Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile I NOSTRI ACQUISTI DI GAS RUSSO SU BASE ANNUA SONO RADDOPPIATI…OGGI A ROMA C’È UN ARCO DI FORZE POLITICHE FILO-MOSCA
L’Italia ha raddoppiato i suoi acquisti di gas russo, su base annua.
L’aumento delle importazioni ha avuto un’accelerazione, sia pure con la legittima giustificazione di fare approvvigionamenti per il prossimo inverno. Di conseguenza il nostro Paese finanzia molto più la guerra di Putin di quanto stia concretamente armando l’Ucraina.
Le armi che forniamo a Kiev sono poche, come Zelenski è costretto a ricordarci tutti i giorni, in un contesto in cui la pressione militare russa è tornata ad essere tremenda.
E non convince la tesi per cui i nostri pagamenti di gas russo sono strutturati in obbedienza alle sanzioni in modo da sterilizzarne l’uso per spese militari: queste sono ingenuità dei tecnocrati di Bruxelles che s’illudono di essere più furbi di un sistema autoritario, abituato da anni ad aggirare sanzioni finanziarie occidentali per aiutare regimi sotto embargo in Corea del Sud, Iran, Venezuela.
Insomma l’Italia nel bilancio economico reale non sta danneggiando la Russia, anzi partecipa al finanziamento della sua macchina militare.
Nonostante questo continua un coro di voci italiane che descrivono Roma come un lacchè della Nato, quindi dell’America: l’Impero del Male per definizione, la superpotenza aggressiva che prima avrebbe «accerchiato» Putin allargando la Nato ai suoi confini, poi starebbe perseguendo una «guerra per procura», aizzando gli ucraini a resistere a oltranza.
In questa rappresentazione assai diffusa in Italia, scompare il protagonismo di tutti gli altri. Si dimentica il fatto che per libera volontà democratica i popoli dei Paesi dell’Est liberatisi del giogo sovietico negli anni Novanta chiesero di entrare nella famiglia occidentale, aderire all’Unione europea, ottenere la protezione della Nato come una polizza vita contro i futuri rigurgiti d’imperialismo russo.
Si dimentica che la nazione ucraina ha deciso di difendere la propria vita e la propria libertà e si è guadagnata sul campo il rispetto dell’Occidente. Quegli stessi Stati Uniti che meno di un anno fa venivano descritti dagli antiamericani d’Italia come una superpotenza in decomposizione, umiliati dalla débacle di Kabul, un disastro dovuto all’incompetenza dei loro vertici, oggi invece sono denunciati come un mostro di efficienza, capaci di piegare il mondo intero ai propri disegni diabolici, di imporre la propria volontà ai popoli finlandesi, svedesi, ucraini, nonché a Mario Draghi.
Le caricature italiane degli Stati Uniti in questi giorni sono sempre più rozze. Perfino le tragiche sparatorie nelle scuole diventano il pretesto per denunciare nei talkshow nostrani che la politica estera americana è anch’essa in ostaggio alla lobby delle armi. Non importa se c’è qualche confusione nei soggetti: in realtà gruppi industriali come Boeing Lockheed e Raytheon che forniscono armamenti al Pentagono non gestiscono i gun-shop domestici dove si comprano pistole e fucili.
Le armi usate nelle sparatorie all’interno degli Stati Uniti sono anche di fabbricazione russa, cinese, e perfino italiana (costano meno).
Tornano a circolare in Italia pregiudizi degni dei peggiori anni Cinquanta, si descrive un capitalismo americano assetato di guerre mentre il conto delle perdite fra Wall Street e Big Tech è tale che il capitalismo davvero influente è piuttosto assetato di pace ad ogni costo. Se davvero la politica estera di Biden fosse decisa dalle «lobby», bisognerebbe guardare a quelle che pesano di più.
Il grande capitalismo americano ha sempre perseguito gli affari con Cina e Russia, ha prediletto una globalizzazione indifferente ai diritti umani, e vorrebbe chiudere questa guerra al più presto.
La politica estera non è solo una derivata degli interessi materiali dei poteri forti, è il frutto di una sintesi con tante altre cose: ideologie, visioni del mondo, valori, sensibilità dell’opinione pubblica, e anche un certo peso da dare alla tenuta delle alleanze internazionali.
Esiste un establishment globalista, detto The Blob, che è affezionato all’influenza globale degli Stati Uniti (e criticò Biden per aver chiuso la guerra in Afghanistan).
Esistono anche robuste correnti isolazioniste, da Donald Trump alla sinistra radicale. Viene generalmente ignorato in Italia il vivace dibattito americano sull’Ucraina, dove non mancano le voci in favore di un appeasement o accomodamento con Putin.
Tra queste voci si è sentita al World Economic Forum di Davos quella di Henry Kissinger, ultranovantenne e ancora autorevole. Kissinger appartiene al campo – assai folto sia a destra che a sinistra – degli analisti americani che vogliono fare concessioni a Putin nella speranza di fermarlo.
Va ricordato che la realpolitik di Kissinger fu sempre indifferente ai diritti umani o alla democrazia, assegnando invece un valore enorme alla stabilità. Congelare uno status quo è stata una delle sue linee-guida, ispirata al Congresso di Vienna del 1815 che restaurò alcune monarchie in barba alle aspirazioni democratiche dei popoli.
Altri gli obiettano che Putin capisce solo i rapporti di forze: interpreterebbe le concessioni come un incoraggiamento per future aggressioni; mentre al contrario l’allargamento della Nato impone dei limiti ai suoi appetiti imperialisti.
Chi accusa Biden di volere la guerra a oltranza non tiene conto dei condizionamenti in cui si muove. Nella situazione attuale un presidente degli Stati Uniti non può telefonare a Putin e dirgli «ti dò il Donbass se ti fermi», negoziando sopra la testa dell’Ucraina.
Non può farlo per rispetto a Zelensky, e per tenere conto delle sacrosante paure di molti paesi dell’Est, a cui si aggiungono ora Svezia e Finlandia
L’Italia di oggi ha un arco di forze politiche filo-russe che allora non ci sognavamo. Faccio fatica a trovare negli anni della Guerra fredda una vicenda equivalente al forse-viaggio di Salvini a Mosca.
Certo è sempre esistita in Italia una larga tradizione antioccidentale e antiamericana: dal fascismo al comunismo pre-svolta di Berlinguer, a certi settori del mondo cattolico. Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento alcuni papi avevano esplicitamente condannato i cattolici Usa per deviazioni «moderniste e americaniste»: troppo liberali.
Però quando un democristiano di sinistra come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira si adoperava per la pace in Vietnam, prima di tutto stava dalla parte delle vittime. Oggi Putin ha perso per sempre il popolo ucraino, in compenso ha guadagnato influenza in un Paese più importante, l’Italia, membro della Nato e del G7.
(da La Stampa)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile GLI ALLEATI SONO ORMAI LA SUA POLIZZA SULLA VITA, PIU’ CAZZATE DICONO E FANNO PIU’ FDI CRESCE
La situazione, complice l’altrui goffaggine, congiura a suo favore. Anche durante l’intervista a Vespa in masseria, Giorgia Meloni si è limitata a dire (e sta all’opposizione), che se uno vuole andare a Mosca dovrebbe quantomeno avvisare il premier, per non rendere fragile l’immagine dell’Italia.
È l’abc ma, di questi tempi, pare una statista in quel circo. L’uno (Salvini) è diventato una sorta di re Mida al rovescio, che produce distacco da tutto quello che tocca (compreso il referendum sulla giustizia), l’altro (Berlusconi) è una caricatura tardo sovietica di sé.
Il paradosso di Giorgia è questo: gli alleati sono la sua polizza a vita, perché le assicurano una facile crescita, senza tanti sforzi.
Basta un po’ di coerenza, un po’ di pragmatismo femminile (vuoi mettere che combina il testosterone), l’arte dell’attesa. Se, dopo aver fatto dimenticare le braccia alzate di Fidanza, mettesse mano alla classe dirigente, il vero limite, il gioco è fatto.
Ma al tempo stesso la polizza di oggi è una zavorra perché, il minuto dopo il voto, la coalizione, già sfasciata oggi, inizierebbe a litigare. Crescere per crescere o rischiare un’operazione politica? Questo il dilemma. Secondo il sondaggio dell’infallibile Ghisleri, Fdi, in coalizione, è attorno al 22 per cento ma, se andasse da sola, potrebbe arrivare al 24,9.
E la suggestione della corsa solitaria gira in quel partito. È però destinata a rimanere lì, visto che nell’altro campo lavorano per l’ammucchiata. Servirebbe una legge elettorale, ma la Meloni non ha alcuna intenzione di affrontare il tema, perché la esporrebbe all’accusa di “inciucio”, e poi si è capito che nessuno la vuole cambiare. Guido Crosetto, tra i suoi più ascoltati collaboratori, le ha consigliato di rompere lo schema.
Dentro la Lega, non è un mistero, Giorgetti, Zaia e Fedriga vorrebbero fare una sorta di Lega 2.0 ma, al momento, nessuno ha il fisico per sfidare apertamente Salvini. Quel che resta di Forza Italia è irriformabile. La mossa suggerita è un’Opa ostile: “Rifacciamo una cosa tipo Pdl, nello spirito, per coprire spazi che gli alleati non coprono più”.
Consiglio alla base della convention di Milano con Tremonti, Pera, Nordio. Si sa, come sempre accade quando un partito ha il vento in poppa, da quelle parti c’è la fila di gente che vorrebbe entrare. Però lei nicchia, ce l’ha nelle corde ma fino a un certo punto perché depotenzierebbe la sua forza anti-establishment con volti vecchi.
C’è poi un’altra idea: creare una “gamba moderata” come alleato privilegiato, da far nascere come “spontanea” nella forma, ma “spintanea” nella sostanza.
In un minuto ci sarebbe la corsa dei vari Toti, Brugnaro, i forzisti insoddisfatti, i leghisti esasperati, Insomma, posti in piedi.
Dunque: avanti così fino al voto, Opa ostile, corsa solitaria. Piano a, b, e c. Il naso del cronista suggerisce che si andrà col primo, subordinando tutto, se mai sarà, all’approdo a palazzo Chigi, sotto l’ombrello della Nato.
A quel punto l’Opa si produce nei fatti. La forza dell’inerzia.
(da La Stampa)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile I COGLIONAZZI AMICI DEL CRIMINALE SPACCIANO VIDEO REGISTRATI IN RUSSIA
Circolano alcuni video utilizzati per sostenere che il popolo ucraino stia
festeggiando e salutando con riconoscenza i soldati russi durante il loro arrivo.
Video utilizzati dagli utenti online per la propaganda filorussa, ma questi non risultano affatto registrati in Ucraina.
Al contrario, uno di questi proviene da una località vicina al Mar Caspio.
Per chi ha fretta
Circola da aprile 2022 un video dove in una strada alberata dei civili salutano festanti dei soldati russi. Si sostiene che siano cittadini ucraini.
Il video è stato registrato nella regione di Kursk, in Russia. A confermarlo è il media RT (Russia Today).
Circola da fine maggio 2022 un altro video dove i soldati russi vengono festeggiati al loro passaggio nelle strade di una cittadina. Secondo alcuni utenti sarebbe una località ucraina.
Il video è stato girato a Kizlyar (Daghestan), nel territorio della Federazione russa nei pressi del Mar Caspio e a più di 10 ore di distanza in auto da Mariupol
Analisi
Dal 10 aprile 2022, circola un video che dimostrerebbe l’accoglienza del popolo ucraino al passaggio/arrivo dei soldati russi
Ciò che riscontriamo è che nel video è presente un mezzo della Polizia che non risulta affatto quello ucraino, ma quello russo: il modello è l’UAZ-3163 Patriot. Per quale motivo dovrebbe scortare i militari russi in territorio ucraino?
La conferma arriva dal canale RT (Russia Today) del social russo Ok.ru, il quale pubblica il 10 aprile 2022 il video come registrato nella regione di Kursk («Появилось видео колонны армии РФ в Курской области»).
Il video dal Daghestan
Circola un altro video, pubblicato a fine maggio 2022, dove si sostiene la stessa narrazione: «Il popolo ucraino saluta con riconoscenza i soldati russi!!» scrive l’utente Maria.
Il video sarebbe stato filmato a Kizlyar (Daghestan), territorio russo che si affaccia al Mar Caspio e che si trova a circa 13 ore di auto da Mariupol, non in Ucraina.
A sostenerlo sono diversi account filorussi, affermando che i soldati avrebbero fatto ritorno a casa per riposare.
Grazie a una delle scritte presenti in un edificio ripreso dal video («фонБет», nella struttura sotto evidenziata in viola) è stato possibile riscontrare l’area in cui è stato registrato. Si tratta proprio di Kizlyar.
Conclusioni
I due video, uno diffuso ad aprile e uno a maggio 2022, non riportano affatto il popolo ucraino che accoglie o festeggia l’arrivo dei soldati russi. Entrambi i video sono stati registrati nel territorio della Federazione russa.
(da Open)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile SOLO IL 30% PENSA DI RECARSI ALLE URNE… IL BELLO E’ CHE TRA QUESTO 30% LA MAGGIORANZA E’ PURE CONTRARIA AD ABOLIRE LA LEGGE SEVERINO… GLI ITALIANI NON SI FANNO CONVOCARE DA SALVINI
Mancano poco più di 10 giorni all’election day del 12 giugno, in cui gli italiani saranno chiamati alle urne per votare i referendum sulla giustizia. Nello stesso giorno, tra l’altro, si terrà anche il voto per le amministrative che coinvolgono oltre mille Comuni italiani, con diverse grandi città coinvolte come Palermo, Genova, L’Aquila e Catanzaro.
I cinque quesiti – ritenuti ammissibili dalla Corte Costituzionale – riguardano la riforma del Csm, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, i limiti alla custodia cautelare, l’abolizione della legge Severino.
Ma gli italiani andranno a votare? Secondo un sondaggio pubblicato da Demopolis, il 56% dei cittadini non andrà a votare, il 30% dice che ci andrà e il 14% non lo sa ancora. Insomma, se queste fossero le percentuali il quorum non verrebbe raggiunto.
Il sondaggio, poi, si concentra sull’ultimo quesito referendario: l’abolizione della legge Severino, che prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali in caso di condanna.
In questo caso il 58% voterebbe no e vorrebbe mantenerla in vigore, a differenza del 32% pronto a votare a favore dell’abrogazione.
Nel dettaglio dell’elettorato, il 58% di chi vota Lega la vorrebbe cancellare, così come il 53% di chi vota Forza Italia e il 25% di chi vota Fratelli d’Italia. Nell’elettorato del Partito Democratico solo il 7% vorrebbe abrogarla, dato ancora più basso tra gli elettori 5 Stelle: il 4%.
(da Fanpage)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile L’ANALISI MILITARE SUL CAMPO: POCHI SUCCESSI NELLA SOLA REGIONE DI LUGANSK, DIFFICOLTA’ A PRENDERE STRADE E FIUMI CRUCIALI, PAURA PER UNA CONTROFFENSIVA UCRAINA
Visto il parziale successo delle recenti offensive russe, sempre più
spesso negli ultimi giorni si sentono sui talk show televisivi opinioni del tipo “Putin sta letteralmente sventrando il Donbass”: queste sono, ad esempio, le parole esatte usate dal professor Alessandro Orsini durante la puntata di Non è l’Arena di domenica sera.
Il punto è che si tratta di iperboli che hanno nulla a che fare con la realtà sul campo di battaglia ed il cui utilizzo rischia soltanto di creare confusione per chi non segue da vicino la situazione sul terreno, dando l’impressione di un collasso ucraino imminente, ben lungi da quanto sta avvenendo effettivamente sul campo. È arrivato il tempo, dunque, di fare un po’ di chiarezza.
Di cosa parliamo, quando parliamo di Donbass
Anzitutto, quando parliamo di Donbass facciamo riferimento sostanzialmente a due regioni.
La prima è quella più orientale, vale a dire la regione di Luhansk con una superficie di 26.683 km², mentre la seconda è la regione di Donetsk, geograficamente a sud e ad ovest della prima, con una superficie di 26.517 km².
L’obiettivo dichiarato da parte di Mosca è quello di voler “liberare” entrambe le regioni dal controllo ucraino fino al loro confine amministrativo e porle sotto il controllo integrale delle due Repubbliche separatiste, in vista di una potenziale successiva annessione alle Federazione Russa.
Al momento, però, la Russia si sta avvicinando ad ottenere questo obiettivo solo in una due regioni: quella di Luhansk, che al momento è occupata al 95% dai russi e dai suoi alleati separatisti, ad eccezione del complesso urbano di Severodonetsk/Lysychansk (da considerare che le due città sono divise tra loro solo dal fiume Seversky Donets).
La regione di Donetsk invece è occupata dai russi per circa il 60% del proprio territorio ed attualmente restano fuori dalla zona di occupazione russa importanti centri urbani come Bakhmut e soprattutto le due roccaforti ucraine nel Donbass, Slavyansk e Kramatorsk, dove si concentra il grosso delle forze ucraine nel Donbass (oltre 50 mila soldati, secondo le stime più attendibili)
Il piano di Mosca (e come è cambiato)
Prima di analizzare in dettaglio la situazione aggiornata sul terreno in Donbass, è utile fare un passo indietro ed analizzare il contesto generale della guerra in Ucraina. Il piano iniziale di Mosca era quello di conquistare velocemente tutto l’est dell’Ucraina arrivando fino almeno al fiume Dnjepr (che divide in due il Paese) e prendendo il controllo delle due principali città ucraine, Kyiv e Kharkiv, e di tutta la costa sud del Mar Nero.
Questo piano è fallito miseramente a marzo a causa dell’ostinata resistenza ucraina nella regione di Kyiv. Quando i russi si sono resi conto di non poter proseguire in questo modo ed hanno ritirato le proprie truppe dalle regioni del nord (Kyiv, Chernihiv e Sumy) lasciando dietro di sé chiari segni di massacri e crimini di guerra (vedasi Bucha in particolare), Mosca ha annunciato la seconda fase della guerra: la “liberazione” del Donbass.
Il piano iniziale nel Donbass era ambizioso: circondare tutto il gruppo di forze armate ucraine con una doppia manovra a tenaglia, partendo da nord dalla zona di Izyum (dove i russi a marzo sono riusciti a creare una testa di ponte al di là del fiume Seversky Donets) e da sud dalla regione di Donetsk o dalla zona occupata della regione di Zaporizhzhya.
Anche questo piano però è fallito a causa della strenua resistenza ucraina nella zona di Izyum, e dell’incapacità da parte russa di avanzare da sud. Per di più contemporaneamente, a fine aprile ed inizio maggio, gli ucraini sono stati in grado di passare al contrattacco nella regione di Kharkiv, arrivando fin quasi al confine di Stato con la Federazione Russa.
A questo punto l’invasione russa dell’Ucraina, che mirava inizialmente a conquistare e occupare buona parte del Paese, si è quindi trasformata sostanzialmente in un’offensiva disperata e sanguinosa per conquistare sostanzialmente una sola regione nell’est, quella di Luhansk.
Dove sta vincendo la Russia
Anche solo per ottenere questo obiettivo estremamente limitato rispetto alle ambizioni iniziali, i russi hanno bisogno quantomeno di circondare il più ristretto gruppo di truppe ucraine (circa 10 mila secondo le stime più attendibili) che difendono il complesso urbano diSeverodonetsk/ Lysychansk.
A tale scopo occorre anzitutto bloccare tutte le vie di rifornimento verso Lysychansk. Ed è proprio qui che i russi hanno ottenuto delle parziali vittorie negli ultimi giorni. Grazie alla loro avanzata da sud (ovvero dalla zona di Popasna) le truppe di Mosca si sono avvicinate all’importantissima strada che collega Lysychansk a Bakhmut, la cosiddetta “strada della vita”, ovvero la principale linea di rifornimento delle truppe ucraine posizionate nell’insediamento urbano di Severodonetsk.
Inizialmente le truppe russe erano addirittura riuscite a tagliare tale strada prendendo il controllo di una piccolissima parte a nord di Popasna, da cui però sono state scacciate a seguito di una controffensiva ucraina negli ultimi giorni.
Nondimeno questa strada resta, al momento, sotto il costante tiro dell’artiglieria russa, il che rende molto difficile utilizzarla effettivamente per rifornire le truppe ucraine in posizione avanzata nel saliente di Severodonetsk.
Per fortuna di Kyiv, esiste comunque anche una seconda via di rifornimento, ovvero la strada che collega Lysychansk a Siversk. Da questa via (che si trova più a nord della prima) la prima linea russa più vicina è ancora distante tra i 13 ed i 15 km, il che significa che di fatto, ad oggi, nonostante tutte le difficoltà, la via per rifornire le truppe ucraine a Severodonetsk è ancora sostanzialmente aperta.
La battaglia dei rifornimenti
Chi segue da tempo la situazione sul campo, può subito immaginare il motivo principale per il quale i russi non sono riusciti a bloccare i rifornimenti: la vera arma difensiva degli ucraini in questa regione è il fiume Seversky Donets che finora sta impedendo a Mosca di poter attaccare da nord e chiudere la tenaglia per accerchiare le truppe ucraine a Severodonetsk.
L’8 maggio (lo stesso giorno in cui i russi hanno sfondato con parziale successo il fronte a sud nella zona di Popasna) un tentativo russo di attraversare il Seversky Donets a nord nella zona di Bilohorivka si è trasformato in un disastro: oltre 400 morti, decine di mezzi distrutti dall’artiglieria ucraina che ha bombardato senza pietà le unità russe che erano riuscite ad attraversare il fiume.
Il secondo motivo è che anche l’avanzata da sud, dalla zona di Popasna, si è di fatto arrestata negli ultimi giorni, ed anzi, come abbiamo visto, ci sono segnali di piccoli contrattacchi da parte ucraina che hanno bloccato, almeno per ora, l’avanzata russa verso Bakhmut.
Il mancato accerchiamento non ha però impedito ai russi di attaccare lo stesso Severodonetsk da tre direzioni, senza però ottenere finora un grande successo. L’esercito di Mosca è stato, finora, in grado di prendere il controllo solo di alcune zone periferiche della città: l’hotel Mir ed il parcheggio dei bus nella periferia nord-est.
Il grosso della città di Severodonetsk resta invece, al momento, saldamente nelle mani ucraine, ed i difensori ucraini stanno già infliggendo pesanti perdite agli attaccanti russi che cercano di penetrare nella città.
Come già successo a Mariupol, ogni volta che la battaglia si sposta dal campo aperto alle zone urbane, per i russi ogni metro conquistato ha un durissimo prezzo in termini di uomini e mezzi.
Inoltre, viene messa in dubbio la validità stessa della strategia russa: come afferma ad esempio il think tank americano The Study of War, “Putin sta ora lanciando uomini e mezzi contro l’ultimo grande centro abitato rimasto in quell’oblast’, Severodonetsk, come se la sua conquista potesse far vincere la guerra al Cremlino, ma si sbaglia pesantemente”.
Secondo il think tank americano, i progressi russi in questa zona derivano sostanzialmente dal fatto che Mosca ha concentrato su questo obiettivo forze, attrezzature e mezzi che sono stati spostati da altre direzioni. Le truppe russe non sono state in grado di avanzare su altri assi per settimane e in gran parte non hanno nemmeno tentato di farlo.
La controffensiva ucraina
Se anche dovesse alla fine riuscire a conquistare a duro prezzo Severodonetsk, Mosca non sarà in grado di recuperare una buona parte della potenza di combattimento che sta usando per ottenere questo obiettivo. Ci sono anzi sempre più segnali del fatto che i russi hanno problemi a sostituire i veicoli persi in battaglia, essendo stati, ad esempio, già costretti a tirar fuori dai magazzini anche ferraglia dell’età sovietica come i tank T-62 ormai vecchi di cinquanta anni.
Quando la battaglia di Severodonetsk finirà, a prescindere da quale due parti avrà il controllo della città in quel momento, l’offensiva russa a livello operativo e strategico sarà probabilmente arrivata al suo culmine, dando all’Ucraina la possibilità di ricominciare le sue controffensive a livello operativo per respingere le forze russe sia in Donbass che altrove, conclude The Study of War.
A controprova di queste affermazioni c’è il fatto che l’unica altra importante avanzata russa di questi ultimi giorni è quella che ha permesso loro di prendere il controllo di Lyman. Si tratta però dell’unica altra città sulla riva orientale del Seversky Donets che era ancora controllata dagli ucraini, oltre a Severodonetsk, e che proprio per questo motivo era estremamente difficile da difendere per gli ucraini.
Ciò nonostante, le truppe ucraine che hanno lasciato Lyman non hanno smesso di combattere e si sono invece ritirate nella boscaglia a sud della città dove ora stanno montando la resistenza per rallentare a tutti i costi l’avanzata russa verso le rive del fiume – ed un possibile tentativo di attraversamento.
Teoricamente da qui, infatti, i russi potrebbero puntare direttamente verso Slavyansk ed il cuore delle forze ucraine nel Donbass (nella regione di Donetsk), ma per poterci riuscire dovrebbero riuscire a fare ciò che finora non sono stati in grado di fare: attraversare con successo il Seversky Donets senza farsi distruggere dall’artiglieria ucraina e creare una solida testa di ponte sulla riva occidentale.
Concludo accennando al fatto che le poche città che sono state conquistate finora dai russi in questa regione, come Popasna e Rubizhne, hanno subito il cosiddetto “trattamento” Mariupol: sono in gran parte rase al suolo, con il 90% degli edifici distrutti o inagibili ed in buona parte ancora senza accesso ad energia elettrica e acqua potabile.
Tutto lascia pensare che lo stesso “trattamento” verrà applicato anche alle altre città in cui si sta combattendo in questo momento: probabilmente, l’unico modo sensato di usare il termine “sventrare” è proprio per definire il modo in cui i russi stanno trattando queste città.
Tuttavia, resta una domanda: valeva davvero la pena per Mosca provare a conquistare a così caro prezzo di uomini e mezzi, quelli che ora sono veri e propri enormi cumuli di macerie, il cui valore strategico residuo è perlomeno dubbio e che andranno ricostruiti da zero dopo la guerra? Ai posteri l’ardua sentenza.
(da Fanpage)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile OTTO PORTALI SONO ANDATI IN DOWN
La situazione non è ancora tornata alla normalità, nonostante siano passate oltre 18 ore da quell’attacco rivendicato dal collettivo Anonymous alla Bielorussia.
La maggior parte (al momento se ne contano ancora otto offline) dei siti istituzionali e ufficiale del governo di Minsk sono in down dalla tarda serata di domenica 29 maggio.
Il motivo di questa offensiva informatica è evidente: la Bielorussia ha appoggiato (e non solo politicamente) l’invasione e l’aggressione russa all’Ucraina. E il collettivo di hacker ha espressamente sottolineato come questa sia la “colpa”. E come accaduto già nel corso delle scorse settimane alla Russia e ai suoi siti istituzionali.
Al momento risultano ancora offline i siti di cinque ministeri: Educazione, Comunicazioni, Giustizia, Economia e degli Affari Interni. Non sappiamo, per ora, la dinamica di questo attacco multiplo (che ha riguardato anche altri tre portali legati al governo e alle istituzioni bielorusse). Potrebbe trattarsi di DDos, ma la persistenza (dopo oltre 12 ore) dei problemi di accessibilità alle diverse piattaforme potrebbe indicare altro.
La rivendicazione di quanto accaduto domenica sera è arrivato su uno dei tanti canali di comunicazione utilizzato dal collettivo Anonymous: il profilo YourAnonTv. E lì hanno scritto: «Massiccio attacco effettuato da Anonymous contro il governo bielorusso per la sua complicità nell’invasione dell’Ucraina. Tutti i loro maggiori siti web governativi sono offline».
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile “ALLA FINE QUI SIAMO TUTTI PARENTI”; “FACCIAMOGLI UN PO’ DI MOBBING”
Greve, sfacciato, a tratti inquietante. È il linguaggio a restituire l’idea di
meritocrazia diffusa nelle università italiane: basata non sui titoli e le competenze, ma sulle relazioni di potere.
E c’è ben poco di accademico nelle telefonate in cui, da Milano a Palermo, si mercanteggia di cattedre. «Siamo tutti parenti (…) I nostri concorsi sono truccati». La regola è che «non si possono prima fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario».
E per i rivali «un po’ di mobbing, così dimenticano i concorsi». Frasi pronunciate da quei professori – ordinari, associati, direttori di dipartimento, rettori – ben rodati nelle spartizioni. E che sono agli atti di inchieste avviate nelle procure di mezza Italia.
Sempre le stesse famiglie
L’ex rettore di Catania Francesco Basile, finito sotto inchiesta due anni e mezzo fa, aveva una sua personalissima teoria: «Perché poi alla fine qui siamo tutti parenti – diceva intercettato -. Alla fine l’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie».
Il professore Gaspare Gulotta, direttore del Dipartimento di Chirurgia generale di Palermo, paragonava invece alcuni universitari ai boss. Ma non era un’accusa, tutt’altro: «Da Roma tutti preferivano fare le commissioni con i siciliani, volevano fare i patti con i siciliani, perché i siciliani erano affidabili, c’era ‘sta cosa della mafia, infatti si diceva che un siciliano muore ma non…».
A Reggio Calabria invece non c’è pubblicazione, risultato accademico o collaborazione che tenga. Si vince solo per indicazione dei vertici dell’ateneo. «Che devo fare, ormai ha gli impegni presi. Non capisco perché ma vabbè. Comunque, lo vogliamo fare e stiamo prendendo due cessi. È inutile che Pasquale (Catanoso, ndr) mi dice che sono fuoriclasse», sbottava il capo del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Reggio Calabria, Massimiliano Ferrara, mentre parlava con il rettore dell’epoca, Pasquale Catanoso, e quello che gli succederà, Marcello Zimbone. Avvicendamento che non ha cambiato l’andazzo, perché «tutti e due all’unisono vanno a braccetto», diceva il direttore di Architettura, Adolfo Santini.
Telefonate sfacciate
I prof non usano eufemismi: «Stavolta tocca a me e la prossima volta tocca a lui. Gli ho fatto un associato dieci giorni fa e gliel’ho fatto col solito sistema», diceva ancora Gulotta parlando del suo grande rivale, Mario Adelfio Latteri. Lo stesso Gulotta alla fine arrivava ad ammettere: «È bene che facciamo il regolamento di ateneo perché effettivamente anche i nostri concorsi sono truccati».
Il nodo riguarda sempre come trovare il modo più efficace per bypassare le regole. A Milano un’inchiesta sui bandi a Medicina, all’ospedale Sacco, vede indagato l’infettivologo Massimo Galli: «Ma cerchiamo di fare le robe ogni tanto un po’ più… seriamente», diceva la direttrice amministrativa di Scienze biomediche Monica Molinai a una ricercatrice.
Parlava della disinvoltura di Galli nel pianificare i bandi. Le due commentavano anche la commissione: «Mettiamo che quello di Palermo sia abituato a metodi un po’ più spicci, quello di Roma magari sta più attento, no?».
Nell’inchiesta di Genova su Giurisprudenza, invece, le figure centrali sono la prorettrice Lara Trucco e il prof emerito Pasquale Costanzo. Che arrivava a dire: «Non si possono fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario».
Per il docente era questione di fair play: «Si presentano persone senza farmelo sapere. Vi rendete conto? Un po’ di galateo accademico».
La torta e lo champagne
Una volta apparecchiata la tavola, per gli accademici resistere alla metafora enogastronomica è dura. Sempre a Genova, il prof Costanzo si rivolgeva al collega Daniele Granara, che stava per diventare associato, in merito alla scelta fra cattedra in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato: «È solo una tua preferenza soggettiva… se vuoi il bignè o la torta o il cannolo».
Negli stessi giorni a Milano Stefano Centanni, direttore del dipartimento di Scienze della salute della Statale, studiava un piano insieme al rettore della sua università, Elio Franzini (entrambi indagati): due concorsi da bandire con la stessa commissione per soddisfare i gruppi di potere a Urologia.
In questa conversazione riportava il suo dialogo con Marco Carini, altro potentissimo urologo fiorentino (indagato anche a Firenze). «Mi ha detto: “Sarebbe bellissimo chiudere tutte e due le gare insieme”. E io gli ho detto “Sì, perché a questo punto facciamo una grande festa” (…). E poi diciamo di portare il Dom Pérignon ovviamente», rideva Centanni. «Dom Perignon in calici – rispondeva Franzini – . E poi ci sorridiamo, è finita lì. Bel brindisi».
Maschilismo e pressioni
Parole in libertà, pronunciate nell’intimità di telefonate private. Ma da cui traspare un atteggiamento prevaricatore. Così la candidata invisa al sistema diventava «una femmina dal curriculum pesante». E per il prof ribelle si auspicava «un po’ di mobbing» affinché «si dimentichi i concorsi».
Conversazioni trascritte dai finanzieri che indagano sui bandi pilotati all’Università di Firenze: quaranta indagati, tra cui l’ex rettore Luigi Dei. L’ex primario dell’Urologia oncologica, Marco Carini, sembrava progettare ritorsioni contro un collega anti-sistema, il chirurgo Massimo Bonacchi.
«Io una soluzione l’avrei, un po’ di mobbing obbligandolo a fare guardie e lavorare. Chiaramente si dimentichi concorsi». Poi, quasi rammaricandosi di non poter attuare il piano: «Se lo potessi gestire in questo ultimo mio anno lo farei divertire».
(da La Repubblica)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile INDAGATI 191 TRA RICERCATORI, PROFESSORI, DIRETTORI DI DIPARTIMENTO, PRORETTORI E RETTORI CON LE ACCUSE DI TRUFFA, ABUSO E ASSOCIAZIONE A DELINQUERE E PER AVER PILOTATO 57 BANDI DI CONCORSO PUBBLICI
Il momento è difficile per l’università italiana, violata nella sua convinta autonomia da inchieste penali che fanno emergere, una dopo l’altra, la questione più difficile e mai risolta: il concorso pubblico, porta d’accesso ai dipartimenti, inizio di carriera per un laureato.
Il concorso d’ateneo è sempre più discusso, e fragile. Negli ultimi tre anni, a partire da “Università bandita” allestita a Catania, nove procure hanno organizzato indagini strutturali che hanno messo in evidenza al Sud (Università Mediterranea di Reggio Calabria), nelle isole (Università di Palermo e Sassari), al Nord (Statale di Milano, Torino e Genova), nelle province del Centro (la Stranieri di Perugia) e nelle sue città (Università di Firenze) accordi trasversali sulle singole discipline, in particolare a Giurisprudenza e Medicina, patti tra baroni, commissioni controllate, candidati favoriti, candidati ostacolati.
Gli ultimi tre anni dicono che l’accordo accademico, sì, ha le stimmate del sistema. I numeri sono di peso: 191 tra ricercatori a tempo indeterminato e precari, professori associati e ordinari, direttori di dipartimento, prorettori e rettori sono stati indagati nelle ultime due stagioni per titoli di reato gravi: la truffa, l’abuso, a Reggio Calabria e Firenze si contesta l’associazione a delinquere. E per aver pilotato 57 bandi di concorso pubblici.
Con l’inchiesta madre, Catania appunto, si aggiungono 55 docenti a processo, un prorettore che ha patteggiato la condanna e altri 27 bandi accertati come guasti. Il Tribunale di Torino ha infine condannato con rito abbreviato un primario di Chirurgia estetica e la candidata al posto di professore associato, due commissari di concorso sono in attesa di giudizio.
Mai nella storia dell’accademia italiana si era aperto un fuoco giudiziario così scandito nei confronti di un’istituzione decisiva per lo sviluppo del Paese: l’università. Il raffreddamento delle immatricolazioni degli studenti nel 2021-2022 dopo otto anni di crescita e il calo dei laureati accertato da Eurostat per la prima volta dopo vent’anni sono il segnale che una parte consistente del mondo accademico non vuole cogliere.
Il via libera dei vertici
Secondo le accuse, e secondo tutti coloro che a questo sistema si sono opposti, l’organizzazione concorsuale indebita parte spesso dai vertici accademici. Non a caso, sono stati rinviati a giudizio gli ultimi due rettori dell’Università di Catania e nelle successive inchieste ne sono stati coinvolti altri sette.
Iniziatore di questa svestizione del carisma di chi guida un ateneo è stato il professor Giuseppe Novelli, genetista condannato a un anno e otto mesi per tentata concussione e istigazione alla corruzione compiute nella sua veste di guida di Roma Tor Vergata.
Il sistema si legge con chiarezza seguendo l’ultima indagine. La procura di Genova ha messo in relazione i due riferimenti interni di Giurisprudenza con venti professori (locali e no) pronti a scambiare vittorie nei concorsi.
La prorettrice Lara Trucco e il prof emerito Pasquale Costanzo promettevano e ottenevano posti da colleghi della Sapienza di Roma, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, della stessa privata e borghese Bocconi. Tra gli indagati, qui, ci sono Daniele Granara, avvocato dei medici No Vax del Paese, e Camilla Bianchi, garante per l’Infanzia della Regione Toscana.
Alla Mediterranea di Reggio Calabria, dove «emerge un quadro desolante» su tre dipartimenti, la figlia dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale, del Pd, partecipava alla distribuzione di cattedre, assegni di ricerca e posti in corsi di specializzazione su indicazione del rettorato.
E il “Magnifico” Santo Marcello Zimbone ha barattato in proprio un dottorato con la promozione dei pargoli al liceo: ha offerto il posto alla figlia del professore che avrebbe voluto bocciarli.
Ancora, la figlia dell’ex rettrice dell’Università della Basilicata, Aurelia Sole, in corsa a Reggio Calabria per un dottorato con un curriculum «che fa raccapriccio», era utile per alimentare un contro-concorso per dottorandi a Potenza. La logica dello scambio.
Il buon pastore di Firenze
«Occorre fare sistema», dicono i docenti del cerchio Dei, rettore indagato e interdetto all’Università di Firenze, «dobbiamo essere pastori del gregge». Qui un primario nauseato dal successo senza merito ha dato luce agli accordi segreti in sala operatoria, così come un ricercatore inglese, Philip Laroma, aveva consentito di scoperchiare nel 2017 le trame a Giurisprudenza: «Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando».
D’altro canto, la scalcinata Università per stranieri di Perugia, dove il procuratore Raffaele Cantone contesta cinque bandi di concorso, ha offerto una patente B1 in Lingua italiana al calciatore uruguaiano Luis Suarez, capace di definire l’anguria “la cocomera”.
Il rettore di Palermo insediato la scorsa estate, Massimo Midiri, ha compreso perfettamente che il logorio delle inchieste penali, a cui si aggiunge un quotidiano stillicidio di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, sta corrodendo l’immagine e l’anima dell’università italiana e ha deciso di cambiare le regole dei concorsi: nessun membro interno in commissione.
«Si percepisce che tra i giovani c’è sfiducia nell’istituzione», spiega Midiri. Nel suo ateneo undici medici sono sotto inchiesta per falso e turbata libertà del procedimento. Nel primo interrogatorio dei carabinieri del Nas, il denunciante principe spiegò: «Il professore Gaspare Gulotta decide prima chi debba diventare ordinario, sceglie fra i suoi fedelissimi».
La gip di Palermo ha scritto: «Il reparto diretto da Gulotta si profila come un salotto privato nel quale vengono discussi i giochi di potere del professore, che spadroneggia impunito». Una telecamera nascosta ha dato un corpo a queste indicazioni.
“Perdenti più titolati”
Sono undici gli indagati a Sassari. Alla Statale di Milano, il bisogno di far fare carriera agli allievi ha portato sotto inchiesta un volto televisivo di questi due anni di pandemia, il virologo Massimo Galli.
Ecco, in un lavoro inviato alla rivista Lancet dal professore associato Pasquale Gallina e dall’associato in pensione Berardino Porfirio si avanza la tesi che un ricercatore che non ha mai avuto posizioni accademiche in università vanti un H-index – indicatore che misura l’impatto scientifico di un autore – migliore rispetto ai 186 docenti fiorentini presi in esame.
Dice il procuratore Cantone, già presidente dell’Autorità anticorruzione: «A mettersi contro il sistema si rischia. Negli atenei ci sono un deficit etico e un’abitudine a tollerare l’andazzo, a considerarlo parte del sistema. Anche le persone con più capacità, per sopravvivere, devono sottoporsi a pratiche umilianti».
(da la Repubblica)
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Maggio 30th, 2022 Riccardo Fucile I SOLDI DA PORTARE A CHE GUEVARA IN BOLIVIA, IL TENTATIVO DI SPINGERE ALLA RIVOLUZIONE L’IRREDENTISMO TRENTINO, L’OBIETTIVO DI DISINTEGRARE LO “STATO BORGHESE” FACENDO COLLABORARE GLI OPPOSTI ESTREMISMI, LA PROTEZIONE DA PARTE DEL PCI E DELLA GERMANIA OVEST
Che Guevara muore in Bolivia, durante una delle fasi più calde della
grande rivoluzione anticolonialista, innescata dalla seconda guerra dei trent’anni (1914-15). L’ex modella Sibilla Melega, ultima moglie di Feltrinelli, rammenta come il marito si gettò nella mischia: «Sì, lui voleva portare dei fondi a Che Guevara. Aveva fatto arrivare dei soldi da New York presso la Banca nazionale boliviana. I funzionari dell’istituto hanno subito avvisato i servizi segreti, perché si trattava di una somma importante. Aveva anche affittato un aereo per andare nella selva, dove si trovava Che Guevara».
Sibilla racconta l’interrogatorio che subì dalla Cia dopo essere stata arrestata insieme a Feltrinelli: «Arriva uno che aveva l’aria di essere della Cia, cercava di farmi parlare in spagnolo, ma io gli ho detto di parlarmi in inglese perché si sentiva che era la sua lingua madre. Poi mi fa una visita intima e mi dice: “Feltrinelli non ha comprato due biglietti aerei per il Costa Rica bensì uno solo, voleva lasciarla qua e andarsene”. Ha cercato di metterci l’uno contro l’altra. In seguito Giangiacomo mi ha raccontato la storia dell’aereo, dei soldi per il Che… lui voleva vedere Che Guevara e incontrarlo».
CON PICCOZZA E BORRACCIA IN TRENTINO
Equipaggiato alla tirolese, divisa in panno verde, berretto ponpon con stella alpina d’ordinanza, piccozza, borraccia, scarponcini, corde e ganci da arrampicata, Feltrinelli va in Alto Adige per guadagnare alla Rivoluzione l’irredentismo trentino, proprio quando la questione altoatesina si fa bollente.
Racconta Martha De Biasi, vedova dell’avvocato Sandro Canestrini: «Giangiacomo Feltrinelli veniva a casa nostra in Trentino e siamo anche stati ospiti da lui nel suo chalet a Oberhof. Lui e mio marito parlavano spesso della questione del Sudtirolo. Feltrinelli voleva conoscere tramite mio marito le persone che avevano messo la dinamite sotto ai tralicci».
I detrattori dell’editore pensano che lui si recò fra le brume trentine (e fra i nuraghi sardi) per strappare l’assenso di nuove reclute confidando nel fatto che, parlando poco l’italiano, non avrebbero capito bene cosa lui gli diceva? Fisime da malfidati. I lettori di Untold leggeranno infatti un’autorevole ammissione di uno dei ras di Potere Operaio, secondo cui Feltrinelli aveva capito più di loro la questione altoatesina.
E CHI SE NE FREDA!
Pinotti ha raccolto dall’ in-intervistabile Franco Freda i di lui racconti relativi ai sulfurei intenti attuativi che lo stratega nero della cultura vergò ne La disintegrazione del sistema, con i quali strizzava l’occhio alla frangia opposta, decisamente bazzicata da Giangiacomo, al fine di distruggere l’ordine borghese: «Vede, se il nemico c’è, cerco di abbattere il nemico con quelli che sono i suoi nemici. Il dialogo fra le estreme in chiave anti-Stato rientrava nelle aspirazioni nostre e anche nelle aspirazioni di qualcuno della cosiddetta estrema sinistra di allora».
La storia ha dimostrato a Freda che i suoi intenti sono rimasti sulla carta? Lui le risponde “e chi se ne Freda”: «Ho appena compiuto 81 anni e sono in grado di sottoscrivere ancora quelle parole che Freda, allora, aveva scritto».
FELTRINELLI ATTENZIO…NATO
Perchè Feltrinelli si dilegua una settimana prima della strage di piazza Fontana? Secondo Giorgio Marenghi, strenuo ricercatore di storie e verità venete che ha reso ad Untold un’analisi sfiziosa, «l’editore fu sempre destinatario delle “attenzioni” dei servizi segreti di mezzo mondo.
L’amicizia con Castro, l’operazione di “esfiltrazione” dal territorio sovietico dei manoscritti di Pasternak del romanzo Il dottor Zivago in combutta con la rete dell’ex generale nazista Gehlen, capo dei servizi segreti tedesco-occidentali (Bnd), fa capire che gli interessi politici su Feltrinelli, tipici di una stagione come la Guerra fredda, erano molteplici».
Allora, secondo Marenghi, «Con questo background alle spalle, cosa doveva fare Feltrinelli, se non immergersi in una provvisoria “irreperibilità”? Una cosa mi ha sempre colpito: che Feltrinelli abbia goduto della protezione di settori di numerosi Servizi, di centri di potere che rispondevano a logiche che per noi sembrano paradossali, ma che invece erano il pane di ogni giorno per gli apparati.
Così fu per il Pci, suo nemico ufficiale, ma in camera caritatis attento protettore; così fu per la rete tedesca occidentale che puntava al dissenso nell’Europa Orientale e che vedeva nel filocastrista Feltrinelli un “guastatore” di qualità».
D’AMATO PORTAVA PAZIENZA
In Untold compare un’intervista all’ex agente Sismi Francesco Pazienza, 76 anni di avventure e missioni, che racconta la sua amicizia con Umbertino D’Amato, il re dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale: «D’Amato l’ho conosciuto bene: era diabolico e simpaticissimo al contempo, un mix raro; oltre che un raffinato esperto nell’arte ricattatoria. Sicuramente fu la più grande spia italiana di tutti i tempi».
Le imprese dello spione dell’Uar erano connotate da una doppiezza che gli fecero conquistare una grande stima non solo a Ovest, ma pure a Est: «Fu – svela Pazienza – «invitato dal Kgb all’Hermitage di San Pietroburgo e a Mosca».
Il cinico e mellifluo Umbertino aveva Feltrinelli nel mirino e la sua gelida manina giocava a incunearsi nel Pci per arrivare all’editore; testimonia Pazienza: «D’Amato mi raccontava che il nemico principale della struttura che presiedeva era il Pci. Aveva una bussola da seguire: capire se e quanto ci si poteva incuneare fra l’anima democratica e quella rivoluzionaria di quel partito e agire a seconda delle convenienze del momento. Paragonava fra loro quelle che per lui erano le due anime del Pci, Di Vittorio e Secchia; di quest’ultimo diceva che fosse un rivoluzionario irredimibile. E se conoscete bene i rapporti fra Secchia e Feltrinelli, beh, allora due più due fa quattro».
GIANGIACOMO PAGAVA I VASSALLI DI FUMAGALLI, CHE GLI PESTO’ I CALLI
In questo mondo di ladri c’era anche Giovanni Rossi, che si dedicava al furto di automobili che venivano “taroccate” in un’officina di Segrate – vicinissima al fatale traliccio – e poi vendute. Al proprietario dell’officina – il fondatore del Mar (Movimento d’Azione Rivoluzionaria) Carlo Fumagalli – Untold dedica notevole spazio: «chiacchieratissimo ex partigiano “bianco” della Valtellina, in odore di traffici di tutti i tipi, impelagato in situazioni losche e “politicizzate”».
Secondo il ricettatore Rossi, Fumagalli aveva «un capannone a Segrate, è vicino al traliccio dove è morto da poco il Feltrinelli. Feltrinelli e Fumagalli erano soci, anzi l’editore passava ogni mese a Fumagalli la somma di lire 800.000 più le spese che erano per la copertura dell’attività che veniva svolta nel capannone, c’erano anche cinque o sei operai che venivano anch’essi pagati dal Feltrinelli». Il lettore di Untold scoprirà come, secondo Rossi, i vassalli di Fumagalli pestarono i calli all’editore la sera della morte
(da agenzie)
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