Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
“L’ACCORDO E’ STATO FIRMATO SULLA PELLE DI MIGLIAIA DI ATTIVISTI, AVVOCATI, GIORNALISTI E CITTADINI CURDI CHE VERRANNO CONSEGNATI AL MASSACRATORE ERDOGAN”
“Non abbiamo amici, solo le montagne”. Recita così un antico proverbio curdo, sintetizzando in poche parole una lunga storia fatta di delusioni, massacri e tradimenti.
Come quello di Svezia e Finlandia, Paesi finora “amici” dei curdi che due giorni fa hanno firmato un memorandum trilaterale che – in cambio del via libera della Turchia al loro ingresso nella Nato – accetta incondizionatamente le richieste di Erdogan, non propriamente un leader democratico.
Tra le altre, l’abbandono del sostegno – in ogni sua forma – al popolo curdo e la fine dell’embargo sulle armi imposto nel 2019 da Stoccolma e Helsinki in risposta all’offensiva proprio contro i curdi in Siria del Nord. Tradotto: Svezia e Finlandia dovranno consegnare alla Turchia tutti i rifugiati politici curdi che Ankara richiederà e accettare senza battere ciglio i bombardamenti turchi nel Rojava, la regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria protagonista da anni di un esperimento unico in Medio Oriente, quello del confederalismo democratico.
Sono bastate tre pagine e dieci punti per cancellare la solidarietà che da decenni i governi e i popoli svedese e finlandese avevano garantito ai curdi.
Fanpage.it ne ha parlato con Yilmaz Orkan, responsabile di UIKI-ONLUS (Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia).
Cosa pensate dell’accordo tra Svezia, Finlandia e Turchia?
L’accordo che Finlandia e Svezia hanno firmato con la Turchia ha dell’incredibile: Ankara ha scritto un documento che Stoccolma e Helsinki si sono limitate a firmare senza fiatare né apportare modifiche. Peccato che quel memorandum sia stato firmato sulla pelle di migliaia di attivisti, avvocati, giornalisti e cittadini curdi.
Perché dite che quell’accordo è stato firmato sulla vostra pelle?
Perché Erdogan è un dittatore che pratica già il massacro dei curdi. Quegli accordi però sono estremamente problematici anche per le democrazie occidentali e per la stessa Nato: quando l’Alleanza negli anni ’50 venne costituita l’idea di fondo era quella di difendere le democrazie liberali dalla minaccia dell’Unione Sovietica. Nel frattempo i tempi sono cambiati, l’URSS non esiste più e con l’ultimo memorandum di due giorni fa la Nato si trasforma in uno strumento nelle mani della Turchia, cioè nel bastone che il tiranno Erdogan potrà utilizzare a piacimento contro chi vuole. Attenzione, vi ricordo che anche il Presidente del Consiglio Draghi in passato ha parlato di quello turco come di un regime dittatoriale.
Credete che la Nato parteciperà alla guerra contro i curdi?
Erdogan vuole il massacro dei curdi ovunque essi si trovino, dalla Turchia al nord della Siria, dall’Iraq all’Armenia. Ovunque. Ricordo che nel 2013 tre militanti curde del PKK sono state assassinate nel centro da Parigi da uomini dei servizi segreti turchi. Le autorità francesi sanno chi sono i killer, eppure nessuno ha mai indagato per quel triplice omicidio. Ma torniamo a noi. Lo scopo del leader turco è fare sì che la Nato condivida questa strategia, altrimenti non avrebbe posto a Finlandia e Svezia condizioni così vincolanti. Il memorandum firmato due giorni fa costituisce un precedente molto pericoloso. In futuro i Paesi della Nato potranno avvalersi della potenza militare dell’Alleanza per dichiarare guerra ad altri popoli che, come noi, lottano per la loro libertà.
Perché molti curdi si erano rifugiati in Svezia e Finlandia?
È una lunga storia. Da decenni i Paesi scandinavi e i loro avanzati sistemi democratici garantiscono protezione ai rifugiati politici di tutto il mondo. Questo è valso per le persone in fuga dalle guerre civili in America Latina, Vietnam e in particolare per noi curdi, che dagli anni ’70 abbiamo trovato in questi Paesi dei luoghi sicuri in cui vivere rispettandone le leggi e le tradizioni. Oggi in Svezia esiste una comunità curda di oltre 200mila persone, 50mila delle quali arrivate dal nord della Siria negli ultimi anni a causa della guerra. Siamo una delle comunità più numerose di quel Paese tanto che oggi esprimiamo anche dei membri in Parlamento. Non comprendiamo come mai i governi di Stoccolma e Helsinki abbiano deciso improvvisamente di bollare i curdi come “terroristi” e rispedire nelle mani di un dittatore, Erdogan, molti rifugiati politici, giornalisti, avvocati, attivisti: è un fatto estremamente preoccupante.
Nel memorandum firmato dalla Svezia e dalla Finlandia la Turchia chiede, in cambio dell’ingresso nella Nato, che questi due Paesi non accolgano rifugiati delle YPG e YPJ.
Sì, e le YPG e YPJ (Unità di Protezione Popolare e Unità di Protezione delle Donne, ndr) hanno combattuto la guerra all’Isis. Sono state loro, al prezzo di 12mila martiri, a sconfiggere lo Stato Islamico a Raqqa, Kobane e altre città della Siria. Ci meraviglia non solo che Svezia e dalla Finlandia abbiano deciso che quei combattenti sono terroristi, ma che anche altri membri della Nato non abbiano avuto niente da dire al riguardo. Italia, Stati Uniti, Germania, Francia e Inghilterra non avrebbero mai dovuto accettare l’imposizione da parte della Turchia di una condizione del genere. Ma se tutti sono rimasti in silenzio, vuol dire che sono tutti d’accordo con Erdogan.
Cosa sta accadendo in questi mesi in Turchia?
Il consenso di Erdogan si sta sgretolando perché la situazione politica ed economica è disastrosa: un anno fa un chilo di zucchero costava 7 lire, oggi ne servono 30. Il rischio che nei prossimi mesi esploda una bomba sociale è alto, e il Governo usa la guerra ai curdi e la retorica dell’emergenza come strumenti per giustificare le difficoltà che i cittadini vivono: Erdogan bombarda il Kurdistan meridionale, minaccia il Rojava e spedisce jihadisti e mercenari turchi in Libia. È perennemente in guerra, la Turchia è costantemente in stato di crisi, un vero inferno.
Credete che Erdogan intensificherà gli attacchi ai territori curdi?
Sì. Lo farà. Nell’ottobre del 2023 si celebrerà il centesimo anniversario della Repubblica di Turchia e quell’anno scadranno anche i vincoli imposti dal Trattato di Losanna, che determinò nel 1923 la fine di ogni pretesa turca su Cipro, Iraq e Siria per 100 anni. Ora che Siria e Iraq sono Paesi distrutti e incapaci di difendersi, credete che Erdogan non tenterà di prendere il controllo di pezzi di quei territori? Lo sta già facendo: per questo attacca il Kurdistan meridionale, ha 38 basi militari in Iraq e vuole espandersi nel Rojava, anch’esso controllato dai curdi.
Il Rojava è il territorio in cui state sviluppando il modello del confederalismo democratico. Di cosa si tratta?
Un nuovo paradigma sviluppato dal leader del PKK Abdullah Öcalan. Nel XX secolo le lotte per l’autodeterminazione dei popoli si sono fuse con quelle per l’ottenimento di uno stato nazione: dopo aver analizzato la storia degli ultimi 100 anni abbiamo però compreso che i valori legati al nazionalismo, e i massacri che ne sono derivati ovunque, nel XXI secolo sono inaccettabili. Per questo abbiamo lavorato a un nuovo progetto che chiamiamo confederalismo democratico: vogliamo convivere con gli altri popoli, con tutte le religioni e le culture ma non chiediamo uno stato nazione, non vogliamo frontiere né confini. Nel nostro modello i cittadini autogestiscono le città, i villaggi e i quartieri.
Sembra un’utopia…
Eppure non lo è. Stiamo già mettendo in pratica questo paradigma in Rojava, nel nord della Siria: in questo territorio i curdi convivono con assiri, arabi, ceceni, armeni, combattono contro il patriarcato e si ispirano ai principi della solidarietà, dell’ecologismo, dell’economia sostenibile e dell’uguaglianza di genere. Si tratta di un modello molto forte, di una novità soprattutto per gli altri regimi del Medio Oriente. Quello di Ergogan è uno di essi: massacrando i curdi, vuole distruggere anche l’idea che esista un altro modo di convivere. Ed è grave che la Nato lo supporti.
(da Fanpage)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
I RISULTATI DELL’INDAGINE INDIPENDENTE
Il raid aereo dello scorso 16 marzo contro il teatro di Mariupol in cui avevano trovato rifugio dei civili è stato lanciato dalle forze russe e costituisce un crimine di guerra.
Lo afferma – dopo una lunga indagine indipendente – Amnesty International.
Secondo l’Ong le forze russe hanno deliberatamente attaccato il teatro d’arte drammatica di Mariupol pur sapendo che centinaia di civili si erano rifugiati all’interno della struttura: il raid venne condotto sganciando due bombe da 500 chili che esplosero simultaneamente e vicine tra loro. “Dopo mesi di rigorose indagini, di analisi delle immagini satellitari e di interviste con decine di testimoni, abbiamo concluso che l’attacco è stato un evidente crimine di guerra commesso dalle forze russe, che hanno mirato deliberatamente contro i civili ucraini”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
Secondo Callamard “il Tribunale penale internazionale e ogni altro meccanismo che possa esercitare giurisdizione sui crimini commessi durante il conflitto in corso devono indagare su questo attacco considerandolo un crimine di guerra. Tutti coloro che hanno causato morte e distruzione devono essere chiamati a risponderne”.
Amnesty International ha determinato la quantità di esplosivo impiegata avvalendosi di un modello matematico della detonazione. la conclusione è stata che gli ordigni avevano una quantità esplosiva netta (New, Net explosive weight) di 400-800 chilogrammi. Basandosi sul materiale bellico a disposizione delle forze russe, Amnesty International ha concluso che, molto probabilmente, sono state impiegate due bombe da 500 chili sganciate da aerei da combattimento Su-25, Su-30 o Su-34 che erano situati in una base aerea delle forze russe nella zona e visti frequentemente operare nell’Ucraina meridionale.
Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, molti civili ucraini hanno lasciato le città e i villaggi colpiti dagli attacchi russi. In una Mariupol assediata, il teatro era diventato il luogo di riparo della città, dove riunire i civili in attesa di essere evacuati attraverso i corridoi umanitari. L’edificio era chiaramente riconoscibile come struttura civile anche perché, sul piazzale, erano state realizzate due scritte “bambini”, molto grandi e in cirillico, in modo che fossero ben visibili ai piloti russi.
Malgrado ciò, dopo le 10 del 16 marzo le bombe russe hanno colpito il teatro, producendo una grande esplosione che ha causato il crollo del tetto e di ampie parti delle mura principali.
Al momento dell’attacco, all’interno del teatro e negli immediati dintorni c’erano centinaia di civili. A seguito del raid Amnesty International ritiene che almeno una dozzina di persone – ma probabilmente molte di più – siano rimaste uccise e molte altre gravemente ferite.
La stima è inferiore a precedenti conteggi, dato che buona parte delle persone ospiti del teatro avevano lasciato la struttura nei due giorni precedenti l’attacco e che la maggior parte di quelle rimaste all’interno si era riunita nel seminterrato, proteggendosi parzialmente dall’impatto dell’esplosione.
Nella sua indagine Amnesty International ha smentito che il teatro di Mariupol fosse stato utilizzato come base operativa, deposito di armi o luogo da cui lanciare attacchi da parte dei membri delle forze armate ucraine.
“Nessuno dei 28 sopravvissuti intervistati né alcuno dei testimoni che si trovavano nei pressi del teatro il giorno dell’attacco ha fornito informazioni tali da indicare” che quel luogo rappresentasse una postazione dell’esercito o di Kiev.
“Il carattere civile del teatro e la presenza di numerosi civili al suo interno erano evidenti nelle settimane precedenti l’attacco. La natura dell’attacco – ad esempio le parti del teatro colpite dalle bombe così come il tipo di arma probabilmente usata – e l’assenza di obiettivi militari potenzialmente legittimi nelle vicinanze portano con forza alla conclusione che il teatro fosse proprio l’obiettivo da colpire. Di conseguenza, si è trattato di un attacco deliberato contro un obiettivo civile e, dunque, di un crimine di guerra”.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
FDI 22,9%. PD 21,9%. LEGA 14.7%. M5S 10,6%, FORZA ITALIA 7,7%. AZIONE+EUROPA 4,9%
Nella Supermedia AGI/YouTrend di questa settimana si vedono i primi effetti della scissione avvenuta nel M5S con la fuoriuscita di Di Maio e di una sessantina di parlamentari, che hanno dato vita a Insieme per il Futuro: rispetto a due settimane fa il Movimento guidato da Giuseppe Conte ha perso più di un punto e mezzo, scendendo al 10,6%.
Per il M5S tratta della percentuale di consenso più bassa non solo della presente legislatura, ma degli ultimi 10 anni circa.
Di questo calo – oltre a Insieme per il Futuro, stimata tra l’1 e il 3% a seconda degli istituti – beneficiano i partiti che godevano giù di buona salute, cioè Fratelli d’Italia e Partito Democratico.
Per quanto riguarda le liste, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni è il primo partito, ancora in crescita, al 22,9%, e conquista un +0,4% rispetto all’ultima rilevazione effettuata due settimane fa.
Il Partito Democratico la tallona, al 21,9 (+0,5% rispetto al 16 giugno); la Lega si mantiene stabile, al 14,8 (nessuna variazione rispetto a due settimane fa): il M5S come dicevamo è in calo, al 10,6% (-1,7% rispetto al 16 giugno); Forza Italia, data al 7,7, perde un po’ di consenso (-0,1%); la federazione Azione/+Europa 4,9 rimane invariata, mentre Italia Viva di Matteo Renzi è data al 2,6% (-0,4 nel confronto con la supermedia di due settimane fa); Italexit di Paragone è immutata, al 2,6% (=); Verdi in leggerissimo calo, al 2,0% (-0,1), mentre Sinistra Italiana, al 2,0 guadagna un +0,2%, così come Art.1-MDP 2,0 (+0,2).
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
STOP AL SUPERBONUS EDILIZIO: BLOCCANDO 5,2 MILIARDI DI CREDITI SI MANDEREBBERO A CASA 47 MILA LAVORATORI: DOVEVANO PENSARCI PRIMA ED EVITARE DI METTERE IN PIEDI LE FRODI CHE SONO EMERSE
Con “5.175 milioni di euro incagliati nei cassetti fiscali delle imprese – di cui 3.684 milioni (il 71,2%) per il superbonus e 1.491 milioni (28,8%) per gli altri bonus edilizi – la loro inesigibilità costerebbe la perdita di 46.912 addetti nelle micro e piccole imprese”.
È la nuova “denuncia” di Confartigianato che ha calcolato l’impatto sull’occupazione nelle costruzioni del blocco della cessione crediti. Così “si ridurrebbe del 40% l’aumento di occupazione creato nel settore delle costruzioni nell’ultimo anno”.
“È paradossale e autolesionista” avverte il presidente Marco Granelli. Confartigianato “ha calcolato l’impatto sull’occupazione nel settore delle costruzioni a causa del blocco del sistema della cessione dei crediti, non gestibili sul mercato bancario a causa delle continue modifiche normative in materia”.
E sintetizza: “Se le piccole imprese non potranno incassare i 5,2 miliardi di crediti fiscali per lavori incentivati dai bonus edilizia si perderanno 47mila posti di lavoro”. Così si ridurrebbe del 40% l’aumento di occupazione creato nel settore delle costruzioni nell’ultimo anno, pari a 116 mila unità posti di lavoro in più tra il primo trimestre 2021 e il primo trimestre 2022, equivalente ad un ritmo di crescita del +8,4%, il doppio rispetto al totale dell’economia (+4,1%).
“Il blocco dei crediti, le continue modifiche normative in materia di bonus edilizia e la volontà del Governo di non prorogare il superbonus – evidenzia la confederazione di artigiani e piccole imprese – colpiscono proprio l’unico settore che, anche grazie a queste misure di sostegno, ha rimesso in moto il mercato del lavoro negli ultimi due anni.
Infatti, tra il primo trimestre 2020 e il primo trimestre 2022, le costruzioni hanno fatto registrare l’aumento di 176mila addetti, a fronte del calo generalizzato di addetti nei servizi (-106mila), nella manifattura (-41mila), nell’agricoltura (-50mila). A livello territoriale il maggiore incremento di occupazione nelle costruzioni si è registrato nel Mezzogiorno, con 101mila addetti in più negli ultimi due anni, seguito dalla crescita di 71mila occupati nel Nord Ovest”.
“È paradossale e autolesionista – commenta i presidente di Confartigianato Marco Granelli – bloccare strumenti che hanno consentito la creazione di lavoro, il rilancio della domanda interna e che dovrebbero favorire la transizione ecologica del nostro Paese. Mi auguro si trovi una soluzione rapida e di buon senso, innanzitutto per ‘liberare’ i crediti fiscali incagliati ed evitare il fallimento di migliaia di imprese che non possono pagare dipendenti, fornitori, tasse e contributi, oltre a scongiurare la miriade di contenziosi legali che si aprirebbe inevitabilmente a causa del blocco dei cantieri avviati, a danno dei cittadini che hanno commissionato i lavori e che ora li vedono messi a rischio”.
“Per il futuro degli incentivi nel settore edilizia, che la Commissione europea ha indicato tra le armi più efficaci per rilanciare lo sviluppo – aggiunge Granelli – mai più gli stop and go normativi di questi ultimi mesi che hanno vanificato le aspettative e gli sforzi di cittadini e imprenditori. Siamo pronti fin d’ora ad un confronto con il Governo e il Parlamento per individuare soluzioni equilibrate, che mettano al riparo dalle truffe dei finti imprenditori, e definire provvedimenti certi, strutturali e sostenibili finalizzati a favorire la transizione green e il risparmio energetico”.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
IL SISTEMA SI BASA SU 30 SERVER FORNITI DALLA CINESE LENOVO E ALTRI 30 DALL’AMERICANA SUPER MICRO COMPUTER CORP … DA MARZO 2022 MOSCA CHIUDE I PRINCIPALI SOCIAL NETWORK OCCIDENTALI
Internet? Non ti faccio vedere nulla, oppure controllo quello che puoi vedere, oaddirittura creo una Rete parallela in modo che tu possa navigare solo lì. Nei Paesi democratici fortunatamente questo tipo di filtro non è applicabile, ma, come le inchieste di Dataroom continueranno a dimostrare e denunciare, troppo spesso i sistemi di controllo della Rete non riescono a contenere l’uso criminale del Dark Web: vendita di armi, droga, farmaci illegali, pedopornografia, furti di dati e pagamenti di riscatti in criptovaluta, ecc.
Insomma il sistema Tor, che consente di navigare in incognito, trova ancora argini ridotti. Senza dimenticare che in nome della libertà di pensiero sul Web prolifera ogni genere di fake news e propaganda.
Il paradosso è rappresentato dall’altra faccia della medaglia: i sistemi di controllo applicati dai regimi autoritari invece funzionano benissimo, ma vengono utilizzati per la repressione del dissenso. Vediamo quali sono i meccanismi che li governano e in che modo l’Occidente è complice.
Oscuramento del Web
Il primo governo a bloccare la Rete è quello di Mubarak in Egitto. Nel gennaio 2011, dopo le manifestazioni di protesta in piazza Tahrir, l’allora presidente ordina il blackout e il Paese rimane per cinque giorni quasi completamente disconnesso. La strategia fallisce, ma dimostra come senza Rete sia molto più facile reprimere il dissenso.
Il blackout più lungo lo mette in pratica il Pakistan nel 2016 e dura 4 anni e mezzo. Per stare agli esempi più recenti, nel luglio 2021 il governo di Cuba oscura la Rete per 176 ore in risposta alle manifestazioni di protesta per la mancanza di cibo e per la gestione del Covid.
Sempre nel 2021, la democratica India chiude Internet ben 85 volte nella regione ribelle del Kashmir, confermandosi per il quarto anno consecutivo il Paese con più blackout digitali (106 complessivamente solo quell’anno tra cui la disconnessione di New Delhi per sedare le proteste dei contadini).
La giunta militare del Myanmar da febbraio 2021 torna ad amministrare con il pugno duro l’ex Birmania e ordina ben 15 interruzioni: la più lunga dura quasi 2 mesi e mezzo.
Access Now, associazione no profit che si batte per Internet aperto, documenta almeno 935 chiusure totali o parziali in più di 60 Paesi dal 2016. Se nel 2018 i Paesi che optano per il blackout sono 25, ora sono 34. Lo fanno scattare quando, a loro dire, sono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.
Filtraggio delle notizie
Per bloccare la Rete in intere regioni a Mosca c’è un centro di censura con uno staff di 70 persone guidato dall’ex ufficiale dei servizi segreti Sergey Khutortsev. Il sistema si basa su 30 server forniti dalla cinese Lenovo e altri 30 dall’americana Super Micro Computer Corp. Ma all’oscuramento del Web la Russia, insieme ad altri Paesi come Bielorussia, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Siria, Turkmenistan, Thailandia e Turchia, preferisce sistemi di controllo più elaborati come la «Deep Packet Inspection» (Dpi): è la tecnica che filtra i dati in transito sulla Rete bloccando app e piattaforme sulla base di criteri prestabiliti, ma consentendo le altre attività.
Da marzo 2022 Mosca chiude i principali social network occidentali (Facebook, Instagram, WhatsApp, ecc.) e poco le importa se la decisione porta a perdite stimate per oltre 7,9 miliardi di dollari.
Ma la censura del Web inizia ben prima e risale al 2011 quando a Mosca sono organizzate attraverso i social media importanti proteste contro i risultati delle elezioni politiche del 4 dicembre. Da lì in avanti è un’escalation. Nel 2019 viene approvata la legge per il cosiddetto «Internet sovrano» che impone ai fornitori di servizi Internet di installare software di filtraggio controllati dal governo: i fornitori sono obbligati a memorizzare i dati di tutti gli utenti per sei mesi e i metadati dei contenuti pubblicati per 3 anni.
Nello stesso anno, secondo i ricercatori di Censored Planet, Mosca identifica oltre 130 mila siti, principalmente di news e politica, da inserire nella lista nera e, dunque, da non far vedere.
Storia simile per l’Iran: a partire dal 2020, sono spesi 660 milioni di dollari per la creazione del «National Information Network», una sorta di Intranet «halal», con motori di ricerca, app di messaggistica e social media controllati dal governo. La maggior parte dei social media occidentali tra cui Facebook, Twitter, Telegram e YouTube viene bloccata, banditi almeno 5 milioni di siti Web stranieri. E adesso il Parlamento ultraconservatore sta per approvare una norma che mette al bando tutti i social network e browser con sede all’estero, anche se per ora Gmail, Google, Instagram e WhatsApp sono ancora in uso.
Rete parallela
In Russia la legge di «Internet sovrano» prevede anche la costruzione di infrastrutture digitali gestite dall’autorità statale di supervisione dei media, Roskomnadzor, che potrebbe sganciare la Rete domestica da quella globale e creare una Intranet nazionale chiamata «Runet».
Uno dei Paesi che di fatto già ha una Rete parallela è la Cina, che alla fine degli anni ’90 inizia a costruire il «Great Firewall», un sistema di censura capillare e costoso che consente al governo il completo controllo sui contenuti. Sia i tre principali fornitori di servizi Internet sia le infrastrutture dove passano i dati sono di proprietà dello Stato.
Il traffico verso la maggior parte dei siti internazionali viene bloccato, mentre la popolazione tende a non usare app e social network occidentali perché il governo investe miliardi in aziende cinesi che forniscono gli stessi servizi: Sina Weibo è un ibrido fra Twitter e Facebook, WeChat è la versione cinese di WhatsApp e TikTok può sostituire Instagram.
Proprio perché il traffico dati resta all’interno del territorio nazionale e nessuna società straniera fornisce servizi competitivi, la Cina potrebbe staccarsi dall’Internet globale senza grandi problemi.
La complicità indiretta dell’Occidente
Tutto ciò non sarebbe possibile senza l’aiuto della tecnologia occidentale. Aziende come Nokia, Sandvine, Cisco Systems, Allot, Silicom Ltd hanno venduto tecnologia a Putin nonostante fosse evidente che stesse creando un Grande Fratello 2.0.
Ma le loro relazioni commerciali non si fermano a Mosca. La nordamericana Sandvine ha facilitato la violazione dei diritti umani in Paesi come Algeria, Afghanistan, Azerbaijan, Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Kuwait, Pakistan, Qatar, Siria, Sudan, Thailandia, Turchia e Uzbekistan.
In Giordania i suoi software hanno permesso di bloccare un sito Lgbtq, mentre in Egitto hanno garantito l’oscuramento di giornali indipendenti. I servizi di Allot sono stati usati per rallentare Telegram in Kazakistan e aiutare il regime a reprimere le proteste del gennaio 2022.
Un report del 2021 dimostra come la società israeliana abbia fornito tecnologia DPI a ventuno Paesi per limitare i contenuti Web. La battaglia per la libertà del XXI secolo si combatte anche su Internet.
Insomma il sogno degli anni ’90 di un Internet libero, dove tutti i popoli del mondo dialogano e si confrontano, sta mostrando il suo volto più realistico: o si impara a governare la tecnologia, o sarà lei a governare noi.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
I RUSSI ERGONO UN MONUMENTO A MAX OTTO VON STIERLITZ, SPIA RUSSA INFILTRATA IN GERMANIA CHE NON È MAI ESISTITA: È IL PROTAGONISTA DI UNA SERIE TELEVISIVA CHE, ALL’EPOCA, FU UN’OPERAZIONE PUBBLICITARIA DEL KGB
Il monumento più segreto di Mosca è stato inaugurato nel bosco di Yasenevo, che nasconde dagli occhi indiscreti il quartier generale dello spionaggio estero russo, l’Svr. Il direttore Sergey Naryshkin l’ha dedicato a tutti gli agenti sotto copertura che hanno spiato per il Cremlino negli ultimi cento anni, «i loro nomi sono avvolti dal segreto».
Ma il volto bronzeo del 007 russo non è quello, celebre, di Kim Philby o di Rudolf Abel, le leggendarie talpe del Kgb che hanno cambiato il corso della storia. A esser seduto pensieroso nell’erba di Yasenevo è Max Otto von Stierlitz, classe 1900, il più famoso infiltrato russo di tutti i tempi, che non è mai esistito nella realtà.
Il fatto che nel pieno di una guerra devastante, che il Cremlino non è riuscito a vincere in buona parte grazie a informazioni di intelligence clamorosamente false, uno degli uomini più fidati di Vladimir Putin inauguri un monumento a una spia cinematografica, racconta forse della Russia più di quanto fosse nelle intenzioni dei suoi autori. Stierlitz è l’adorato protagonista di una quindicina di romanzi di Yulian Semyonov, e soprattutto di una serie televisiva, «I 17 attimi della primavera», che già durante la sua prima proiezione, nell’agosto del 1973, aveva fatto incollare agli schermi circa 80 milioni di spettatori sovietici, con un visibile calo del numero dei reati in coincidenza con le 12 puntate.
Difficile trovare un russo sopra i 30 anni che non sia in grado di raccontare nei minimi particolari le gesta dello Standartenführer Stierlitz, coraggioso e intelligente infiltrato russo ai vertici del Terzo Reich.
Un cast stellare composto dai più straordinari attori dell’epoca, l’elegante scenografia in bianco e nero, la regia decisa di Tatiana Lioznova, una musica commuovente e un plot avvincente nel quale i tedeschi per la prima volta venivano presentati non come stupidi mostri, ma come avversari intelligenti e raffinati: Stierlitz è entrato nella leggenda, e il monumento alle spie inaugurato da Naryshkin raffigura l’attore che lo ha interpretato, Vyacheslav Tikhonov, con il personaggio che diventa più vero dell’uomo che gli ha prestato il volto.
Un cult in patria, quasi sconosciuto all’estero: la serie, autorizzata e supervisionata dall’allora capo del Kgb Yuri Andropov in persona, è una chiave per capire il mondo nel quale si erano formati Putin, Naryshkin e gli altri big del regime, che avevano guardato le avventure del James Bond sovietico quando erano giovani reclute dei servizi. Secondo Leonid Parfyonov, l’esperto russo di cultura pop sovietica, che alla serie di Lioznova ha dedicato un documentario, «era stata una grande operazione pubblicitaria del Kgb: non appariva più come polizia politica, anzi, mostrava che la guerra era stata vinta grazie allo spionaggio».
La fascinazione per l’estetica nazista – veterani dello stesso Kgb ricordano che il film ha generato un boom di gruppi neonazisti – nascondeva, secondo lo storico Konstantin Zalessky, una metafora dell’Unione Sovietica, o almeno quello che avrebbe voluto essere. Negli Anni 70 il mito del comunismo era naufragato definitivamente: la supremazia materiale dell’Occidente era evidente prima di tutto agli agenti del Kgb, tra i pochi a poter viaggiare all’estero, e lo stesso Putin non ha mai nascosto il suo disprezzo per la povertà e lo squallore del «socialismo reale».
Nei ranghi della nomenclatura la retorica comunista si recitava automaticamente in pubblico, mentre si sognava un’auto tedesca, e si criticava sottovoce il regime.
Per lo scrittore Dmytry Bykov, Stierlitz è diventato «l’eroe principale dell’epica sovietica», anche perché chiunque – un dissidente come un ufficiale del Kgb – si sentiva un infiltrato, costretto perennemente a fingere di essere qualcun altro, «mentre si trovava in un mondo ostile, evidentemente condannato al collasso».
La sensazione della fine di un impero, i cui ufficiali – costretti a inviare a Mosca rapporti ideologici e falsi quanto quelli che i 007 di Putin avrebbero 50 anni dopo mandato da Kyiv – ritrovavano una ragione d’essere nell’appartenenza a una tradizione nazionalista e autoritaria. Accanto ai carismatici gerarchi nazisti di Lioznova tra le figure più popolari della cultura pop cominciano ad apparire gli zar, e i romanzi «storici» intrisi di eccezionalismo russo di Valentin Pikul sono la lettura più alla moda degli Anni 70-80, insieme ai quadri del semiproibito pittore Ilya Glazunov, che dipinge santi e guerrieri d’altri tempi come se fossero icone.
Stierlitz, un elegante intellettuale gentiluomo, talmente impeccabile da essere diventato anche il protagonista di innumerevoli barzellette, era riuscito però in un’altra missione impossibile: era un russo che si era mimetizzato tra gli aristocratici europei. Il sogno di una élite che si sentiva arretrata e provinciale, e che con la fine del comunismo ha rincorso gli status symbol del lusso occidentale, con tutto il goffo entusiasmo dei neoarricchiti. Il politologo Gleb Pavlovsky, spin doctor degli esordi di Putin, non nasconde che il presidente russo aveva copiato consapevolmente certi atteggiamenti del personaggio Stierlitz, a cominciare dai suoi trascorsi di spia di Mosca in Germania. Voleva apparire freddo, impeccabile, invincibile. Al punto da dimenticarsi di stare copiando un 007 che esisteva soltanto in un film.
(da “la Stampa”)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
DOV’È FINITA LA DENAZIFICAZIONE? E IL ROVESCIAMENTO DI ZELENSKY? FORSE LO ZAR HA CAPITO CHE È MEGLIO ACCONTENTARSI
Lui non l’aveva mai detto, ma da come era stata impostata all’inizio, l’Operazione militare speciale in Ucraina puntava decisamente ad occupare buona parte del Paese confinante e a rovesciarne il governo legittimo per insediare un regime più amichevole.
Poi le cose sono andate come sappiamo e Vladimir Putin ha deciso di concentrare gli sforzi del suo esercito nel sud-est dell’Ucraina e di mirare, almeno in una prima fase, ad obiettivi più limitati.
E adesso? La Russia vuole garantirsi il controllo del Donbass e della fascia costiera meridionale? Oppure ha ancora in mente di far arrivare i suoi tank nelle strade di Kiev per deporre Zelensky?
Gli americani sono convinti che il capo del Cremlino «voglia ancora prendersi la maggior parte dell’Ucraina», come sostiene la numero uno della National Intelligence Avril Haines. I vicini sono ancora più preoccupati e pensano a mire espansionistiche che vadano ben al di là dei confini ucraini.
Dai baltici alla Moldavia, che spinge per mettersi al più presto sotto l’ombrello della Nato. E personaggi dell’establishment russo non fanno nulla per raffreddare la situazione, anzi. Un giorno sì e l’altro pure rilasciano dichiarazioni incendiarie che si agganciano a qualsiasi episodio per minacciare e promettere azioni clamorose da parte dell’Armata russa.
Dmitrij Rodionov, politologo di peso, è convinto che Chisinau sia diventata una pedina dell’Occidente. Secondo lui, gli ucraini potrebbero attaccare la Transnistria che è autonoma dagli anni Novanta. Kiev aprirebbe così il secondo fronte per indebolire le forze russe.
Putin appare negli ultimi giorni assai più moderato dei suoi. Rispondendo a una domanda, ha precisato che per quanto riguarda l’Ucraina l’obiettivo iniziale «è sempre lo stesso».
Naturalmente, a suo avviso, non è mai stato quello di rovesciare il governo dell’ex repubblica sovietica. «Lo scopo finale è stato fissato nella liberazione del Donbass, nella difesa di quelle popolazioni e nella creazione delle condizioni che garantiscano la sicurezza della stessa Russia».
Quindi, sembra di capire, niente più «denazificazione dell’Ucraina», come il Cremlino diceva all’inizio. Ma quali sono le condizioni di garanzia per la sicurezza di Mosca?
Certamente la neutralità dell’Ucraina (niente Nato, cosa peraltro già accettata da Zelensky) e il disarmo. Ma poi Putin pretende anche che l’Alleanza Atlantica la smetta di allargarsi e che si impegni a non creare installazioni militari «significative» nei paesi entrati dopo il crollo dell’Urss.
Su questo Bruxelles non concede assicurazioni ufficiali e finora aveva sempre evitato di stabilire nuove basi. A Madrid, però, i paesi Nato hanno deciso di mettere truppe in Romania.
In futuro poi le cose potrebbero peggiorare, anche perché Mosca continua ad agitare lo spettro del ricorso ad armi nucleari. Bombe atomiche tattiche che potrebbero essere usate, magari in un braccio di mare non frequentato, per convincere l’avversario a mollare.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
CON L’ASSOCIAZIONE SOLETERRE FINORA HA SALVATO 72 BAMBINI. MARTORIATI DAI BOMBARDAMENTI RUSSI
Per il suo contributo come medico in Ucraina, in particolare dopo il bombardamento russo dello scorso 8 aprile alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, Roberto Brambilla – medico e consigliere comunale del Pd di Vimercate da anni volontario dell’associazione “Soleterre”, che opera dal 2003 in un ospedale pediatrico oncologico di Leopoli – ha ricevuto i ringraziamenti pubblici del ministro degli Interni ucraino, Anton Gerashchenko: “Quando è iniziata la guerra – ha scritto su Twitter il membro dell’esecutivo di Kyiv – il chirurgo italiano Roberto Brambilla è arrivato in Ucraina come volontario. Ha aiutato a salvare un quindicenne con ferite gravi dopo l’attacco di Kramatorsk. Ora il ragazzino può ancora camminare. Grazie, signor Brambilla”.
In un colloquio con il Corriere della Sera, il medico ha riconosciuto il giovane in questione: “Ah certo, ma quello è Arthom”, dice ricordando la vicenda: era arrivato all’ospedale pediatrico Saint Nicholas di Leopoli dopo il bombardamento dell’8 aprile con una profonda ferita alla coscia e un “buco”. Fino ad ora ha curato 72 bambini: “Ricordo anche i nomi – dice – sono in contatto con quasi tutte le famiglie che ho curato. Proprio questa mattina mi è arrivato un messaggio di Yara, una bambina rimasta ferita sempre a Kramatorsk. Ha perso entrambe le gambe, la madre quella destra, il fratello e il padre sono morti. Adesso è negli Stati Uniti per le protesi e la riabilitazione, mi ha mandano foto da lì. Stessa cosa con Igor”.
Sul ruolo dei medici in guerra: “Da 50 anni mi occupo di medicina. Medicare vuol dire curare. Anzi vuol dire prendersi cura. L’esatto contrario di quello che succede in guerra. Le vittime di una guerra sono in maggioranza (spesso la quasi totalità) vittime civili che non hanno colpe”.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2022 Riccardo Fucile
UN ATTO CHE PORREBBE FINE AI SUOI SOGNI DI RITORNO NEL 2024… DECISIVE LE CONFESSIONI DELLA EX ASSISTENTE DI MARK MEADOWS, ALLORA CAPO DELLO STAFF DEL PRESIDENTE ALLA CASA BIANCA
Cassidy Hutchinson come John Dean, il consigliere di Richard Nixon che quasi mezzo secolo fa accusò l’allora presidente di essere personalmente coinvolto nello spionaggio politico contro il partito democratico, lo scandalo Watergate scoperto dal Washington Post che alla fine costrinse il leader repubblicano alle dimissioni?
È quello che pensano gli analisti e i giuristi democratici convinti che la Commissione parlamentare sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 stia raccogliendo prove inconfutabili di comportamenti penalmente rilevanti di Trump, nel suo tentativo di impedire la ratifica dell’elezione di Joe Biden.
Prove talmente evidenti che alla fine potrebbero obbligare un recalcitrante Merrick Garland, il ministro della Giustizia di Biden, ad incriminare l’ex presidente: un atto senza precedenti che renderebbe ancor più profonda la spaccatura nel Paese ma probabilmente metterebbe fine ai sogni di ritorno alla Casa Bianca di un Trump già incalzato da tempo da giovani leader repubblicani – primo fra tutti il governatore della Florida Ron DeSantis – pronti a «canonizzarlo» e a raccogliere la sua eredità politica.
Garland fin qui ha agito con prudenza, consapevole che l’America del 2022 non è quella dei tempi del Watergate: i repubblicani, che allora non esitarono a condannare Nixon, oggi, in un Paese polarizzato, diviso per convinzioni ideologiche impermeabili all’evidenza dei fatti, hanno già salvato due volte Trump dall’impeachment. E la maggioranza di loro continua a sostenere (senza prove) che Biden è un presidente illegittimo.
Basterà la verifica delle circostanze riferite ieri dalla Hutchinson – Trump promotore della rivolta contro il Congresso del 6 gennaio, consapevole che molti attivisti sarebbero arrivati armati, deciso a lasciarli passare e addirittura a guidarli fin davanti a Capitol Hill, ostinatamente contrario per ore a fermarli anche quando molti di loro volevano impiccare il suo vice, Mike Pence – a spingere Garland a cambiare rotta?
Le perplessità del ministro potrebbero anche essere legata alla struttura di queste indagini parlamentari che somigliano a processi nei quali, però, non c’è la difesa.
§Per adesso l’indagine parlamentare continua con i commissari intenti a verificare la fondatezza della vivida ricostruzione di quelle ore drammatiche di un anno e mezzo fa resa dalla ex assistente di Mark Meadows, allora capo dello staff del presidente alla Casa Bianca, ma anche da tanti altri testimoni.
Tra un paio di settimane, riordinati e approfonditi i nuovi elementi probatori emersi nelle testimonianze di giugno, riprenderanno gli hearing pubblici con due obiettivi specifici: chiarire il ruolo dei miliziani fedelissimi di Trump (Proud Boys e Oath Keepers) nell’assalto al Congresso e ricostruire cosa accadde nei 187 minuti nei quali, mentre il Congresso veniva assalito, Trump sparì dal web, rifiutando più volte di intervenire per placare gli insorti, da lui fermati solo molto più tardi.
(da il Corriere della Sera)
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