiori pescecani della storia palermitana?
È eccentrico o minaccioso chiedere che a trent’ anni da Capaci e via D’Amelio la città non venga riconsegnata al comune sentire di una classe dirigente isolana che, per quarant’ anni, in sostanziale continuità, ha eletto Cosa Nostra a interlocutrice legittima, ad attore sociale ed economico dell’amministrazione cittadina?
Detta altrimenti, la domanda politica posta da Repubblica a Lagalla è stata ed è: con quali pezzi di cittadinanza, di impresa, di classe dirigente, ha deciso di parlare il centrodestra a Palermo?
È una domanda semplice, in fondo, e a suo modo cruciale. Cui Lagalla, ieri, ha deciso appunto di rispondere con un atto politico. Lasciando vuota la sedia di un palco e di una platea dove lo Stato, nella sua massima espressione istituzionale, celebrava la memoria di Falcone e Borsellino al cospetto di uno spicchio di città – il quartiere della Kalsa – ad alta concentrazione mafiosa.
Lagalla, medico ed ex rettore dell’Università di Palermo, nonché ex assessore regionale delle giunte Cuffaro e Musumeci, è infatti uomo troppo intelligente e colto per non comprendere come la sua assenza, e la giustificazione che ne ha fornito, siano la plastica rappresentazione di una postura politicamente opaca che, a queste latitudini, e non solo, ha un significato preciso.
E, dunque, la sua scelta ha una sola spiegazione possibile. Che il centrodestra che il 12 giugno andrà alle urne per eleggere il nuovo sindaco di Palermo non abbia la forza per emanciparsi.
Che alla presenza, anche fisica, nel saldo perimetro rappresentato dallo Stato raccolto a Palermo in un ricordo che ha l’ambizione di diventare memoria condivisa e non partigiana, preferisca la scorciatoia esiziale di dichiararsi “vittima” di un processo alle intenzioni intentato dagli epigoni della “via giudiziaria all’antimafia” contro i “pacificatori” della guerra alla mafia.
Come se quella guerra fosse stata vinta. Come se a Palermo la battaglia quotidiana per i diritti non richieda la radicalità necessaria per distinguere il bianco dal nero e il nero dal grigio. La verità è che gli argomenti di Lagalla, la sua sedia vuota, hanno il sentore e la simbologia stantii di una paccottiglia che riporta indietro le lancette della discussione e del confronto su mafia e politica ad un altro secolo. Certificano il pessimo stato di salute politica del centrodestra e quanta strada ancora vada fatta per costruire una memoria che aiuti Palermo e il Paese intero a guardare avanti nella comune consapevolezza di ciò che è stato e non deve più tornare ad essere.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile DOVE C’E’ DA DIFENDERE SPECULATORI, EVASORI E ABUSIVI ARRIVA IL CENTRODESTRA
Un vertice di maggioranza lungo, ma alla fine l’intesa sembra esserci,
anche se il capogruppo della Lega – che con Matteo Salvini è il partito che più ha tirato la corda sull’argomento – all’uscita dalla riunione al Senato non rilascia dichiarazioni.
Stando alle parole del ministro per i rapporto con il Parlamento, Federico D’Incà, comunque, ora si procederà spediti all’approvazione del Dl Concorrenza prima di tutto nella competente commissione di palazzo Madama, in modo da arrivare in aula il 31 maggio per votare tutto in giornata, rispettando i tempi chiesti dal premier Mario Draghi.
Il disegno di legge delega chiamato a regolare varie tematiche in materia di concorrenza, e per questo fondamentale in vista dell’approvazione dei fondi destinati all’Italia per il Pnrr, è l’ultimo tema su cui la maggioranza nei giorni scorsi ha ripreso a ballare.
A vedere i partiti contrapposti è soprattutto l’articolo 2, quello che dovrebbe decidere – come chiede l’Europa ma pure il Consiglio di stato – di mettere a gara le concessioni balneari che affidano a privati la gestione delle spiagge di proprietà dello Stato.
La gara si farà, è l’intesa di massima, ma entro dicembre 2024, il che concede un anno in più rispetto alla attuale versione che fermava gli affidamenti al 2023.
La parte più complicata dell’accordo – su cui a fine vertice i capigruppo di maggioranza non si sono voluti sbilanciare, spiegando che i dettagli sono ancora allo studio – è il tema degli indennizzi.
Perché nelle richieste, in particolare della Lega, a essere rimborsati dovrebbero essere praticamente tutti gli investimenti fatti. Anche quelli che sono andati «oltre» le concessioni ricevute e che in qualche caso si sono tradotti in veri e propri abusi edilizi sulla spiaggia (stabilimenti trasformati in veri e propri negozi con accesso dalla strada, ad esempio)
Sovranisti sempre dalla parte di speculatori e illeciti.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile IL FOTOGRAFO RACCONTA L’INFERNO VISSUTO DURANTE L’OCCUPAZIONE RUSSA
Evgeny Sosnovsky è un fotografo di Mariupol, conosciuto in città per le sue opere e per alcuni premi vinti durante la sua carriera.
Nelle scorse settimane è diventato noto per le fotografie del diario di un bambino di 8 anni ferito durante i bombardamenti dei russi all’acciaieria di Azovstal.
Evgeny, intervistato da diverse testate ucraine e internazionali, racconta l’inferno vissuto durante l’occupazione russa, di come i ceceni hanno occupato le abitazioni dei civili durante l’assedio.
Evgeny viveva a Mariupol, insieme alla moglie e alla suocera di 90 anni, nella sua abitazione situata a ovest rispetto all’acciaieria Azovstal. Non si aspettavano un conflitto così lungo, vista la precedente esperienza del conflitto del 2014, così come si aspettavano un intervento più deciso da parte dell’occidente per fermare l’avanzata di Putin.
I muri di casa tremavano durante i bombardamenti russi a Mariupol, alcuni degli edifici poco distanti erano stati distrutti. Diverse le occasioni in cui Evgeny e la sua famiglia hanno rischiato di morire.
Il 15 marzo, venne letteralmente coperto dalle macerie di un edificio colpito accanto a lui, mentre stava accendendo il fuoco per cucinare il pranzo. Un altro edificio venne colpito, nei pressi della sua abitazione, ferendo gravemente il fratello di sua moglie. Venne sotterrato una settimana dopo nel cortile accanto, sotto un albero di albicocche.
Il 20 marzo, diverse abitazioni nelle vicinanze presero fuoco. Rimasero intatte la sua e quella di un altro vicino, ma poche ore dopo fecero irruzione i ceceni.
Evgeny racconta di come gli uomini di Ramzan Kadyrov cacciarono le persone dall’abitazione, incuranti del fatto che ci fossero bambini, anziani e feriti. I ceceni avevano utilizzato l’edificio come postazione di combattimento, contribuendo alla sua distruzione: la mattina dopo, Evgeny ritrovò la sua abitazione completamente distrutta.
Durante la permanenza nel seminterrato, Evgeny racconta i momenti in cui il cibo e l’acqua iniziavano a scarseggiare. Quest’ultima veniva recuperata sciogliendo la neve, mentre il cibo risultava inaccessibile in quanto i ceceni impedivano ai cittadini di recuperarlo.
Cercarono di rovistare qualcosa dagli edifici distrutti, o in qualche seminterrato nella speranza di trovare qualcosa di integro nonostante i bombardamenti e gli incendi.
Un giorno trovarono mezzo pacchetto di burro e qualche noce, usate come colazione per i bambini. Spinto dalla necessità, decise di raggiungere il centro di Mariupol per poi ritrovarsi un fucile puntato alla testa mentre rovistava all’interno di una pasticceria distrutta.
I militari russi lo costrinsero a denudarsi, nonostante il freddo, per controllare eventuali tatuaggi o segni che lo potessero identificare come combattente ucraino.
Una volta rilasciato, cercò di tornare a casa attraverso una strada parallela per evitare di incontrare altri soldati nemici. Ironia della sorte, venne perquisito e rilasciato dai combattenti ucraini.
Di fronte alle necessità, Evgeny si è visto costretto a chiedere aiuto al nemico. Pochi giorni dopo la disavventura nel centro di Mariupol, i russi avevano installato una cucina da campo nel cortile di casa sua. Il cuoco, una volta scoperto che nel seminterrato c’erano anche dei bambini, fornì loro del latte condensato, dei biscotti e dello stufato.
Evgeny e la sua famiglia non sapevano che cosa stava succedendo dentro e fuori Mariupol, per quattro settimane non avevano nemmeno notizie de figlio che viveva nella stessa città. Per loro fortuna, come racconta durante le interviste, era riuscito ad andarsene in tempo. Una volta recuperata una trasmittente, vennero a conoscenza delle prime evacuazioni senza però riuscire nell’impresa. Arrivati al punto di evacuazione, aspettarono invano gli autobus insieme a circa 200 persone fino a sera, per poi tornare nei loro rifugi.
Al terzo tentativo, Evgeny e gli altri vennero usati per la propaganda russa. Durante l’attesa dei mezzi, nel punto di evacuazione arrivò un mezzo corazzato nemico con a bordo diversi operatori con il loro cellulare in mano, pronti a filmare quanto stava per accadere.
Ad un certo punto venne dato l’allarme, sostenevano che gli ucraini avrebbero bombardato l’area e che dovevano mettersi al riparo. Non ci fu alcun bombardamento, ma di fronte alle fotocamere i russi affermavano di aver respinto l’attacco. Un attacco inesistente.
Di fronte a tre attese fallimentari, il 30 aprile decisero di tentare la sorte e scappare dalla città a bordo di un mezzo. Riuscirono a lasciare Mariupol, rischiando di essere rapiti dai russi.
Evgeny racconta che, mentre oltrepassavano i posti di blocco, avrebbe sentito alcuni occupanti mentre pensavano di sequestrare alcuni cittadini ucraini per utilizzarli in vista del 9 maggio.
Nonostante tutto, riuscirono a raggiungere il primo posto di blocco ucraino per poi essere ospitati a Zaporizhia. Solo a quel punto vennero a conoscenza che i loro parenti si trovavano al sicuro a Kiev, gustandosi ancora di più il ritorno a una normalità da troppo tempo scomparsa: acqua potabile, pane fresco e una lampadina accesa sembravano cose ormai dimenticate. È il tre maggio, Evgeny pubblica finalmente un post nel suo profilo Facebook con le foto che ritraggono lui, sua moglie e la suocera novantenne.
Evgeny si trova a Kiev ed è tornato a lavorare, recuperando le foto che era riuscito a salvare poco prima di essere cacciato di casa dai ceceni. Il 10 maggio pubblica un post Facebook dove mostra la sua postazione di lavoro, ottenuta grazie alle donazioni di alcuni giornalisti della testata tedesca DW e della televisione svizzera SRF.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile MADRE FRANCESE E PADRE SENEGALESE, IL 56ENNE DA ANNI SI BATTE IN DIFESA DELLE MINORANZE
La sorella Marie Ndiaye, celebre scrittrice prix Goncourt 2009 per Tre
donne forti (edito in Italia da Giunti), dice che le critiche di queste ore tutto sommato gli fanno onore: «Sarebbe peggio se mio fratello avesse l’appoggio di Eric Zemmour o Marine Le Pen».
Ma la nomina a ministro dell’Istruzione di Pap Ndiaye, eminente storico nato 56 anni fa alla periferia di Parigi da madre francese e padre senegalese, sta suscitando talmente tante proteste da sollevare sospetti di razzismo.
La scuola, priorità del secondo mandato di Emmanuel Macron, affidata a un nero: è questo che in fondo l’estrema destra non sopporta?
O davvero Ndiaye mette in pericolo i fondamenti laici e universalisti della République?
In Europa non c’è un altro Paese dove il movimento woke in difesa dei diritti delle minoranze susciti reazioni esagitate come in Francia.
Forse perché quell’atteggiamento intellettuale è nato proprio qui.
Come scrive Pascal Bruckner nel saggio Un colpevole quasi perfetto (Guanda), «sono gli Stati Uniti a rispedire in Europa la peste della tribalizzazione del mondo e dell’ossessione razziale. Ma è una peste che noi francesi abbiamo ampiamente contribuito a diffondere negli anni Settanta, esportando nel nuovo continente i nostri filosofi più all’avanguardia nella demolizione dell’umanesimo e dei Lumi. Se il boomerang è anglosassone, la mano che l’ha lanciato è francese».
Quarant’ anni fa Foucault, Derrida e Deleuze vengono esportati con grande successo oltre Atlantico. «Quella che gli americani hanno chiamato French Theory è tornata da noi all’inizio del Duemila con gli studi decoloniali», dice Bruckner.
E chi è uno dei più rispettati esponenti di questa corrente di pensiero, grazie al saggio La condizione nera del 2009? Pap Ndiaye, noto per essere uomo pacato e pronto al dialogo ma, secondo i detrattori, adepto di quell’impostazione secondo la quale «alla fine il colpevole è sempre l’uomo bianco».
Allo storico Ndiaye non si perdona la frase sull’esistenza in Francia di un «razzismo strutturale», e il paragone tra l’americano George Floyd e il francese Adama Traoré, secondo lui ugualmente vittime di abusi commessi da forze dell’ordine minate dal razzismo.
Poi il ministro Ndiaye è un fautore della «discriminazione positiva» a favore delle minoranze, «che per me è il contrario della parità di chance», dice Alain Finkielkraut.
L’estrema destra e gli intellettuali conservatori come Finkielkraut temono che l’arrivo di Ndiaye al governo suggelli la fine della scuola pubblica esigente e meritocratica di un tempo: «Oggi Albert Camus, figlio di una donna di servizio analfabeta, non diventerebbe mai un grande scrittore».
In una rara (in Francia) rissa televisiva, su Ndiaye hanno finito per insultarsi anche Daniel Cohn Bendit e l’ex ministro Luc Ferry.
E pensare che per cinque anni il precedente ministro dell’Istruzione è stato Jean-Michel Blanquer, che aveva un’idea della scuola e della società esattamente opposta a quella di Ndiaye. Macron ha nominato primo l’uno, poi l’altro: segno di apertura intellettuale o di vuoto morale, secondo i punti di vista.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile PEGGIO DI NOI SOLO LA ROMANIA
Un nuovo report di Eurostat analizza l’avanzamento dell’istruzione terziaria (università o equivalente) nei Paesi membri dell’Unione Europea.
Secondo i dati raccolti, nel 2021 il 41 per cento della popolazione europea di età compresa tra i 24 e i 34 anni aveva conseguito almeno una laurea.
Le donne, con un tasso di crescita in continuo aumento, superano di molto gli uomini nel completamento degli studi: 47 per cento contro 36 per cento.
L’Italia, con il 28 per cento di giovani laureati, è al penultimo posto (supera solo la Romania), ben al di sotto della media europea e molto lontana dai Paesi più virtuosi, Lussemburgo e Irlanda, che registrano rispettivamente il 63 e il 62 per cento.
Quasi la metà degli Stati membri inoltre, ha già raggiunto l’obiettivo prefissato al 2030 di aumentare al 45 per cento la quota della popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni che abbia completato l’istruzione terziaria: Lussemburgo, Irlanda, Cipro, Lituania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Svezia, Danimarca, Spagna, Slovenia, Portogallo e Lettonia.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Maggio 24th, 2022 Riccardo Fucile A QUARTA REPUBBLICA LA FIGURA MISEREVOLE DI UN ALTRO SOSTENITORE DELLA “RESA DELL’UCRAINA”
Scontro acceso a Quarta Repubblica ieri sera su Rete 4 tra i giornalisti
Toni Capuozzo e Daniele Capezzone, con quest’ultimo che ha rinfacciato al collega di aver sminuito i fatti di Bucha: “Tu in questo studio facevi di fatto appelli alla resa, hai parlato di Bucha come di una messinscena, adesso ti preoccupi del fatto che qualcuno stia aiutando gli ucraini. Hai usato la parola messinscena”.
“Si poneva delle domande su quello che ha visto”, prova a mediare Nicola Porro.
“Tutti abbiamo ascoltato le domande – precisa Capezzone – sono il cuore del giornalismo. Il problema è quando si usa questa parola, usata dai ministeri del Cremlino, davanti alla testimonianze di tutti i superstiti, ai reportage fotografici di tutti i fotografi, ai reportage giornalistici di tutti i giornalisti”.
“Stai dicendo una falsità sapendo di dirlo”, replica a distanza Capuozzo. “So che non vuoi farmi completare – conclude Capezzone – ma ci sono anche le intercettazioni dei servizi tedeschi. Lasciamo a verbale che c’era chi usava la parola messinscena e chi usava la parola strage. Non siamo tutti uguali per fortuna, nelle opinioni e nelle scelte di campo. Questa settimana c’è stato un fatto in più. Il New York Times ha portato nuove immagini. Mi aspettavo che qualcuno si ricredesse”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »